Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia /1a puntata

Da sempre priva di riscontri la vecchia dietrologia cerca conforto nelle nuove tecnologie. Domenica 22 febbraio la polizia scientifica ha effettuato una scansione laser del luogo dove Aldo Moro venne sequestrato 36 anni fa.
Questo è il primo di un ciclo di interventi dedicato ai lavori della nuova commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia cristiana. Leggi le puntate successive (2a e 3a)

Paolo Persichetti
Il Garantista 28 febbraio 2015

10995657_816482041732693_2140707097252357948_nIl tratto di strada che il 16 marzo 1978 vide alcuni operai scesi dalle fabbriche del Nord dare l’assalto, insieme a dei giovani romani di varia estrazione, al convoglio di auto che trasportava il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, non trova pace.
Quella mattina, lungo via Fani si erano dati appuntamento in dieci: un tecnico, un contadino, una assistente di sostegno, diversi studenti, un artigiano, un paio di disoccupati, alcuni operai, un commerciante. Il più anziano aveva 32 anni, la più giovane 20. Erano le Brigate rosse, intenzionate a sferrare un attacco senza precedenti al «cuore dello Stato».
A distanza di 36 anni questo fatto storico non è ancora accettato dai cultori del complotto, anzi dei ripetuti complotti di diversa natura e colore, tutti assolutamente reversibili, che nei tre decenni ormai alle spalle si sono succeduti in perfetta antitesi tra loro.
E’ per questo che domenica scorsa l’incrocio tra via Fani e via Stresa, situato nella zona nord di Roma, è stato sottoposto a scansione laser da alcuni tecnici della polizia scientifica che in questo modo tenteranno di far rivivere i fatti di quella mattina di 36 anni fa attraverso alcuni software tridimensionali in grado di elaborare e verificare tutti i dati balistici, peritali e testimoniali raccolti all’epoca delle indagini e dei processi.
Lo ha deciso la terza commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento del leader 10986837_10204730816563878_2601269910022609904_ndemocristiano, insediatasi in ottobre. Dopo tanta dietrologia i commissari hanno pensato di ricostruire sotto forma di realtà virtuale la scena del rapimento. Quanto alla fine possa risultare attendibile una ricostruzione del genere, che integra dati raccolti in epoche lontane e con tecniche ormai sorpassate rispetto all’odierna tecnologia forense, per ora non ci è dato sapere. Il teatro dell’azione fu largamente inquinato dall’invasione di funzionari e vertici delle forze dell’ordine, fotografi e giornalisti che calpestarono i reperti. Addirittura una vettura della Digos, un’Alfasud beige, piombò sulla scena dell’attentato e fu parcheggiata sul lato del marciapiede dove era partito il commando. Si può facilmente ipotizzare che i suoi pneumatici abbiano fatto schizzare, o comunque spostato, diversi reperti, in particolare i bossoli. Ma in fondo, questo è l’aspetto meno importante: dei nuovi rilievi – sempre che risultino attendibili – non possono che confortare quanto è già noto da tempo.
Significativo, invece, è il dato politico che esprime questa iniziativa, mirata «a stabilire – come ha dichiarato il presidente della nuova commissione d’inchiesta, Giuseppe Fioroni – l’oggettività di alcuni fatti sulla base di una certezza: non c’è corrispondenza tra il racconto dei 55 giorni e alcune chiare circostanze».

Sul lato baso della foto è visibile l'alfasud della Digos

Sul lato baso della foto è visibile l’alfasud della Digos

Cinque processi, decine e decine di ergastoli erogati insieme centinaia di anni di carcere, due commissioni parlamentari, le testimonianze dei protagonisti, alcuni importanti lavori storici, non hanno scalfito l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico che da oltre tre decenni alligna sul caso Moro e l’intera storia della lotta armata per il comunismo, quando in realtà è proprio questa ostinazione negazionista il nodo che ha trasformato in un “caso” l’azione di via Fani.
Fa paura ancora oggi cercare risposte alle vere domande che quei 55 giorni sollevano: come prevalse la linea della fermezza? Perché Dc e Pci, in un reciproco gioco di ricatti e sospetti, rimasero irremovibili sulla posizione del rigor mortis? Perché gli uomini di Moro, ben piazzati dentro la Dc e nei gangli dello Stato, non fecero nulla, o ben poco, per agevolare la sua liberazione? Perché il Pci sabotò ogni tentativo di trattativa, anzi denigrò le lettere dell’ostaggio dichiarando che non erano farina del suo sacco, se è vero che Moro era ritenuto la pedina decisiva per portare a termine la strategia del compromesso storico? Le culture politiche di questi due grandi partiti furono poi così all’altezza degli eventi? Non è lì dentro che si dovrebbe scavare senza riverenze e scrupoli per capire?
Invece ancora oggi c’è chi prova ad offuscare l’intelligibilità di quell’evento, come ha fatto recentemente lo storico, ora parlamentare e membro della nuova commissione Moro, Miguel Gotor, restio ad accettare l’idea che dei giovani operai e borgatari romani si fossero organizzati al punto da sfidare lo Stato lasciando il corpo di Moro nel cuore della toponomastica del compromesso storico, «della lotta politica e della guerra fredda» (episodio reiterato con il sequestro D’Urso), a due passi da via delle Botteghe oscure (allora sede nazionale del Pci) e piazza del Gesù (sede nazionale della Dc).
Per Gotor, se le Brigate rosse volevano raggiungere quell’obbiettivo propagandistico, «lo avrebbero lasciato in una discarica della periferia con nella destra una copia dell’Unità e nella sinistra una copia del Popolo, e non si sarebbero mai e poi mai assunte tutti quei rischi incredibili».
Dunque Moro doveva finire nell’immondizia perché ciò che muove dalle periferie non può che sfociare nelle discariche, è quanto mostra di pensare il braccio destro di Bersani, dando prova di un forte pregiudizio classista venato di populismo anticasta. La storia successiva ci dice che a mettergli l’Unità in tasca non furono le Brigate rosse ma l’autore del monumento che gli venne dedicato a Maglie, in Puglia, mentre la sola idea che le periferie dell’epoca potessero appostarsi sotto i Palazzi della politica e dell’economia suscita ancora negli esemplari odierni del ceto politico quegli stessi brividi freddi che l’aristocrazia versagliese provò di fronte ai sanculotti che mettevano a ferro e fuoco l’ancien régime.
Si comprende perché la dietrologia, ora nella sua veste tridimensionale, oltre ad essere un redditizio affare per l’industria editoriale e la pubblicistica da marciapiede, si presta come balsamo consolatorio, diversivo che consente di evadere i quesiti più imbarazzanti, le responsabilità più pesanti. Quanti su questa fondamentale rimozione hanno costruito la loro fortuna, le loro carriere negli anni di quella Seconda repubblica nata sul funerale di Moro?

Via Fani, Le nuove frontiere della dietrologia

Povero Moro, ridotto a “cold case”

Dante Barontini
Contropiano, 23 Febbraio 2015

Povero Moro, ridotto a "cold case"

“Proprio come uno dei tanti gialli della serie tv Usa, Cold Case, la polizia scientifica è tornata 37 anni dopo in via Fani, la strada del centro di Roma dove fu ritrovato il corpo di Aldo Moro”.

Basta questo incipit dell’agenzia Ansa – quella da cui tutti i giornalisti prendono “la notizia” per cominciare a “lavorare il pezzo” – per far capire il delirio demente tanto utile ai professionisti del mistero. Inutile far notare che via Fani non è al centro di Roma, ma sulla collina di Monte Mario (vicino al Villaggio dei giornalisti, non dovrebbe essere difficile capirlo per quelli del mestiere). Inutile anche far notare che in quella via Moro non venne “ritrovato”, ma sequestato.

La confusione dell’anonimo redattore Ansa è comunque paradigmatica: scambia il centro con la periferia, l’inizio con la fine. Ci sembra molto significativo, emblematico del modo con cui la vicenda storica – non c’è dubbio che il sequestro dell’allora presidente della Democrazia Cristiana abbia segnato uno spartacque nella vita politica di questo disgraziato paese – viene trattata, pasticciata, infiorettata come una qualsiasi sceneggiatura di serial di serie B.

I tecnici della scientifica hanno ovviamente deviato il traffico, fatto i rilievi con scansione laser o altri complicati marchingegni. Su ordina della commissione Parlamentare di inchiesta sull’omicidio del leader Dc. Un’altra commisione di inchiesta? Composta da quegli stessi parlamentari che – fermati dalle Jene o da chiunque altro – non sanno neanche la data della scoperta dell’America? Quelli.

Il vice presidente della commissione, tal Grassi, aveva finalmente conquistato un attimo di rilievo mediatico nella conferenza stampa che annunciava l’evento (i rilievi della scientifica):” si è scelto di cercare la verità dei fatti attraverso i mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione e lungo questa via siamo certi che scopriremo novità rilevanti”.

Ne siamo certi. Dopo 37 anni di una sola cosa siamo infatti sicuri: ogni rimestamento produrrà nuovi “interrogativi”, incoerenze, dietrologie, arricchendo il già straripante campionario di “misteri”. Ci sono state indagini fatte in modo spietato (tortura compresa, come dimostra la vittoria in giudizio di Enrico Triaca, inizialmente accusato di aver “calunniato” Nicola Ciocia, dirigente Digos poi noto come “dottor De Tormentis”) ma professionale. Ci sono stati 18 anni di altre commissioni parlamentari, utili soprattutto ad arricchire in modo significativo lo stuolo di “consulenti” pagati per non arrivare mai ad alcuna conclusione sensata, oppure ale carriere parlamentari dei “commissari”. Ci sono, ancora vivi, quasi tutti i protagonisti di quella storia (ogni tanto ne muore qualcuno, ma ormai vanno per la settantina, è fisiologico, mica un mistero).

Bene. C’è tutto quello che in qualsiasi altro paese sarebbe ultrasufficiente per stabilire come sono andate le cose. Ma che in questo deve essere utilizzabile per l’obiettivo esattamente opposto: tenere in vita un plot con cui intimidire la capacità di pensare. Un modo per dire che il potere deve essere intoccabile e in-criticabile. Anche quando qualcuno lo ha combattuto in senso stretto (armi in pugno, insomma), comunque non è chiaro perché, percome, scopi, obiettivi, protagonisti, ragioni.

Un potere da quattro soldi, fatto di servi della Troika o di triangolazioni imprenditorial-finanziarie di medio-basso livello, che prova a stendere su di sé il mantello della Storia, per attingere brandelli di dignità che non possiederà mai per virtù propria. Per riuscirci va bene tutto. E se, com’è vero, siamo nella società dell’immagine e della comunciazione, cosa c’è di meglio dell’immaginario alla Csi o alla Cold Case?

Povero Moro. E anche tutti gli altri protagonisti di una tragedia vera.

Fonte http://contropiano.org/articoli/item/29301

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Povero Moro ridotto a “cold-case”
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La vicenda Moro e il sottomercato della dietrologia ormai allo sbando
A via Fani c’eravamo solo noi delle Brigate rosse. Raffaele Fiore smentisce il settimanale “Oggi
Su via Fani un’onda di dietrologia

 

La vicenda Moro e il sottomercato della dietrologia ormai allo sbando

Secondo Gero Grassi, attuale vice presidente del gruppo parlamentare Pd alla camera dei deputati, la persona raffigurata nella foto qui sotto, come si può leggere nella didascalia, sarebbe Germano Maccari e non Prospero Gallinari.
La chicca si trova nel dossier Moro che il deputato di Terlizzi, grigio esponente politico pugliese di scuola democristiana, ha raccolto (circa 400 pagine) selezionando materiale presente presso l’archivio storico del Senato dove è digitalizzata tutta la documentazione relativa alle due commissioni parlamentari che hanno indagato per diverse legislature, inizialmente sul rapimento del leader democristiano realizzato dalle Brigate rosse per poi allargare il loro raggio d’interesse sull’intero fenomeno della lotta armata e delle stragi in Italia.

Gero

Gallinari spacciato per Maccari

GERMANO MACCARI,PROCESSO MORO QUINQUES

Germano Maccari


Raffaella Fanelli
, autrice del falso scoop sul rapimento Moro apparso nel giugno scorso sulle pagine del settimanale Oggi, ha preannunciato in questi giorni un’azione di risarcimento nei confronti dell’avvocato Davide Steccanella. Secondo quanto asserisce la stessa giornalista freelance il settimanale della galassia Rcs l’avrebbe scaricata dopo l’uscita delle false rivelazioni. Nel pezzo oggetto del contenzioso, per altro scomparso dall’archivio di Oggi e assente dall’archivio web della stessa giornalista, la signora Fanelli riportava una conversazione avuta con uno dei membri del commando delle Br che il 16 marzo 1978 rapirono Moro in via Fani. Con un virgolettato d’apertura, attribuito all’intervistato, lasciava intendere che quella mattina ad attaccare il convoglio del presidente della Democrazia cristiana non ci fossero soltanto militanti delle Brigate rosse ma anche degli sconosciuti.
Le presunte rivelazioni erano state subito smentite dal diretto interessato, l’ex brigatista Raffaele Fiore, su questo blog (leggi qui) e in un articolo apparso sul Garantista.
Altre incongruenze e singolari circostanze contenute nell’intervista erano state segnalate in un articolo, apparso sul sito web Satisfiction (leggi qui), scritto dall’avvocato Davide Steccanella, appassionato osservatore delle vicende di quegli anni ed autore di una efficace cronologia della lotta armata, Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata, Bietti editore 2013.

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Le false rivelazioni della Fanelli

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La smentita dell’ex Br Raffaele Fiore

La nuova commissione
Se la Fanelli è una giornalista che agisce in modo spregiudicato come tanti suoi colleghi (qualche esempio), Gero Grassi (per altro anche lui giornalista), oltre ad avere un importante incarico politico è il promotore del disegno di legge che ha portato all’istituzione di una nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro Moro. I giornali scrivono anche che potrebbe esserne il futuro presidente, sempre che Miguel Gotor sia d’accordo. Ciò, in via teorica, gli dovrebbe conferire una qualità ed una responsabilità ben diversa: detto in altri termini, dovrebbe sapere di cosa parla, capacità che tuttavia sembra mancargli del tutto.
Grassi ha fatto del sequestro Moro la ragione della sua impresa politica. E’ persino l’autore di un libro il cui titolo, Il Ministro e la terrorista, lascia emergere la presenza di un inconscio tormentato da una recondita fascinazione. Oltre al voluminoso dossier ed alla proposta di legge che ha portato sulla carta all’istituzione di una nuova commissione d’inchiesta dalle dimensioni pletoriche (60 membri) e il budget striminzito, ancora ben lontana dall’essere insediata (leggi qui), ha avviato un lungo tour nel Paese (in programma ci sarebbero un centinaio di incontri) sul tema “Chi e perché ha ucciso Aldo Moro”, dove a quanto pare le domande hanno già tutte una risposta.
A sentirle, queste risposte suscitano grande imbarazzo. Emerge una dietrologia fantasmagorica fatta d’approssimazioni, confusione e ignoranza che per giunta considera fallaci o peggio reinventa precedenti acquisizioni della magistratura, delle passate commissioni e dei lavori di ricerca storica più seri (ce ne sono anche se troppo pochi).
Al cospetto la vecchia scuola dietrologica giganteggia di fronte a tanta asineria e la figura di Sergio Flamigni si staglia come una vetta insuperata dell’intossicazione storica.
Così accade di vedere riscritte sentenze e perizie (qui), «In via Fani – afferma Grassi – in base a quanto sostiene la magistratura, con sentenze definitive, c’erano persone non riconducibili alle Brigate rosse». Nell’attesa che un giorno arrivino gli estremi della citazione, sorvoliamo.
Come se non bastasse il presidente in pectore della futura commissione aggiunge: «Poi penso vada chiarita la morte di Moro che non è avvenuta per mano di Prospero Gallinari, come lui stesso ha raccontato prima di morire [sic!] e come il senatore Sergio Flamigni sostiene sin dagli anni novanta»… Per la cronaca, la vicenda è stata affrontata in un processo, il Moro quinques, e ripresa dalla commissione stragi presieduta da Pellegrino con diverse audizioni, tra cui quella di Maccari (leggi qui).
Ed ancora, per la disperazione dell’ex giudice Imposimato, «la prigione di Moro che non è unica, come dicono i brigatisti, perché i rilievi medico-scientifici sul corpo di Moro lo hanno accertato ed escluso».
Il Grassi-pensiero è un condensato delle superstizioni della rete, un wikisapere, una pentola dell’alchimista dove chi ha letto male e capito peggio può dire quel che crede. Vulgata di nuova generazione delle teorie del complotto elaborate all’epoca dei meetup e del newage politico di marca grillina dove il passato non si scava ma si prevede.
Cambiano i personaggi ma l’ordito che tesse il discorso del complotto resta lo stesso: acquisizioni parziali, ricostruzioni lacunose, errori, manipolazioni, invenzioni, sentito dire, correlazioni arbitrarie, affermazioni ipotetiche, false equazioni. Dettagli travisati e aneddoti inventati diventano le pietre miliari del racconto, mentre si perdono i fatti sociali e i processi storici che agiscono sullo sfondo scompaiono. La dietrologia resta il modo migliore per non farsi domande.

E’ questa la miseria del complottismo attuale, abitato da una genia di millantatori, arruffoni, e politici di terza categoria. Messo ormai alla berlina dai suoi stessi esponenti, non più tollerato nemmeno dalla magistratura che a differenza del passato ha cominciato a considerare le sortite dietrologiche dei veri e propri depistaggi, indagando per calunnia gli improbabili personaggi che di volta in volta annunciano rivelazioni, come è accaduto per Giovanni Ladu, l’ex finanziere le cui presunte rivelazioni sulla mancata liberazione di Moro in via Montalcini avevano dato luogo ad un grottesco scoop editoriale attorno al libro dell’ex giudice istruttore Ferdinando Imposimato (qui), oppure a Vitantonio Raso, l’ex artificiere che raccontò del ritrovamento anticipato e poi tenuto nascosto del corpo di Moro in via Caetani (qui).
Anche se il sottomercato della dietrologia attuale riempie ancora gli scaffali delle librerie è ormai allo sbando.

Per saperne di più
A via Fani c’eravamo solo noi delle Brigate rosse. Raffaele Fiore smentisce il settimanale Oggi
Gero Grassi, autocommissione
Lotta armata e teorie del complotto

Il “caso” Moro

Ipocrisia: prima che si diffondesse la notizia del rapimento del presidente Dc in via Fani, il quotidiano “la Repubblica” era uscito nelle edicole con un titolo che acusava Aldo Moro di essere l’antilope Kobler, nome in codice del misterioso personaggio politico che aveva intascato tangenti dalla Lockheed corporation. Le copie vennero tutte ritirate e sostituite dall’edizione straordinaria con l’ipocrita coccodrillo che vedete qui sotto


Libri – Agostino Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Il Mulino, 2005 pp. 350, € 22

Paolo Persichetti
30 aprile 2005

L’ossessiva insistenza sui misteri, gli «eccessi dietrologici», l’uso improprio della teoria del «doppio Stato» hanno trasformato il cinquantennio repubblicano in un susseguirsi d’episodi delittuosi, una «sorta di storia criminale da cui è mancata proprio la storia». Dietro l’ostinata ricerca di protagonisti invisibili si sono persi di vista quelli realmente copj13aspesistiti. È questo l’incipit con il quale lo storico Agostino Giovagnoli introduce il più recente lavoro sul sequestro del presidente della Dc, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana. Un volume che dimostra come gli studi sugli anni 70 improntati ad una seria metodologia storica, seppur con fatica, stianno finalmente cominciando a farsi strada, dopo il pionieristico saggio sulla presunta “Pazzia” del presidente Dc, dato alle stampe da Marco Clementi nel 2001. Allora venne posta per la prima volta la necessità di tornare a «fare storia», affrontando la vicenda del rapimento secondo una rigorosa metodologia che abbandonasse l’approccio deduttivo e indiziario, dietrologico, a vantaggio di un’analisi critica, di un confronto sincronico delle fonti originali (documentazione prodotta dalle Br e dal prigioniero). Un contributo innovativo seguito più tardi dal lavoro di critica delle tesi del complotto realizzato da Vladimiro Satta, nel quale veniva definitivamente liquidata l’imponente pubblicistica sulla cospirazione.
Avviato il percorso metodologico sui binari di una seria critica storica è finalmente possibile raffrontare anche le diverse letture sin qui esposte. Al pari di Clementi anche il lavoro di Giovagnoli segue la prospettiva di una «storia politica» del rapimento, ma se ne distacca subito perché incentrata essenzialmente su quanto accadde nel mondo delle istituzioni e dei partiti, grazie ad una indagine condotta negli archivi di diverse fondazioni e istituti. La sua è una storia vista dal Palazzo e l’obiettivo è dimostrare che, dopo un iniziale irrigidimento attorno alla linea della fermezza, il clima cominciò a cambiare aprendo margini di manovra «tattici» che consentissero una soluzione negoziata. In sostanza, spiega l’autore, tentativi vennero fatti, aperture non mancarono, offerte furono avanzate, ma alle Brigate rosse tutto questo non bastò. È a loro, e solo ai loro limiti politici ed alla loro intransigenza, che si deve la morte di Moro. In fondo la tesi del libro è tutta raccolta in questo enunciato: ancora poche ore e quel 9 maggio 1978 il gruppo dirigente Dc avrebbe pronunciato la parola «forte», chiesta per liberare l’ostaggio nel famoso comunicato del gerundio (che serviva a dilazionare ulteriormente l’esecuzione) e nell’ultima telefonata di Moretti. Ora se è evidente che a rapire ed uccidere Moro furono le Br, le quali hanno sempre assunto l’intera responsabilità politica e materiale della scelta fatta, è altrettanto vero che a quell’esito contribuirono in molti, come emerge anche dal racconto di Giovagnoli, nonostante l’evidente tentativo di attenuare, se non addirittura assolvere, le responsabilità del «fronte della fermezza». Lo sforzo diretto a lenire le responsabilità etiche che in quella vicenda ebbe il ceto politico-istituzionale non trova prove né argomenti persuasivi ed a volte scade persino nel grottesco, come quando viene messo l’accento su un Andreotti apostolo della nonviolenza (p. 50). Basterebbe rileggere quel che Moro scrisse di lui nel Memoriale per smentire un quadro così idilliaco.
Non si tratta di convocare gli anni 70 «sotto un’unica chiamata di correità», per cercare «balsami» ad una memoria funzionale ad un «discorso retrospettivo insieme cinico e zuccheroso, che nel nome di una sospirata riconciliazione nazionale tende a confondere carnefici, vittime, spettatori», come ha scritto Sergio Luzzato nella recensione apparsa sul Corriere della Sera. La rimozione e l’autoindulgenza è abitudine rassicurante ma poco lungimirante. Troppo facile ridurre ogni cosa alla «lotta senza quartiere di un gruppo criminale numericamente striminzito, ideologicamente povero e moralmente abietto»: il bene da una parte e il male dall’altra. La mattina del 16 marzo 1978, diverse agenzie avevano associato il nome di Moro a quello dell’«antilope Kobbler», il mai identificato collettore delle tangenti Lockeed. Il riferimento scomparve dalle edizioni speciali dei quotidiani non appena si diffuse la notizia del rapimento, sostituita da ipocriti ritratti che suonavano già come coccodrilli a futura memoria. L’illibatezza etica è l’ultima delle virtù che può essere rintracciata in quello che fu il fronte del rigor mortis, paralizzato non meno dei militanti Br da limiti politici e culturali, pregiudizi e fantasmi, ricatti e ipnosi reciproche. Si tratta invece di capire come sono andate le cose rifuggendo la facile tentazione di attribuire ogni colpa agli sconfitti.
Per esempio, perché ci si ostina ancora a non voler vedere – come ha osservato Clementi – le impressionanti analogie col sequestro Sossi, eccezion fatta per le modalità incruente che certo contribuirono a non pregiudicarne il seguito? In passato si era trattato e si continuò a farlo dopo Moro. Il mancato negoziato è dunque una delle poche responsabilità attribuibili ai brigatisti, che pure commisero notevoli ingenuità – come rendere pubblica la lettera riservata che Moro aveva scritto a Cossiga – a causa dell’inadeguatezza teorica e dell’abissale distanza dai bizantinismi di un Palazzo che combattevano ma ben poco comprendevano.
Negli oltre 50 giorni di sequestro non ci fu uno straccio d’iniziativa politica seria: il vertice democristiano restò immobile e incapace di sviluppare una minima analisi della situazione, come testimoniano i diari di Fanfani. Le lettere di Moro furono rinviate al mittente, decretato «pazzo». Il Pci ne dichiarò la morte anzi tempo, come Pecchioli disse a Cossiga. Le ipotesi più astruse e improbabili vennero privilegiate a discapito delle evidenze. Solo Moro capì cosa erano e volevano le Br, ma dalle Br stesse fu soppresso, decretando insieme alla morte dell’ostaggio anche la loro fine strategica. Uccidendo il presidente Dc liquidarono l’unica risorsa rimasta nelle loro mani dopo un sequestro concepito male e finito peggio. Non c’era stata l’auspicata rottura tra base e vertice Pci, non c’era stato nessuno spostamento a sinistra, al contrario un’integrazione ancora più forte del Pci nello Stato. L’obiettivo principale era fallito e nessuna ipotesi alternativa era stata predisposta. A quel punto una via d’uscita avrebbe potuto essere la liberazione del prigioniero, prevalse invece un super io morale: impossibile salvare la vita del Principe senza contropartite, dopo aver distrutto quella dei suoi scudieri. Si sarebbero esposti alla facile retorica di chi nella sinistra poteva accusarli di magnanimità verso il potere mentre facevano strage dei «proletari in divisa». Così uccidendo l’ostaggio entrarono in una contraddizione etico-politica insanabile: come giustificare l’esecuzione del proprio prigioniero quando al tempo stesso si chiedeva la liberazione di quelli in mano all’avversario?
La «geometrica potenza» del successo militare servì solo a dopare il fallimento dell’iniziativa. Il rafforzamento organizzativo che ne seguì fece da schermo ad una realtà senza più prospettive politiche se non l’estensione e l’intensificazione aritmetica del volume di fuoco.
Il rifiuto della trattativa è questione storiografica complessa e forse costituisce l’aspetto più importante dell’intera vicenda. Essa rinvia ad un enorme rimosso che non trova soluzione nel libro di Giovagnoli. La natura inconfessabile del conflitto che traversò gli anni 70 rimane ancora un tabù insuperato. L’indisponibilità a riconoscere non tanto la valenza politica delle Br quanto ad intravedere quel che si profilava alle loro spalle, ovvero radici e dimensioni di una sovversione politica scaturita dalla crisi di modello e delle forme di rappresentanza che stavano minando la vecchia società fordista, spiega l’arroccamento nella cittadella della fermezza. La società del rigor mortis, sconcertata dalle nuove forme di protagonismo, di partecipazione e da richieste percepite come incompatibili ed esorbitanti, vedeva in quell’insorgenza sovversiva – che aveva radici nell’irruenza dei movimenti sociali di quegli anni – una minaccia intollerabile. Altrove si era riusciti ad assorbire l’onda d’urto, gli Stati avevano sempre trattato con le guerriglie, come ricordava Moro nelle sue lettere. Nell’Italia imbalsamata dai vincoli geopolitici e dai patti consociativi prevalse invece l’intransigenza cimiteriale dell’unità nazionale.
Liberato Moro «le Br avrebbero cessato di sparare. Un’altra storia sarebbe cominciata» ha dichiarato Moretti in un libro. Cosa mai avrebbe avuto di trascendentale un simile scenario?
Su sponde opposte, uno studioso come Federico Mancini arrivò ad ipotizzare un processo di costituzionalizzazione dell’area sociale sovversiva, convinto che la fissità del sistema italiano, impedendo innovazione politica e rinnovamento sociale, col tempo non avrebbe potuto evitare insorgenze e spinte sovversive. Allora trent’anni più tardi piuttosto che cercare il male nella storia sarebbe più utile interrogare limiti e contraddizioni della società che prese forma nel dopo guerra, e che negli anni 70 raggiunse il suo punto di rottura.

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