Rivoluzionario divenuto torquemada, poi dissociato e infine dietrologo. Vita e metamorfosi di Alberto Franceschini

Lo scorso 11 aprile, all’età di 78 anni, è morto Alberto Franceschini tra i fondatori delle Brigate rosse. La notizia tenuta riservata secondo le sue ultime volontà è trapelata soltanto il 26 aprile, giorno dei funerali di Papa Bergoglio.

Il Mega
In carcere Franceschini veniva chiamato con deferenza dai suoi fedelissimi: il «Mega». Una prova di immodestia che per quelle singolari coincidenze della storia non lo ha abbandonato neanche al momento della dipartita. Il soprannome gli era stato attribuito da alcuni detenuti politicizzatisi in carcere, appartenenti ai «proletari prigionieri» che dall’interno dei gironi infernali delle prigioni speciali avevano aderito alle «Brigate di campo», l’organizzazione carceraria messa in piedi dalle Brigate rosse nelle prigioni di massima sicurezza.
Le Brigate di campo, almeno nell’idea originaria, dovevano essere degli embrioni di democrazia del popolo detenuto: furono protagoniste nel loro momento migliore delle lotte all’interno delle carceri speciali per migliorare le condizioni di vita, gli spazi di agibilità e socialità, la libertà di discussione e studio, di rivolte come l’Asinara e Trani, di innumerevoli tentativi di evasione. Un formidabile strumento di contropotere e di democrazia dal basso. Purtroppo finirono col tempo per divenire in alcune situazioni degenerate delle leve di potere e terrore in mano a pochi individui, identificati come «capi» per il loro carisma, che decidevano della vita e della morte degli altri prigionieri, tacciando immediatamente di «resa» al nemico, «tradimento» e «infamità» chiunque non fosse allineato. Franceschini fu uno di questi, anzi fu l’indiscusso leader supremo di questo dispotismo carcerario che aprì la «caccia ai traditori» e provocò la morte di alcuni militanti a cui le forze di polizia avevano estorto informazioni sotto tortura mentre altri furono salvati in extremis in situazioni dove i suoi adepti non avevano la forza per imporsi.

Il naufragio politico e umano
Fino a quando non aveva consolidato un ferreo potere carcerario, per tutti Franceschini era solo «Franz». Questo slittamento semantico, questa trasformazione del nome è stata la prima metamorfosi del personaggio, seguita da altre. Occorre partire da qui, e in particolare dal tragico fallimento del Partito guerriglia, la fazione brigatista di breve durata nata nella primavera del 1981 da una scissione che dal carcere aveva lungamente ispirato, insieme a Curcio, per comprenderne le diverse vite e il suo definitivo naufragio politico e umano. Nel 1982, dopo otto anni di carcere si dissocia dalla lotta armata, esce dalle carceri speciali ed entra nel circuito delle «aree omogenee», istituti di pena premiali pensati per chi aveva preso le distanze da conflitto armato, dove la pressione carceraria era attenuata e le condizioni di vita agevolate. Nel 1987, grazie all’ultima legge sulla dissociazione ottiene cospicui sconti di pena iniziando il percorso di uscita dalla prigione. Ma più che ripudiare il proprio passato, o come direbbero i professionisti della correzione carceraria, «rivisitarlo criticamente», Franceschini elabora da quel momento una riscrittura della propria storia politica finalizzata a cancellare ogni traccia di quei momenti indicibili che avrebbero compromesso il suo percorso postcarcerario. La figura del rinnegato è un classico dell’antropologia umana, la differenza che lo distingue da colui che ripensa in modo critico la propria esperienza sta nella attribuzione delle responsabilità, nella collocazione del proprio io all’interno del bilancio esistenziale. Il rinnegato fa l’autocritica degli altri, esime se stesso da ogni colpa e trova nell’altrui comportamento tutte le responsabilità.

Pinerolo
Punti chiave nella vita di Franceschini sono il momento della sua cattura e le ripetute fallite evasioni. Viene arrestato per caso nel settembre del 1974. Non doveva essere insieme a Curcio in quel di Pinerolo dove il generale Dalla Chiesa aveva teso una trappola utilizzando Silvano Girotto come esca. I suoi compagni lo pensavano a Roma, rientrato nella base dove in quel periodo era sceso con Prospero Gallinari e Fabrizio Pelli per organizzare il sequestro di un politico democristiano e affondare così il colpo al «cuore dello Stato». Eppure anni dopo attribuì la responsabilità dell’accaduto a Mario Moretti, colpevole di non esser riuscito a rintracciare Curcio in tempo, dopo una rocambolesca ricerca notturna e il tortuoso percorso di un messaggio che avvertiva del pericolo.
Va detto che un ruolo centrale nella costruzione della leggenda contro Moretti l’ebbe Giorgio Semeria, un altro brigatista molto vicino a Franceschini. Anche qui decisiva fu la cattura e l’incapacità di accettare i propri errori. Arrestato una prima volta nel maggio del 72, seguendo Semeria la polizia realizzò una retata contro l’intera colonna milanese. Scarcerato per scadenza termini, venne riarrestato e quasi ucciso nel marzo del 1976 da un carabiniere alla stazione centrale di Milano grazie all’attività di un confidente, Leonio Bozzato, operaio dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera che operava come informatore per conto del Sid nella colonna veneta diretta proprio da Semeria. Una volta in carcere, Semeria si convinse che dietro al suo arresto e quelli precedenti di Franceschini e Curcio ci fosse Moretti (del ruolo di Bozzato saprà solo anni dopo). Una ossessione sposata da Franceschini nonostante le smentite dei componenti dell’Esecutivo. Serve poco la politica ma tanta psicanalisi per leggere questi comportamenti che nei decenni successivi alimenteranno una dietrologia infinita. La storia ci dice ben altro: Franceschini e Semeria, una volta dissociati, usciranno dal carcere ottenendo come premio cospicui sconti di pena, mentre Moretti dopo 44 anni è ancora in esecuzione pena con sei ergastoli sulle spalle.

Il ritorno nel Pci e la dietrologia
Una volta fuori Franceschini ritrova l’abbraccio del vecchio Pci emiliano da cui proveniva. Il suo ex segretario ai tempi della militanza nella Fgci di Regio Emilia l’accoglie e gli offre un posto di lavoro all’Arci, in cambio farà da sponda alle ricostruzioni dietrologiche della storia brigatista avviando una stretta collaborazione con il senatore Sergio Flamigni, membro di diverse commissioni parlamentari d’inchiesta sul sequestro Moro. Il Pci aveva bisogno di Franceschini per dare forza all’alibi che doveva fornire una giustificazione al fallimento delle proprie strategie politiche: dal compromesso storico alla linea della fermezza durante il rapimento Moro. A tavolino costruisce la leggenda delle prime Brigate rosse «buone», contrapposte alle «bierre» militariste, sanguinarie ed eterodirette di Moretti. Eppure era tra i militanti che scelsero il passaggio alla clandestinità, presente nell’estate del 1974 quando si avviarono le fondamenta della nuova struttura organizzativa che poi segnerà il funzionamento delle Br negli anni successivi. Fu lui a gestire in prima persona il sequestro Sossi che segnava il cambio di strategia e l’attacco al cuore dello Stato. Sempre lui era sceso a Roma per compiere inizialmente quel sequestro di un esponente Dc che poi verrà portato a termine nel marzo 1978. Inventò di sana pianta l’esistenza del legame di Moretti col Superclan per celare la propria appartenenza al servizio d’ordine diretto da Simioni e il fatto che Moretti fu il primo a rompere ogni rapporto con quel gruppo. Una storia rovesciata che lo vedeva sempre nel ruolo immacolato di puro e ragionevole. Alcuni collaboratori racconteranno dei rimproveri da lui lanciati contro i compagni esterni perché la morte di Margherita Cagol tardava ad essere vendicata. Dal carcere si distinguerà per i continui inviti a elevare il livello di scontro all’esterno e organizzare evasioni. Richieste che distoglieranno le colonne esterne dal lavoro politico nei posti di lavoro e nei territori. E quando i tentativi di evasione falliranno, come quello messo in piedi dalla colonna romana dall’isola dell’Asinara, dopo averci lavorato una intera estate, imputerà il fallimento a una mancata volontà politica radicalizzando sempre più le sue posizioni fino a formulare, dopo un durissimo pestaggio subito nel carcere di Nuoro, richieste di rappresaglia che mettevano in luce i segni preoccupanti di squilibrio, come affondare uno dei traghetti che collegavano la Sardegna al continente.
Scriveva Bertolt Brecht che non c’è peggior nemico per gli elefanti liberi dell’elefante addomesticato.

A mamma Clara… “chi ha deciso che non posso toccare le mani di mio figlio?”

Dal blog Baruda.net prendo un post scritto in ricordo della madre recentemente scomparsa di un compagno che ha partecipato alla lotta armata per il comunismo ed ha trascorso quasi tre decenni della propria vita in carcere.
La storia di Clara, di cui alcuni passaggi potete leggere più avanti, getta un fascio di luce sull’altra parte, sul mondo dei familiari e dei gli amici dei prigionieri, sulla rete di solidarietà che li sosteneva, quelli che erano dall’altro lato del vetro dei parlatoi, fuori dalle mura di cinta, quelli che gli anni del carcere lì hanno vissuti in un continuo entra/esci in giro per le prigioni d’Italia, il cicruio dei Camosci, tra vessazioni, angherie, provocazioni, umiliazioni, pressioni, violenze fisiche e psichiche, controlli, intercettazioni, sorveglianza continua, perquisizioni.

La storia di Clara suggerisce una riflessione su quella che è stata la vicenda dei familiari dei prigionieri. La marcia trionfale del paradima vittimario eretto dallo Stato in quest’ultimo decennio si è costruita attraverso un processo di discriminazione tra vittime meritevoli, e dunque legittime, e vittime immeritevoli di essere riconosciute come tali e per questo cancellate.
In effetti più della vittima in sè è stata la nozione di “vittima meritevole” che ha trovato affermazione e legittimazione.
Non bastava aver subito un torto o un danno per poter essere riconosciuti come tali, occorreva innanzitutto entrare a far parte della categoria legittimata ad esserlo. Un accesso caratterizzato da criteri discriminatori individuati sulla base di ben selezionati requisiti di ordine sociale, economico, culturale, etnico e politico. Per i gruppi stigmatizzati in partenza, nei confronti dei quali si presume una contiguità originaria con l’universo tacciato come criminale o la genealogia del male, è stato precluso qualsiasi riconoscimento, non certo della “santità vittimaria” riservata e in taluni casi ambita dagli esponenti della compagine statale e dell’élite economico-sociale, del posto avuto e del prezzo pagato nella narrazione di quella stagione. Questa selezione discriminatoria ha colpito in modo particolare la realtà dei familiari dei prigionieri.

da Baruda.net

Provo a fare un saluto a Clara, quella che ho sempre sentito nominare e chiamare “mamma Clara”.
La mamma di tutti e tutte coloro che in quegli anni combattevano tra l’art.90, gli ergastoli che piovevano, la tortura, le traduzioni continue, le privazioni totali e costanti.
Mamma Clara è andata via da pochi giorni, portandosi dietro un bagaglio d’amore immenso,
portandosi dietro migliaia di km fatti su e giù per l’Italia, le tante botte ripetutamente prese,  con altre donne, figlie, mogli, mamme, amiche…
tutte, anche esse, vittime dimenticate di quell’epoca;
è andata via portando con sé i pacchi, i vetri su cui poggiavano le mani lei e Bruno, il suo figlio carcerato, suo figlio terrorista, suo figlio brigatista,
suo figlio, punto.
Sono stati in tanti ed in tante ad aver Clara come mamma, come spalla, come amica…
E allora usiamo le sue parole per salutarla prese dallo splendido libro realizzato da Linda Santilli e Prospero Gallinari, Dall’altra Parte. L’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici, Feltrinelli settembre 1995, perché son belle e vere, perché c’è tutta quella donna fatta di fornelli e borgate romane, che è diventata combattente lucida, piena d’amore.

Non avevo mai visto un carcere in vita mia, né ci avevo mai pensato. Non sapevo neppure come era.
Trenta anni fa sentivo dire che stavano costruendo Rebibbia, ma non sapevo neanche che era un carcere.
Dopo una settimana, quando lo trasferirono lo andai a trovare a Napoli. Siamo stati abbracciati tutto il tempo, non gli chiesi nulla, non potevo chiedergli niente.
Gli dissi solo queste parole: “sta cosa me la potevi risparmiare, figlio mio”. Lui non ha detto niente, io non ho più parlato.
Quando lo vidi là dentro non ho pensato a nulla, non potevo pensare, che cosa avrei dovuto pensare?
Piangevo e basta. Per me contava solo che era vivo.
Dopo un bel po’ di tempo, quando era iniziato il pentitismo, gli dissi questo: “Prima di fare la spia impiccati, sarebbe la cosa più giusta.

Il primo incontro con il carcere è stato traumatico. C’erano un’infinità di cancelli di ferro che mi si chiudevano alle spalle lungo un corridodio buio che portava al sotterraneo. Lì mi hanno spogliata completamente, mi hanno fatto togliere perfino il reggiseno e le mutande. Io piangevo, mentre mi spogliavo piangevo.
[…] Quel giorno cominciarono i viaggi.
Quel giorno erano cominciate pure le umiliazioni.
Dopo un paio di settimane Bruno fu trasferito a Palmi.

[…]Il periodo più duro è stato quello dell’art.90. Non potevo portargli cibo nè niente, solo poca biancheria intima.
I colloqui si facevano con un vetro che ci separava.
Parlavamo a distanza e non si riusciva a sentire bene la voce, così mi aiutavo coi gesti.
Per due anni non l’abbiamo toccati i nostri figli. E’ stato un tempo orribile, che non finiva mai.
Ovunque, anche per la strada ci sentivamo controllati, pressati. In carcere erano ore e ore di attesa. Ci buttavano come le bestie dentro una stanza, dalle nove del mattino fino all’una, alle due, in attesa di poter fare un colloquio. Tutte noi venivamo da parti diverse dell’Italia e avevamo viaggiato tutta la notte. Penso che lo facevano apposta, per cattiveria, per punire anche noi familiari. Perché non ce li facevano toccare con le mani, neanche una carezza e questo non poteva avere senso.

[…] Andammo a Genova perchè ci dissero che li avrebbero fatti toccare.
Ci dissero che potevano passare solo le donne che avevano dei bambini in braccio, così io mi feci prestare la pupa di Francesca. Ce li fecero abbracciare solo per un attimo. Erano anni che non toccavo mio figlio.
[…] A Laura mi sono affezionata moltissimo. Quando l’hanno arrestata io ero disperata, perché quella ragazzina non c’aveva nessuno, né madre né padre. Ho sempre cercato di esserle vicina, mi chiamava mamma Clara.
[…] Poi sono diventata mamma Clara per tanti altri ragazzi; mica solo a Laura ho fatto pacchi! Questi figli ho cercato di aiutarli, di essere uguale con tutti e non disponibile solo con mio figlio.
Tutta l’economia della famiglia da tredici anni è quindi rivolta non solo a Bruno, ma a tutti gli altri.
A Bruno ora che sta a Roma a Rebibbia faccio il pacco ogni settimana, ogni giovedì. Cucino la mattina stessa prima di andare al colloquio. Lo faccio con tanto amore, è l’unica cosa che mi è rimasta per dimostrargli il bene: stirargli le camicie, lavargli bene i panni, improfumarglieli.
Solo questo mi è rimasto.
I pacchi non sono importanti solo per chi sta in carcere, ma anche per chi li prepara.
Io penso a mio figlio…ieri gli ho portato i fagiolini con il pesce spada, le alici e la frutta.”


Il profumo dei tuoi piatti è entrato nelle peggiori celle del nostro paese,  ed è riuscito a renderle dolci.

Grazie…che chiederlo a fare alla terra di esser lieve su di te?
Buon viaggio mamma Clara…

Sono nata in un carcere speciale agli inizi degli anni 80, adesso voglio capire/Esilio come colpa

Libri – Treni sorvegliati. Rifugiati italiani, vite sospese, Archivio Primo Moroni – Collettivo La Comune 2008

di Elisa Novelli

Caro Paolo,

da piccola volevo crescere in fretta per essere in grado di fare qualcosa nel momento del bisogno. Ho persino creduto, per un attimo, che un mio compito di francese, che metteva la data su una tua fotografia mi concedesse di intervenire per farti uscire di prigione, ma non ha funzionato… Forse ero ancora troppo piccola. Oggi non funziona per mia madre; perché avevo pensato che diventando grande avrei potuto esservi d’aiuto? Quando abbiamo abbassato la guardia? Come, nonostante i segnali che ci  coparrivavano da ogni parte, abbiamo potuto credere di poter fare figli, mettere su casa, insomma di poter vivere in fiduciosa tranquillità? Come è possibile che tu sia rinchiuso da oltre cinque anni, dopo averne trascorsi quasi quattro in precedenza, per degli avvenimenti che rimontano alla tua altra vita, quella di prima dell’esilio, e perché ci si accanisce a bollare quelli che sono degli esuli di fatto come terroristi, spiegami come si sia arrivati a vivere in un mondo che ha dimenticato il carattere inviolabile dell’asilo, che rimette in discussione la legittimità delle lotte sociali. E perché non sento dire dai nostri compagni che sono stati in carcere, che l’esilio è sempre stato considerato una punizione? Quando noi siamo partiti, dico noi perché io mi includo nella vostra storia, mi sono presa il mio posto fra i migranti, era per consegnarci alle autorità di un paese considerato quello dei diritti dell’uomo, con il desiderio, e voi tutti l’avete ben realizzato, di vivere in uno spazio libero, aldilà delle sbarre, di vederci crescere, noi, i piccoli, con i quali le barriere di ferro avevano impedito di tessere legami famigliari. Quindici, venti anni, se si aggiungono gli anni di detenzione in Italia, un lasso di tempo durante il quale l’individuo cambia, è il sacrosanto principio della seconda occasione, principio per il quale, a mio sentire, non si può stigmatizzare una persona per un atto commesso in un particolare momento della sua vita. L’essere umano non è solo questo. L’essere umano è la complessità del cambiamento. Quale legge, Paolo, autorizza il giudizio retroattivo riconosciuto dalla santa istituzione giuridica? Perché, e scusa le mie analisi da novizia, è ben di questo che si tratta: come dei dell’Olimpo, i nostri illustri politici e magistrati, spiano il lavoro di reinserimento dei brigatisti, sapendo che questo processo sarà bloccato senza appello nel momento in cui le autorità avranno bisogno di carne fresca da mandare al macello. Ma lasciamo fare… e poi negano e non assumono le responsabilità che hanno della disperazione di questi figli di Francia. Come non tenere conto, quando si giudica un uomo, dei suoi cambiamenti? Definire mia madre di 54 anni una terrorista in fuga, mentre tutti sanno che lavorava per la Francia, non è di un perfido cinismo? Un’ultima domanda, quando una guerra finisce, per quanto bassa sia stata la sua intensità, e i perdenti riconoscono la propria sconfitta, non è forse utile per sanare la frattura sociale ricorrere ad una amnistia? Che vuol dire una pena senza fine? È una cosa priva di senso, una pena è fatta per essere scontata, non per tormentare all’infinito uomini ed epoche. Sono nata in un carcere speciale agli inizi degli anni 80, non l’ho deciso io; sono nata in mezzo alle vostre idee, adesso voglio capire.

Paris, le 26 novembre 2007

L’esilio come colpa

di Paolo Persichetti

Cara Elisa,

Non è facile dare risposta alle tue domande. Quando sei nata le cronache parlarono di te. T’affacciavi al mondo da un carcere speciale e questo faceva notizia. Tempo dopo seppi che eri uscita. Poi, per fortuna, fu scarcerata anche tua madre. Quando alla fine degli anni 80 anch’io ero imprigionato, ho incrociato nei corridoi delle sale colloqui di Rebibbia un ragazzino che tutto solo si recava in visita dal padre. Mi colpì quel suo fare sicuro, da piccolo grande uomo, quel non avere alcun timore del luogo mentre i suoi coetanei s’aggrappavano alle gonne delle madri. Era Antonio Salerno, come te nato in prigione e scomparso tragicamente un paio di anni fa. Morto di un maledetto lavoro precario. Cinico sgarbo della vita dopo che i suoi genitori erano rimasti reclusi per decenni, colpevoli d’aver tentato di liberare la società dal lavoro salariato. Morto fantasma di genitori invisibili. cop2Più che in mezzo alle nostre idee sei nata sul registro di cassa che ne segnava il prezzo. Ne hai conosciuto il risvolto negativo: la repressione, la criminalizzazione, l’universo plumbeo del cemento e delle sbarre e poi la via dell’esilio. Il tuo giardino dei giochi è stato un cortile presidiato da sentinelle. Hai fatto i primi passi in un asilo di piombo. Il tintinnio delle chiavi, il risuonare continuo dei chiavistelli che aprono e chiudono cancelli, il rimbombo dei blindati e gli echi delle urla che arrivano dall’isolamento sono stati i primi rumori che ti hanno fatto scoprire il mondo. Sei cresciuta in mezzo a questo frastuono, in un posto che non lascia spazio a sogni, dove a fatica risuonano filastrocche e dove l’orco delle fiabe porta una divisa. Ma non sei fuggita, non hai rimosso, hai accettato questa esperienza con coraggio e una maturità che sorprende in una bambina. Tua madre ha cercato in tutti i modi di offrirti un futuro. Ti ha dato anche una sorella. Così ti sei aggregata alla compagnia di giro dei fuoriusciti. Piena di generosità sei voluta crescere in fretta «per essere utile nel momento del bisogno», come dici. Fin da piccola ti sei gravata dei problemi dei grandi che vedevi braccati, ed ora che anche tu sei adulta misuri tutta l’impotenza e scopri l’illusione verso una vita che credevi dovesse risparmiarti la prigione conosciuta nell’infanzia. Ora che si stanno riprendendo tua madre per gettarla ancora una volta, dopo 30 anni, nel pozzo senza fondo del fine pena mai, dove già tuo padre e tuo zio sono passati, ci chiedi conto, ci tiri per le vesti in attesa di un perché. Hai ragione a voler capire. Questo ti fa onore. Non hai paura di guardare in faccia la realtà, ma le parole che chiedi non sono leggere. Ne sento per intero il peso e la responsabilità. Perdonaci Elisa, se a te e ad altri non siamo riusciti a garantire un futuro diverso. Senza possibilità di scelta la tua vita è rimasta incagliata all’unico passato giudiziario e penale che non passa, momento imprescrittibile di una storia d’Italia che ha volentieri sotterrato e tuttora ingoia nell’oblio eccidi, massacri, ruberie. L’Italia ha dato forma ad un singolare paradosso: non ha conservato la memoria di quegli anni ma è stata incapace d’oblio. Alla memoria storica svuotata dei fatti sociali ha sostituito la memoria giudiziaria; all’oblio penale ha sovrapposto l’oblio dei fatti sociali. Per questo quel decennio di speranze e di lotte è divenuto l’icona del male contemporaneo, un simbolo negativo che cristallizza odii e risentimenti, sofferenze e malintesi.
La dottrina Mitterand era figlia di uno sguardo diverso portato sulle vicende italiane degli anni 70. Sospinti dalla logica dell’alternanza i moderatissimi socialisti d’Oltralpe coglievano quel che nella penisola non si voleva vedere: un lacerante conflitto sociale, una latente condizione di guerra civile. Nel tentativo di trovare forme d’uscita dalla spirale del confronto violento, le autorità francesi decisero di accogliere i militanti italiani riparati a Parigi. Allora gli strumenti giuridici consentivano all’autorità politica margini di decisione ancora ampi. Questa scelta d’asilo territoriale ha resistito incredibilmente per almeno due decenni, nonostante l’aggressione dei tempi, lo slittamento dei rapporti di forza, l’inarrestabile processo d’integrazione comunitaria (di cui paradossalmente i fuoriusciti sono stati un avamposto) e la creazione dello spazio giudiziario europeo. Ma alla fine la zattera dei rifugiati, riparo precario d’esistenze sospese, è rimasta senza approdo davanti al porto della sua Itaca immaginaria.
Nel dopoguerra bastarono appena cinque anni per vedere liberi gli autori di efferati crimini d’dio, quelli sì responsabili di massacri di massa, come il maresciallo Graziani. Oggi, invece, dopo oltre venti anni di rivoluzione conservatrice e di neoliberismo dilagante, arretramenti, sconfitte e il radicale sconvolgimento del sistema produttivo, si è dissolto il peso politico del movimento operaio di cui siamo figli, indebolendo il suo patrimonio storico d’idee, valori e culture della solidarietà e della fratellanza. L’idea d’asilo, come gli strumenti di correzione delle vendette giudiziarie contro gli oppressi che hanno osato ribellarsi, hanno perso sempre più legittimità di fronte all’etica del risentimento fomentata dal vittimismo del potere. L’ideologia penale ha sostituito i percorsi di liberazione umana e sociale. Poi c’è stato il 2001, le torri gemelle e lo stato di eccezione planetario. Un vento revanchista e reazionario ha reso senso comune persino ciò che un tempo sarebbe passato come un residuo dell’immondezzaio ideologico dei fascismi. Di fronte a ciò, le parole degli Stati sono divenute come le foglie morte che si lasciano trascinare dalla direzione del vento. Non più parole date ma parole vuote.
Un florilegio di dichiarazioni ha accompagnato l’arresto di tua madre, niente affatto fortuito come si è maldestramente tentato di far credere. Si è parlato della cattura di una pericolosa latitante… che lavorava da anni per i servizi sociali del comune di Argenteuil. Questo bisogno di camuffare ogni volta gli arresti dei rifugiati, questa paura della trasparenza è rivelatrice dei sepolcri imbiancati che attorniano gli interessi inconfessabili di queste operazioni. Che motivo c’era d’inventare tutte queste fandonie se, come hanno sostenuto alcuni senza temer vergogna, si è trattato soltanto di far valere il principio della certezza della pena, di quelle che almeno non sono andate prescritte nel frattempo? Evidentemente si percepisce un deficit di legittimità a distanza di tanti decenni. Per questo si aggiornano le richieste d’estradizione ricorrendo ad ogni tipo d’espediente: congelando la personalità dei militanti di un tempo, avvalorando l’idea che l’essere non sia più un divenire ma un semplice essere stato, cristallizzato e fossilizzato.
Che senso ha tutto questo? Infatti non ha senso, è solo basso commercio tra intellingences, scambio di favori tra tecnostrutture securitarie, accordo di famiglia tra magistrati dei pool antiterrorismo che devono perpetuarsi ed a cui la politica ha ormai delegato sovranità e strategie. In questo caso più che punire un passato di cui si ha ormai una vaga e confusa memoria, si vuole sanzionare l’esperienza dei fuoriusciti, il loro presente: l’anticipazione del possibile che hanno rappresentato, ciò che avrebbe potuto essere il futuro italiano se fosse stata varata un’amnistia per gli anni 70. Una smentita cocente per gli imprenditori dell’Emergenza, un esempio da cancellare ricorrendo ad una sorta d’aggiornamento della sanzione. Ciò che discende da scelte sovrane dello Stato francese è di fatto equiparato a una condotta criminale del singolo rifugiato, che una volta estradato si vede rimproverare la dimensione intellettuale e culturale, le relazioni sociali, familiari e lavorative costruite nel frattempo. L’esilio come colpa, dunque. Si tratta della palese ammissione che ad essere perseguita è sempre meno la condotta politica attribuita in passato ma l’identità stessa delle persone oggetto di queste sanzioni. Altrove, nel ceto politico di Destra come di Sinistra, c’è invece chi trova conveniente fare dei rifugiati l’ultimo resto del secolo breve su cui gettare l’anatema per meglio sbiancare le proprie carriere istituzionali da un passato imbarazzante.
È questo il sigillo che le democrazie attuali pongono sulla reiventata figura del nemico politico interno eletto a pericolo permanente e immutabile.
Cara Elisa, ora tua madre ha un grande bisogno di te. Stalle vicino.

Roma, 26 gennaio 2008

Aguzzini, Lumia: “Riaprire super carcere di Pianosa e applicare severamente il 41bis”

Aguzzini – Lumia (Pd) ad Alfano: “applicare severamente il 41bis”

Il Velino, 6 novembre 2009

“In questo momento, non credo, a mio avviso, sia sufficiente esprimere solidarietà tra noi, adesso come uomini delle istituzioni, Lei come ministro e io come membro dell’opposizione, abbiamo il compito di fare del 41 bis severamente applicato la migliore risposta alle minacce ricevute. Ritorno a riproporle l’apertura di Pianosa e l’Asinara e di riorganizzare al meglio, anche in altri istituti del centro-nord del Paese, il 41 bis in modo coerente con la necessità di impedire qualsiasi collegamento tra i boss e le loro organizzazioni mafiose”.
È quanto si legge nella lettera inviata ieri al ministro della Giustizia Alfano da Giuseppe Lumia, componente della commissione parlamentare antimafia. Secondo il senatore del Pd “i costi non sono elevati” e la riapertura delle due carceri “garantirebbe una migliore tutela ambientale delle isole, attraverso l’impiego dei detenuti in lavori di cura e manutenzione dell’ecosistema delle isole in questione”.
Per Lumia, inoltre, bisogna “evitare l’organizzazione dei reparti di 41 bis con il sistema delle celle a testa a fronte per impedire facili comunicazioni tra i detenuti stessi; tenere particolare attenzione ai colloqui con i familiari ed il cosiddetto momento della socializzazione, non trascurando neppure il momento delle cerimonie religiose. Va prestata massima attenzione alla corrispondenza che è un sistema efficace di comunicazione tra i boss e l’ambiente esterno e ai pacchi di indumenti e di alimenti ricevuti dai boss”.

Link

Carcere, gli spettri del 41 bis
Dopo la legge Gozzini tocca al 41 bis, giro di vite sui detenuti
Carcere, arriva la legge che cancella la Gozzini
Fine pena mai, l’ergastolo al quotidiano
Sprigionare la società
Desincarcerer la société

Cronache carcerarie

Terremoto, sfollato il carcere di L’Aquila

«In trappola come topi», era fondato l’allarme delle prime ore di agenti e detenuti del carcere di L’Aquila evacuato in piena notte.
Tensione anche a Sulmona: i reclusi dormono fuori dalla celle

Paolo Persichetti
Liberazione 9 aprile 2009

«I reclusi erano in preda a tensioni comprensibili e si sentivano dei topi in trappola», con queste parole il presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha spiegato le ragioni che hanno portato all’evacuazione del carcere di L’Aquila.
I toni rassicuranti apparsi nel primo comunicato diffuso dal ministero della Giustizia, dopo la scossa devastante che domenica notte ha squassato l’Aquila e i paesini circostanti, erano soltanto uno schermo. Che fosse un tentativo di prendere tempo per organizzare lo sfollamento del carcere, mantenendo la riservatezza per ovvie ragioni di sicurezza, dopo che il sisma aveva reso inagibile la caserma del corpo di custodia, distrutto le abitazioni di una trentina di agenti della polizia penitenziaria e danneggiato le celle dove erano ubicati i detenuti, anche se non in modo strutturale come più volte ribadito dall’amministrazione, si era capito subito. Diversi agenti erano stati inviati dalle carceri del nord per rimpiazzare i locali. Voci allarmate provenienti dallo stesso personale di custodia descrivevano una realtà molto diversa da quella dipinta nei comunicati ufficiali.
Insomma la gestione del carcere, una struttura ritenuta particolarmente “sensibile” nella mappatura degli istituti di pena italiani per la presenza di un importante reparto di massima sicurezza e di un’area riservata nella quale erano rinchiuse due donne, tra cui Nadia Lioce, era diventata problematica. L’ininterrotto sciame sismico (354 scosse registrate, 182 soltanto nella giornata di martedì, e una sessantina di magnitudo superiore al 3 della scala Richter) ha accresciuto col passar dei giorni le tensioni. Detenuti e personale di custodia non tolleravano più la loro presenza sul posto.
D’altronde se la popolazione della città era stata evacuata dalle zone a rischio, non v’era nessuna altra ragione che giustificasse la permanenza all’interno dell’Istituto penitenziario dei reclusi, obbligando gli stessi agenti di custodia a correre dei rischi notevoli. I sindacati di polizia penitenziaria hanno sicuramente fatto la voce grossa. Così dopo l’ultima violenta scossa di martedì sera è partito nella notte il piano di evacuazione. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha avviato le procedure subito dopo la mezzanotte. I primi mezzi hanno lasciato il carcere delle Costarelle verso le due.
Ovviamente un piano del genere non s’improvvisa. Dal Dap con una nota ufficiale hanno fatto sapere che si è trattato della «più grande operazione di traduzione di detenuti che si ricordi», dopo quella – aggiungiamo noi – che diede avvio al “circuito dei camosci”, la rete di carceri speciali voluta dal generale Dalla Chiesa.
Nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1977, in grande segretezza e con ampio spiegamento di forze e mezzi dell’Arma dei carabinieri, facendo anche uso di elicotteri birotore Chinook, alcune centinaia di detenuti politici furono trasferiti nelle prime carceri di massima sicurezza appena allestite, tra cui la famigerata sezione Fornelli nell’isola dell’Asinara.
Per il trasferimento dei detenuti ristretti nel carcere aquilano sono stati impiegati, secondo le cifre fornite dal ministero della Giustizia, 200 uomini, molti dei quali appartenenti al Gom (il reparto speciale della polizia penitenziaria impiegato per la custodia dei reparti di massima sicurezza e per le operazioni speciali, noto per il famigerato comportamento tenuto contro i manifestanti nella caserma di Bolzaneto, nel 2001) per un totale di 70 mezzi, di cui 40 furgoni blindati e 40 autovetture della polizia penitenziaria. Le due donne rinchiuse nell’area riservata sono state tradotte nel carcere femminile di Rebibbia a Roma; gli 81 ristretti nella sezione 41 bis sono finiti nel reparto di massima sicurezza della casa di reclusione di Spoleto, mentre i detenuti assegnati al circuito della media sicurezza sono stati inviati nella casa circondariale di Pescara. L’intera operazione, sottolinea ancora il comunicato del ministero, «è avvenuta senza incidenti».esterne071312460704131438_big
Tensione c’è anche nel carcere di Sulmona, dove i 464 detenuti presenti (292 nella reclusione e 172 internati nella casa lavoro) si sono rifiutati di dormire nelle celle e hanno trascorso la notte nei passeggi e nelle sezioni. Anche se l’istituto penitenziario non ha subito danni, tra i detenuti circola un comprensibile stato di ansia. Per questa ragione la direzione ha rafforzato i turni di sorveglianza esterna al carcere e sospeso i riposi degli agenti penitenziari in servizio.
Il terremoto ha fermato anche l’udienza del maxiprocesso alla mafia tirrenica. Un imputato, detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Avezzano, durante il collegamento in videoconferenza ha avuto un attacco di panico a causa delle scosse d’assestamento.

Link
Abruzzo, la terra trema anche per i dimenticati in carcere

La dissociazione politica dal terrorismo

Scheda giuridica sui dispositivi legislativi che configuramo le modaliità della dissociazione politica dal terrorismo e la collaborazione giudiziaria

Tre successivi interventi legislativi, concepiti all’interno delle misure speciali varate da governo e parlamento tra la fine degli anni 70 e la prima parte degli anni 80, definiscono progressivamente due particolari figure giuridiche, alle quali vengono riconosciute rilevanti sconti di pena, ipotesi di non punibilità, accesso facilitato alle misure alternative alla detenzione, liberazione n1035440415_221871_65533 condizionale e altri benefici, oltre che un regime penitenziario privilegiato: il collaboratore di giustizia, comunemente definito “pentito”, e il dissociato.

1) Col decreto legge n° 625 del 15 dicembre 1979 (Gazzetta ufficiale n° 342 del 17 dicembre 1979), convertito in legge nel febbraio 1980 (Gazzetta ufficiale n° 37 del 7 febbraio 1980) si introduce la prima formulazione della nozione di “dissociazione”, intesa a definire colui che «dissociandosi dagli altri, si adopera a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove per l’individuazione o la cattura dei complici».

2) Nel maggio 1982, un secondo dispositivo legislativo molto più articolato (Gazzetta ufficiale n° 149 del 2 giugno 1982) introduce una distinzione tra la dissociazione (art. 2) e la collaborazione (art. 3). Può così avvalersi degli sconti di pena per la dissociazione colui che «renda piena confessione di tutti i reati commessi e si adoperi durante il processo per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o per impedire la commissione di reati connessi». Viene invece considerato un collaboratore di giustizia colui che discioglie o recede dal gruppo, si consegna fornendo ogni informazione sulla struttura e sull’organizzazione dell’associazione o della banda, «rende piena confessione di tutti i reati commessi e aiuta l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura di uno o più autori di reati commessi per la medesima finalità ovvero fornisce comunque elementi di prova rilevanti per l’esatta ricostruzione del fatto e la scoperta degli autori dello stesso».

3) Il 18 febbraio 1987, viene varata invece un’ultima legge, Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo (Gazzetta ufficiale n° 43 del 21 febbraio 1987) nella quale si definisce, art. 1, «condotta di dissociazione dal terrorismo il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, ha definitivamente abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo di lotta politica».

Carcere: Gli spettri del 41 bis

Massima sicurezza

Paolo Persichetti
Liberazione
lunedì 28 ottobre 2002

appello-2-meglioDegli spettri si aggirano per le carceri italiane, sono i detenuti sottoposti al 41 bis. Si tratta di uomini e donne imprigionati due volte. Dei tribunali hanno tolto loro la libertà, una amministrazione ha decretato la loro invisibilità. Si trovano qualche metro più in là, oltre le sbarre e la griglia che ornano la finestra di questa cella. Pochi metri di cortile mi separano dal popolo dei murati vivi, i fantasmi della prigione. Quando qualcuno di questi spettri traversa il carcere le porte blindate vengono chiuse al loro passaggio. Altre barriere si aggiungono a ispessire il loro isolamento e la loro distanza. Il 41 bis è il regno della opaca afflizione, la pena che rende invisibili. Il supplizio moderno ha vergogna di se stesso, fosse trasparente probabilmente perderebbe molta parte della sua legittimazione sociale. L’intero carcere è colmo di queste «assenze» che si fanno pesanti presenze per tutti. Disciplina e regolamento dell’istituto sono segnati dalla esistenza di questi spettri: non c’è socialità, non ci sono attività rieducative o di formazione, è chiuso persino il campo di pallone. Anche la televisione è imprigionata in una scatola metallica. Tutto è chiuso, metodicamente blindato e imbullonato. «Massima sicurezza» vuole dire deserto disciplinare, spazi angusti e metallici dove i corpi in soprannumero sono stipati e formati in modo rigido e severo mentre le menti si inaridiscono.

CartoncinoL’unico svago concesso viene dall’agognato carrello dell’infermeria che scandisce la giornata distribuendo tre volte al giorno stupefacenti ricreazioni chimiche a base di benzodiazepine. Gli «invisibili», come fantasmi, ogni tanto battono un colpo, anzi dei colpi sui cancelli blindati. Quelle periodiche battiture ci ricordano che il loro è un mondo di vivi che non rinuncia a resistere.
Recentemente il senato ha reso definitivo il regime del 41 bis, una norma sospensiva del normale trattamento penitenziario e che in origine doveva essere solo «eccezionale e transitoria». Non soddisfatti, i senatori ne hanno prolungato la durata ed esteso la portata ad altre tipologie di reato. Chi sostiene la validità di questo trattamento differenziato afferma che esso è necessario per condurre a termine la lotta contro il nemico di turno, che si tratti dei mafiosi, dei terroristi, degli scafisti, non conta poi molto. I «nemici», si sa, sono intercambiabili. La battaglie di civiltà e le lotte per l’emancipazione si svolgono il più delle volte sul terreno impervio delle questioni di principio. È sui punti limite che si misurano i passaggi epocali, i momenti di rottura. Troppo comodo e troppo facile, nonché ineffettuale, è l’atteggiamento di chi pensa di poter difendere solo i diritti di coloro che sente più prossimi: «poveri ma belli» oppure «ricchi e potenti». In entrambi i casi vi è il segno speculare dell’atteggiamento strumentale di chi pensa di eliminare il proprio nemico abolendo i suoi più elementari diritti, considerandolo sub specie umana. È la peggiore guerra quella mossa in nome del Diritto per abolire i diritti. Sfugge a questa concezione una lucida consapevolezza di ciò che è l’emergenza, dei suoi dispositivi di governo delle relazioni sociali, del suo ricorso sistematico alla eccezione che addirittura non sospende più la regola ordinaria ma si candida a rimpiazzarla stabilmente. Sorprende che proprio chi si vuole radicale, antagonista, comunista, non percepisca come i pesanti dispositivi giudiziari e penitenziari della emergenza, sempre più limitanti e costrittivi delle libertà individuali e collettive, restino radicati nel tempo, mentre le tipologie di applicazione hanno vocazione a variare. Ieri è toccato ai «terroristi», oggi ai mafiosi, persino ceto politico e imprenditori ne hanno saggiato gli effetti. E domani?

41-bistortura-ridLa ruota gira  e con i tempi che corrono tra «guerra preventiva», estensione a dismisura della nozione di terrorismo fino a comprendere comportamenti politici e sociali considerati semplicemente «non allineati», a chi giova rafforzare l’arsenale repressivo che un giorno potrebbe essere facilmente rivolto verso tutti quelli che sono semplicemente «contro»? Quei 61 collegi su 61 vinti in Sicilia dalla Casa delle libertà non avrebbero dovuto istruire sul fallimento delle politiche unicamente repressive condotte dagli imprenditori dell’antimafia? Dieci anni di 41bis non hanno sconfitto la mafia, al contrario il centrodestra ha fatto man bassa dei voti come mai era riuscito persino alla Dc. Con la sua strategia fatta di carcere duro e pentitismo remunerato, lo Stato con i suoi centri di potere emergenziale è riuscito solo a favorire la selezione di nuove élites mafiose e il ritorno alle strategie morbide e conniventi di una «Cosa Nostra» tornata invisibile ma sempre percettibile.
A cosa sono serviti allora questi lunghi anni di 41 bis, se non a perfezionare le tecniche di differenziazione penitenziaria, utilizzabili domani, anzi oggi stesso, contro altri gruppi sociali scomodi trasformati in nuovi nemici?
Abolire le garanzie, restringere le maglie della società, non facilita la lotta contro i potenti che dispongono comunque di altre risorse per tutelarsi, mentre rende vulnerabili, espone al ricatto repressivo coloro che non hanno potere, risorse sociali, economiche e culturali. È ora di abbandonare l’idea che la lotta di classe si possa fare con i tribunali e le prigioni. Ne trarrebbe giovamento la critica e la lotta contro ogni forma di valorizzazione legale e illegale del capitale. Lasciamo al diritto la funzione di seguire le evoluzioni della società, di registrare avanzate e sconfitte. Staremo tutti meglio e saremo più liberi di lottare.

Approfondimenti
Cronache carcerarie