Via Fani, indagini inadeguate e dietrologia, come è nata la leggenda del quinto sparatore

«La figura del “quinto” uomo, ovvero dell’attentatore 
che avrebbe dovuto sparare dal lato destro del convoglio 
all’inizio dell’azione, sconfessata dalle dichiarazioni dei terroristi stessi,
 ma decisamente supportata non solo dagli atti processuali 
ma da una gran parte della letteratura politica degli anni di piombo,
è una figura diventata emblema per l’idea stessa di generiche ombre sinistre 
su fatti accaduti. Quando oggi si sente parlare del “quinto” uomo, 
immediatamente si capisce che ci si riferisce a qualcosa di losco, nascosto, a qualcosa che mina la credibilità delle Istituzioni stesse. 
Una sorta di antesignano del complottismo».

Federico Boffi-Lucarelli, Grazia La Cava, Scienza e giustizia, Armando editore 2024

Un recente abbaglio dello storico Davide Conti ha aggiunto una nuova puntata alla interminabile saga dei misteri sul rapimento dello statista democristiano Aldo Moro. Su Domani del 23 e 24 agosto scorso, il ricercatore della Fondazione Basso, autore di diversi lavori sulla Resistenza, soprattutto romana, e di varie pubblicazioni sul fascismo e neo fascismo, nonché consulente delle procure di Brescia e Bologna nelle indagini sulle stragi e dell’archivio storico del Senato, ha rilanciato la tesi del quinto uomo che avrebbe preso parte alla sparatoria di via Fani (l’undicesimo brigatista del commando), la mattina del 16 marzo 1978.

Gli errori di Davide Conti

Come ormai accade da decenni a questa parte in tutti gli scoop sul rapimento Moro, le clamorose scoperte annunciate a titoli cubitali incappano sempre in clamorosi errori. Anche Conti non è scampato a questa regola: non è vero, infatti – come ha sostenuto – che le tracce di sangue ritrovate all’interno delle auto usate dai brigatisti per la fuga non vennero mai identificate. Il 14 novembre 1978 i professori Franco Marraccino e Giorgio Gualdi, incaricati dal pm Infelisi nel marzo precedente, consegnarono la loro perizia al consigliere istruttore Achille Gallucci. Le conclusioni apparvero subito inequivocabili: le tracce di sangue trovate nelle auto erano compatibili con quattro dei cinque uomini della scorta dello statista democristiano (Cm2 0470_001). Errata è dunque l’ipotesi avanzata da Conti, ovvero che alcune di quelle tracce appartenessero ad un quinto brigatista non identificato che avrebbe partecipato al rapimento. Un altro degli errori, che qui ci limitiamo a citare (per una disamina più ampia leggi: Il sangue degli uomini della scorta di Moro scambiato con quello di un brigatista immaginario), riguarda l’arbitrario spostamento di uno dei membri del commando (Prospero Gallinari) dai sedili anteriori a quelli posteriori di una delle due Fiat 128 utilizzate durante l’agguato. Un’artificiosa operazione che ha permesso a Conti, nonostante le evidenze storiche dicano il contrario, di aggiungere un passeggero e far quadrare la propria ricostruzione.

Indagini inadeguate e dietrologia


Gran parte delle teorie dietrologiche costruite sul rapimento Moro traggono origine, dal punto di vista tecnico, dall’iniziale ricostruzione errata della dinamica dei fatti dovuta alle gravi carenze ed errori presenti nelle prime indagini condotte nel 1978. E’ quanto spiegano, in un volume pubblicato nel 2024, Scienza e Giustizia, la dinamica della scena del crimine, Armando editore, Federico Boffi Lucarelli, che ha diretto le sezioni di balistica e l’Unità di analisi dei crimini violenti della polizia scientifica, e Grazia La Cava. Il testo riprende la perizia sulla dinamica della sparatoria e del rapimento Moro consegnata il 12 giugno 2015 alla seconda commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni (Cm2 0197_003). Documento che non venne accolto con favore dalla maggioranza dei membri della commissione, spiazzati dai risultati che confermavano le testimonianze inascoltate dei brigatisti.

«I dubbi emersi negli atti giudiziari dell’epoca – scrivono gli autori – e costantemente riportati negli anni successivi, sono invece un buon esempio di come è possibile trasformare una incertezza tecnica in un caso sociale e politico (ed anche giudiziario, in effetti)». Il combinato disposto tra questi errori e precisi interessi politici, hanno sedimentato il pregiudizio dietrologico, ovvero l’idea fattasi senso comune che mai un gruppo di operai del Nord e giovani delle borgate romane avrebbero potuto, contando sui propri mezzi, portare a termine un’azione del genere. L’alibi del complotto venne subito messo in campo dalle forze politiche che con maggiore forza e peso sostennero la «linea della fermezza» (Pci e Dc) per celare le responsabilità avute sulla mancata volontà di trattare la liberazione dell’ostaggio, sacrificando la vita di Moro sull’altare della ragion di Stato e del compromesso storico, inesorabilmente fallito nei mesi successivi. La costruzione della narrazione dietrologica è stata lo strumento di questo processo di esportazione della colpa: una rivisitazione storica dei fatti che mise d’accordo anche destra, la quale elaborò una propria narrazione che addossava alle forze del patto di Varsavia la regia del rapimento.

Gli errori iniziali sullo sparatore da destra


La ricostruzione iniziale dell’agguato proposta dal settimanale Panorama del 28 Marzo 1978. Con il numero 2 è indicato il brigatista che si ipotizzava avesse agito sulla destra

Nel corso delle indagini svolte nel 1978, perizia Ugolini-Jadevito-Lopez, e nella successiva Salza-Benedetti del 1994, non vennero svolti sopralluoghi all’interno delle autovetture coinvolte nella sparatoria per individuare gli impatti dei colpi esplosi. Non vennero nemmeno effettuati studi sui tracciati balistici. Questa circostanza – scrive Boffi – ha portato a individuare come «punti fissi» unicamente le traiettorie di ingresso rilevate sui corpi posti sul tavolo autoptico e per altro verso a rincorrere la posizione di singoli bossoli e ogive su una scena profondamente inquinata, sia dai movimenti effettuati dai brigatisti durante l’azione e dai mezzi impiegati, che dalle vetture delle forze di polizia che intervennero, i primi soccorritori, i numerosi inquirenti, giornalisti e curiosi che occuparono la scena calpestando reperti, spostandoli inavvertitamente, come le molte foto e immagini d’epoca dimostrano. 

Un approccio che ha impedito di contestualizzare le traiettorie balistiche sulla scena dell’agguato. Escusso nel marzo del 2015 dalla Polizia di prevenzione per conto della commissione Moro 2, l’autore della seconda perizia balistica, il perito Pietro Benedetti, ha confermato «di non aver mai effettuato attività di ricostruzione delle traiettorie balistiche né di aver mai esaminato le autovetture» (Cm2 0066_011). Ciò spiega perché dopo aver rilevato in autopsia che i colpi che uccisero il maresciallo Leonardi avevano attinto la parte destra del corpo, in sede processuale si elaborò una prima ricostruzione che individuava la presenza di uno sparatore da destra. Inizialmente si ipotizzò il ruolo di un brigatista uscito dallo sportello destro della Fiat 128 bianca con targa diplomatica che – si ricostruì erroneamente – anziché precedere aveva bloccato con una improvvisa marcia indietro il convoglio presidenziale allo stop con via Stresa. La mancata identificazione nel corso delle indagini successive di questo soggetto inesistente ha alimentato nel tempo le più diverse dietrologie sulla sua presunta identità e anche sulla sua esatta posizione. Come vedremo più avanti c’è chi lo voleva appostato dietro la Mini clubman parcheggiata sulla destra dell’incrocio, incurante dei tiri provenienti dal lato sinistro.

I nuovi accertamenti su Leonardi e Zizzi

Ricostruzione delle traiettorie dei colpi che hanno raggiunto il maresciallo Leonardi. Diapositive allegate alla nuova perizia balistica presentata nel 2015 alla nuova commissione Moro

I sopralluoghi effettuati nel 2015, su incarico della commissione parlamentare Fioroni, individuando numerosi impatti di arma da fuoco sul lato interno destro del veicolo che trasportava Moro e la contemporanea assenza di impatti sul lato opposto (verifica che non è stato possibile effettuare all’interno dell’Alfetta di scorta, conservata in pessime condizioni, perché gli interni furono divelti nel 1978 alla ricerca di bossoli e proiettili), hanno fornito prove in favore dell’attacco portato dal lato sinistro della via.

Ricollocando i corpi all’interno delle autovetture, grazie all’analisi tridimensionale fornita dalla moderna strumentazione forense, e studiando le traiettorie accertate dei colpi che hanno penetrato la carrozzeria del convoglio di Moro (trascurando le traiettorie disperse), i funzionari della scientifica hanno potuto ricostruire la dinamica effettiva dell’azione. Si è così potuto dimostrare come i tiri da sinistra, anche quelli con direzione più obliqua, erano compatibili con gli impatti sulle parti interne del mezzo e i fori di entrata sul corpo del maresciallo Leonardi, centrato mentre girandosi in protezione di Moro offriva il fianco destro allo sparatore.
Analogo discorso andava fatto – sempre secondo Boffi – per i tre colpi che attinsero il vicebrigadiere Zizzi alle spalle, con traiettoria basso-alto. Per alcune ricostruzioni dietrologiche questa circostanza avrebbe provato l’esistenza di un «super killer», situato a destra, nascosto dietro la Mini clubman. Il misterioso personaggio avrebbe neutralizzato il poliziotto che, una volta uscito dal’Alfetta per rispondere al fuoco dei brigatisti, avrebbe offerto le spalle al tiratore mai individuato. Allo stesso modo, il misterioso individuo avrebbe centrato anche l’agente Iozzino, che effettivamente riuscì a portarsi fuori dal mezzo e sparare due colpi in direzione di uno dei quattro brigatisti in abiti dell’aviazione civile.

I nuovi accertamenti hanno smentito queste ipotesi prive di conferme scientifiche: le traiettorie di tiro contro l’Alfetta mostrano come il grosso dei colpi siano stati portati da sinistra e da dietro in linea leggermente obliqua, in particolare dal quarto componente del comando (lo sparatore meno efficace e più disordinato) che si trovava più in alto. Considerando l’andamento in discesa della via, l’altezza dell’autovettura e la posizione del brigatista che ha sparato, i funzionari della scientifica hanno calcolato un dislivello di almeno 50 cm che spiegherebbe la particolare traiettoria dei colpi che hanno investito Zizzi dalla parte posteriore del mezzo. Il basso-alto identificato sul tavolo autoptico si trasforma così in alto-basso una volta ricollocato il corpo di Zizzi nella macchina mentre, sentiti gli spari, per proteggersi questi si abbassa in avanti accucciandosi sulle gambe.

Ricostruzione della dinamica dell’azione riportata nella nuova perizia del 2015

A confermare l’andamento dei colpi da sinistra-destra sopraggiungono anche i numerosi impatti presenti sui finestrini del lato sinistro della Mini clubman, parcheggiata sulla destra della Fiat 130, circostanza che dimostra come un eventuale tiratore collocato in quella posizione sarebbe stato crivellato dai colpi provenienti dal versante opposto. La controprova di questa ricostruzione sta nel fatto che eventuali colpi tirati dal lato destro avrebbero attinto, stando alle possibili traiettorie, i brigatisti posizionati a sinistra. Ad essi si aggiungono le tracce di impatto sul muretto destro e sulle pareti e all’interno degli immobili collocati sulla destra di via Fani. Mentre sono assenti impatti sul versante sinistro e sulla parte bassa della via, dove sarebbe stato presente l’ingegnere Alessandro Marini, testimone iniziale e ritenuto più importante nel corso dei processi, dimostratosi poi mendace (leggi qui), e da cui originarono le prime ricostruzioni dietrologiche.

Attacco dinamico e seconda fase?

Altra novità, proposta nel libro di Boffi, e ripresa dalla nuova perizia del 2015, è la tesi dell’attacco portato quando le vetture erano ancora in movimento, in fase di rallentamento sarebbe più corretto dire. Secondo l’autore questa ricostruzione si attaglia meglio con alcune traiettorie di tiro iniziale, in particolare il colpo singolo sul parabrezza della Fiat 130. Se l’ipotesi della vettura in rallentamento non trova smentite per l’Alfetta, lo spostamento sarebbe stato di pochi metri, non 10-15 come esageratamente scrive Guido Salvini – ostile alla nuova perizia (leggi qui) – nella relazione stilata per la commissione antimafia (XIII, n. 37, sez VII, settembre 2022), al contrario alcune testimonianze dei brigatisti che presero parte all’azione non confermano questa dinamica per la Fiat 130. Da questa, infatti, sarebbero partiti ripetuti colpi di clacson nei confronti dell’autista della Fiat 128 giardinetta che aveva bloccato il convoglio all’incrocio, traendo in inganno l’autista di Moro.

Nella nuova perizia è presente anche un errore di posizione della Fiat 128 bianca che ostruiva la parte superiore di via Fani. Nelle immagini viene rappresentata con l’avantreno rivolto verso la parte alta della strada, mentre nella realtà era posizionata con l’avantreno in discesa. Parcheggiata la sera prima sul lato destro, da quella posizione si erano mossi i due irregolari della colonna romana che vi prendevano posto, spostandosi di traverso sulla via. Circostanza che spiega come l’autista del mezzo, Alessio Casimirri, spesso chiamato in causa come possibile quinto sparatore, avrebbe poco agevolmente dovuto abbandonare il suo posto di guida e aggirare la Fiat 128 per mettersi in posizione di tiro e non restare scoperto alle spalle. In realtà lo sportello dell’autista era sul lato superiore della via, mentre l’altro irregolare, proteggendosi dietro la vettura sul lato basso della strada, voltava le spalle alla scena dell’azione intento a controllare possibili insidie provenienti dalla parte alta di via Fani. 


Punto fermo della nuova ricostruzione è anche l’esistenza di una «seconda fase» dell’attacco brigatista, intervenuta dopo aver bloccato la scorta e neutralizzato i suoi componenti. Le traiettorie di ingresso di alcuni colpi portati contro l’agente Iozzino e l’autista dell’Alfetta Rivera, colpito anche alla spalla destra dopo essere stato centrato sulla sua sinistra, e la presenza di alcuni bossoli su quel lato, dimostrano che il quarto brigatista in alto a sinistra si era portato verso destra aggirando l’Alfetta e sparando anche con la sua arma personale, una Beretta 51. Per i brigatisti la seconda fase dell’azione riguardava soltanto il prelievo dell’ostaggio e l’abbandono del luogo della sparatoria, tuttavia vi è sicuramente stato un momento di transizione in cui, mentre due bierre in basso facevano salire Moro sulla Fiat 132 e un altro prelevava le borse dalla sua macchina, gli altri due in alto si portavano sulla destra per accertare che dalla vettura di scorta non potessero arrivare sorprese

L’inesistente quinto uomo

«Accertare che non potessero reagire e passare alla seconda fase è tutt’uno», scrive Prospero Gallinari nel suo libro autobiografico (Un contadino nella metropoli, edizione Bompiani, p. 184). Ciò potrebbe spiegare anche la presenza su quel versante di tre degli otto bossoli Smith & Wesson esplosi dalla sua pistola personale e che tanto hanno fatto discutere, per questo segnalati anche nella già citata relazione (improbabile) di Salvini. L’arma, sequestrata a Gallinari al momento della sua cattura (24 settembre 1979), risultò impiegata non solo in via Fani (8 colpi) ma anche il 21 dicembre successivo (4 colpi), durante l’attacco portato dalle Brigate rosse a una volante sotto l’abitazione del presidente dei deputati Dc, Giovanni Galloni, e nell’assalto alla sede regionale della Dc del Lazio, in piazza Nicosia, il 3 maggio 1979 (6 colpi).

Il sangue degli uomini della scorta di Moro scambiato con quello di un brigatista immaginario, l’incredibile boutade dello storico Davide Conti

Nel corso di cinque processi (ben 15 corti di giustizia) sono state condannate per il sequestro Moro trentuno persone, cinquanta furono quelle inquisite durante le istruttorie, anche se i responsabili effettivi della vicenda furono solo sedici. Eppure dopo quarantasette anni c’è chi scambia ancora il sangue degli uomini della scorta di Moro con quello di un brigatista immaginario. La coscienza di questo Paese è davvero malata se pur di non interrogarsi su quel che avvenne in quel decennio, soprattutto a sinistra, si rincorrono fantasmi, si intossica la memoria, si inquina la storia.

Marco Clementi e Paolo Persichetti

Davvero la mattina del 16 marzo 1978 a dare l’assalto alla scorta che trasportava il presidente del consiglio nazionale della Democrazia cristiana Aldo Moro c’era un undicesimo brigatista dall’identità tuttora ignota, rimasto ferito nello scontro a fuoco, e non i dieci accertati storicamente (le ricostruzioni giudiziarie si fermano a nove)? 
A sostenerlo, sulle pagine del quotidiano Domani del 23 e 24 agosto scorso, in un lungo articolo in due puntate dal titolo «Non fu geometrica potenza, il brigatista ferito in via Fani», è lo storico Davide Conti, per anni ricercatore presso la fondazione Basso, autore di lavori sulla Resistenza, soprattutto romana, e di varie pubblicazioni sul fascismo e neo fascismo, nonché consulente delle procura di Brescia e Bologna nelle indagini sulle stragi, e dell’Archivio storico del Senato della Repubblica.

Se c’è sangue allora c’era un brigatista ferito e mai identificato
La tesi di Conti, che va ad aggiungersi – ultima in data – all’interminabile saga dietrologica sui misteri del rapimento Moro, prende spunto dal fatto che all’interno delle tre vetture utilizzate dal comando brigatista per allontanarsi dal luogo dell’agguato e portare via Aldo Moro, abbandonate pochi minuti dopo a circa 2 km di distanza, in via Licinio Calvo, furono trovate delle tracce di sangue la cui origine, secondo Conti, non sarebbe mai stata identificata a causa di una grave negligenza nelle indagini. Almeno una di queste tracce, se non anche altre, sostiene sempre Conti, sarebbe riconducibile al brigatista ferito. Circostanza che smentirebbe le affermazioni di Adriana Faranda, contenute nel «Memoriale Morucci-Faranda» del 1984, e di Anna Laura Braghetti presenti nel suo libro scritto con Paola Tavella, Il prigioniero, Mondadori 1998, le quali affermano che tutti i militanti delle Brigate rosse che presero parte all’azione rimasero illesi.

Aggiungi un posto in macchina…
Che si tratti di un brigatista ignoto, Conti lo desume dal fatto che una di queste tracce fu rinvenuta sul montante, il battente e la parte esterna della portiera destra della Fiat 128 bianca che fece da barriera, il «cancelletto superiore», bloccando il traffico in modo da isolare la zona dell’assalto. Su questo mezzo avevano preso posto Alessio Casimirri, come autista, e Alvaro Loiacono con funzioni di copertura verso la parte alta di via Fani. Al momento della fuga su questo mezzo, che aveva il compito di chiudere il convoglio, salì accanto al guidatore anche Prospero Gallinari, uno dei quattro assalitori travestiti con abiti dell’aviazione civile che attaccarono direttamente la sconta di Moro.

Secondo Conti, sulla Fiat 128 prese posto anche un undicesimo brigatista, quello rimasto ferito e sue sarebbero le tracce di sangue rinvenute sulla portiera. Il ragionamento di Conti è semplice: se Gallinari rimase illeso – come sostenuto da Braghetti – allora il sangue presente non poteva che essere di un undicesimo componente del commando. Conti sposta arbitrariamente Gallinari nei sedili posteriori per lasciare posto al brigatista immaginario, nonostante sia noto che dietro aveva preso posto Loiacono, che dal lunotto posteriore proteggeva le spalle al convoglio. Ne abbiamo già scritto nel volume Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, apparso per Deriveapprodi nel 2017 e recentemente ristampato dall’editore con una nuova copertina.

L’uomo in più del commando, un mantra della dietrologia
L’uomo in più è uno dei leit motiv preferiti della narrazione dietrologica, anche se a mutare ogni volta è la sua posizione e identità geopolitica: c’è chi – da Sergio Flamigni in poi – lo colloca a destra nei panni del superkiller professionista; chi lo piazza (vedi Guido Salvini nella relazione stesa per la commissione antimafia) in alto sul lato sinistro, quinto sparatore in abiti civili che poi fugge salendo via Fani verso via Trionfale; chi ritiene fosse un tiratore scelto che ha sparato con un fucile di precisione da uno dei palazzi prospicienti; chi lo colloca, invece, come supervisore dell’azione su uno dei marciapiedi di via Stresa (variante Flamigni). Poi non manca chi raddoppia, come i fan dei due motociclisti sulla moto Honda e infine chi sottrae, come i sostenitori della tesi che Moro non fosse presente in via Fani e la sparatoria sia stata solo una messa in scena per coprire un rapimento avvenuto altrove; la nota giornalista Rita di Giovacchino ha sostenuto addirittura che fosse stato portato via in elicottero.
La sublime menzogna della narrazione dietrologica poggia su un semplice meccanismo di addizione, che rende l’angusto incrocio tra via Fani e via Stresa uno dei luoghi più affollati di Roma. Ogni nuova tesi, che secondo logica dovrebbe necessariamente escludere la precedente (se c’era lo sparatore da destra non poteva essercene uno in più a sinistra o il tiratore scelto, eccetera), in realtà si aggiunge senza che l’autore senta la necessità di smentire la versione rivale, sfidando senza remore ogni illogicità e incongruenza. Le innumerevoli tesi dietrologiche, concorrenziali e contrapposte (basti pensare alla contraddizione che oppone chi accusa la Nato, il Mossad, Gelli e company a chi punta il dito contro la Stasi, il Kgb, i cecoslovacchi o i palestinesi), si ignorano reciprocamente con un unico reale obiettivo, ossia fare fronte comune per screditare il racconto di chi in via Fani c’era davvero: i brigatisti, o il lavoro, certo confuso, lacunoso e impreciso, della magistratura che pure alla fine, dopo cinque processi (una sesta istruttoria è arenata in un nulla di fatto mentre uno dei due filoni è in attesa di archiviazione) è pervenuta ad identificare la sola responsabilità delle Brigate rosse, o ancora il lavoro, anche questo con i suoi limiti ovviamente, di una storiografia a nostro giudizio più seria e rigorosa.

C’era del sangue ma era della scorta di Moro, l’errore macroscopico commesso da Davide Conti

Il rapporto della dottoressa Laura Tintisona, funzionaria di polizia distaccata presso la commissione Moro 2, depositato il 14 dicembre 2014 (Cf. CM2 0470_001).

Dopo la richiesta del pm Luciano Infelisi, che dispose il 22 marzo 1978 una perizia sulle tracce di sangue e le impronte raccolte dalla polizia scientifica sulle vetture utilizzate dai brigatisti per individuarne l’appartenenza, secondo Conti, che cita una risposta della Digos del 26 settembre 1978 a un quesito posto dall’ufficio istruzione il 28 agosto precedente, le indagini scientifiche si sarebbero arenate. In realtà la perizia, assegnata ai professori Franco Marraccino e Giorgio Gualdi, venne consegnata il 14 novembre successivo al consigliere istruttore Achille Gallucci. Le conclusioni furono eloquenti: le tracce ematiche appartenevano a quattro dei cinque uomini della scorta di Moro. Il sangue rinvenuto sulla tappezzeria del tetto e sul sedile posteriore della Fiat 128 blu, targata Roma L55850, alla cui guida era salito Valerio Morucci che si era introdotto dopo la sparatoria nella Fiat 130 di Moro per raccogliere alcune borse, risultò compatibile con quello dell’appuntato Domenico Ricci, autista del mezzo sulla quale viaggiava Moro. Altre tracce ematiche rilevate sulla portiera anteriore sinistra della Fiat 128 blu e in provette contenenti sostanze prelevate dalla Fiat 128 bianca, targata Roma M53955, nella quale era salito Prospero Gallinari, e dalla Fiat 132 GLS 1600, targata Roma P79650, guidata da Bruno Seghetti e dove salirono Aldo Moro, Mario Moretti e Raffaele Fiore, sono risultate del gruppo “A”, compatibile con tutti i militari uccisi a eccezione di Rivera. A chiarire definitivamente la vicenda è un rapporto della dottoressa Laura Tintisona, funzionaria di polizia distaccata presso la commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, depositato il 14 dicembre 2014 (Cf. CM2 0470_001). La data è significativa poiché il consulente della Commissione Moro 2, Gianfranco Donadio, citato da Conti, divenne consulente solo nel febbraio successivo, tralasciando quanto prodotto in precedenza dalla Commissione stessa.


De relato del pentito o fonti scientifiche?
Sorprende che Davide Conti abbia elaborato la sua tesi ignorando la presenza di documenti essenziali come le perizie scientifiche, rincorrendo invece i de relato del pentito Patrizio Peci, esponente di una diversa colonna, quella torinese, totalmente ignaro della realtà romana e che sul sequestro Moro ha sempre fornito informazioni errate, come il coinvolgimento di Azzolini in via Fani. Dalle perizie balistiche, ultima quella realizzata dalla polizia scientifica per conto della Commissione Moro 2 con le più moderne tecniche forensi, avrebbe saputo – invece di rincorrere le ipotesi giornalistiche di Miriam Mafai – che i colpi sparati dall’agente Iozzino non andarono a segno. Non solo, nelle nuove indagini riaperte dalla procura di Torino sulla sparatoria alla cascina Spiotta del giugno 1975, è emersa una intercettazione che seppur illegale sul piano giudiziario dal punto di vista storico è rilevante, poiché Azzolini racconta i tormenti di Bonisoli dopo la sparatoria in via Fani nella quale rischiò di essere colpito da Iozzino e per reazione sparò numerosi colpi crivellandolo (Cf. L’Unità del 2 aprile 2025 e https://insorgenze.net/2025/03/28/via-fani-azzolini-parlava-di-morucci-non-di-moroni-e-secca-la-smentita-dellaltro-ex-br-intercettato-dalla-procura-di-torino/).

Il nuovo Protocollo dei savi di Sion scritto dal bugiardo di Stato, Sergio Flamigni

Una leggerezza che tuttavia non l’ha indotto a maggiore prudenza, ma al contrario l’ha spinto a ulteriori conclusioni: come l’aver sposato la leggenda della verità concordata tra brigatisti e potere, pari per falsità solo ai Protocolli dei savi di Sion. Accordo, narra la vulgata, che avrebbe trovato soluzione nel “Memoriale Morucci”: «Redatto in carcere – scrive ancora Conti – a partire dal luglio 1984 nel quadro di una fitta e costante interlocuzione con uomini dei servizi di sicurezza, figure politiche e religiose e direttori di giornali». In realtà il “memoriale” venne solo assemblato in quel periodo, poiché costituito fondamentalmente dai verbali degli interrogatori resi davanti la magistratura nelle fasi istruttorie e processuali precedenti e nei quali Morucci aggiunse i nomi ai i numeri con i quali in precedenza aveva indicato i componenti del commando che agirono in via Fani (circostanza che permise l’arresto e la condanna di Alvaro Loiacono), allegando al testo la ricostruzione fatta in sede processuale anche da altri protagonisti, come Franco Bonisoli, Alberto Franceschini (all’epoca ancora non dietrologo) e altri brigatisti dissociati.
Del lavorìo preparatorio che condusse al “Memoriale” erano al corrente Francesco Cossiga, futuro presidente della Repubblica e ministro dell’Interno al momento del rapimento Moro, e Ugo Pecchioli, esponente di rilievo del Pci. Lo si apprende dal promemoria fatto pervenire nel luglio del 1985 dallo stesso Cossiga, poco dopo essere stato eletto Presidente della Repubblica, a Ferdinando Imposimato, allora giudice istruttore dell’inchiesta sul sequestro Moro, e al ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro. (Acs, Migs busta 20 e Cf. La polizia della storia, Deriveapprodi 2022).
E’ noto che a partire dal 1993 con Mario Moretti, e poi a seguire tutti gli altri fino a Gallinari, ultimo nel 2008, i brigatisti che presero parte al rapimento Moro hanno avuto modo di raccontare in libri o testimonianze processuali il ruolo avuto nella vicenda. Cristallizzare la storia del sequestro Moro unicamente nel racconto fatto da Morucci e Faranda è dunque inesatto dal punto di vista del metodo e delle fonti storiche che, nella realtà, si mostrano molto più ricche.

Raffaele Fiore e la Fiat 132

Conti affronta anche il ritrovamento a distanza di tempo delle tre macchine impiegate nel sequestro, sottovalutando che le forze di polizia, andate in tilt nelle prime ore che seguirono l’assalto in via Fani, le rinvennero a distanza di tempo commettendo errori su errori. Si accorsero solo dopo molte ore che la Fiat 128 bianca ritrovata in via del Forte Braschi, zona Pineta Sacchetti (Ansa delle 19.03 del 16 marzo), non era quella dei brigatisti. Solo allora ripresero le ricerche tornando in via Licinio Calvo. Per confermare la sua interpretazione richiama un servizio del tg1 che avrebbe dimostrato l’assenza della Fiat 128 blu, in via Licinio Calvo, al momento del rinvenimento della Fiat 128 bianca. Tutto ciò per sostenere la tesi del garage limitrofo (via dei Massimi), dove sarebbero state provvisoriamente parcheggiate le auto (insieme a Moro, nascosto in una prigione momentanea) per essere posizionate successivamente, una alla volta, in via Licinio Calvo. Versione ribadita in una puntata di Report alla quale lo stesso Conti aveva partecipato.
L’autore sembra ignorare le conclusioni dell’indagine realizzata nel settembre del 2015 dal Servizio centrale antiterrorismo per conto della commissione Moro 2. L’accertamento ha definitivamente smentito questa narrazione tossica. Il punto di ripresa dell’operatore tv, che ha girato le immagini il 19 marzo ma diffuse dal servizio del tg1 il 20 marzo 1978, non aveva alcuna visibilità sul tratto di via dove le due Fiat 128, la bianca e la blu, erano state lasciate dai brigatisti il 16 marzo precedente. Quelle immagini non hanno mai provato nulla (Cf. Cm2 0329_009). Recentemente una inchiesta pubblicata dal sito Sedicidimarzo sulle foto riprese dalla polizia scientifica al momento del ritrovamento della Fiat 128 bianca (Cf. https://www.sedicidimarzo.org/2024/01/peccato-che-sia-cosi-buia-o-della.html) ha mostrato come sul posto fosse già presente la Fiat 128 blu, autovettura sulla quale erano poggiati distrattamente alcuni agenti di polizia.
Infine Conti contesta anche che sia stato Fiore a condurre la Fiat 132 in via Licinio Calvo, poiché questi non riferisce la circostanza nella testimonianza rilasciata ad Aldo Grandi, nel volume L’ultimo brigatista, Bur 2007. Un vuoto che porta Conti a concludere che alla guida ci sia stato l’ennesimo ulteriore brigatista (o chi per lui), rimasto ignoto (a rigor di logica sarebbe il dodicesimo). Ma non riferire non vuol dire negare. Non c’è spazio qui per affrontare una delle problematiche tipiche sollevate dalla storia orale quando raccoglie testimonianze a tre decenni dai fatti. Va però considerato che Fiore non era romano e scese nella Capitale solo per l’azione Moro. Appare comprensibile che la sua memoria abbia fatto dei salti, semplificando dei passaggi, soprattutto se l’intervistatore non l’ha incalzato correttamente con domande pertinenti, fermandolo, chiedendogli di precisare o ricordare. Noi abbiamo chiesto Fiore perché la Fiat 132 era stata parcheggiata in modo diverso dalle due Fiat 128. Pur avendo studiato a lungo la topografia della zona, volevamo da lui un ulteriore chiarimento perché un rapporto della Digos firmato dall’ispettore Mario Fabbri, riferiva il rinvenimento del mezzo, per altro in un orario, le 10,00, contraddetto da un altra fonte dei carabinieri, che indicava le 9,47, e dal brogliaccio della centrale operativa che anticipava la prima segnalazione, da parte di una autocivetta denominata Squalo 4, alle 9,23. Secondo il rapporto, il mezzo era parcheggiato sulla parte alta di via Licinio Calvo, a pochi metri dall’incrocio con via Lucilio con l’avantreno rivolto verso via Festo Avieno. Nel rapporto non ci sono immagini allegate. Ad oggi, nonostante le migliaia di documenti consultati, non siamo mai incappati nelle foto del ritrovamento della Fiat 132. Si tratta sicuramente di una anomalia che speriamo venga colmata nel tempo o comunque trovi una risposta soddisfacente.
In effetti il mezzo, come ci ha confermato Fiore, aveva realizzato un percorso diverso dalle Fiat 128. In Brigate rosse (op. cit.) avevamo già segnalato la cosa, sottolinenando come la Fiat 132, ritardata dal trasbordo di Moro nel furgoncino Fiat 850 in piazza Madonna del Cenacolo, fosse partita quando le due Fiat 128 erano già andate via. Fiore ci rispose che nella concitazione saltò la svolta in via Licinio Calvo e fu costretto a proseguire via Festo Avieno fino in fondo, per girare a destra verso piazza Ennio e ridiscendere via Lucilio. Da qui il parcheggio poco accurato all’inizio di via Licinio Calvo che facilitò l’immediato ritrovamento del mezzo, la cui targa era stata già segnalata poco dopo la sparatoria in via Fani da diversi testimoni.

La caccia ai fantasmi
Nel corso di cinque processi (ben 15 corti di giustizia) sono state condannate per il sequestro Moro trentuno persone, cinquanta furono quelle inquisite durante le istruttorie, anche se i responsabili effettivi della vicenda furono solo sedici. Eppure dopo quarantasette anni c’è chi scambia ancora il sangue degli uomini della scorta di Moro con quello di un brigatista immaginario. La coscienza di questo Paese è davvero malata se pur di non interrogarsi su quel che avvenne in quel decennio, soprattutto a sinistra, si rincorrono fantasmi, si intossica la memoria, si inquina la storia (Cf. https://insorgenze.net/2025/06/26/pino-narducci-rapimento-moro-le-sentenze-giudiziarie-al-vaglio-della-storia-parte-prima/) e (Cf. https://insorgenze.net/2025/06/26/pino-narducci-rapimento-moro-le-sentenze-giudiziarie-al-vaglio-della-storia-parte-seconda/).
Sarebbe auspicabile che in futuro gli studiosi cercassero con maggiore cura prove e riscontri alle proprie legittime ipotesi, confrontandosi anche con quanto già scritto ma, soprattutto, con la documentazione esistente, vasta, importante e imponente, da tempo disponibile per chiunque voglia approfondire quella vicenda. E che nel caso si vogliano correggere conclusioni ritenute infondate, lo si facesse senza rilanciare circostanze già da tempo dimostrate fallaci.

Le leggenda degli italiani brava gente

Libri 1/Italiani brava gente – Davide Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943), Odradek 2008, p. 275, euro 18

L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943), Intervista a Davide Conti

di Paolo Persichetti
Liberazione
5 settembre 2008

Nel Sergente della neve Mario Rigoni Stern descrive la disastrosa ritirata dell’Armir dell’inverno 1942-43 come una tragica epopea umana dove non c’è odio ma rispetto per i nemici, dove i soldati italiani fraternizzano con i contadini delle pianure del Don. Nel racconto traspare la consapevolezza per la condizione comune vissuta dagli uomini contro che bivaccavano nelle trincee scavate sulle linee opposte del fronte. Pubblicato nel 1953, il racconto di Rigoni Stern è divenuto una sorta di libro di testo per generazioni di scolari, una pedagogia pacificata piuttosto che pacifista della nostra memoria. Le avventure coloniali e le guerre d’aggressione del regio esercito e delle milizie fasciste scolorano fino a cancellarisi in una narrazione addolcita, nostalgica, senza rivalse e rancori ma anche senza gli orrori della guerra di conquista, gli eccidi, gli sterminii dei civili, la pulizia etnica, le politiche di snazionalizzazione delle popolazioni autoctone condotte da Mussolini in Africa, nei Balcani e in Russia. Il conflitto bellico sembra seguire le regole non scritte d’un galateo cavalleresco d’altri tempi. Il «generale inverno», la fame, i topi e le «cordate di pidocchi» che risalgono il collo dei nostri alpini appaiono i soli veri nemici da combattere. Questo libro ci ha aiutato a odiare la guerra sui banchi di scuola, a capirne tutta la sua insensatezza, ma ha anche riassunto e divulgato il mito del “bravo italiano”, del nostro «colonialismo straccione» e quindi dal volto umano, privo di ferocia, esente da crimini bestiali. Un’epica degli ultimi che troviamo anche in Italiani brava gente, film di Giuseppe De Santis uscito nel 1964. L’internazionalismo, la divisione per classi e non per nazionalità, l’antieroismo, la solidarietà tra russi e italiani poveri, la critica feroce degli stati maggiori fino a rappresentare i soldati italiani come vittime inconsapevoli delle loro gerarchie, nutrono un racconto didascalico che nel tentativo di educare al rifiuto della guerra, all’antimilitarismo e ai valori della fratellanza tra i popoli, getta un velo ideologico sulla condotta reale delle nostre truppe. È singolare che la cultura di sinistra, sia pur giustificata da intenti lodevoli, abbia contribuito con la sua narrazione nazionalpopolare alla rimozione delle responsabilità italiane nella seconda guerra mondiale, facilitando quel rovesciamento di paradigma storiografico che l’attuale egemonia culturale della destra erede del fascismo sta portando a termine con successo. Affrontiamo la questione con Davide Conti, giovane storico ricercatore della Fondazione Basso, che ha recentemente pubblicato per le edizioni Odradek (prima edizione già esaurita), L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943), 2008, p. 275, euro 18.

Nei Balcani le truppe italiane hanno lasciato alle loro spalle una scia orribile di massacri. «Qui si ammazza troppo poco», disse una volta il generale Mario Robotti. Com’è possibile che i palikuca, i «bruciatetti», così le popolazioni civili chiamavano gli italiani, siano diventati nel dopoguerra «brava gente»?
In realtà l’immagine autoassolutoria del “bravo italiano” è rimasta una rappresentazione nazionale ben poco condivisa all’estero. Al termine del secondo conflitto mondiale tutti i paesi occupati dal regime fascista, Jugoslavia, Grecia, Albania, Urss, Francia ed Etiopia, chiesero alla commissione internazionale per i crimini di guerra l’estradizione dei militari italiani accusati di violenze. Gli Usa e l’Inghilterra condannarono a morte alcuni militari del regio esercito responsabili di crimini contro i prigionieri alleati. La legenda degli italiani “brava gente” emerse solo in un secondo tempo, nel quadro dei nuovi equilibri provocati dalla Guerra Fredda. Quest’immagine, sostenuta poi dagli stessi Alleati, fu utilizzata per legittimare il rapido riarmo dell’Italia e la sua integrazione nell’Alleanza Atlantica.

Non credi che insieme ad una rimozione dei crimini dei militari ascrivibile alla cultura della destra, vi sia stata anche una involontaria omissione da parte della sinistra?
Tra il 1944 ed il 1945 tutti i partiti della sinistra sostennero la necessità di estradare i responsabili italiani delle violenze nei paesi occupati. Successivamente il coinvolgimento nei governi di unità nazionale e la presenza di socialisti e comunisti all’interno della Commissione d’inchiesta sui crimini di guerra rese problematico mantenere una linea intransigente. Il biennio 46-47 fu un momento decisivo. La sconfitta delle posizioni più avanzate in termini di rinnovamento dello Stato e l’arresto delle epurazioni ebbe ripercussioni anche sull’apertura dei processi per crimini di guerra. Dopo l’esclusione dal governo e la sconfitta elettorale del 1948, la questione assunse un peso prevalentemente polemico-propagandistico fino a dissolversi nella “normalizzazione” post-bellica.

Il fatto che il nostro paese abbia subito una dura occupazione militare e una feroce guerra civile non ha forse contribuito alla rimozione delle spedizioni coloniali e dei loro crimini. Il dolore di casa nostra non ha forse oscurato quello altrui?
Di fronte alla commissione che venne istituita dal ministero della Guerra, un alto esponente del regio esercito utilizzò a sua discolpa proprio quest’argomento per attenuare le responsabilità italiane nei bombardamenti dei villaggi jugoslavi. Disse che le distruzioni di abitati civili non erano diverse dai bombardamenti subiti dalle città italiane. In sostanza sosteneva che in guerra i crimini contro le popolazioni civili trovavano un senso e una giustificazione nell’eccezionalità della situazione storica.

Quale è l’odierno utilizzo del mito del bravo italiano?
Fatte salve le ovvie differenze con le forze armate attuali, credo che il perdurare del mito risieda nell’assoluta attualità e funzionalità che la rappresentazione dell’italiano brava gente assume oggi nelle cosiddette “missioni di pace” dei nostri militari. Domandiamoci quanto abbia inciso nel consenso dell’opinione pubblica, soprattutto quella di sinistra più sensibile ai temi della pace, la retorica del “bravo italiano”, della “Missione Arcobaleno” durante la guerra in Kosovo, dell’intervento “umanitario e di ricostruzione” in Afghanistan, per poi finire con l’Iraq? In queste operazioni militari tutti i governi hanno utilizzato a piene mani l’immagine del soldato italiano elemento di “pace” e “normalizzazione” delle aree di crisi internazionale, marginalizzando il ruolo militare e di combattimento delle nostre truppe anche in contesti di aperta violazione del diritto internazionale.

Non ritieni che il discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica Napolitano nel febbraio 2007, in occasione della “Giorno del ricordo”, appartenga a quel modello di narrazione storica costruita attorno al paradigma del vittimismo memoriale?
Il discorso di Napolitano si colloca all’interno di un vero e proprio “corto circuito della memoria”. Ne parlo nell’ultimo capitolo del libro. Sulle foibe Napolitano parlò di “pulizia etnica” contro gli italiani. Gli rispose il presidente croato Mesic ricordando la ferocia e gli eccidi dell’occupante fascista. Replicò infine D’Alema sostenendo che anche partigiani italiani avevano combattuto valorosamente insieme alle brigate jugoslave contro i fascisti, riscattando in questo modo l’Italia. Ora delle due l’una: o gli italiani che affiancavano gli jugoslavi erano interni al progetto di pulizia etnica anti-italiana……oppure la pulizia etnica non c’entra nulla e le ragioni storiche che spiegano la complessa e drammatica vicenda delle foibe sono da rintracciarsi in altri elementi. Quando lo storico Raul Pupo intervenne sulla rivista dell’Anpi di Roma, Persona e Società, del giugno 2006, spiegò che i fattori alla base delle uccisioni del 1943 e poi del 1945 dovevano essere ricercati non tanto nella relazione causa-effetto, innescata dall’occupazione italiana e successiva reazione jugoslava, quanto nelle particolari dinamiche della storia della Jugoslavia del tempo. Questo cambio di prospettiva analitica, che pone al centro la storia jugoslava e non la sola lettura italiana, potrebbe consentire una comprensione reale degli eventi.

Quali sono le novità documentali presenti nel tuo libro rispetto alle ricerche precedenti?
I documenti sono in larga parte inediti e certificano, attraverso resoconti dettagliati delle operazioni militari, che le truppe del regio esercito commisero stragi, rappresaglie, internamenti, deportazioni e distruzioni in danno di civili, partigiani e militari di altri paesi. Inoltre si palesa l’intento programmatico del governo fascista e delle alte gerarchie militari di realizzare politiche di “snazionalizzazione” dei territori occupati e di terrore programmato per il controllo dell’ordine pubblico. Si riportano lunghi elenchi di presunti criminali di guerra italiani di cui i paesi occupati chiedono l’estradizione (circa 1200). Si menzionano luoghi, tempi e modalità in cui vennero svolte operazioni militari contro le popolazioni locali e si individua la catena di comando. Il fatto che tali documentazioni provengano da fonti militari e ministeriali e da relazioni dirette di soldati italiani e non siano solo accuse di provenienza jugoslava rafforza l’elemento di verità storica e a mio avviso lo pone come fattore non marginale di impegno pubblico rispetto ai conti con la nostra storia nazionale.

Perché il ministero della Difesa rende ancora inaccessibili quei documenti che possono fare luce sui comportamenti delle forze armate nelle imprese coloniali italiane?
L’allargamento del dibattito e una maggiore sollecitazione dell’opinione pubblica potrebbe rappresentare un grimaldello efficace per ottenere finalmente l’accesso alle fonti militari. Nel febbraio 1996, al termine di una lunga disputa tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli sull’uso dei gas in Africa, il ministro della Difesa dell’allora governo Dini, il generale Domenico Corcione, intervenne in Parlamento per confermare ciò che sosteneva Del Boca, sancendo una verità storica fino ad allora negata.

Nelle polemiche rivolte alla vicenda delle foibe o del “triangolo rosso” emiliano non vi è il tentativo di confondere quella che è stata la «guerra civile» con la «guerra sistematica ai civili» condotta dai nazifascisti dentro e fuori il territorio italiano?
Confondere la guerra civile con la “guerra ai civili” significa dare adito alle forme peggiori di revisionismo. Uniformando sotto il criterio di una indefinita “violenza” elementi completamente diversi per natura, origine e sviluppo, porta alla conclusione che da una parte e dall’altra vi fu lo stesso grado di crudeltà e che in sostanza le due parti contendenti abbiano una uguale moralità e dignità storica. Le diversità tra nazifascisti e antifascisti vengono in questo modo cancellate favorendo la costruzione di quel “senso comune” che ha permesso in questi ultimi anni un vero e proprio processo mediatico alla Resistenza, ridefinendo in termini di egemonia nella società il primato di una cultura di destra anche nell’ambito della lettura della storia nazionale. La “guerra ai civili” fu una strategia militare adottata dalle truppe nazifasciste nei territori occupati dell’Europa per mantenere il controllo dei paesi invasi dalle truppe dell’Asse ed in Italia le stragi tedesche ne rappresentano la più triste conferma.

Sui crimini di guerra commessi dal nostro esercito nei Balcani è tornata ad indagare anche la magistratura militare dopo che, nel 2002, è venuta meno la clausola della reciprocità sancita dall’art. 165 cp. Ma gli eventuali processi non avranno comunque un esito penale effettivo poiché i responsabili sono scomparsi. Non c’è il rischio di delegare all’ambito giudiziario la ricerca storica?
Quella clausola venne utilizzata per negare le estradizioni dei nostri militari, mettendo sullo stesso piano aggressori e aggrediti. La “scoperta” dei fascicoli riguardanti le stragi tedesche e le responsabilità dei collaborazionisti salotini rappresenta un elemento di grande importanza dal punto di vista storico e civile. Ritengo molto importante che il procuratore militare Intelisano abbia riaperto il caso dei crimini di guerra italiani all’estero. Credo che forme di sanzione giuridica siano in questo caso specifico assolutamente importanti. Sarebbe mai stato possibile costruire il mito del “bravo italiano” se si fossero celebrati i procedimenti giudiziari contro i nostri criminali di guerra? Ciò non avrebbe favorito un ricambio quantomeno dei vertici militari e dell’alta burocrazia rendendo percorribile e più incisiva la strada dell’epurazione e del rinnovamento delle istituzioni? In sostanza quella tara storica della “continuità dello Stato” patita nel dopoguerra dalla stessa Repubblica democratica e antifascista avrebbe trovato terreno meno fertile per radicarsi nel tessuto nazionale. L’immagine evocativa, utilizzata da Filippo Focardi, della mancata “Norimberga italiana” rappresenta in questo senso un elemento centrale della storia dell’Italia post-fascista.

Ma il processo di Norimberga non ha affatto denazificato la Germania. Non è una tragica illusione credere che i processi nei tribunali possano compensare ciò che non è riuscito ai processi storici? Così non si rischia di scadere dal tribunale della storia alla storia dei tribunali?
Naturalmente il lavoro giudiziario è diverso da quello storico cui competono altre funzioni rispetto alla ricerca sul piano penale e di responsabilità individuali che sono proprie dell’ambito giuridico. Sta alla ricerca storica non subordinare esclusivamente il proprio lavoro alla dimensione giudiziaria. Il problema risiede poi nella capacità di sedimentare nella coscienza dell’opinione pubblica ciò che emerge dalle carte e dai documenti. È poi ovvio che un processo di generale rinnovamento sociale, politico e culturale di un paese non possa essere delegato in toto ad un ambito giuridico o soltanto storico. Sono processi che per riuscire nel loro compito necessitano della attiva ed ansiosa spinta di rinnovamento delle società.

I crimini del colonialismo italiano dall’Africa alla Jugoslavia

«La favola del bono italiano deve cessare […] per ogni camerata caduto paghino con la vita 10 ribelli. Non fidatevi di chi vi circonda. Ricordatevi che il nemico è ovunque; il passante che vi saluta, la donna che avvicinate, l’oste che vi vende il bicchiere di vino […] ricordatevi che è meglio essere temuti che disprezzati»

Generale Alessandro Pirzio Biroli

«È necessario eliminare tutti i maestri elementari, tutti gli impiegati comunali e pubblici in genere (A.C., Questura, Tribunale, Finanza, ecc.), tutti i medici, i farmacisti, gli avvocati, i giornalisti…, i parroci…, gli operai…, gli ex militari»

Generale Orlando

«Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento»

Generale Gambara, 17 dicembre 1942

1934 Tripolitania e Cirenaica vengono riunite per formare la colonia di Libia. Alla Libia viene attribuito l’appellativo di quarta sponda. Per gran parte degli anni 20 le autorità italiane sono impegnate in una sanguinosa pacificazione durante la quale si fece ricorso ai gas asfissianti e alla deportazione di 100 mila persone che provocò la morte a 15 mila di queste.

Ottobre 1935 100 mila soldati italiani occupano l’Abissinia (attuale Etiopia), estendendo il dominio coloniale già presente in Eritrea dalla fine dal 1879 e in Somalia dal 1889. Anche qui vi fu l’impiego sistematico di bombe all’Iprite (solfuro di etile biclorurato), di bombardamenti a tappeto dell’aviazione sui civili e di esecuzioni in massa dei prigionieri. Massimi responsabili i generali Del Bono e Graziani.

Aprile 1939 Alla vigilia della seconda guerra mondiale, una settimana dopo la conclusione della guerra di Spagna del 1936-39, viene annessa l’Albania.

Ottobre 1940 Aggressione della Grecia.

Aprile 1941 L’invasione congiunta del regno di Jugoslavia da parte della Germania nazista, della Bulgaria, dell’Ungheria e dell’esercito dell’Italia fascista, porta alla spartizione della Slovenia, con annessione all’Italia della provincia di Lubiana; occupazione del Montenegro con inclusione della Bosnia, entrambi trasformati in protettorato italiano; creazione di uno Stato fantoccio croato (appoggiato dal Vaticano), alla cui testa viene messo Ante Pavelic, nominato poglavnik (duce), capo del movimento d’estrema destra Ustascia, clone nazi-fascista. Varo immediato di leggi razziali, massacri di civili, deportazioni, conversioni religiose forzate al cattolicesimo, apertura di otto campi di concentramento contro Serbi, Ebrei e Zingari. 400 mila morti nel campo di concentramento di Jasenovac (il terzo per grandezza in Europa). Regio esercito emilizie fasciste si rendono responsabili di distruzioni, incendi di centri abitati e fucilazioni di massa di civili e prigionieri. 26 mila montenegrini vengonointernati.

Luglio 1941 Invio di un corpo di spedizione italiano in Russia-Armir di circa 220 mila uomini.

Pulizia etnica. Il Mladic italiano

ll generale Mario Roatta fu uno dei più feroci esponenti della politica militarista di Mussolini

Paolo Persichetti
Liberazione
18 settembre 2008

Paolo Persichetti
ll generale Mario Roatta fu uno dei più feroci esponenti della politica militarista di Mussolini. Nato a Modena nel 1887, divenne capo del Sim (servizio segreto militare) dal gennaio 1934 al settembre 1936, quando prese il comando del corpo di spedizione italiano in Spagna. Dal 1941 al 1942 è capo di stato maggiore. Comanda la seconda armata in Slovenia e Croazia, dove ordina l’eliminazione dei civili sospetti di ribellione, attua la pulizia etnica e organizza il sistema dei lager per i civili slavi. Torna ad essere capo di stato maggiore fino al novembre 1943. Viene contattato dall’Oss, il servizio segreto progenitore della Cia, perché organizzi una pre-Gladio. Il 16 novembre 1944 viene arrestato per la mancata difesa di Roma. Il 4 marzo del 1945 evade dall’ospedale militare con la complicità dei dei carabinieri e del Sim appena ricostituito. Una settimana dopo la fuga arriva la condanna all’ergastolo perché ritenuto uno dei mandanti dell’assassinio dei fratelli Rosselli. Ripara nella Spagna di Franco. Rientra in Italia nel 1966 grazie ad alcune amnistie. Muore a Roma nel 1968. Una sua foto è tuttora appesa alle pareti dell’Archivio storico dello Stato maggiore dell’esercito.

Link
Nuovi documenti e prove sui lager fascisti
I redenti
Politici e amnistia, tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’unità d’Italia ad oggi
L’amnistia Togliatti