Sequestro Moro, le carte e le testimonianze che smentiscono le dietrologie su via Caetani /terza puntata

A partire dal 2010 alcune inchieste giornalistiche e libri pubblicati negli anni successivi, ripresi recentemente anche da una trasmissione televisiva della Rai, hanno diffuso una ricostruzione alternativa sulle ultime ore della vita di Moro, sulle circostanze della sua morte e del ritrovamento del suo corpo in via Caetani. L’analisi delle indagini condotte all’epoca, i documenti e le testimonianze dimostrano l’infondatezza di queste ricostruzioni dietrologiche

Paolo Morando e Paolo Persichetti, Domani 9 marzo 2024

Questa immagine fotografa la situazione di attesa: lo sportello posteriore destro della Ranault 4 è stato aperto, all’interno è stata verificata la presenza del corpo di Moro. Funzionari di polizia in borghese sono in attesa delle autorità. Davanti alla Renault la Fiat 500 del custode di palazzo Antici-Mattei, più avanti di traverso la Giulia bianca Alfa Romeo della Digos intervenuta per prima sul posto

Che cosa accadde davvero il 9 maggio del 1978 in via Caetani? Le dichiarazioni dell’ex vice segretario del Partito socialista Claudio Signorile a Report del 7 gennaio scorso, in un servizio su nuove presunte verità sulle Brigate rosse e il sequestro di Aldo Moro, hanno riacceso l’attenzione sulle modalità del ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana. Da diversi anni Signorile sostiene che Cossiga (con lui presente) venne informato quella mattina della morte di Moro in largo anticipo rispetto alla telefonata delle Brigate rosse. E lascia intendere intendere che a ucciderlo non furono i brigatisti, per il rifiuto di trattare da parte del governo e dei partiti schierati per la «fermezza», bensì forze straniere che condizionarono l’esito finale del sequestro: una volontà superiore a cui i brigatisti, semplici figuranti di un gioco più grande di loro, dovettero adattarsi. Forse addirittura cedendo l’ostaggio.

I ricordi tardivi
Storici, giudici e poliziotti, abituati a valutare le testimonianze e lavorare con la memoria, sanno bene che i ricordi tardivi dei testimoni rappresentano uno degli aspetti più problematici nella ricostruzione dei fatti, perché troppo esposti al rischio di inquinamento da informazioni e narrazioni circolate nel frattempo. Nelle ore successive al ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani all’interno della Renault 4 color amaranto, digos e carabinieri condussero però serrate indagini sui testimoni passati fin dalle del prime ore del mattino in quella via o che lavoravano nei palazzi adiacenti. Queste testimonianze offrono un quadro esauriente per ricostruire quel che avvenne la mattina del 9 maggio 1978.
La signora Carla Antonini affermò di aver visto alle 8,10, mentre a piedi si recava al suo posto di lavoro, la Renault 4 parcheggiata quasi davanti al portone di palazzo Antici-Mattei dove era impiegata nella discoteca di Stato. La testimonianza venne rafforzata da successive dichiarazioni dell’attrice Piera Degli Esposti, sentita dopo il 2013 nell’indagine aperta per verificare la veridicità delle affermazioni di uno degli artificieri che bonificarono la Renault 4 quel giorno, Vitantonio Raso, secondo cui il cadavere di Moro fu trovato molto prima della telefonata delle Br e Cossiga si sarebbe recato sul posto una prima volta intorno alle 11 del mattino e una seconda dopo la diffusione ufficiale della notizia.
Degli Esposti smentì questa possibilità poiché quella mattina aveva atteso inutilmente, proprio nelle ore indicate da Raso, appoggiata inconsapevolmente sulla R4, il direttore del Dramma antico, i cui uffici si trovavano al terzo piano di palazzo Antici-Mattei. Anche altri testi sentiti hanno confermato questa ricostruzione: Annamaria Venturini della Biblioteca di storia contemporanea, Francesca Loverci e Giuseppe D’Ascenzo, entrambi dipendenti del Centro studi americani situato nello steso palazzo, e Francesco Donato che vi risiedeva come custode demaniale. Tutti e tre percorsero più volte via Caetani quella mattina senza mai scorgere presenza della polizia o assembramenti con personalità politiche.

L’arrivo della polizia dopo la telefonata delle Br
È D’Ascenzo a situare il momento in cui arriva sul posto la prima auto della polizia: era uscito dal lavoro alle 10,15 per rientrarvi alle 11 e uscire nuovamente un quarto d’ora dopo per rientrare alle 12,15 quando si accorgeva di una Alfa Giulia bianca in doppia fila accanto alla Renault 4, con a bordo persone in abiti civili che gli chiesero se ne conoscesse il proprietario. Era la pattuglia della Digos guidata dal commissario capo Federico Vito, che in una relazione di servizio scrive di essere stato avvisato dal brigadiere Mario Muscarà, addetto al servizio intercettazioni telefoniche, che era sopraggiunta una telefonata al professor Tritto in cui si annunciava che «il corpo di Moro si trovava in una Renault targata N…. parcheggiata in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure». Il brogliaccio redatto da Muscarà riferisce l’arrivo della telefonata alle 12,10 e la sua conclusione alle 12,13, oltre al tentativo fallito di individuare la cabina da dove la chiamata era partita.
Il commissario Vito si recava immediatamente sul posto con il brigadiere Domenico D’Onofrio, l’appuntato Angelo Coppola e la guardia Nicola Marucci. «Poiché nel bagagliaio si notava una coperta che ricopriva qualcosa di voluminoso – scrive – ho fatto aprire forzatamente l’auto da un Sergente artificiere ed ho constatato che, sotto la suddetta coperta, si trovava il cadavere dell’On.le Aldo Moro». Altre testimonianze, e soprattutto le foto e le immagini esclusive riprese dalla troupe di Gbr, emittente romana, con il giornalista Franco Alfano che riuscì ad entrare nel palazzo Antici-Mattei e riprendere dall’alto quello che avvenne, mostrano che i tempi di apertura della R4 furono molto più lunghi e laboriosi.

Cucchiarelli e la versione dell’artificiere
In una intervista con Paolo Cucchiarelli e Manlio Castronovo, dopo l’uscita nel 2013 del suo libro La bomba umana, l’artificiere Raso conferma indirettamente la sequenza dei fatti descritta dal commissario Vito. Sostiene, infatti, di essere stato prelevato dalla «volante 23» per essere portato in via Caetani. Non poteva quindi essere sul posto alle 11, se la digos era arrivata solo alle 12,15 e Vito aveva chiesto il suo intervento solo successivamente (accusato del reato di calunnia per queste affermazioni, Raso ha patteggiato la condanna in tribunale).
Non solo: come dimostrano le immagini (e come riferisce il suo superiore Giovanni Chirchetta), Raso non tocca la Renault ma attende rinforzi. Mentre Chirchetta e il sergente Casertano giunsero sul posto dopo Raso. Nel frattempo, sono ormai le 13,35 circa, il custode di palazzo Antici-Mattei avverte gli impiegati delle voci sulla presenza di una bomba nella Renault, così tutti si precipitano all’uscita per spostare le auto.
È ancora il teste D’Ascenzo a riferire con precisione quel che accade: sceso all’ingresso del palazzo nota «che un uomo in borghese, probabilmente un agente di polizia, ha aperto la macchina e dopo aver guardato all’interno è venuto verso di noi dicendo: “È Moro”».

Un funzionario di polizia apre lo sportello della Renault
Chi era quel poliziotto? Tutte le immagini di quel giorno mostrano che lo sportello posteriore destro della R4 fu aperto molto prima che fosse forzato dagli artificieri con le cesoie il portellone posteriore. Un rapporto stilato dal commissario Vito consente di fissare con maggiore esattezza l’orario della prima apertura: si tratta del sequestro avvenuto alle ore 13,20 del borsello di pelle nera presente al suo interno e contenente effetti personali di Moro.
In una audizione del 2 maggio 2017, davanti alla commissione Moro 2, sarà Elio Cioppa a sostenere di avere aperto lo sportello e aver verificato che nel bagagliaio posteriore, sotto la coperta, c’era il corpo di Moro. Cioppa disse di esser arrivato in via Caetani dopo il commissario Vito con una cinquantina di uomini per predisporre il controllo dell’ordine pubblico nella zona. E le foto scattate in via Caetani prima dell’apertura del portellone posteriore e dell’arrivo delle autorità mostrano accanto alla R4 diverse persone in giacca e cravatta, tra cui si riconosce il tristemente famoso Nicola Ciocia, alias dottor De Tormentis, funzionario dell’Ucigos esperto di waterboarding per sua stessa ammissione.

Scatta il piano Mike
Le stesse immagini mostrano che all’arrivo di Cossiga, si può presumere dopo le 13,30, il portellone posteriore non era stato ancora forzato e che il ministro dell’Interno, insieme al capo della Digos Domenico Spinella e al capo della polizia Ferdinando Masone, si sporge sul vetro del lunotto per vedere il corpo di Moro. L’apertura avverrà solo in seguito, quando lo stesso Cossiga, stando agli artificieri, chiederà la bonifica del mezzo. Alle 13,45, come prevedeva il piano Mike, predisposto in precedenza dal ministero dell’Interno in caso di morte dell’ostaggio, venne avvertito il procuratore generale Pietro Pascalino, alle 13,56 il medico legale Silvio Merli e alle 14,02 il perito balistico Antonio Ugolini.

La Renault 4 fu sempre nella mani dei brigatisti
Rubata da Bruno Seghetti il primo marzo del 1978 nella stessa zona dove vennero prese gran parte delle vetture impiegate in via Fani, venne affidata alla brigata universitaria che si occupò di cambiarne la targa, contraffare i documenti, lavarla (il proprietario lavorava nei cantieri edili e la Renault era molto sporca) e spostarla periodicamente. Utilizzato per l’azione contro la caserma Talamo dei carabinieri a Roma, il 19 aprile del 1978, fu richiesta da Seghetti pochi giorni prima del 9 maggio, quando le Brigate rosse avevano deciso di concludere il sequestro. La decisione di giustiziare l’ostaggio e le modalità della sua esecuzione vennero prese l’8 maggio in una drammatica riunione della direzione della colonna romana tenutasi nell’appartamento di via Chiabrera 74, dopo le mancate dichiarazioni di apertura promesse da Fanfani attraverso il suo portavoce Bartolomei.

Il frontalino della Renault venne notato dalla signora Graziana Ciccotti, condomina della palazzina di via Montalcini 8, all’alba della mattina del 9 maggio quando scese nel garage dell’abitazione per andare al lavoro e incontrò sul posto Anna Laura Braghetti, proprietaria dell’appartamento nel quale Moro fu tenuto prigioniero durante i 55 giorni del sequestro.
 Dopo l’uccisione dello statista all’interno del box dove era parcheggiata la Renault, il mezzo fu portato da Mario Moretti e Germano Maccari in via Caetani. All’altezza di piazza Monte Savello, a ridosso del ghetto ebraico, furono “scortati” da Bruno Seghetti e Valerio Morucci, che all’interno di una Simca fecero da staffetta armata nella parte più delicata del tragitto fino a via Caetani, dove la sera prima lo stesso Seghetti aveva parcheggiato la sua Renault 6 verde per preservare il posto dove lasciare la Renault 4. Poco dopo il mezzo fu visto dalle testi Antonini e Degli Esposti. Negli ultimi giorni del sequestro i brigatisti non persero mai il controllo dell’ostaggio.

Il caffè di Signorile – seconda puntata

Nell’ultima stagione delle dietrologie sul sequestro Moro un ruolo importante è stato attribuito a nuove testimonianze, o meglio nuovi di ricordi di vecchi testimoni che improvvisamente hanno riacceso la loro memoria sopita per decenni. Ne abbiamo già scritto in una precedente puntata. Oggi affrontiamo la singolare storia del “caffè di Signorile” recentemente tornato alle cronache grazie ad una nota trasmissione televisiva.

«La persona informata sui fatti – ha scritto il giurista Glauco Giostra – non è una semplice res loquens». La rievocazione di un ricordo è inevitabilmente influenzato dal contesto in cui si produce. La memoria non è «una sorta di di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato del passato che il testimone deve soltanto ritrovare […] Il ricordo è materia viva, deteriorabile e plasmabile [..]».
Ne abbiamo avuto l’ennesima prova nella puntata di Report del 7 gennaio scorso, dedicata alla scoperta di nuove presunte verità sulle Brigate rosse e il sequestro di Aldo Moro e dove l’ex segretario del partito socialista Claudio Signorile ha sostenuto che Cossiga fu avvisato della morte di Moro molto prima che giungesse la telefonata dei brigatisti. Dichiarazioni che hanno riacceso l’attenzione sui tempi e le modalità del ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana.

Ricordi ad orologeria
Da circa un decennio a questa parte l’ex parlamentare socialista sostiene di avere assistito. la mattina del 9 maggio 1978, alla telefonata che avvisò Cossiga della morte di Moro in largo anticipo rispetto alla telefonata ufficiale fatta da Valerio Morucci al professor Tritto, lasciando intendere che a uccidere l’uomo politico non furono i brigatisti, alla fine del lungo sequestro e del rifiuto di trattare da parte del governo e delle forze politiche schierate per la «fermezza», ma forze straniere che ne condizionarono l’esito finale. Volontà superiore a cui i brigatisti dovettero adattarsi, se non addirittura cedere l’ostaggio perché ridotti a semplici figuranti di un gioco più grande di loro.
Quelle di Signorile sono dichiarazioni molto tardive rispetto ai fatti e vanno ad arricchire, come abbiamo visto nella precedente puntata (leggi qui), la lista di quei «nuovi testimoni» che pretendono di cambiare con i loro ricordi ad orologeria quello che è stato il corso della storia. Se è vero che il 9 maggio si trovava nell’ufficio di Cossiga per perorare la causa della trattativa in favore della liberazione di Moro, per trent’anni l’orario dell’arrivo nel sua stanza, invitato a «prendere un caffè» dal ministro dell’Interno, e la circostanza della telefonata giunta in anticipo sulla notizia ufficiale, non destò mai il suo interesse tantomeno quello dei suoi interlocutori. Signorile non denunciò mai la strana circostanza, non approfondì la questione, non ne parlò con il suo segretario Bettino Craxi che, come lui, si era impegnato per la trattativa.
Sull’Avanti, organo del partito socialista, come in parlamento, mai fu sollevata la questione. Un silenzio davvero singolare soprattutto se si considera la posizione in cui egli venne a trovarsi all’epoca. Signorile, Craxi e i socialisti in generale, si dovettero difendere dalle accuse mosse per aver tentato di aprire un canale di contatto con i rapitori tentando di favorire una soluzione politico-umanitaria del sequestro. Il dibattito pubblico – infatti – in quegli anni verteva attorno alla legittimità della «linea della trattativa», con il suo portato di sospetti e accuse di connivenze mosse dai sostenitori della fermezza che ritenevano quella posizione solo una strumentale manovra per rompere il patto Dc-Pci.

Sotto accusa
Sospetti pesanti che Signorile dovette chiarire in più circostanze: davanti al magistrato che conduceva le prime indagini, poi il 13 novembre 1980 difronte alla prima commissione Moro, dove venne incalzato da personaggi del calibro di Violante, Pecchioli e Flamigni nel corso di una lunghissima seduta (38 pagine di verbale). In quella circostanza sotto la pressione delle domande, Signorile fu protagonista di un lapsus che lo portò a confondere l’ora dell’appuntamento con Cossiga, le 11, con quello della telefonata che avvertì il ministro dell’Interno della morte di Moro, cioè un’ora e dieci minuti prima della chiamata delle Br. Nemmeno in quella ghiotta circostanza i suoi accigliati e sospettosi esaminatori ebbero qualcosa da eccepire. E non lo fecero nemmeno negli anni a venire.
E ancora qualche tempo dopo davanti alla corte d’assise, nel primo processo Moro, lungamente interrogato dal presidente Santiapichi e poi da agguerrite parti civili, che in realtà erano suoi avversari politici: gli avvocati del Pci Fausto Tarsitano e Giuseppe Zupo (responsabile giustizia Pci). Infine nel 1999, difronte alla commissione Pellegrino che lo obbligò a ritornare sulla vicenda della trattativa. In tutte queste deposizioni mai fu menzionato da Signorile o dai suoi interlocutori il problema dell’orario della telefonata giunta a Cossiga.

Il racconto della trattativa sceneggiato dalla rivista Metropoli

L’intervista ad Alessandro Forlani
Signorile corresse l’errore dell’80 in una intervista telefonica (la trovate qui, la versione integrale qui) del 4 maggio 2013 rilasciata al giornalista Rai Alessandro Forlani, durante la presentazione del libro La zona franca, che per la prima volta introduceva sospetti e costruiva una nuovo teorema dietrologico sulla morte di Moro e le modalità della riconsegna del suo corpo. Signorile quel giorno fu molto chiaro: era andato da Cossiga alle 11, invitato per un caffè, la telefonata che avvertiva il ministro dell’Interno del ritrovamento del cadavere era giunta intorno a mezzogiorno. Ricordava tutto ciò grazie ad un riferimento mnemonico preciso: dovette avvertire Craxi che era in viaggio per Grosseto e riuscì a raggiungerlo al telefono quando questi si trovava all’altezza di Civitavecchia.
Successivamente ha cambiato versione, l’ora del caffè preso al Viminale ha così cominciato lentamente a scivolare fino all’inizio della mattinata trascinando con sé la telefonata ricevuta da Cossiga. Cosa era successo?

La svolta
Le polemiche sulla trattativa e il canale di contatto con i brigatisti si erano esaurite da qualche anno. Nel frattempo il quadro politico era profondamente mutato e i partiti che avevano animato i fronti contrapposti della fermezza e della trattativa erano scomparsi sotto le macerie del muro di Berlino e le inchieste contro la corruzione che misero fine alla prima repubblica. I sopravvissuti si erano rimescolati e ricompattati su una posizione comune: Moro non era morto perché abbandonato dai fautori della linea della fermezza o perché i sostenitori della trattativa si mossero troppo tardi e troppo timidamente, traditi per giunta dal presidente del Senato Fanfani che non fece le dichiarazioni di apertura promesse il 7 maggio attraverso il suo portavoce Bartolomei e ancora meno la mattina del 9, durante la riunione della direzione democristiana in piazza del Gesù, ma perché forze superiori e straniere interferirono sul sequestro. 
Nel 2014 sull’onda di alcuni scoop che poi si rivelarono delle clamorose fake news, una nuova commissione parlamentare d’inchiesta venne istituita per indagare sui presunti misteri ancora irrisolti, le cosiddette «verità indicibili». Il rinnovato tema del complotto funzionava come ultimo alibi per quel ceto politico residuale scampato a Tangentopoli e che ebbe un ruolo ai tempi del sequestro. E’ in quel preciso momento che Signorile inizia a cambiare versione, sollecitato da una inchiesta di Paolo Cucchiarelli e Manlio Castronuovo, anticipando di molto l’appuntamento con Cossiga e l’arrivo della telefonata che lo informò del ritrovamento del cadavere di Moro.

Sequestro Moro, nuovi testimoni per vecchie bugie – prima puntata

Foto Istituto Luce

C’è una figura che da diversi anni a questa parte riaccende l’attenzione pubblica sui cosiddetti «misteri irrisolti» o sulle presunte «nuove verità» che periodicamente riemergono sul sequestro e l’uccisione del leader della Democrazia cristiana Aldo Moro, avvenuto nel lontano 1978. Si tratta di un particolare tipo di fonte che agita da tempo il dibattito storiografico: il testimone. Non c’è qui lo spazio per introdurre la necessaria distinzione tra colui che è stato attore del fatto e il semplice spettatore, il più delle volte di un singolo momento, di una semplice frazione di quella vicenda. Ci interessa ora solo rilevare l’inevitabile carica suggestiva che la parola del testimone contiene, la forza emotiva che il suo racconto trasferisce sui fatti accaduti, poiché il testimone si presume sia colui che ha vissuto il fatto e raccontandolo lo fa rivivere. Gli storici, ma anche i poliziotti come i giudici, sanno bene quanto si debba trattare questo tipo di fonte con estrema cautela, con gli strumenti più sperimentati del mestiere, tanto più se il nuovo testimone appare, come in questo caso, a decenni di distanza dai fatti o se autori di vecchie testimonianze modificano o arricchiscono di improvvisi – e soprattutto sollecitati – ricordi le loro lontane dichiarazioni. Chi lavora con la memoria sa bene che la sincerità del ricordo non è garanzia di veridicità.

Nuovi testimoni e vecchie bugie
E’ questa una delle caratteristiche più recenti del «caso Moro». Durante i lavori della commissione parlamentare presieduta dal Giuseppe Fioroni si sono cercati in maniera spasmodica nuovi testimoni, in alcuni casi semplici replicanti di racconti fatti da persone nel frattempo scomparse. Un caso emblematico è rappresentato dalla vicenda delle palazzine di via dei Massimi 91, ritenute secondo alcune teorie complottiste un luogo dove fecero tappa i brigatisti con l’ostaggio (addirittura prima possibile prima prigione di Moro), avvalendosi di complicità di matrice atlantica che in quel condominio avrebbero trovato una loro postazione. In questo caso nuovi testimoni, i figli del portiere dell’immobile, Benedetto e Antonino Macerola, hanno riferito confidenze ricevute dal padre defunto che a sua volta le aveva riprese da un’altra persona, il generale del Genio Renato D’Ascia, condomino in una delle palazzine, anch’essa non più di questo mondo.
 Voci, tecnicamente dei de relato di secondo grado non verificabili, in quanto le fonti originarie sono scomparse, sufficienti secondo le relazioni della commissione Moro 2 e l’ex magistrato Guido Salvini, estensore di una relazione sul sequestro Moro per conto della commissione antimafia, sezione VII, nella scorsa legislatura, per sostenere che Moro non sarebbe stato condotto in via Montalcini e il commando brigatista non avrebbe raccontato la verità sui suoi reali movimenti dopo l’assalto di via Fani.

Altri neotestimoni, come l’attore Francesco Pannofino e i giornalisti Rai Diego Cimarra e Alessandro Bianchi, hanno provato a modificare la scena di via Fani, dove avvenne il rapimento del presidente della Dc e l’uccisione dei membri della sua scorta, sostenendo che il bar Olivetti, situato all’angolo della scena dell’agguato e dalla cui terrazza esterna partirono all’assalto i membri del commando brigatista, fosse aperto quella mattina. Per Pannofino era in attività ma chiuso quel giorno per riposo settimanale. Cimarra e Bianchi si sono abbandonati invece in dettagliatissime descrizioni dei baristi e clienti presenti all’interno del locale, tra cui uomini in divisa con l’immancabile accento tedesco nonostante l’esercizio commerciale fosse abbandonato da tempo perché fallito, avesse le serrande tirate giù, i dipendenti licenziati, i contratti della luce chiusi e i libri contabili depositati in tribunale di commercio, come hanno sempre dimostrato i rilievi documentali nonché le innumerevoli immagini riprese quella mattina.

Sostenere con tanta ostinazione che quel bar fosse aperto serviva a dimostrare che i brigatisti avevano per l’ennesima volta mentito, coperti da un patto di omertà con quelle autorità politiche e istituzionali anch’esse coinvolte nella eliminazione dello statista democristiano.

Altri ancora, come la signora Cristina Damiani e Luca Moschini, hanno arricchito le loro precedenti dichiarazioni aumentando il numero dei partecipanti all’agguato, aggiungendo nuovi sparatori e percorsi di fuga a piedi (cf. la relazione scritta dall’ex magistrato Guido Salvini per conto della commissione antimafia), che non trovano conferma nelle deposizioni dei numerosi altri testimoni presenti sulla scena.
«La persona informata sui fatti – ha scritto recentemente il giurista Glauco Giostra – non è una semplice res loquens». La rievocazione di un ricordo è inevitabilmente influenzato dal contesto in cui si produce. La memoria non è una sorta di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato del passato e che il testimone deve soltanto ritrovare. «Il ricordo è materia viva, deteriorabile e plasmabile [..] Un falso ricordo – conclude Giostra – viene sovente indotto da certe ricostruzioni mediatiche».

Brigit Kraatz, l’Italia a giudizio davanti alla corte europea per colpa della commissione Moro 2

Negli anni Settanta Brigit M. Kraatz era la corrispondente a Roma di Der Spiegel. Negli atti parlamentari viene definita una terrorista coinvolta nel sequestro Moro. Non era vero ma, per ottenere giustizia, si è dovuta rivolgere alla Cedu che ora ha ammesso il suo ricorso. Questo blog ha denunciato già nel maggio 2020 questa storia (puoi leggere qui) di cui ha continuato e continuerà a occuparsi (leggi qui 1,2, 3).
La vicenda è anche all’origine di una querela contro l’ex membro della commissione parlamentare Gero Grassi. All’origine delle accuse mosse contro la corrispondente della stampa tedesca c’è una indagine promossa da un consulente della Commissione Moro 2. Massimo Giraudo – sulla scorta di una ricca letteratura complottista presente sull’argomento – si è mosso per dimostrare che un condominio romano, ex Ior, situato nella zona della Balduina ebbe un ruolo decisivo nelle prime fasi del sequestro del persidente democristiano. L’inchiesta, infarcita di confidenze originate da persone oggi defunte, passate di bocca in bocca, scenari suggestivi e congetture iperboliche è stata rilanciata con grande enfasi anche nella puntata di Report del 7 gennaio scorso.
Definire la signora Kraatz attivista del movimento tedesco 2 giugno, «Bewegung 2 Juni», è un po’ come dire che Lilli Gruber sia stata un membro delle Brigate rosse. Ora che una persona come il tenente colonnello dei Cc, Massimo Giraudo, insignito nel 1988 anche del titolo di cavaliere, ordine al merito della repubblica per il lavoro svolto in diverse indagini, nato nel 1960, non sapesse o non sia stato in grado di verificare con un semplice giro sul web che la signora Kraatz fosse una importante giornalista tedesca, insignita per altro di vari premi per i suoi articoli, autrice di un libro con Willy Brandt e di interviste con i vertici delle istituzioni e dei partiti degli anni 70 e 80, collaboratrice di Rai tre nei giorni in cui cadeva il muro di Berlino (su internet si trova con facilità una sua foto accanto ad Agnelli), accreditata presso il Vaticano mentre seguiva il pontefice nei suoi viaggi intercontinentali, insomma una figura pubblica molto nota negli ambienti della stampa e non solo, solleva inquietanti interrogativi sulla natura cialtronesca, o forse sarebbe meglio dire bantitesca, dei lavori condotti dalla commissione parlamentare sul sequestro Moro, condotti sotto la guida e la responsabilità dell’allora presidente Giuseppe Fioroni. Come se non bastasse, quanto scritto negli atti resi pubblici dalla commissione è poi finito nella sentenza Bellini sulla strage di Bologna. E’ bastato un semplice copia-incolla. Come un virus le affermazioni indimostrate della Cm 2 si sono propagate, riprese come verità, in realtà politica ma dai più confusi con quella storica, sono migrate in una sentenza che nulla c’entra con le vicende del sequestro Moro. E così la brillante giornalista che per un trentennio ha raccontato le vicende italiane al pubblico tedesco si è ritrovata coinvolta nel sequestro Moro e nella strage di Bologna.

Quale è il nesso, vi chiederete? I servizi segreti ovviamente, quei poteri occulti: la Cia, il Secret team, il Mossad, la P2 e la massoneria che tutto reggevano e disfacevano, ovvero la favola che ci ha propinato Report.
Ora il ricorso presentato dai legali della Kraatz davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, ultima possibilità che le restava dopo i tentativi andati falliti di far correggere i grossolani errori, e le prese in giro ricevute da parte dei vertici istituzionali, dal presidente della commissione al Quirinale, ha superato il vaglio dell’ammissibilità legale. La squallida montatura di via dei Massimi assume così una rilevanza internazionale e diplomatica dalle molteplici conseguenze che difficilmente potranno essere ignorate.

Non si tratta solo di ripristinare l’onorabilità di una persona tacciata di essere stata altro da quella che era effettivamente; in ballo ci sono le procedure che conducono alla costruzione delle “verità politiche deliberate” all’interno delle commissioni parlamentari e del loro rapporto con la verità storica.
Il tema è quello della intangibilità delle asserzioni contenute nelle relazioni parlamentari una volta deliberate con il voto dei commissari e del parlamento. Se delle successive acquisizioni storico-documentali vengono a smentire quanto affermato all’interno di queste relazioni perché mai queste non possono essere corrette?

di Paolo Morando, Domani, 19 gennaio 2024

La commissione parlamentare d’inchiesta “Moro 2” l’ha definita «già attiva nel movimento estremista “Due giugno”». Che però era qualcosa di più: un vero e proprio gruppo di lotta armata che, nella Germania Ovest degli anni Settanta, si rese protagonista di svariati attentati e rapimenti, anche con la morte del presidente della Corte federale tedesca Günter von Drenkmann durante le concitate fasi del sequestro.
Ma lei, la giornalista tedesca Birgit Kraatz, oggi ottantacinquenne ma negli anni Settanta firma di punta e corrispondente da Roma per importanti testate (i settimanali “Der Spiegel” e “Stern” e la televisione pubblica Zdf, ha scritto pure un libro intervista con l’allora cancelliere Willy Brandt pubblicato anche in Italia), terrorista non lo è mai stata.
Le ha provate tutte in questi anni per cercare di farsi togliere di dosso quella infamante definizione, ma senza riuscirci. Tanto che si è rivolta alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo che, è notizia di queste ore, ha accettato il suo ricorso e ora se ne occuperà formalmente, per giungere a una sentenza che in ipotesi potrebbe portare anche a pesanti sanzioni contro lo Stato italiano, in termini di multe e risarcimenti. E chi conosce l’attività della Cedu, sa bene che nell’80 per cento dei casi l’accoglimento del ricorso (questo è infatti lo scoglio maggiore dal punto di vista procedurale) porta poi nella stragrande maggioranza delle volte a un pronunciamento favorevole al ricorrente.

Una vicenda kafkiana
Quella frase è contenuta nella relazione conclusiva dell’attività 2017 della commissione, depositata dal presidente Giuseppe Fioroni. Fu anche l’ultima. E da allora, come sempre accade in questi casi, non si fermò lì. Di citazione in citazione è finita infatti addirittura in una sentenza, e non di scarsa importanza, anzi: è infatti quella della Corte d’assise di Bologna che nell’aprile 2022 ha condannato all’ergastolo l’estremista di destra Paolo Bellini per la strage alla stazione (il processo d’appello inizierà tra l’altro a fine mese), con la giornalista citata nelle motivazioni depositate lo scorso aprile, nei termini già formulati dalla Commissione Moro 2.
È una vicenda davvero kafkiana, perché invece i fatti parlano chiaro. Si tratta di due comunicazioni del 26 giugno e del 4 ottobre 2018 del Bundeskriminalamt (Bka), l’Ufficio federale della polizia criminale tedesca, nei quali si certifica che il nome di Birgit Kraatz non risulta mai essere stato menzionato in alcun documento della struttura, attestando così la totale estraneità della donna al movimento «2 giugno».
Ha scritto testualmente il direttore del Bka, Jürgen Peter: «Va dato per scontato che la signora Kraatz non ha avuto alcun contatto o altri legami con il gruppo “2 Giugno” che vadano al di là dell’attinenza del lavoro giornalistico allora svolto sull’argomento terrorismo di sinistra in Germania e in Italia». E ancora: «Allo stato degli atti del Bundeskriminalamt non è accertabile nessun contatto o altro legame con il gruppo “2 Giugno” che abbiano a che fare con la signora Kraatz».

La commissione Stragi
Sono documenti che i legali della giornalista spedirono a suo tempo allo stesso presidente Fioroni, senza però che fosse possibile ottenere una rettifica della relazione, avendo la Commissione parlamentare d’inchiesta già concluso i propri lavori e chiuso i battenti per via della fine della legislatura. E quelle relazioni, in quanto approvate dal Parlamento, sono ora del tutto intangibili. Peraltro, appunto in quanto parlamentari, tutti gli allora componenti della commissione sono coperti da immunità. Non lo sono però per affermazioni successive al mandato politico: e infatti l’ex deputato Gero Grassi, tra i più attivi componenti di quella commissione, è già stato raggiunto da una querela della giornalista, querela ancora pendente.
Come una palla di neve che rotolando a valle diventa valanga, quell’evidente errore contenuto nella relazione di Fioroni è figlio di un altro atto parlamentare di addirittura ventiquattro anni fa, rimasto a lungo sottotraccia. Si deve infatti tornare al 2000 e alla allora Commissione Stragi presieduta da Giovanni Pellegrino. In quella sede, i parlamentari di Alleanza nazionale Vincenzo Fragalà e Alfredo Mantica presentarono una relazione in cui veniva appunto fatto il nome di Birgit Kraatz come esponente del gruppo “2 Giugno”.
Così ha ricostruito la vicenda il ricercatore Paolo Persichetti: «A seguito di una rogatoria diretta alle autorità tedesche, presentata dal giudice Francesco Amato sui nomi di alcuni esponenti vicini al movimento eversivo “2 giugno”, la polizia tedesca inviava in risposta una relazione. Senza alcuna giustificazione comprensibile, l’Ucigos – l’Ufficio centrale della polizia politica destinatario della relazione – apponeva il nome di Birgit Kraatz nella lettera che accompagnava il testo del Bundeskriminalamt. Nome che invece non era presente all’interno del documento della polizia tedesca e che mai più riapparirà. Nella successiva minuta della Digos di Roma, che riceve la documentazione dall’Ucigos e la rigira al magistrato, non vi è infatti più alcuna traccia della Kraatz. Nonostante questa anomalia, i due parlamentari che evidentemente si erano soffermati solo sulla minuta di accompagnamento riportano il nome della donna nella loro relazione, indicandola come una esponente del gruppo “2 giugno”».

Richieste vane
Il documento di Mantica e Fragalà peraltro non venne mai né discusso né tanto meno approvato. E di errore in errore, come detto, l’appartenenza di Birgit Kraatz al movimento terroristico è finito addirittura nelle motivazioni della sentenza Bellini. E va detto che la giornalista, nei mesi scorsi, si è rivolta anche ai magistrati bolognesi, affinché correggano nei successivi gradi di giudizio quell’infamante definizione.
Sul fronte Commissione Moro 2, invece, le sue doglianze sono state recepite ma senza apporre correzioni alla relazione Fioroni, per i motivi già citati. Gli uffici del parlamento hanno in effetti protocollato il materiale inviato da Kraatz, ma ad oggi non risulta che siano stati allegati agli atti nel portale della commissione. E quei documenti del Bka sono stati invece catalogati “fisicamente” in una sezione non accessibile al pubblico.
La citazione di Birgit Kraatz da parte della Commissione Moro 2 riguardava le palazzine di via Massimi, anche al centro pochi giorni fa di un ampio servizio della trasmissione di Rai3 “Report” sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse: palazzine indicate come uno dei possibili luoghi in cui lo statista democristiano sarebbe stato tenuto prigioniero.
Questa la citazione completa contenuta nella relazione Fioroni: «Si è in particolare riscontrato che in quelle palazzine abitava la giornalista tedesca Birgit Kraatz, già attiva nel movimento estremista “Due giugno” e compagna di Franco Piperno. Secondo la testimonianza di più condomini Piperno frequentava quell’abitazione e, secondo una testimonianza che l’interessato ha dichiarato di aver appreso dal portiere dello stabile, lo stesso Piperno avrebbe da lì osservato i movimenti di Moro e della scorta. La stessa Kraatz ha ricordato la sua relazione con il Piperno, ma ha escluso che si trattenesse nel condominio».
Piperno, come noto, era stato dirigente di Potere operaio. E venne contattato dal Partito socialista (in particolare dall’allora vicesegretario Claudio Signorile) nel tentativo di giungere a una liberazione dello statista democristiano. Ironia della sorte, in quel servizio di “Report” è comparsa anche la fotografia della stessa Birgit Kraatz, peraltro correttamente indicata solo come giornalista. Ma si diceva, lanciando una suggestione: «Kraatz e Piperno si sono visti anche durante il periodo del sequestro Moro?».

Le palazzine di via Massimi
A questo proposito, ancora nel febbraio 2018 al presidente Fioroni la giornalista aveva scritto così: «L’insinuosa descrizione che il mio amico, il professore Franco Piperno, avrebbe sorvegliato dalla mia casa, oppure in qualche modo con la protezione della mia casa, lo scambio delle vetture durante il sequestro Moro nel garage che apparteneva a due palazzi in via Massimi 91 (ipotesi peraltro mai provata – né tantomeno affrontata – in alcuna sede giudiziaria, ndr), è falsa: questo non sarebbe stato nemmeno tecnicamente possibile perché dalle finestre della mia casa l’entrata del garage non era né visibile né raggiungibile come sarebbe stato facile verificare con un semplice sopralluogo. Inoltre al garage io non avevo mai accesso».
E sono tutte circostanze che la giornalista aveva riferito in precedenza anche al colonnello dei Carabinieri Massimo Giraudo, consulente della commissione, senza la presenza di un avvocato «perché non ho nulla da nascondere». C’è comunque da scommettere che la questione sarà destinata ad avere altre puntate. Sempre che nel frattempo la Corte europea dei diritti dell’uomo non gli dia un taglio netto.

La puntata di Report sul caso Moro, ecco le prove del contatto di Ranucci con Pazienza

di Paolo Persichetti

Oggi siamo in grado di rivelare ulteriori dettagli sul contatto tra Sigfrido Ranucci e Francesco Pazienza nelle settimane precedenti la messa in onda della puntata di Report dedicata alle presunte verità sempre tenute nascoste sul sequestro Moro. 
Ci scusiamo per l’attesa che ha creato un certo suspense sulla vicenda e che alcuni hanno interpretato frettolosamente come la prova che noi stessimo bluffando, senza avere in mano nulla. Non siamo abituati a mentire, tanto meno a tentare azzardi. Semplicemente attendevamo che Ranucci e Pazienza dicessero la loro, lasciandogli il tempo di spiegare i fatti e le eventuali ragioni.
Ma Ranucci si è ben guardato dal farlo accusandomi di aver scritto falsità, omettendo la circostanza del contatto avuto con Pazienza. Mentre Pazienza ha sostenuto di non aver mai sentito Ranucci e di aver agito autonomamente contattando il giornalista Lovatelli Ravarino, ritenuto depositario di informazioni sulla vicenda Moro, in particolare sul ritrovamento del cadavere dello statista Dc in via Caetani, informazioni che Ravarino peraltro smentisce categoricamente di possedere. La nostra inchiesta, in effetti, nasce proprio da un commento che Cristiano Lovatelli Ravarino aveva fatto sotto un mio articolo su Report postato su Fb (qui l’articolo).

Il commento di Ravarino

Lo scambio watsapp tra Pazienza e Ravarino

Ne parliamo con Paolo Morando, giornalista e saggista, autore di numerosi volumi sulla strage di piazza Fontana, la storia di Cefis, la strage di Peteano e quella di Bologna.
Conosco Paolo da quasi due anni. Abbiamo condotto insieme alcune inchieste, in particolare sul carteggio Sismi-Olp, le cosiddette «carte di Giovannone» (leggi qui).

Allora com’è andata?
«Ancora domenica mattina ho letto anch’io quel commento su Facebook di Lovatelli Ravarino. E quel riferimento a un contatto tra Pazienza e Ranucci mi ha incuriosito. Mi sono allora procurato il numero di Pazienza, che non avevo, e gli ho mandato un messaggio via whatsapp».

Che ora era?
«Le 14.14».

E che cosa gli hai scritto?
«Te lo leggo: “La contatto perché avrei bisogno di chiederle una cosa a proposito della puntata di Report sul caso Moro, che andrà in onda stasera. Posso chiamarla? Grazie”. Mi ha risposto un minuto dopo: “Mi chiami pure”».

E poi?
«Siamo stati al telefono una decina di minuti. È stato cordiale e affabile. Mi ha detto di conoscere benissimo Lovatelli Ravarino, ma che non era del tutto esatto quello che aveva scritto su Facebook».

Cioè?
«Le sue esatte parole, le ho riascoltate, sono state: “Quando a un certo momento ho saputo che Ranucci stava preparando questo numero che va stasera su Moro, ho detto a Ranucci: guarda che c’è uno che io conosco eccetera che mi ha raccontato un sacco di storie, perché hanno lasciato l’automobile lì, il palazzo, eccetera. Lui mi ha detto: vabbè dammi il suo numero di telefono. Non so perché Ranucci non abbia ritenuto opportuno chiamarlo o verificare, questi sono problemi dei giornalisti, non so perché”».

Gli hai chiesto altro?
«Sì, in che rapporti era con Ranucci. E lui mi ha detto: “Con Ranucci siamo in questi rapporti: all’inizio Ranucci praticamente scrisse una stronzata su Gelli e compagnia cantante e io gli mandai la prova documentale che io con Gelli non c’entravo assolutamente niente, anzi, e lui fece una dichiarazione Ansa in cui diceva che la trasmissione di gennaio scorso, eccetera, effettivamente aveva detto cose che non sono esatte e compagnia cantante, da quel momento siamo diventati sempre un po’ più amici perché ogni tanto ci sentiamo per vedere se io sappia o meno cose e compagnia cantante”. Poi gli ho chiesto che cosa si aspettava dalla puntata di Report che sarebbe andata in onda in serata».

Che cosa ti ha detto?
«Ha risposto così: “Non faccio mai domande ai giornalisti, non so che taglio daranno, ma mi ha detto che ci saranno dei fatti nuovi eccetera”. E poi ha aggiunto: “Secondo me Moro lo hanno ammazzato le Brigate rosse”». Poi abbiamo chiacchierato ancora un po’, divagando: mi ha parlato di sue vicende giudiziarie con magistrati di Bologna. Infine ci siamo salutati».

Poi però hai sentito anche Ranucci.
«Sì, il giorno dopo. Prima volevo vedere la puntata di Report. Lunedì mattina ho contattato l’autore del servizio, Paolo Mondani, che un po’ conoscevo. Gli ho scritto così: “Vorrei chiedere a Ranucci una cosa un po’ delicata sulla puntata di ieri, ma ne parlerei prima con te (anche perché di Ranucci non ho alcun numero)”. Era poco dopo mezzogiorno. Mi ha risposto che mi avrebbe richiamato dopo pranzo. E così ha fatto».

Che cosa vi siete detti?
«Gli ho spiegato la cosa, era molto sorpreso. Mi ha detto di non aver mai sentito il nome di questo Lovatelli Ravarino e che mai Ranucci gliene aveva parlato. E mi ha appunto girato il suo numero, consigliandomi di parlarne con lui. A quel punto ho mandato un messaggio a Ranucci».

Che cosa gli hai scritto?
«Gli ho citato il commento su Facebook di Lovatelli Ravarino, aggiungendo che la cosa mi aveva colpito e invitandolo, se credeva, a richiamarmi. Dopo un po’ mi ha risposto che era falso, che non aveva chiesto aiuto a Pazienza e che Mondani si era mosso in assoluta autonomia. Erano le 16.15. Subito dopo mi ha richiamato».

E che cosa ti ha detto?
«A proposito di Lovatelli Ravarino, anche qui riascolto le sue esatte parole: “Io posso pure smentirlo ma penso di dargli più pubblicità, oltretutto io Pazienza lo conosco bene perché gli abbiamo fatto il culo tre quattro volte, quindi figurati, non è quello il tema. Pure Pazienza, che tra parentesi me l’ha girato prima questo messaggio, dice che non è vero, non so che dirti”. E poi: “Ma figurati se io posso contattare Pazienza, io Pazienza l’ho solamente sentito per dirgli è vero o no che tu frequentavi palazzo via Massimi, punto, perché c’era una voce che diceva che stava a palazzo via Massimi, non l’ho contattato per altre cose, figurati, Pazienza è sempre Pazienza”».

Altro?
«È stata una telefonata breve. Alla fine mi ha detto: “Se vuoi ti do pure il numero di Pazienza, senti Pazienza, te lo smentirà pure lui”. E gli ho detto che lo avevo già».

Ranucci afferma quindi di avere sentito Pazienza. Perché non ne hai scritto?
«Perché te ne stavi già occupando tu e volevo vedere come andava a finire. Comunque, da quello che mi ha detto Ranucci, non è chiaro se si è trattato di una telefonata o di un messaggio, e neppure chi abbia contattato chi. Io peraltro non glielo ho chiesto. Con il “Domani” abbiamo invece preferito occuparci nel merito della puntata di Report sul caso Moro, in particolare dell’intervista a Signorile: l’articolo è uscito oggi».

Ricapitolando
Ranucci ammette di aver sentito Pazienza durante la preparazione dell’inchiesta per chiedergli se era vero che frequentasse palazzo via Massimi, «perché c’era una voce che diceva che stava a palazzo via Massimi». Va detto per inciso che si tratta di una novità assoluta, mai sentita prima d’ora. Ranucci aggiunge che lo conosce da tempo, confermando quanto detto da Pazienza e che questi gli aveva già girato «il messaggio», non sappiamo se intendesse il commento di Ravarino sul mia pagina fb o lo screenshot dello scambio whatsapp che aveva avuto con lo stesso Ravarino. In ogni caso la circostanza conferma la facilità e celerità dei loro contatti, dando ragione alle parole di Pazienza sui loro rapporti pregressi, risalenti a oltre due anni prima, dopo una puntata di Report ch lo aveva tirato in ballo. Pazienza aggiunge, dopo aver saputo della puntata su Moro, di avergli offerto aiuto e in effetti contatta Ravarino. Ranucci nega. Nei giorni scorsi Pazienza ha aggiunto di essere stato la fonte di numerosi scoop fatti dalla Rai in questi ultimi tempi (leggi qui). «Pazienza sarà sempre Pazienza», come dice Ranucci, però non basta una semplice battuta per chiarire questa vicenda. Ci vuole quella trasparenza che fino ad ora è mancata.

Sulla stessa vicenda
La domenica bestiale di Rai 3, Sigfrido Ranucci trasforma Report in una fabbrica di bugie sul sequestro Moro
Le fake news di Report sul caso Moro e la memoria scivolosa di Signorile
Depistaggi e depistatori, Sigfrido Ranucci ha chiesto l’aiuto di Francesco Pazienza per realizzare la puntata di Report sul sequestro Moro
Report e il caso Moro, il silenzio di Ranucci e le rivelazioni di Pazienza
Il caso Moro e Report, quante bugie. Signorile e l’artificiere di via Caetani si smentiscono a vicenda



Il caso Moro e Report, quante bugie. Signorile e l’artificiere di via Caetani si smentiscono a vicenda

di Paolo Morando, Domani 11 gennaio 2024

Davvero l’ex esponente socialista e l’allora ministro degli interni Francesco Cossiga seppero della morte di Moro diverse ore prima del rinvenimento del suo cadavere in via Caetani?

Davvero Claudio Signorile e l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, il 9 maggio 1978, seppero della morte di Aldo Moro diverse ore prima del rinvenimento del suo cadavere in via Caetani?
È solo uno dei tanti elementi del servizio di Report di domenica scorsa sul rapimento e l’uccisione dello statista democristiano da parte delle Brigate rosse, ma è forse quello più suggestivo, tra le miriadi di dubbi, zone d’ombra e presunti misteri su cui dopo decenni si discute ancora oggi, a oltre 45 anni dai fatti.
Tutto ruota attorno a una questione sostanziale: quell’agguato, quel rapimento e quell’uccisione furono tutta farina del sacco brigatista? Oppure vi fu chi “diresse” (o “facilitò”) quell’operazione? E, seguendo questa ipotesi, chi? Servizi segreti, P2, Cia, Kgb, Mossad: da questa maionese impazzita nessuno è stato lasciato fuori. Ma la giustizia ha da anni chiuso la partita, attraverso più processi. E neppure le due inchieste ancora aperte a Roma, condotte dalla procura ordinaria e da quella generale, sembrano fare passi in avanti.
Nel frattempo si è fatto strada un inesauribile filone di pubblicazioni in controtendenza con quanto è stato appurato nelle Corti d’assise. E oltre ai processi ci sono le commissioni parlamentari d’inchiesta. A una prima, specifica, istituita nel 1979 e che chiuse i propri lavori nel 1983 (gli atti sono contenuti in centotrenta volumi, ognuno dei quali composto mediamente da svariate centinaia di pagine), in anni recenti se n’è aggiunta una seconda, la cui documentazione pure consta di migliaia di carte.
Anche commissioni d’inchiesta istituite su altri temi (stragi, P2, Mitrokhin, Antimafia) di Moro si sono lungamente occupate. Aggiungete a tutto questo più opere cinematografiche, una moltitudine di inchieste giornalistiche sulla stampa o in tv, romanzi di para-fiction, opere teatrali… E poi i dibattiti in rete, in cui si discute senza sosta su particolari più o meno rilevanti della vicenda.

La perizia balistica del 2016 che Report non cita
Lo spazio non consente di riprendere qui punto per punto le mille suggestioni di Report, basate principalmente sui lavori della commissione Moro 2, quella presieduta da Giuseppe Fioroni.
Nella trasmissione, a un certo punto, è però stato detto che mai sono state eseguite perizie balistiche aggiornate rispetto a quelle di oltre quarant’anni fa. Lo si diceva a supporto dell’ipotesi secondo cui a sparare il 16 marzo 1978 in via Fani non sarebbero stati solo quattro brigatisti (Fiore, Morucci, Gallinari e Bonisoli), ma anche un altro paio, finora sconosciuti.
E che lo avrebbero fatto non da sinistra, come nella ricostruzione fin qui accreditata, bensì da destra. Ebbene, proprio la Moro 2 si è invece giovata nel 2015 di una perizia balistica compiuta dalla polizia scientifica. E i risultati, che avvalorano la versione brigatista, sono stati recepiti nella stessa relazione del presidente Fioroni conclusiva dell’attività di quell’anno.

Dubbi sull’uso di una moto nell’azione. Le bugie del testimone Marini e il parabrezza mai attinto da colpi di mitraglietta
Non solo. Sempre nella relazione, si sottolineano «due acquisizioni» raggiunte dalla polizia scientifica: «La prima riguarda la scoperta che il parabrezza di Marini non è stato attinto da colpi d’arma da fuoco come finora si è creduto».
E si tratta di quell’ingegnere a bordo di uno scooter che sarebbe stato preso di mira da due motociclisti in fuga da via Fani: vicenda del tutto destituita di fondamento, come lo stesso Marini dovette ammettere in un verbale ancora nel 1994. Il che, per inciso, pone in discussione l’esistenza stessa di quella motocicletta, della cui presenza in via Fani parlarono solo tre degli oltre trenta testimoni a suo tempo messi a verbale.

Nessun superkiller
Ancora, sempre citando Fioroni: «Il secondo punto acquisito dalla polizia riguarda la messa in crisi dell’idea che a via Fani abbia operato un super killer. È vero infatti che vi fu una bocca di fuoco che sparò da sola quarantanove colpi, ma è stato dimostrato che ciò avvenne con una precisione non particolarmente elevata (da quell’arma soltanto sei colpi andarono a bersaglio, attingendo l’agente Iozzino)».
Altro che super killer. Il fatto che poi quella perizia sia stata «oggetto di un’attenta analisi critica da parte di alcuni componenti della Commissione», come scrive Fioroni, conferma una volta di più che anche elementi scientifici possono servire per tirare l’acqua al proprio mulino.

La prigione di Moro fu una sola
Altra questione ampiamente analizzata da Report: davvero Moro è stato tenuto prigioniero nell’appartamento di via Montalcini 8? È stata citata una mezza dozzina di possibili covi alternativi, dei quali pure si parla da anni. Si può però davvero pensare che le Brigate rosse abbiano spostato l’ostaggio più volte nella Roma militarizzata di quelle settimane? Ma soprattutto: perché farlo se davvero le Br erano protette da entità indicibili?

Signorile da Cossiga e la questione dell’ora
Si diceva però di Signorile. La sua presenza nell’ufficio di Cossiga la mattina del 9 maggio è circostanza da tempo nota. Ma davvero al ministro la notizia della morte di Moro arrivò molto prima della telefonata con cui Morucci, alle 12.13, diede notizia al professor Tritto, assistente di Moro, che lo statista era stato ucciso e di dove si sarebbe potuto ritrovare il corpo? Rivedendo Report, ci si accorge che a dire «le 9.30-10» non è Signorile, bensì l’intervistatore.
Signorile peraltro lo lascia parlare senza interrompere, quindi di fatto conferma. Se così fosse, lo capite, si aprirebbero scenari vertiginosi – pure sviluppati da Report – su cui da anni la cosiddetta dietrologia non si è risparmiata. Qui il punto riguarda la validità delle testimonianze orali, soprattutto quelle di coloro avanti con l’età e rese a tanti anni dai fatti su cui la memoria viene sollecitata.
Inoltre, l’impossibilità di riscontrare tali testimonianze con tutti i protagonisti (in questo caso Cossiga). Anche perché l’orario dell’alert al ministro – si scopre rileggendo le tante dichiarazioni di Signorile – è ballerino. Come pure la rilevanza che diede alla questione l’esponente socialista.
Già nel 1980 (commissione Moro 1) Signorile raccontò quella mattina, collocando l’avviso a Cossiga della morte di Moro alle 11: orario inconciliabile con i fatti accertati. Nessuno dei parlamentari però pensò di chiedergli maggiori dettagli sul punto (e della commissione faceva parte pure il comunista Sergio Flamigni, da sempre capofila di chi non crede alle versioni “ufficiali”), probabilmente pensando che Signorile con quell’orario intendesse quello dell’appuntamento con Cossiga al Viminale.
Davanti alla Corte d’assise di Roma invece, nel 1982 in un lungo interrogatorio come testimone, Signorile non sfiorò minimamente la questione di quello strano orario. E anche nel 1999, davanti alla commissione Stragi (quella presieduta da Pellegrino), nuovamente nessun accenno: eppure non si trattava di una questione banale.
Poi, nel gennaio 2010 ne riparlò in una intervista all’Ansa: «Dopo pochi minuti che ero nella sua stanza, erano le 10 e mezzo-11, sentiamo l’altoparlante della centrale operativa, annunciare che la nota personalità era stata ritrovata al centro di Roma», disse a Paolo Cucchiarelli (autore di più libri a cui si è ispirato il servizio di Report). Non risulta che Cossiga abbia smentito.
Ma neppure che qualcuno ne abbia mai chiesto conferma all’allora senatore a vita. Tre anni più tardi (ma attenzione: Cossiga nel frattempo era morto, nell’agosto 2010), parlando con l’Huffington Post, Signorile tornò sulla questione: e collocò invece a mezzogiorno l’allarme a Cossiga. Mentre nel 2020, in una lunga intervista al Corriere della Sera (e l’intervistatore era Walter Veltroni), ecco ancora una volta il racconto di quella mattinata al Viminale. Ma senza alcun riferimento (e relativo sospetto) all’orario in cui Cossiga fu avvisato.
Nel frattempo Signorile era stato sentito anche dalla commissione Moro 2, il 12 luglio 2016: «Io vi sto testimoniando la telefonata vera, quella cioè della questura che chiama il ministro dell’Interno», disse. E all’allora senatore Miguel Gotor, che indicava come orario le 11, rispose: «Più o meno a quell’ora, sì».

L’artificiere Raso e Signorile si smentiscono a vicenda
Va detto che nel 2012 era stato pubblicato un libro di memorie dell’artificiere che intervenne quella mattina in via Caetani, Vitantonio Raso, il quale ha sostenuto di essere arrivato lì tra le 10.30 e le 10.45. E di aver parlato con Cossiga, che era già presente in strada. Peraltro non c’è traccia di sue relazioni di servizio.
Le affermazioni di Raso, per inciso, contrastano con quelle di Signorile: se Cossiga stava già in via Caetani, come poteva essere alla stessa ora con Signorile al Viminale? La procura di Roma, comunque, a suo tempo incriminò Raso per calunnia. E della cosa non si è più sentito parlare.
Che cosa ci dice tutto questo? Quanto meno che quell’orario non è riscontrato (né è più riscontrabile).

Gli orari della centrale operativa dei carabinieri
D’altra parte, il registro delle comunicazioni telefoniche della legione Roma dei Carabinieri di quel giorno attesta alle 13.50 il rinvenimento del cadavere nella R4 rossa, alle 13.59 la sua identificazione e dalle 14.01 in poi l’informazione a tutte le autorità, a partire dalla Presidenza della Repubblica. Ce n’è insomma abbastanza per prendere la cosa (assieme a molte altre) con tutte le molle possibili.

Report e il caso Moro, il silenzio di Ranucci e le rivelazioni di Pazienza

Ho posto ieri a Sigfrido Ranucci delle domande molto semplici a cui ha ritenuto di non dover rispondere convinto che la precedente smentita fornita all’Adnkronos fosse più che sufficiente.

La bugia di Ranucci

Ranucci sostiene che «La puntata gli è arrivata chiusa» è che il programma sia «stato realizzato in piena autonomia dal collega Paolo Mondani», senza alcun intervento da parte sua. 
Ranucci glissa sulla questione essenziale: non dice se c’è stato un contatto tra lui e Pazienza durante la preparazione del servizio, dice di non sapere chi sia Lovatelli Ravarino ma non smentisce il rapporto con Pazienza. Omette imbarazzato la vicenda e sposta il discorso altrove.

«Se abbiamo ricalcato la Commissione Moro 2 non possiamo aver depistato»
Siccome tra le critiche ricevute c’è chi gli ha fatto notare che non c’erano grandi novità nella inchiesta andata in onda, poiché questa «ricalca molto il lavoro della seconda commissione Moro», Ranucci ne ha concluso che non può «esserci stato alcun depistaggio». Lasciando intendere che il lavoro della commissione Moro 2 presieduta da Giuseppe Fioroni abbia dimostrato delle verità storicamente valide e incontestabili e non abbia fatto, come è accaduto, molta confusione, tanti errori, numerosi falsi, ignorando persino le conclusioni delle nuove perizie svolte dalla polizia scientifica e dal Ris dei carabinieri con l’ausilio delle più moderne tecniche forensi.
Ranucci si mostra impreparato sul tema poiché la Moro 2 non ha prodotto alcuna relazione conclusiva sulle indagini svolte, ma ha pubblicato tre relazioni annuali di natura provvisoria che riportavano l’andamento dei lavori. Tanto che uno dei suoi consulenti, l’allora magistrato ancora in attività Guido Salvini, profondamente frustrato per la chiusura anticipata della legislatura e la fine dei lavori della commissione, è riuscito a strappare un incarico ad personam dalla commissione antimafia istituita nella legislatura successiva per portare avanti il suo personale teorema, ripreso pedissequamente da Report (leggi qui).

Le verità contrapposte dei commissari della Moro 2
La mancata conclusione dei lavori con una relazione conclusiva, come già avvenne per la Pellegrino, ha spinto i diversi membri che vi hanno preso parte a pubblicare considerazioni personali in libri e interviste in forte contrasto tra loro (come per altro già avviene tra le varie pubblicazioni dietrologiche che si smentiscono reciprocamente) e che riassumiamo in tre sostanziali posizioni:

  1. La linea Fornaro-Gotor, ricalcata da Report e che in sostanza rilancia la tesi di una interferenza diretta delle forze atlantiche sulla vicenda (Usa-Nato-Inglesi-Israele-P2-Massoneria-Vaticano-Ior-‘Ndrangheta). Narrazione tanto cara all’ex senatore Flamigni ed elaborata per conto del Pci. Tesi che vorrebbe Moro rapito e ucciso per impedire una svolta democratica e progressista nella politica dell’Italia, «l’alleanza rivoluzionaria tra Dc-Pci» come l’ha definita Ranucci.

2. La linea Fioroni-Grassi del tutto ignorata da Report che invece attribuiva le interferenze nel sequestro all’asse geopolitico opposto, ovvero i Paesi del campo socialista (Urss-Rdt-Cecoslovacchia-Bulgaria-Vaticano-Nicaragua con tanto di palestinesi e Libia di Gheddafi con il Lodo Moro sullo sfondo).

3. La posizione condotta dall’allora onorevole Lavagno che ha criticato il metodo approssimativo, per tesi precostituite, portato avanti dalla commissione che ignorava sistematicamente le smentite interessata unicamente a dimostrare i propri pregiudizi complottisti.

L’invenzione della verità ufficiale e la menzogna del patto di omertà
Va detto che le due linee complottiste convenivano su un punto comune, ovvero che esistesse una fantomatica «verità ufficiale» espressa – a loro dire – nelle sentenze giudiziarie (4 processi con relativi gradi di giudizio più 5 inchieste) sommate al «memoriale» dei dissociati-collaboranti Morucci-Faranda, eletto a ricostruzione unica della vicenda, presentato come il frutto di un accordo, un patto di omertà reciproca tra Stato e Br, tra Dc e brigatisti tutti senza distinzione di sorta (in proposito leggi qui).

Si tratta dello schema narrativo costruito negli ultimi anni sulla vicenda e che anche Report ha riprodotto senza particolare originalità. Un schema che consente di presentarsi come i disvelatori di una menzogna pattuita, coloro che fanno riemergere una verità occultata. L’invenzione del «patto», la tesi che i brigatisti abbiano sempre sostenuto un verità che fosse sovrapponibile con la versione delle istituzioni è la prima grande falsificazione di questa narrazione sul sequestro Moro.

Chi conosce l’immensa mole documentale che riguarda la vicenda, chi ha letto le varie sentenze, sa – per esempio – che esse sono in contrasto tra loro, che ci sono errori e inesattezze nelle ricostruzioni dovute alle carenze informative e di indagine che si sono colmate nel tempo, ma mai del tutto, grazie alle successive inchieste e processi. Basti pensare alla dinamica dell’agguato di via Fani descritta nel primo processo e agli accertamenti successivi che l’hanno in parte corretta. O ancora, al numero spropositato di condannati per la partecipazione al sequestro che non corrisponde al numero ben minore dei reali partecipanti, o alle condanne per un fatto mai accaduto, come il tentato omicidio contro il testimone Alessandro Marini, un mentitore seriale alla fine smentito anche dalla Moro 2.

Un memoriale eletto a verità ufficiale
Non esiste una verità ufficiale monolitica, come al tempo stesso il cosiddetto memoriale Morucci-Faranda costruito attraverso il collage delle varie deposizioni fornite durante l’istruttoria e poi nei vari gradi di giudizio, con l’aggiunta finale dei nomi lì dove in precedenza erano stati indicati solo dei numeri (per ottenere ulteriori vantaggi nel trattamento penitenziario), rappresenta la ricostruzione di Moruci e Faranda non delle Brigate rosse, i cui partecipanti al sequestro hanno fornito nel tempo, attraverso libri, interviste, alcuni anche in sede processuale, la loro versione dei fatti. Una poliedricità testimoniale raccolta e ristudiata recentemente da diversi ricercatori che Report si è ben guardata dal consultare. La parola degli storici come quella dei protagonisti ancora in vita, brigatisti da una parte, poliziotti, carabinieri e giudici dall’altra, è l’unica assente nell’inchiesta.

Le versione di Pazienza
L’Adnkronos ha ascoltato anche Francesco Pazienza che ha smentito di esser stato contattato da Ranucci in occasione della inchiesta in preparazione su Report: «Avevo saputo solo – spiega – che (Report ndr.) doveva fare un servizio su Moro». 
Come lo avrebbe saputo non lo dice e sarebbe utile saperlo, visto che non lavora in Rai. Pazienza spiega di essersi mosso autonomamente, rivolgendosi a Lovatelli Ravarino per chiedergli notizie su una vicenda collegata al sequestro per «dare una mano». Nello scambio whatsapp con Lovatelli Ravarino, documentato dallo screenshot (vedi qui), scrive però «Ti contatterà Sigfrido Ranucci se mi dai l’ok per dargli il tuo numero». Lovatelli lo autorizza.

Le rivelazioni di Dark Side

Non vorremmo essere troppo puntigliosi ma l’espressione «Ti contatterà» lascia intendere che ci sia stato un pregresso accordo con Ranucci o comunque l’intenzione di contattarlo immediatamente. Di questo parleremo meglio in una prossima puntata, per ora limitiamoci ad una grossa novità emersa ieri nel corso di una nuova intervista a Pazienza trasmessa sul sito di Dark Side, un format complottista che si occupa della «storia segreta d’Italia», curato da Gianluca Zanella, agente letterario che ha promosso il libro, La versione di Pazienza, scritto da Pazienza stesso, e si occupava di inchieste sul Giornale.it insieme al suo amico Marcello Altamura, giornalista su Cronache di Napoli e in passato sul Giornale, autore di un libro su Maradona e di uno su Senzani.
Nel corso della intervista, Pazienza ribadisce quanto già detto all’Adnkronos sul rapporto nato «un paio di anni fa» con Ranucci. Ma dal minuto 4 possiamo sentire (clicca qui):

«Conosco Ranucci da due anni e mezzo perché Ranucci scrisse alcune imprecisioni su di me, io gli dimostrai che quello che aveva detto era assolutamente contrario alla verità con documenti alla mano e lui molto onestamente rilasciò una dichiarazione Ansa in cui diceva chiaramente che era incorso in una imprecisione nei miei confronti. Da quel momento è nato un rapporto amichevole con Ranucci, è tutto qui né più né meno […] Adesso io non faccio la lista ma ci sono alcuni enormi scoop fatti dalla Rai che sono stati fatti grazie a me».

Zanella non incalza Pazienza, non gli pone subito la domanda giusta: quali sarebbero questi scoop e per quali trasmissioni della Rai li avrebbe forniti?

Ricapitoliamo
Pazienza conosce Ranucci da due anni e mezzo, si sono sentiti più volte. Ranucci è il conduttore di Report dal 2017 e vicedirettore di Rai Tre dal 2020.
Credo che tutti cittadini che pagano il canone Rai vorrebbero sapere quale sia la natura dei rapporti che intercorre tra Ranucci e Pazienza e quali scoop egli ha fornito alla Rai o a Report?

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Depistaggi e depistatori, Sigfrido Ranucci ha chiesto l’aiuto di Francesco Pazienza per realizzare la puntata di Report sul sequestro Moro

Rivelazioni – Per denunciare un depistaggio è opportuno rivolgersi a un depistatore di professione, condannato per questo dalla giustizia? 
Per denunciare il presunto ruolo avuto da Servizi segreti occidentali, insieme a massonerie e consorterie varie, è normale chiedere l’aiuto di colui che è ritenuto una delle figure apicali del cosiddetto «Sismi parallelo», stretto collaboratore del generale Santovito, capo del Sismi ufficiale?
Sarebbe come se la pecora chiedesse al lupo di scoprire chi ha mangiato i suoi agnellini. Ebbene, è proprio quello che ha fatto Sigfrido Ranucci per confezionare la puntata di Report sul sequestro Moro, andata in onda ieri sera dopo un impressionante battage pubblicitario sulle verità nascoste e finalmente rivelate.

Francesco Pazienza interviene per «dare una mano» a Report
Siamo venuti in possesso di uno scambio whatsapp tra Francesco Pazienza e Cristiano Lovatelli Ravarino, giornalista italoamericano, avvenuto nella fase preparatoria della trasmissione. Pazienza, in un inglese alquanto incerto, chiede a Ravarino se può aiutarlo «con particolari mai svelati riguardanti la tragedia di Moro?». Si tratta – prosegue – «di una nuova ricostruzione del rapimento e della morte da parte della televisione italiana. Mi hai accennato ad alcuni particolari riguardanti il ​​luogo di Roma dove era stato ritrovato il corpo di Moro».
Pazienza fa riferimento alla parentela di Ravarino con la nobile famiglia Caetani, via nella quale venne fatto trovare Moro all’interno della Renault 4 la mattina del 9 maggio 1978 ed è situato palazzo Caetani.

A quel punto Ravarino chiede se «è un collega giornalista americano che ti sta intervistando?» e Pazienza risponde: «No, Rai e non mi sta intervistando. Se posso cerco sempre di dare una mano», quindi informa Ravarino: «Ti contatterà Sigfrido Ranucci se mi dai l’ok per dargli il tuo numero». Ravarino accetta anche se alla fine non è stato coinvolto nella trasmissione. Ma il punto, diremmo lo scandalo, la vergogna, la presa in giro per tutti gli ascoltatori e utenti della televisione pubblica, è il coinvolgimento di Pazienza nella costruzione della inchiesta. Una inaspettata circostanza che spiega a quale mondo gli autori di Report si sono abbeverati per raccontare i presunti segreti del sequestro Moro. Un mondo di depistatori, fatto di agenti informali dei Servizi, di relazioni ambigue e poco trasparenti, abituati ad agire nell’ombra, dietro le quinte e che secondo i giornalisti di Report avrebbero il dono di fare luce su vicende come il sequestro dello statista democristiano. Singolare paradosso per una trasmissione a tesi che ripropina la versione, ormai screditata, del ruolo giocato nella vicenda dai servizi americani-inglesi-mossad-massoneria-P2-’ndarngheta-fino al commissariato di Montemario per bloccare «l’accordo rivoluzionario tra DC e Pci», come ha detto in trasmissione lo stesso Ranucci.
Un po’ come chiedere al leone di raccontare la storia della gazzella, tramanda un vecchio proverbio africano.
Una contraddizione inquietante che solleva dubbi sulla genuinità degli intenti e sulla correttezza del lavoro svolto. Potremmo fermarci qui senza aggiungere altro, perché l’ingombrante figura di Francesco Pazienza è già molto, anzi troppo.

Una discarica della dietrologia
Su quello che ci ha propinato la puntata di ieri sera, una sorta di discarica dell’ultima dietrologia raccolta tra i rifiuti della commissione Moro 2 e la relazione del magistrato Guido Salvini presentata nella scorsa legislatura per la commissione antimafia, in realtà si è già scritto e detto molto negli anni passati. Ripercorrere ogni questione, punto per punto, richiederebbe lo spazio di uno o più libri già scritti e pubblicati, per questo rinvio ai lavori di Clementi, Satta, Lo Foco, Armeni, e ai miei, nonché alle molte pagine di questo blog dedicate a queste vicende, dove le fake news propinate sono state smontate e chiarite ampiamente.

La memoria scivolosa di Claudio Signorile
Ieri sera il succo della trasmissione ruotava attorno alla testimonianza dell’ex segretario del partito socialista Claudio Signorile, personaggio dalla memoria scivolosa che ha cambiato più volte versione nel tempo, arricchendola di particolari mai citati in precedenza e anticipando ogni volta gli orari dell’incontro con Cossiga, la mattina del 9 maggio 1978 al Viminale, e l’arrivo della telefonata che l’avvertiva del ritrovamento del corpo di Moro (leggi qui). Davanti alla corte d’assise del primo processo Moro, quando i fatti non erano lontani e la memoria fresca, Signorile non accennò mai all’episodio. La sua versione è sostanzialmente cambiata tre anni dopo la morte dell’ex presidente della Repubblica (2010), l’unico che poteva smentirlo, e le dichiarazioni di uno degli artificieri chiamati il 9 maggio in via Caetani per aprire la Renault 4. Modificando nel 2013, a distanza di decenni, la sua versione, l’artificiere sostenne che Cossiga sarebbe arrivato sul luogo prima della telefonata dei brigatisti che annunciavano la riconsegna del corpo. Vitantonio Raso, questo il suo nome, dopo una inchiesta che verificò l’inattendibilità della sua nuova versione venne indagato per calunnia e depistaggio dalla magistratura. L’episodio riaccese l’incerta memoria di un Signorile attempato e senile che, dimenticando la ragione politica per cui era andato da Cossiga quella mattina, ovvero perorare la trattativa proprio il giorno in cui Fanfani aveva promesso di dire qualcosa durante i lavori della Direzione democristiana, cosa che non fece tacendo, accusa l’allora ministro dell’Interno di aver saputo in anticipo della morte di Moro e di essere per questo in qualche modo coinvolto nella sua uccisione, non più per mano brigatista o solo brigatista, ma di altre forze, i servizi inglesi, che sarebbero subentrati.

De relato, morti che parlano o non possono replicare

La tecnica narrativa impiegata nella puntata e ripresa dai lavori di noti dietrologi e ipercomplottisti è interamente costruita su congetture, ipotesi, periodi ipotetici della irrealtà, de relato di secondo o terzo grado, che hanno come fonte originaria dei defunti, morti che parlano come per la vicenda di via dei Massimi, uno degli ultimi topos della dietrologia, che tanto ha ossessionato i lavori della commissione Moro 2 presieduta dal Giuseppe Fioroni. 
Un pallino, in realtà, di alcuni suoi consulenti, come il colonnello dei carabinieri Giraudo e il giudice Salvini, abili nel far parlare i defunti, come il portiere del palazzo che avrebbe raccolto le confidenze dell’altro defunto, il generale D’Ascia (sembra un’agenzia funebre), militare del genio, fonte della guardia di finanza con il compito di monitorare una palazzina frequentata dal cardinale Marcinkus (implicato nello scandalo dello Ior) e da altri prelati vaticani e diplomatici. Surreale la testimonianza dei figli del portiere presentata durante la trasmissione.
In questa sua veste, D’Ascia, o meglio i suoi de relato riferiti al portiere e riportati dai figli, avrebbero dato sfoggio alla sua mitomania attirando l’attenzione su una giornalista, corrispondente dei più importanti settimanali tedeschi e della televisione pubblica, che aveva avuto una figlia con il parlamentare del Pdup Lucio Magri, ed era amica di Franco Piperno. Le accuse mosse contro la donna dalla commissione Moro 2 hanno dato luogo ad una querela (Leggi qui) contro uno dei suoi membri, Gero Grassi, è oggi sono approdate alla corte europea di Strasburgo, dove è stato depositato un ricorso contro lo Stato italiano (leggi qui). Abbiamo così saputo che Marcinkus amava banchettare in giardino con carni arrostiste sul barbecue e che la prima prigione di Moro sarebbe stata una dépendance abusiva situata sul balcone dell’alloggio dell’ambasciatore dello Scia di Persia, che non era l’Iran di Komeini. In una città super blindata, Moro non sarebbe mai approdato in via Montalcini ma avrebbe trascorso una vacanza nella villa degli Odescalchi a Palo Laziale, passeggiando sulla sabbia che gli rimase nel risvolto dei pantaloni, quindi ricondotto lungo la via Aurelia, dove ogni chilometro c’era un posto di blocco con nido di mitragliatrici, avrebbe transitato per il ghetto per poi essere ucciso in un deposito di via della Chiesa nuova. Anche qui rivelazione ricavata dai de relato di due morti: De Lutiis e Vincenzo Parisi, ex capo della Polizia e del Sisde.
Un pezzo da «Blob» è stata invece la lunga testimonianza dell’anonimo travisato nel buio di una stanza, una sorta di teste della corona presentato come un poliziotto esperto a cui venivano fatte raccontare circostanze inverificabili o già note, perché riportate nelle relazioni annuali della Cm2. Insomma un giornalismo che non ha nemmeno il coraggio di presentare le sue fonti in chiaro, accettando il principio della verificabilità. Ne è venuto fuori un racconto obliquo, opaco, immerso nella melma acquitrinosa e malarica del complottismo. E chissà alla fine cosa penserà il povero Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione familiari della vittime della strage di Bologna, per essere intervenuto in una trasmissione che ha visto tra i collaboratori anche Francesco Pazienza, condannato per il depistaggio sulla strage.

Le fake news di Report sul caso Moro e la memoria scivolosa di Signorile

Nel corso della trasmissione in onda su Report in questo momento l’ex vice segretario del partito socialista Claudio Signorile afferma di essere stato convocato al Viminale dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga la mattina del 9 maggio. Nel corso dell’incontro – afferma – Cossiga sarebbe stato avvisato da una telefonata del ritrovamento del corpo di Aldo Moro. La comunicazione sarebbe giunta, secondo Signorile non oltre le 10.00 del mattino, perché ricorda che prese con un caffé «e il caffé non si prende a tarda mattinata». La telefonata che Valerio Morucci per conto delle Brigate rosse fece al professor Tritto è delle 12.13 minuti. La notizia venne diramata dall’Ansa alle 13.59 mentre il centralinio della sala operativa dei carabinieri riceve comunicazione del ritrovamento di un corpo all’interno di una Ranault 4 in via Caetani alle 13.50 e alle aale 13.59 conferma che si trattava del cadavere di Aldo Moro.
La testimonianza di Signorile lascia intendere dunque che apparati dello Stato erano al corrente del rinvenimento del corpo dello statista democristiano prima della telefonata della Brigate rosse. Una ricostruzione che porterebbe a ritenere provato il coinvolgimento di questi apparati nella esecuzione o comunque nella conoscenza delle ultime mosse fatte dalle Brigate rosse in quelle ore.

Una memoria scivolosa che cambia nel tempo
Tuttavia la testimonianza attuale di Signorile contrasta con quanto da lui affermato in passato.
A pochi anni di distanza dal ritrovamento del corpo di Moro, nei primi anni 80 davanti alla corte d’assise dove si svolgeva il primo processo sul sequestro dello statista democristiano, Signorile lungamente interrogato dal presidente e dalle parti civili non fece mai riferimento all’incontro conn Cossiga e tantomeno alla telefonata da lui ricevuta con largo anticipo sull’orario ufficiale sul ritrovamento del corpo di Moro.
Nel 1980 audito dalla prima commissione Moro accennò per la prima volta all’incontro con Cossiga, dove si era recato per perorare la causa della trattativa. quella mattina infatti si riuniva la direzione della Dc e Fanfani, da lui convinto, avrebbe dovuto prendere la parola in favore di un’apertura verso la trattativa. Disse che intorno alla 11 giunse la telefonata che avvertì Cossiga del ritrovamento del corpo di Moro. In commissione nessuno eccepì sull’orario, in largo anticipo con quello ufficiale, eppure erano presenti i vari Flamigni e compagni. Probabilmente intesero nell’orario inesatto di Signorile che volesse intendere in tarda mattinata o che le 11 era l’ora in cui fosse arrivato all’appuntamento.
Nel 1999 davanti alla commissione Pellegrino, Signorile tornò sull’incontro con Cossiga la mattina del 9 maggio 1978 senza riferire della telefonata giunta in anticipo.
Nel 2010 Francesco Cossiga è morto.
Nel 2013 l’artificiere Vittantonio Raso che la mattina del 9 maggio giunse in vai Caetani per le verifiche di sicurezza e l’apertura del portellone della Renault 4 dove si trovava Moro affermò di esser giunto sul posto con largo anticipo rispetto all’orario poi divenuto ufficiale e disse di aver visto Cossiga giungere una prima volta da solo e poi succesivamente, quando la notizia venne diffusa, con le altre autorità. L’inchiesta che ne seguì però smenti le sue affermazioni tanto da finire indagato per falsa testimonianza. Dopo le parole dell’artificiere, improvvisamente Claudio Signorile ritrovò la memoria per affermare che il 9 maggio era andato da Cossiga, stavolta non più per parlare della trattativa e di Fanfani ma convocato dal ministro dell’Interno che gli sarebbe apparso molto teso. Anche l’orario cambiava, non più le 11 ma tra le 9 e le 10, perché il caffé, che presero insieme, si prende presto e così anche la telefonata, il cicalino che suonò sulla scrivania del minsitro, si fece sentire molto prima. Insomma la polizia e Cossiga avrebbero saputo del ritrovamento del corpo la mattina del 9 maggio e questo perché forze straniere avrebbero agito quel giorno sostituendosi e imponendosi sulle Brigate rosse.
Da allora Signorile ha ribadito questa versione in interviste e in davanti la seconda commissione Moro nel 2016.
Insomma una memoria scivolosa quella dell’ex segretario del partito socialista che si arricchisce nel tempo di dettagli per decenni dimenticati e soprattutto quando chi potrebbe smentirlo e morto. Forse Signorile ha bisogno di dire queste cose per farsi perdonare il suo convolgimento nel tentativo di dare vita ad una trattativa che salvasse Moro.

La commissione Moro 2 e la strana scomparsa dei documenti che scagionano la giornalista Birgit M. Kraatz

Doveva essere la commissione della verità finale sul rapimento Moro. Il presidente Giuseppe Fioroni appena insediato aveva promesso che finalmente sarebbe stata accertata la verità sempre «negata, spazzando via il «patto del silenzio», il muro di presunta «omertà» tra brigatisti e uomini dello Stato, secondo la definizione coniata da Sergio Flamigni nella sua saga dietrologica. Una versione dei fatti, nient’affatto coincidente con la realtà, che secondo il presidente della nuova commissione Moro avrebbe «tombato l’indicibile verità» del rapimento e della uccisione nel 1978 del presidente del consiglio nazionale della Democrazia cristiana.


Il nuovo porto delle nebbie

La Moro 2, i cui lavori si sono tenuti dal 2014 al 2018, si è rivelata invece l’ennesimo porto delle nebbie. Un luogo dove non solo non è mai emersa quella verità illibata, promessa all’inizio, ma addirittura alcune risultanze documentali scomode e non preventivate, le fastidiose acquisizioni emerse nel frattempo – ma non in linea con gli auspici del suo presidente – si sono perse tra gli scaffali degli archivi. La verità tanto promessa è così annegata nelle acque torbide del complottismo, risucchiata dai vortici profondi di ipotesi e congetture dietrologiche che hanno guidato come fossero un assioma indiscutibile il cammino della commissione.

Le accuse contro la giornalista Birgit M. Kraatz
Nell’ultimo anno di lavori la commissione si era occupata di un complesso immobiliare sito in via dei Massimi, nella parte alta di via Balduina, a Roma. Una zona distante poche centinaia di metri in linea d’aria dal luogo del rapimento dello statista democristiano. A dire il vero, non si trattava affatto di una novità: già nei giorni successivi al rapimento erano circolate voci sul comprensorio di palazzine dell’Istituto opere religiose del Vaticano situato al civico 91 di quella via. Nel novembre del 1978, un quotidiano romano, Il Tempo, anticipò un articolo dello scrittore Pietro Di Donato apparso nel numero di dicembre sulla rivista erotica-glamour Penthouse. Nell’articolo si sosteneva che la prigionia di Moro si era svolta nella zona della Balduina, luogo dove sarebbe avvenuto il trasbordo del prigioniero ed erano state abbandonate le macchine impiegate in via Fani. Agli atti risulta che le forze di polizia effettuarono controlli e perquisizioni in alcune palazzine e garage dei dintorni senza alcun esito. La sortita di Di Donato fu ripresa nel gennaio 1979 da Mino Pecorelli sulla rivista legata ai Servizi Osservatorio politico. Ne accennò anche il pm Nicolò Amato durante le udienze del primo processo Moro, agli inizi degli anni 80. Più tardi se ne occupò, sempre senza pervenire a risultati, la prima commissione Moro finché la diceria venne consacrata nelle pagine di un libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate pp. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica.
Una vecchia leggenda presa per buona dalla commissione e riportata nell’ultima relazione approvata nel dicembre 2017 con l’aggiunta di una novità: ad una giornalista di nome Brigit M. Kraatz, corrispondente in Italia delle più importanti testate giornalistiche tedesche e residente nel 1978 in via dei Massimi 91, con la figlia e la governante che accudiva la bambina, si attribuiva un ruolo nel sequestro Moro. Nel relazione si affermava che Franco Piperno, amico da almeno un decennio della Kraatz, la mattina del 16 marzo 1978 avrebbe controllato dalle finestre dell’appartamento della donna il buon andamento del sequestro, ovvero l’arrivo delle macchine dei brigatisti con Moro all’interno e il loro ingresso nel garage dove il prigioniero – sempre secondo la fantasiosa ricostruzione della commissione – sarebbe stato fatto scendere e nascosto in un’abitazione del palazzo. Si aggiungeva inoltre che la giornalista era, in realtà, una nota esponente del gruppo sovversivo tedesco «2 Giugno». Sarebbe bastato svolgere un sopralluogo nella ex abitazione della Kraatz per rendersi conto che dalle sue finestre non era possibile alcuna visuale sull’ingresso del garage, ma sarebbe stato chiedere troppo ad una commissione il cui lavoro è consistito essenzialmente nell’accreditare congetture piuttosto che verificare la fondatezza dei fatti.

«Birgit Kraatz non è un membro della 2 giugno», Il documento della polizia tedesca che smentisce Fioroni
Venuta a conoscenza della vicenda solo qualche tempo dopo, il 26 febbraio 2018 Brigit M. Kraatz inviò una prima lettera a Fioroni nella quale chiedeva di cancellare dalla relazione le «calunniose asserzioni» rivolte alla sua persona (allegato 1). Lettera che non ricevette mai risposta anche perché nel frattempo la commissione aveva chiuso i battenti per la fine anticipata della legislatura. Nel frattempo Birgit M. Kraatz segnalò la vicenda anche all’allora presidente della Camera dei deputati, Roberto Fico, prima nel maggio e poi nell’ottobre 2018. Negli stessi giorni si rivolse anche alle altre cariche del Stato, la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, anche in questo caso ricevendo come risposta solo una glaciale indifferenza.
Il 4 ottobre successivo, Fioroni ormai ex presidente della commissione nel corso della presentazione di un suo libro, Moro il caso non è chiuso. La verità non detta, davanti alle domande dei giornalisti spiegò che nell’agosto 2018 era pervenuta una nuova informativa che smentiva il coinvolgimento della Kraatz nell’organizzazione «2 giugno». L’Ansa del giorno successivo riferì le sue parole: «Sull’adesione di Birgit Kraatz all’organizzazione estremista tedesca del ‘2 Giugno’, “ci sono degli atti che lo dicono e che noi abbiamo ereditato, ma c’è anche un documento di due mesi fa che dice che lei non c’entra niente“». In evidente difficoltà per la micidiale bufala scolpita nella relazione della commissione, Fioroni provava a salvare capra e cavoli affermando che «il riferimento alla giornalista era per il rapporto avuto con Piperno (“assolutamente legittimo”, secondo Fioroni) e in primis per l’eventuale presenza di Piperno nel palazzo romano. “A noi interessa – concludeva l’ex deputato – solo per le relazioni sentimentali che aveva. Abbiamo inserito lei nel testo solamente per dimostrare che c’era Piperno che frequentava quella casa. Poi se era dell’organizzazione del 2 giugno o altro, a me non serviva a niente”».
Il 18 ottobre 2018 i legali della signora Kraatz scrissero nuovamente all’ex presidente Fioroni, chiedendogli ancora una volta di correggere la relazione e allegando due comunicazioni della Bundeskriminalamt, l’Ufficio federale della polizia criminale (Bka), del 26 giugno e del 4 ottobre 2018 nel quale si certificava che il nome della signora Kraatz non era mai stato menzionato in alcun documento della struttura e la sua totale estraneità con le vicende della «2 giugno».

L’origine della calunnia

Il nome della Kraatz era stato tirato in ballo da una vecchia relazione del 31 luglio 2000 presentata dai due parlamentari di Alleanza nazionale provenienti dall’Msi, Alfredo Mantica ed Enzo Fragalà, membri della commissione Stragi nella quale appariva in modo del tutto abusivo il nome di «Birgit Kraatz».
A seguito di una rogatoria diretta alle autorità tedesche, presentata dal giudice Francesco Amato sui nomi di alcuni esponenti vicini al movimento eversivo «2 giugno», la polizia tedesca inviava in risposta una relazione. Senza alcuna giustificazione comprensibile, l’Ucigos – l’Ufficio centrale della polizia politica destinatario della relazione – apponeva il nome di Birgit Kraatz nella lettera che accompagnava il testo della Bundeskriminalamt. Nome che invece non era presente all’interno del documento della polizia tedesca e che mai più riapparirà. Nella successiva minuta della Digos di Roma, che riceve la documentazione dall’Ucigos e la rigira al magistrato, non vi è infatti più alcuna traccia della Kraatz. Nonostante questa anomalia, i due parlamentari che evidentemente si erano soffermati solo sulla minuta di accompagnamento riportano il nome della donna nella loro relazione, indicandola come una esponente del gruppo «2 giugno». Diciassette anni più tardi, alcuni consulenti della commissione Fioroni che scandagliavano i materiali digitalizzati prodotti dalle precedenti commissioni intercettano il nome della Kraatz incrociandolo con quello delle persone che risiedevano nel 1978 nella palazzina di via dei Massimi 91. Nasce così il grossolano errore: nessuno legge attentamente le carte e si domanda perché il nome della Kraatz sia assente dalla relazione inviata della polizia tedesca (la fonte primaria) ma compaia nella minuta italiana che l’accompagna. Non si svolgono le necessarie verifiche, non si fanno approfondimenti su altre fonti di informazione. In poche parole non si utilizza una corretta metodologia. Emerge un modo di lavorare superficiale che evita sistematicamente ogni indizio, segnale o prova che sollevi dei problemi, inceppi o allontani dalla meta prefigurata o peggio smentisca i teoremi precostituiti. Insomma una gigantesca officina di fake news. Ad aggravare ulteriormente il comportamento della commissione è un rapporto del 19 marzo 2018 (protocollo 3698 del 20 marzo 2018), prodotto da una collaboratrice della commissione, contenente diversi documenti dell’Ucigos appena declassificati. Nella nuova documentazione è presente una nota del 28 settembre 1981, inviata all’Ucigos dal questore Giovanni Pollio, in cui si spiega che Birgit Kraatz è una giornalista che «svolge la propria attività lavorativa presso la redazione del periodico tedesco “Stern” di cui è corrispondente».

L’intangibilità delle relazioni prodotte dalle commissioni parlamentari

Dopo essere riuscita a contattare gli uffici della commissione alla signora Kraatz fu spiegato che il testo di una relazione parlamentare una volta deliberato, ovvero accolto e votato dai membri della commissione e successivamente approvato dal voto delle aule parlamentari, non è modificabile in alcun modo. L’unica possibilità era quella di inviare la nuova documentazione della Bka che correggeva le asserzioni contenute nella relazione all’ufficio stralci in modo da poter esser messa a disposizione degli studiosi che ne avrebbero fatto domanda. Richiesta che venne esaudita il 18 ottobre 2018 con l’invio della documentazione all’allora segretario della commissione Moro 2, dottor Tabacchi. Per aggirare l’intangibilità del testo della relazione i legali della Kraatz proposero ragionevolmente di allegare la nuova documentazione al testo della relazione e di modificare le informazioni che circolavano su internet (allegato 2). Ancora una volta nessuno ha mai preso in considerazione la proposta tantomeno inviato un qualunque segnale di risposta.


Verità storica e verità deliberata

L’intangibilità delle relazioni votate dalle commissioni parlamentari d’inchiesta merita una riflessione particolare. Ci troviamo, infatti, di fronte al postulato di una nuova verità: la verità parlamentare che è tale poiché delibera una volontà del popolo che rappresenta. Un modello procedurale che all’atto della deliberazione crea dei fatti, congelandoli, al pari delle sentenze giudiziarie. Una volta deliberate o sentenziate queste versioni degli accadimenti diventano intangibili, salvo lunghe e limitatissime eccezioni, a differenza della verità storica che ha una natura processuale soggetta a possibili e continue rimesse in discussione dovute all’emergere di nuove metodologie o all’acquisizione di nuovi documenti, circostanze e informazioni. Accade così che la verità parlamentare si adagia su una narrazione degli eventi deliberata sulla base delle convenienze di una maggioranza politica senza più recepire eventuali smentite. E’ il grande limite delle commissioni parlamentari che agli occhi degli storici riservano interesse soprattutto per il bacino documentale raccolto, quando questo è accessibile, più che per le loro conclusioni.

La querela contro Gero Grassi
Nell’autunno del 2020, Birgit M. Kraatz nel tentativo di fare giustizia delle calunnie prodotte contro la sua persona querelava anche uno dei membri più attivi della commissione Moro 2, l’ex vice presidente del gruppo parlamentare del Pd alla Camera Gero Grassi (leggi qui). Non più parlamentare, per la mancata ricandidatura nelle liste del suo partito, Grassi aveva ripubblicato in un suo volume le accuse contro la signora Kraatz ribadendo la sua appartenenza al gruppo sovversivo «2 giugno». Ormai privo della immunità, che gli aveva garantito in precedenza di poter affermare qualunque cosa senza conseguenze, Grassi è stato raggiunto dalla denuncia che, inizialmente depositata a Grosseto, per competenza territoriale è stata assegnata al tribunale di Trani, luogo di sua residenza, dove il Gip rigettando la richiesta di archiviazione proposta dalla procura ha disposto ulteriori accertamenti.

La verità parlamentare diventa verità giudiziaria. Birgit Kraatz accusata anche dai giudici della strage di Bologna
Con grande sconcerto la scorsa estate Birgit M. Kraatz ha scoperto di essere finita anche nelle pagine della sentenza di condanna per la strage alla stazione centrale di Bologna del 2 agosto 1980, emessa contro il neofascista Paolo Bellini e depositata nell’aprile del 2023. Riprendendo alcuni stralci della relazione del dicembre 2017 prodotta dalla commissione Fioroni, con l’intenzione fallace di sostenere la tesi delle «convergenze parallele» tra lotta armata di sinistra e stragismo fascista, i giudici della corte d’assise assecondavano, a pagina 1631 (allegato 3), l’appartenenza della Kraatz alla organizzazione sovversiva «2 giugno». Il 20 settembre la giornalista inviava l’ennesima lettera di smentita, stavolta alla corte di appello bolognese che ha in carico il processo d’appello, chiedendo «di interrompere finalmente questa catena di montaggio di accuse false […] e di correggere definitivamente questo sbaglio nella vostra sentenza d’Appello e ristabilire che io non ho mai fatto parte di nessuna organizzazione terroristica (allegato 3) .

La richiesta di spiegazioni rivolta all’archivio della commissione Moro 2 e la scoperta che le lettere e i documenti inviati nel 2018 sono scomparsi

Stupita dal fatto che i documenti inviati nel 2018 a Giuseppe Fioroni e all’ufficio stralci della commissione non fossero stati recepiti, la signora Kraatz si è rivolta nuovamente al vecchio segretario, il funzionario della Camera dei deputati dottor Tabacchi, nel frattempo trasferito a nuovo incarico, chiedendogli dove fosse finita la documentazione inviata e se questa fosse mai stata allegata alla relazione, come richiesto.

La risposta pervenuta è stupefacente: la lettera a Fioroni inviata nel febbraio 2018, acquisita in data 26 marzo 2018 con protocollo 3693 (serie corrispondenza), e i documenti della Bka, acquisti il 5 novembre 2018 con protocollo 88 dell’Ufficio stralcio, risultavano scomparsi, introvabili.

Io stesso prima di redigere questo articolo ho cercato nuovamente i documenti, prima sul portale della commissione, senza trovarli, poi rivolgendomi al dottor Tabacchi che mi ha rinviato all’archivio a cui ho subito scritto ricevendo questa risposta: «La informiamo che sono state avviate le procedure di ricerca e riscontro documentale. Saranno necessari, al riguardo, alcuni tempi tecnici, al momento non precisabili. Avremo cura di comunicarLe gli esiti delle verifiche esperite. Cordiali saluti».
Era il 22 ottobre 2023, da allora più nulla.
Dove sono finiti quei documenti regolarmente protocollati? Possibile che nessuno sappia la fine che hanno fatto? Sono forse stati secretati e inviati alla procura romana nell’ambito dell’inchiesta che sta conducendo su via dei Massimi e via Licinio Calvo? Se fosse questa la ragione appare strano che dei documenti regolarmente protocollati in entrata non risultino segnalati in uscita. Dove sono allora?

Allegato 1
Lettera a Giuseppe Fioroni, presidente della commisione Moro 2, del 26 febbraio 2018, scomparsa dagli archivi

Allegato 2
Le due comunicazioni della Bundeskriminalamt, l’Ufficio federale della polizia criminale tedesca, scomparse dall’archivio della commissione Moro 2

Allegato 3
Lettera con richiesta di correzione inviata alla corte d’apello di Bologna e pagina 1631delle motivazioni della sentenza di condanna in primo grado del neofascista Paolo Bellini per la strage alla stazione centrale di Bologna del 2 agosto 1980