Il ruolo avuto dagli apparati statali nella stagione iniziale dello stragismo degli anni 70

Intervento – A proposito della recente polemica tra Paolo Morando e Vladimiro Satta sul ruolo avuto da parte di apparati e settori dello Stato nella stagione iniziale dello stragismo degli anni 70

di Paolo Persichetti

Il 6 settembre scorso in un post sulla sua pagina faceboock Paolo Morando ha segnalato una serie di errori fattuali commessi da Vladimiro Satta nella appendice della edizione aggiornata del suo I nemici della repubblica, Rizzoli, 2024 (prima edizione Rizzoli 2016). Inesattezze contenute in alcuni passaggi che criticavano il suo libro del 2019, Prima di Piazza Fontana. La prova generale. Ad avviso sempre di Morando, quegli errori non erano veniali poiché, oltre a chiamarlo in causa, avrebbero ingannato il lettore.

Nella sua replica Satta ha riconosciuto che vi erano delle imprecisioni per poi aggiungere che il vero oggetto della divergenza portava nella diversa «valutazione storica degli attentati minori che nel 1969 precedettero la strage di Piazza Fontana a Milano».

Se per Morando si trattava, con la scrupolosa citazione degli episodi, della prova che le indagini furono orientate volutamente nella direzione degli anarchici, valutazione fatta soprattutto alla luce di quanto poi avvenne il 12 dicembre in piazza Fontana, a Milano, all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura dove morirono 17 persone dopo l’esplosione di una bomba e altre 88 rimasero ferite. Per Satta invece l’Ufficio politico della questura avrebbe agito senza secondi fini, indotto nell’errore dall’abitudine di alcuni ambienti anarchici a commettere piccoli attentati dinamitardi e soprattutto l’esito finale dei processi, che condusse all’assoluzione di gran parte degli inquisiti, avrebbe smentito la teoria della macchinazione o per meglio dire del pregiudizio politico da parte della questura. Insomma si sarebbe trattato di una legittima indagine che grazie alle garanzie processuali e ai contrappesi costituzionali, commisurò le reali responsabilità sui fatti accaduti.

Il secco botta e risposta (lo potete leggere in fondo) che i due studiosi si sono scambiati, riveste una certa importanza poiché solleva una rilevante questione storica sul ruolo avuto da parte di apparati e settori dello Stato nella stagione iniziale dello stragismo degli anni 70.

L’esplosione di due bombe il 25 aprile 1969, alla fiera campionaria (20 feriti) e alla stazione centrale di Milano, provocò l’arresto di sei persone di area anarchica su impulso di una indagine condotta dal commissario Calabresi. Ai sei vennero contestati complessivamente 18 attentati esplosivi, 12 dei quali considerati «stragi» (ricordo che il reato di strage, trattandosi di reato di pericolo, è punibile sulla sola base delle intenzioni anche se la strage non viene poi commessa e vi sono solo danni materiali, addirittura senza feriti), Vennero anche incriminati per falsa testimonianza e rinviati a giudizio l’editore Feltrinelli e la moglie.

La prima circostanza singolare di questa inchiesta sta nel fatto che nonostante gli arresti siano scaturiti dopo la bomba alla fiera campionaria, i sei non vennero accusati di strage per questo attentato, l’unico che ebbe feriti. Alla fine solo tre dei sei arrestati vennero condannati, tutti a pene molto lievi, per sei episodi minori avvenuti in ore notturne unicamente con danni materiali. Delle altre 12 esplosioni: le due più importanti, quelle del 25 aprile alla fiera campionaria con 20 feriti, e alla stazione centrale, furono – solo anni dopo – attribuite in via definitiva alla cellula ordinovista di Padova guidata da Freda e Ventura; delle altre 10 (minori avvenute in ore notturne, senza feriti), nulla si è mai più saputo.

Ora secondo Satta, l’iter giudiziario con l’assoluzione finale dei più proverebbe che non vi fu alcun intento persecutorio ma solo un fisiologico funzionamento dell’azione di controllo repressivo delle forze di polizia e di verifica della giustizia. «Non si può dire – scrive – che il procedimento giudiziario sia stato persecutorio, e ancor meno che fossero stati dolosamente colpevolizzati gli anarchici per arrivare a Feltrinelli e alla sinistra tutta». Ed è qui che le sue argomentazioni suscitano le prime perplessità: perché se è vero che in sede di dibattimento tutto si sgonfiò, non fu la stessa cosa durante l’inchiesta di polizia e l’istruttoria, che all’epoca era nelle mani del giudice istruttore, il quale – cito le parole di Morando: «si limitò a vidimare l’esito l’esito delle indagini dell’Ufficio politico della Questura di Milano, condotte dal commissario Calabresi, e a rinviare a giudizio tutti gli arrestati, tranne due due, una coppia di amici di Feltrinelli, ritenuti i vertici della cellula terroristica, prosciolti dopo oltre sei mesi di carcere». Ci sono poi altri dettagli che per brevità tralascio rinviando alla lettura completa dei due post chi fosse interessato. Poiché Morando conclude il suo post con un esercizio retorico che lascia al lettore valutare se i fatti accaduti siano stati «una macchinazione o che gli inquirenti fossero tutti dei gran cialtroni, giudichi il lettore», nella replica Satta fa notare che dolo, «la macchinazione», e cialtronaggine non sono la stessa cosa, invitando Morando a decidere su quale delle due optare.

Ha ragione Satta a sottolineare che il dolo presuppone intenzionalità mentre la cialtronaggine solo colpa, anche se ciò non esclude che le due cose possano marciare insieme. La vita reale è piena di “dolosi cialtroni” e viceversa. Vengono alla mente alcuni esempi clamorosi di altre famose inchieste, come la telefonata di Mario Moretti del 30 aprile 1978 attribuita alla voce di Toni Negri o quella del 9 maggio successivo di Valerio Morucci imputata a Pino Nicotri… Il risultato finale cambia poco.

In realtà quello che più sorprende negli argomenti proposti da Satta è la convinzione che l’assoluzione finale dissolva ogni cosa impedendo di evocare il dolo.

Questa convinzione mostra una certa confusione tra attività di polizia, funzione inquirente (all’epoca vigeva il rito istruttorio) e attività giudicante. Ora, se la funzione giudicante corregge in sede di dibattimento i comportamenti scorretti, inesatti o altro che possano accadere nelle prime due istanze, il dolo permane sempre seppur ridimensionato. Un arresto, una perquisizione, un sequestro, una indagine e figuriamoci un periodo di carcere, anche in presenza di un’assoluzione finale non sono elementi neutri sia sul piano del danno personale che dell’effetto politico e sociale, nella fattispecie lo stigma gettato sulla sinistra e gli anarchici.

Lo Stato non è un corpo unico, ma un apparato complesso attraversato da forze, campi, culture e tensioni. All’epoca poi stava emergendo un rinnovamento sociologico all’interno della magistratura, grazie ai nuovi concorsi che avevano permesso l’ingresso di nuovi ceti sociali che avevano interrotto la continuità di ceto e cultura con l’epoca fascista, cosa che non era avvenuta ancora nella polizia e nei servizi. Questo spiega le ragioni della rottura di quella omogeneità d’ambiente che in precedenza compattava la sfera statale e la presenza di possibili divergenze finali sugli esiti processuali.

Per un democratico-liberale di scuola rosselliana come Satta, l’indagine, l’arresto e l’incarcerazione di una persona, peggio più persone, anche se alla fine si conclude con un’assoluzione dovrebbe apparire come un fattore patologico, non fisiologico del sistema giustizia e del funzionamento dello Stato.

Nella vicenda di cui trattiamo, oltre all’ufficio politico della questura di Milano a un certo punto interviene in massa l’Uaarr che nei giorni di piazza Fontana si sposta da Roma e occupa gli uffici della questura meneghina. Una circostanza tenuta riservata per quasi 30 anni e venuta alla luce solo dopo il ritrovamento dell’archivio Russomanno in Circonvallazione Appia. Cosa ci sarebbe di nornale – come sostiene Satta – in una presenza mantenuta segreta anche dopo le idangini sulle circostanze della morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli? Neppure Calabresi ne fece mai cenno, eppure rivelarla l’avrebbe sollevato dal sospetto di un ruolo diretto nella morte dell’anarchico. Il ferroviere fermato, anzi che aveva seguito col suo motorino il commissario Calabresi che conosceva e gli aveva chiesto di venirgli dietro in ufficio, dove rimase trattenuto illegalmente, cioè oltre i termini legali previsti dalla legge – per il codice penale si dice sequestrato – per poi volare da una finestra del quarto piano. Sappiamo che un confidente del Sid (i Servizi segreti dell’epoca) era infiltrato in una cellula ordinovista (gruppo neofascista). Elementi, circostanze, che mostrano in tutta questa vicenda una ingombrante e anomala presenza di corpi dello Stato: tutto regolare, tutto fisiologico?

Satta – semplifico per i lettori – suggerisce la tesi di un ufficio politico che ignaro delle malefatte e dei progetti delle cellule neofasciste, sia stato indotto nell’errore dal fatto che alcuni anarchici facevano esplodere piccoli ordigni e quindi trova normale che il sospetto degli inquirenti si rivolgesse all’inizio nella loro direzione. Sembra dire che il pregiudizio accusatorio fosse in qualche modo fondato: alcuni anarchici mettono le bombe, allora tutti gli anarchici e i loro amici – nella fattispecie Feltrinelli, stiamo parlando del 1969 non del 1972 – le mettono o comunque sono sospetti. Un dispositivo che abbiamo visto in azione con le numerose retate giudiziarie negli anni successivi.

Sappiamo che è questione storiografica aperta il problema del massacro di piazza Fontana: voluto solo dalla cellula padovana di Ordine nuovo, che frustrata dall’indecisione mostrata dalle autorità di governo democristiane nel varare un giro di vite autoritario, avrebbe innalzato il livello della violenza passando alla strage diretta, abbandonando la lunga e documentata serie di attentati con bombe a basso potenziale funzionale alla creazione di un clima di tensione e paura nel Paese? Oppure scelta anche degli apparati, i nostri o di alcuni settori operanti nelle basi Nato? Le domande restano, ci sono risposte diverse ma un fatto certo è il fetente puzzo di omertà, il silenzio, le omissioni, le compromissioni e i non detti che chiamano in causa pesantemente i contesti statali dell’epoca.

Questa è la posta in gioco storiografica che Satta contesta, commettendo anche errori in punto di fatto, poiché egli parte da un presupposto, un assioma da cui discendono le sue conclusioni: lo Stato, o meglio stando al titolo del suo libro «I nemici della Repubblica» (vista l’assenza di aggettivazione anche qui ci sarebbe da ridire, perché i «nemici» da sinistra non erano certo monarchici e dunque la loro ostilità si rivolgeva alla forma statale in sé e al sistema economico-sociale non certo al dispositivo politico repubblicano…), è sempre illibata, pulita, candida e proba. Le istituzioni sono sacre e i suoi uomini santi, guai a lanciare contro di loro qualsiasi accusa, questo a prescindere da qualunque prova. Non a caso Satta gira la testa dall’altra parte davanti alle torture praticate dalle forze di polizia durante le indagini, documentate e oggi anche confessate da uomini dello Stato, per stare ad un solo esempio.

Da qui nasce anche la sua critica alla «dietrologia» mossa unicamente dalla esigenza di tutelare solo la probità delle istituzioni e solo in un secondo momento la verità dei fatti, dei processi sociali, delle dinamiche storiche, sempre se queste non contrastano e mettono in discussione la limpidezza dello Stato. Altrimenti silenzio.

Lo dico con cognizione di causa e un certo dispiacere, essendo stato uno dei pochi, forse addirittura il primo ad aver recensito e valorizzato Satta – (dal carcere) sul quotidiano Liberazione, suscitando polemiche dentro Rifondazione comunista (dove allignavano vecchie posizioni del Pci) nel lontano settembre 2003, (Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico) e averlo continuato a fare negli anni a venire, apprezzando moltissimo i suoi due volumi sulla questione, scritti quando ancora – fresco del suo lavori di documentarista della commissione Stragi – si cimentava con la ricerca documentale. Ma criticare la dietrologia, sacrosanta attività, fondamentale impegno in questo Paese intossicato, non vuol dire rinunciare alla critica sempre e comunque.

Ps: qui sotto potete trovare in ordine cronologico gli interventi dei due studiosi.

Paolo Morando
*Post lungo, per fatto personale*

Nell’edizione aggiornata di “I nemici della Repubblica” (BUR La Storia Le Storie giugno 2024, prima edizione Rizzoli 2016), lo studioso Vladimiro Satta commette una notevole serie di errori fattuali. Sono errori che ingannano il lettore e che per me risultano ancora più gravi, poiché su di essi l’autore basa una serie di critiche al mio libro del 2019 Prima di Piazza Fontana. La prova generale.
A pagina 871, la prima della “Appendice 1 – Dal 2016 a oggi” in cui Satta si occupa delle novità storiografiche e giudiziarie intervenute dopo la prima edizione del proprio libro, l’autore cita l’inchiesta ripercorsa in “Prima di Piazza Fontana”, scrivendo così: «Essa verteva su una serie di attentati minori susseguitisi nel 1969 a Milano, prima del 12 dicembre. Furono arrestate persone quasi tutte appartenenti all’area anarchica, rinviate a giudizio il 24 luglio 1970 e il 28 maggio 1972 assolte in ordine a dodici dei diciotto episodi in questione e condannate per i restanti sei, mentre Feltrinelli, che nel corso dell’istruttoria era stato sospettato di falsa testimonianza in favore di una coppia di coniugi suoi amici, era stato prosciolto a conclusione dell’istruttoria stessa come pure i coniugi».
Al di là dell’errore sulla data dell’assoluzione in assise, che avvenne nel 1971 e non nel 1972, l’intera ricostruzione di Satta è gravemente imprecisa. Giangiacomo Feltrinelli non venne sospettato di falsa testimonianza “in favore di una coppia di coniugi suoi amici”, bensì a favore dei due giovani anarchici accusati degli attentati del 25 aprile 1969 alla Fiera campionaria e alla Stazione centrale (il primo provocò una ventina di feriti), e che quella sera erano invece a cena proprio a casa Feltrinelli. Ma soprattutto, l’editore non fu affatto prosciolto in istruttoria. Venne invece rinviato a giudizio e fu processato in contumacia assieme alla moglie Sibilla Melega, accusata dello stesso reato. Entrambi furono poi assolti con la formula più ampia, tanto che la Procura nemmeno ricorse in appello.
È quindi del tutto infondato, oltre che quanto meno pretestuoso, il ragionamento di Satta per cui «Non si può dire, quindi, che il procedimento giudiziario sia stato persecutorio, e ancor meno che fossero stati dolosamente colpevolizzati gli anarchici per arrivare a Feltrinelli e alla sinistra tutta». L’andamento dell’inchiesta e del processo dimostra invece quanto Satta nega. Il giudice istruttore Amati, infatti, si limitò a vidimare l’esito delle indagini dell’Ufficio politico della Questura di Milano, condotte dal commissario Calabresi, e a rinviare a giudizio tutti gli arrestati, con l’esclusione della coppia di amici di Feltrinelli (Giovanni Corradini ed Eliane Vincileoni), ma solo dopo sei mesi abbondanti di carcere e ripetuti no alle loro richieste di scarcerazione per totale assenza di indizi.
Sul tema peraltro Satta è pervicace nel commettere errori, visto che a pagina 872 scrive così: «Quanto al presunto tentativo di risalire dagli anarchici e da Feltrinelli fino al maggiore partito della sinistra, proprio dal libro di Morando si apprende che due di coloro che furono coinvolti nell’inchiesta ma prosciolti a fine istruttoria, Clara Mazzanti e Giuseppe Norscia, non erano anarchici bensì erano iscritti al Pci». Falso pure questo. Mazzanti e Norscia furono arrestati nell’autunno del 1969 e non vennero mai prosciolti, bensì rinviati a giudizio e processati: rimasero continuativamente in carcere fino all’assoluzione del maggio ’71, con formula dubitativa che pure per loro in appello diverrà ampia.
Circa l’iscrizione della coppia Norscia-Mazzanti al Pci, Satta ne trae lo spunto per sostenere che «Questo dato di fatto è incompatibile con l’idea che l’intenzione degli inquirenti o addirittura di manovratori politici alle spalle degli inquirenti fosse danneggiare il Pci; in quel caso, approfittando di Mazzanti e Norscia si sarebbe scatenata subito una pretestuosa campagna anticomunista, che invece non ci fu per niente». Ed è vero, non ci fu, ma proprio perché l’appartenenza della coppia al Pci fu del tutto marginale nelle loro vite, come scrivo ampiamente nel libro. Che Satta ha dunque letto quanto meno distrattamente.
L’esito complessivo di quella disastrosa inchiesta di Calabresi e dell’ancora più disastrosa istruttoria di Amati è attestato dalla sentenza finale: due prosciolti in istruttoria, cinque assolti con formula piena e tre condannati a pene fra i 3 anni e 4 mesi e 1 anno e 4 mesi, ma a fronte di accuse che, per i sei imputati dei diciotto attentati, prevedevano una dozzina di ergastoli. Che sia stata una macchinazione o che gli inquirenti fossero tutti dei gran cialtroni, giudichi il lettore.

Vladimiro Satta
REPLICA A PAOLO MORANDO

Paolo Morando, un anno e mezzo dopo l’uscita dell’edizione aggiornata del mio libro “I Nemici della Repubblica”, mi ha attaccato pesantemente con un post nella sua bacheca FB. Il tema è la valutazione storica degli attentati minori che nel 1969 precedettero la strage di Piazza Fontana a Milano, vicenda cui lui ha dedicato una monografia qualche anno fa. Qui di seguito, la mia risposta a Morando. Chi fosse interessato, potrà leggere cosa ha scritto Morando e commenti vari presso la bacheca sua. << L’indicazione del 1971 come data dell’assoluzione in Assise è stata un refuso, mentre è stato un errore scrivere che Feltrinelli, Mazzanti e Norscia furono prosciolti in istruttoria, poiché in realtà furono assolti in primo grado e, per Feltrinelli, la Procura non ricorse in appello. Prendo atto delle puntualizzazioni di Morando al riguardo e provvederò alle opportune correzioni nelle prossime edizioni de “I nemici della Repubblica”, se ce ne saranno. Detto ciò, la questione fondamentale è – come riconosce Morando stesso nel suo post su FB di sabato 6 settembre- stabilire se il procedimento giudiziario fu persecutorio e colpevolizzò dolosamente gli anarchici per arrivare a Feltrinelli e alla sinistra tutta, oppure no. Nel post, Morando dapprima afferma che <<l’andamento dell’inchiesta e del processo>> dimostrano il dolo a fini politici che io invece nego, ma poi conclude senza prendere posizione tra <<macchinazione>>, che è sinonimo di dolo, e cialtroneria, che è altra cosa dal dolo. Come si vede, l’unica certezza ravvisabile nella visione di Morando è l’avversione nei miei confronti. In attesa che in merito all’interpretazione della vicenda storica e processuale Morando si metta d’accordo con sé stesso, faccio notare innanzi tutto che la presunta dimostrazione del dolo addotta da lui non sta in piedi. Un esito assolutorio non dimostra affatto che ci sia stato dolo da parte degli inquirenti; diversamente, dovremmo immaginare che i complotti orditi quotidianamente in Italia con la complicità della magistratura siano innumerevoli. Neanche Berlusconi arrivava a tanto. Davvero Morando pensa invece che, pur in mancanza elementi quali intercettazioni, testimonianze inoppugnabili, confessioni da parte dei responsabili, documenti probanti eccetera, le assoluzioni siano segno di dolo e ragiona così anche per altri casi? Davvero, ad esempio, di fronte alla pioggia di assoluzioni del secondo processo contro Ordine Nuovo basato su indagini di Vittorio Occorsio (c.d. processo dei 119) Morando parlerebbe di persecuzione dolosa ai danni dei neofascisti? Ha mai sostenuto che i molteplici processi nei quali Paolo Signorelli venne assolto servivano a tentare di screditare il MSI? Se Morando facesse questo, io dissentirei ancora una volta ma, almeno, potrei riconoscergli un po’ di coerenza.
Sull’ipotesi della cialtroneria, piuttosto, in qualche misura potrei essere d’accordo con Morando, come lui ben sa, poiché ne abbiamo parlato più volte, anche pubblicamente. Ma nel post, egli se ne dimentica.
Purtroppo, i buchi nel post di Morando non si limitano a questo. Egli, citando la pag. 872 del mio libro “I nemici della Repubblica”, ha omesso una serie di brani significativi, che qui riporto:
<<la sentenza (…) recepì quasi interamente le richieste del pubblico ministero, Antonino Scopelliti, il quale tempo dopo, ospite di un programma televisivo, dichiarò che il dibattimento aveva “chiarito centomila cose che l’istruttoria non aveva chiarito né forse poteva chiarire. Ecco perché il dibattimento è la fase illuminante del processo” (…) Oltre tutto, all’epoca Feltrinelli aveva già dato prova di non essere un personaggio legalitario e innocuo e perciò, se si fosse voluto colpire lui, lo si sarebbe potuto fare senza bisogno di montature contro gli anarchici. Persino Feltrinelli stesso trovava logico che le inchieste per attentati andassero in direzione degli anarchici; in un’intervista rilasciata alla rivista “Compagni”, datata aprile 1970, egli pur dichiarandosi convinto che tra i “giovani più o meno anarchici” si fossero infiltrati “agenti provocatori e fascisti”, riconosceva che coloro i quali “amano con facilità parlare di bombe, che di tanto in tanto possono anche far esplodere (…) facendo più rumore che danni (…) prestano facilmente il fianco per essere indiziati di atti criminosi come gli attentati di Milano e di Roma” (…) >>.
E sì che Morando conosce l’autorevole parere di Feltrinelli stesso, in quanto -se stranamente gli era sfuggito il noto libro di Panvini “Ordine nero e guerriglia rossa” dove le parole di Feltrinelli sono citate- non può però avere dimenticato il prolungato scambio di commenti su FB tra noi due, con la partecipazione di altri, avvenuto ai primi di marzo del 2022.
A cosa alludeva nel 1970 Feltrinelli, che conosceva personalmente parecchi anarchici e tra questi i giovani Braschi e Della Savia accusati -e infine condannati- per attentati minori effettuati prima della strage di Piazza Fontana? Rispondo con estratti dal volume di Morando “Prima di Piazza Fontana”: l’anarchico Paolo Braschi rivelò all’A. che <<noi non lo abbiamo mai ammesso, ma in effetti c’era questo quantitativo di esplosivo, 40-50 chili, tanta roba (…) una piccola parte la presi io e l’altra la si andò a sotterrare (…) Di attentati ne ho fatti due, più uno che si fece insieme>> ad un <<anarchico di Canosa>> non nominato, poi ancora <<lui ha fatto quelli di Roma>>. Un altro anarchico, Angelo Della Savia, <<ammette gli attentati romani e quelli di Genova con Braschi, racconta anche la sua prima “bombarella” a Milano>>, peraltro stralciata dal processo. Sempre Della Savia a Morando: <<le bombe le abbiamo messe, per cui innocenti innocenti non è che eravamo>>.
Quanto all’appartenenza della coppia Mazzanti-Norscia al PCI, un briciolo di esperienza di vita e/o di conoscenza del passato permette a tutti (o quasi) di comprendere che, ai fini della montatura di una campagna pretestuosa, importa poco o nulla se la suddetta appartenenza utilizzabile come pretesto fosse marginale o centrale.
Per inciso, Feltrinelli non era anarchico, ed era uscito dal PCI circa dieci anni prima dei fatti in oggetto. I suoi rapporti con il partito erano tali da far pensare a molti che lo scopo dell’attentato ad un traliccio a Segrate che lui stava preparando, nel quale perse la vita, fosse provocare un blackout per disturbare il congresso nazionale comunista che si teneva nella vicina Milano. Pertanto, fare leva su Feltrinelli per colpire gli anarchici, o il PCI, o tutti e due, sarebbe stato vano. Infatti non accadde, cosa che Morando non contesta ma dalla quale è incapace di trarre le conseguenze.
In conclusione, ricordiamoci sempre che indagare non è sinonimo di “incastrare” né di dichiarare colpevolezze prima delle sentenze, evitiamo di anteporre sospetti meramente congetturali di macchinazioni alle evidenze e, per quanto possibile, sforziamoci di ricondurre i fatti storici e gli errori iniziali delle inchieste alle loro reali dimensioni e cause.

Paolo Morando
Tocca aggiungere che Satta anche nella risposta al mio post cita erroneamente il mio libro. Parla infatti di un “anarchico di Canosa” con cui Braschi avrebbe compiuto un attentato. Ma Braschi, intervistato (cfr. pagina 317), nel libro non dice affatto quanto Satta gli attribuisce, per giunta tra virgolette

La morte di Mara Cagol e il bossolo scomparso

Paolo Morando, ilT 30 aprile 2025

Al processo per i fatti della Cascina Spiotta, ieri alla terza udienza in Corte d’assise ad Alessandria, è stato il giorno dei primi testimoni. Era infatti in programma l’audizione di Bruno D’Alfonso, il figlio dell’appuntato dei carabinieri Giovanni rimasto ucciso nella sparatoria del 5 giugno 1975 contro le Brigate Rosse che, sulle colline di Acqui Terme, tenevano sequestrato l’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia. Un conflitto a fuoco in cui cadde anche la trentina Margherita Cagol, nome di battaglia “Mara”, che era alla guida del nucleo brigatista. Ma è proprio la sua morte, di per sé non oggetto del processo, ad avere ieri tenuto banco. In aula e non solo.

Al processo per i fatti della Cascina Spiotta, ieri alla terza udienza in Corte d’assise ad Alessandria, è stato il giorno dei primi testimoni. Era infatti in programma l’audizione di Bruno D’Alfonso, il figlio dell’appuntato dei carabinieri Giovanni rimasto ucciso nella sparatoria del 5 giugno 1975 contro le Brigate Rosse che, sulle colline di Acqui Terme, tenevano sequestrato l’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia. Un conflitto a fuoco in cui cadde anche la trentina Margherita Cagol, nome di battaglia “Mara”, che era alla guida del nucleo brigatista. Ma è proprio la sua morte, di per sé non oggetto del processo, ad avere ieri tenuto banco. In aula e non solo.
In apertura di dibattimento, sono stati infatti depositati agli atti del processo gli esami autoptici sul corpo della brigatista. Lo ha fatto Vaimer Burani, legale di Renato Curcio (che di Cagol era all’epoca il marito): esami che dimostrano come la donna sia stata uccisa daun colpo di pistola sparato da un’arma in dotazione ai carabinieri, una pistola Beretta calibro 9. E fin qui nulla di misterioso. Ma da quale carabiniere? E in quali circostanze precise? Il relativo bossolo venne anche repertato, lo dimostra un verbale che pure sta agli atti: curiosamente, però, era stato ritrovato solo diversi giorni dopo la sparatoria (il 20 giugno), alla presenza del procuratore della Repubblica Lino Datovo, che aveva disposto l’ulteriore ricerca. E stava proprio vicino a dove si trovava il corpo senza vita della donna: dunque, uno sparo esploso da vicino. Quel bossolo però mai venne consegnato ai periti. E da allora le sue tracce si sono perdute.
Quel misterioso bossolo promette insomma di scompaginare nuovamente il processo in corso ad Alessandria. Già la seconda udienza, un mese fa, aveva riservato infatti un inatteso colpo di scena, con l’ex brigatista Lauro Azzolini che, attraverso dichiarazioni spontanee, aveva ammesso di essere stato presente quel giorno con Cagol alla Spiotta. E quindi di essere lui quel misterioso “fuggitivo” che era riuscito a evitare l’arresto scappando nei boschi dopo la sparatoria. Affermazioni che hanno in gran parte svuotato di senso il dibattimento in Corte d’assise, che mirava appunto a identificarlo.
L’inchiesta della Procura di Torino, riaperta dopo un esposto proprio di Bruno D’Alfonso, aveva portato a numerosi elementi contro Azzolini, soprattutto provenienti da intercettazioni telefoniche (gran parte delle quali peraltro non ammesse dalla Corte). Alla sbarra, assieme a lui, con l’accusa di concorso morale nell’omicidio dell’appuntato, figurano però anche Mario Moretti e Renato Curcio, leader storici delle Br, per via del “ruolo apicale” ricoperto all’epoca nell’organizzazione: quel giorno alla Spiotta, è noto, non erano presenti. E proprio Curcio, nei mesi dell’inchiesta, aveva più volte rilanciato la questione della morte della moglie, anche depositando una memoria.
Si diceva però che quel misterioso bossolo ha tenuto banco non solo in aula. Ieri infatti “l’Unità”, con un ampio articolo a firma di Paolo Persichetti, ha ripercorso la vicenda, scrivendo tra l’altro così: «Alle 12,30 di quel 20 giugno le operazioni, ancora senza esito, vennero sospese per riprendere alle 17 con l’assistenza del capitano dei carabinieri Giampaolo Sechi, in forza al nucleo speciale di polizia giudiziaria sotto il comando del generale Dalla Chiesa e del carabiniere Renzo Colonna che disponeva di un apparecchio rivelatore di metalli. L’ispezione veniva nuovamente interrotta a causa di un violento temporale per riprendere verso le 19. È in quel momento che accanto al luogo dove era stato ritrovato il cadavere di Margherita Cagol viene rinvenuto il bossolo calibro 9 in dotazione ai carabinieri. Tuttavia a causa della fangosità del terreno e dello scarsorendimento dell’apparecchio rivelatore, “in siffatte condizioni”, le operazioni vengono sospese alle 19,30 e rinviate alle 16,00 del 23 giugno successivo. Il proiettile rinvenuto non arriverà mai sul tavolo del perito, da quel momento scompare dalle indagini. Perché?».
È una domanda che, nel corso dello svolgimento dell’inchiesta da parte della Procura, è stata costantemente elusa. Eppure è una domanda legittima. Quel bossolo, è l’ipotesi (profilata nella stessa autopsia), potrebbe essere quello del proiettile sparato a bruciapelo e da vicino contro Cagol che, già ferita e a mani alzate, si era arresa ai carabinieri. Lo scenario insomma di un’esecuzione a freddo, su cui da sempre si discute e ci si divide, ma che mai è stato approfondito per via giudiziaria. Non è detto che ora il nodo possa essere sciolto: benché siano state calendarizzate udienze fino al prossimo dicembre, il processo verte infatti su altro. Ma l’ombra sulla morte di Margherita Cagol è comunque il convitato di pietra in Corte d’assise ad Alessandria.
Tornando alla deposizione di D’Alfonso figlio, va detto che lui stesso ieri ha fatto riferimento ai molti misteri che avvolgono la vicenda. Ad esempio, ha parlato di una sorta di “consiglio” dato da Dalla Chiesa a Vittorio Vallarino Gancia: «Andò in carcere a Cuneo per cercare di riconoscere le voci dei brigatisti che lo avevano rapito e ne riconobbe una, ma il generale Dalla Chiesa gli disse di non dire nulla. Come se ci fosse stato un patto di non belligeranza tra lo Stato e il terrorismo».

La puntata di Report sul caso Moro, ecco le prove del contatto di Ranucci con Pazienza

di Paolo Persichetti

Oggi siamo in grado di rivelare ulteriori dettagli sul contatto tra Sigfrido Ranucci e Francesco Pazienza nelle settimane precedenti la messa in onda della puntata di Report dedicata alle presunte verità sempre tenute nascoste sul sequestro Moro. 
Ci scusiamo per l’attesa che ha creato un certo suspense sulla vicenda e che alcuni hanno interpretato frettolosamente come la prova che noi stessimo bluffando, senza avere in mano nulla. Non siamo abituati a mentire, tanto meno a tentare azzardi. Semplicemente attendevamo che Ranucci e Pazienza dicessero la loro, lasciandogli il tempo di spiegare i fatti e le eventuali ragioni.
Ma Ranucci si è ben guardato dal farlo accusandomi di aver scritto falsità, omettendo la circostanza del contatto avuto con Pazienza. Mentre Pazienza ha sostenuto di non aver mai sentito Ranucci e di aver agito autonomamente contattando il giornalista Lovatelli Ravarino, ritenuto depositario di informazioni sulla vicenda Moro, in particolare sul ritrovamento del cadavere dello statista Dc in via Caetani, informazioni che Ravarino peraltro smentisce categoricamente di possedere. La nostra inchiesta, in effetti, nasce proprio da un commento che Cristiano Lovatelli Ravarino aveva fatto sotto un mio articolo su Report postato su Fb (qui l’articolo).

Il commento di Ravarino

Lo scambio watsapp tra Pazienza e Ravarino

Ne parliamo con Paolo Morando, giornalista e saggista, autore di numerosi volumi sulla strage di piazza Fontana, la storia di Cefis, la strage di Peteano e quella di Bologna.
Conosco Paolo da quasi due anni. Abbiamo condotto insieme alcune inchieste, in particolare sul carteggio Sismi-Olp, le cosiddette «carte di Giovannone» (leggi qui).

Allora com’è andata?
«Ancora domenica mattina ho letto anch’io quel commento su Facebook di Lovatelli Ravarino. E quel riferimento a un contatto tra Pazienza e Ranucci mi ha incuriosito. Mi sono allora procurato il numero di Pazienza, che non avevo, e gli ho mandato un messaggio via whatsapp».

Che ora era?
«Le 14.14».

E che cosa gli hai scritto?
«Te lo leggo: “La contatto perché avrei bisogno di chiederle una cosa a proposito della puntata di Report sul caso Moro, che andrà in onda stasera. Posso chiamarla? Grazie”. Mi ha risposto un minuto dopo: “Mi chiami pure”».

E poi?
«Siamo stati al telefono una decina di minuti. È stato cordiale e affabile. Mi ha detto di conoscere benissimo Lovatelli Ravarino, ma che non era del tutto esatto quello che aveva scritto su Facebook».

Cioè?
«Le sue esatte parole, le ho riascoltate, sono state: “Quando a un certo momento ho saputo che Ranucci stava preparando questo numero che va stasera su Moro, ho detto a Ranucci: guarda che c’è uno che io conosco eccetera che mi ha raccontato un sacco di storie, perché hanno lasciato l’automobile lì, il palazzo, eccetera. Lui mi ha detto: vabbè dammi il suo numero di telefono. Non so perché Ranucci non abbia ritenuto opportuno chiamarlo o verificare, questi sono problemi dei giornalisti, non so perché”».

Gli hai chiesto altro?
«Sì, in che rapporti era con Ranucci. E lui mi ha detto: “Con Ranucci siamo in questi rapporti: all’inizio Ranucci praticamente scrisse una stronzata su Gelli e compagnia cantante e io gli mandai la prova documentale che io con Gelli non c’entravo assolutamente niente, anzi, e lui fece una dichiarazione Ansa in cui diceva che la trasmissione di gennaio scorso, eccetera, effettivamente aveva detto cose che non sono esatte e compagnia cantante, da quel momento siamo diventati sempre un po’ più amici perché ogni tanto ci sentiamo per vedere se io sappia o meno cose e compagnia cantante”. Poi gli ho chiesto che cosa si aspettava dalla puntata di Report che sarebbe andata in onda in serata».

Che cosa ti ha detto?
«Ha risposto così: “Non faccio mai domande ai giornalisti, non so che taglio daranno, ma mi ha detto che ci saranno dei fatti nuovi eccetera”. E poi ha aggiunto: “Secondo me Moro lo hanno ammazzato le Brigate rosse”». Poi abbiamo chiacchierato ancora un po’, divagando: mi ha parlato di sue vicende giudiziarie con magistrati di Bologna. Infine ci siamo salutati».

Poi però hai sentito anche Ranucci.
«Sì, il giorno dopo. Prima volevo vedere la puntata di Report. Lunedì mattina ho contattato l’autore del servizio, Paolo Mondani, che un po’ conoscevo. Gli ho scritto così: “Vorrei chiedere a Ranucci una cosa un po’ delicata sulla puntata di ieri, ma ne parlerei prima con te (anche perché di Ranucci non ho alcun numero)”. Era poco dopo mezzogiorno. Mi ha risposto che mi avrebbe richiamato dopo pranzo. E così ha fatto».

Che cosa vi siete detti?
«Gli ho spiegato la cosa, era molto sorpreso. Mi ha detto di non aver mai sentito il nome di questo Lovatelli Ravarino e che mai Ranucci gliene aveva parlato. E mi ha appunto girato il suo numero, consigliandomi di parlarne con lui. A quel punto ho mandato un messaggio a Ranucci».

Che cosa gli hai scritto?
«Gli ho citato il commento su Facebook di Lovatelli Ravarino, aggiungendo che la cosa mi aveva colpito e invitandolo, se credeva, a richiamarmi. Dopo un po’ mi ha risposto che era falso, che non aveva chiesto aiuto a Pazienza e che Mondani si era mosso in assoluta autonomia. Erano le 16.15. Subito dopo mi ha richiamato».

E che cosa ti ha detto?
«A proposito di Lovatelli Ravarino, anche qui riascolto le sue esatte parole: “Io posso pure smentirlo ma penso di dargli più pubblicità, oltretutto io Pazienza lo conosco bene perché gli abbiamo fatto il culo tre quattro volte, quindi figurati, non è quello il tema. Pure Pazienza, che tra parentesi me l’ha girato prima questo messaggio, dice che non è vero, non so che dirti”. E poi: “Ma figurati se io posso contattare Pazienza, io Pazienza l’ho solamente sentito per dirgli è vero o no che tu frequentavi palazzo via Massimi, punto, perché c’era una voce che diceva che stava a palazzo via Massimi, non l’ho contattato per altre cose, figurati, Pazienza è sempre Pazienza”».

Altro?
«È stata una telefonata breve. Alla fine mi ha detto: “Se vuoi ti do pure il numero di Pazienza, senti Pazienza, te lo smentirà pure lui”. E gli ho detto che lo avevo già».

Ranucci afferma quindi di avere sentito Pazienza. Perché non ne hai scritto?
«Perché te ne stavi già occupando tu e volevo vedere come andava a finire. Comunque, da quello che mi ha detto Ranucci, non è chiaro se si è trattato di una telefonata o di un messaggio, e neppure chi abbia contattato chi. Io peraltro non glielo ho chiesto. Con il “Domani” abbiamo invece preferito occuparci nel merito della puntata di Report sul caso Moro, in particolare dell’intervista a Signorile: l’articolo è uscito oggi».

Ricapitolando
Ranucci ammette di aver sentito Pazienza durante la preparazione dell’inchiesta per chiedergli se era vero che frequentasse palazzo via Massimi, «perché c’era una voce che diceva che stava a palazzo via Massimi». Va detto per inciso che si tratta di una novità assoluta, mai sentita prima d’ora. Ranucci aggiunge che lo conosce da tempo, confermando quanto detto da Pazienza e che questi gli aveva già girato «il messaggio», non sappiamo se intendesse il commento di Ravarino sul mia pagina fb o lo screenshot dello scambio whatsapp che aveva avuto con lo stesso Ravarino. In ogni caso la circostanza conferma la facilità e celerità dei loro contatti, dando ragione alle parole di Pazienza sui loro rapporti pregressi, risalenti a oltre due anni prima, dopo una puntata di Report ch lo aveva tirato in ballo. Pazienza aggiunge, dopo aver saputo della puntata su Moro, di avergli offerto aiuto e in effetti contatta Ravarino. Ranucci nega. Nei giorni scorsi Pazienza ha aggiunto di essere stato la fonte di numerosi scoop fatti dalla Rai in questi ultimi tempi (leggi qui). «Pazienza sarà sempre Pazienza», come dice Ranucci, però non basta una semplice battuta per chiarire questa vicenda. Ci vuole quella trasparenza che fino ad ora è mancata.

Sulla stessa vicenda
La domenica bestiale di Rai 3, Sigfrido Ranucci trasforma Report in una fabbrica di bugie sul sequestro Moro
Le fake news di Report sul caso Moro e la memoria scivolosa di Signorile
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Strage di Bologna, ennesima bufala sulla pista palestinese, gli allarmi dell’Ucigos e del capo della polizia dell’11 luglio 1980 non erano attuali, risalivano a una nota della questura di Bologna del 4 marzo 1980


di Paolo Persichetti

Nel corso della inchiesta, che insieme a Paolo Morando abbiamo condotto sul contenuto del carteggio del capocentro Sismi a Beirut originato dalla vicenda dei lanciamissili sequestrati ad Ortona nel novembre 1979, abbiamo dimostrato che quell’episodio non poteva costituire in alcun modo il movente della strage di Bologna del 2 agosto 1980 e che dunque la cosiddetta «pista palestinese», che da quel fatto ha sempre tratto le proprie ragioni, restava priva di fondamenti documentali, logici e fattuali.

La svolta del 2 luglio 1980
Una analisi accurata e contestualizzata di quel carteggio, soprattutto senza omissioni, a differenza di quanto era accaduto fino a quel momento, ci ha permesso di dimostrare come fosse strettamente interconnesso con la vicenda processuale che era seguita all’arresto iniziale dei tre autonomi romani e del palestinese Abu Anze Saleh. Vicenda che aveva trovato un punto di svolta il 2 luglio 1980 con il rinvio del processo d’appello auspicato dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina, proprietario dei sistemi d’arma inerti, e richiesto formalmente dalle difese di alcuni degli imputati. Dietro quel rinvio c’era un accordo tra Sismi, collegio di difesa e Fplp, sulla strategia procedurale da seguire per arrivare alla scadenza dei termini di custodia cautelare di Saleh e ottenere così la sua scarcerazione puntando anche sul ridimensionamento delle condanne emesse in primo grado contro tutti gli imputati.

Per i fautori della pista palestinese il rinvio del processo non aveva eliminato l’attualità della minaccia
Ci è stato obiettato che, in realtà, il rinvio del processo d’appello non aveva fatto venire meno l’attualità delle minacce del Fplp, rimasto scontento per il prolungamento della detenzione di Saleh.
Questa affermazione contrasta con alcuni evidenti dati di fatto: la difesa di Saleh non aveva presentato alcuna richiesta di libertà provvisoria in quei mesi, consapevole che non esistessero le condizioni per ottenere una risposta positiva. Per questo motivo il Fplp aveva chiesto inizialmente l’anticipazione del processo, contando su una scarcerazione in sentenza per insufficienza di prove del proprio uomo. Strategia che saltò per lo scandalo provocato dalla dichiarazioni di Peci sulle armi consegnate alle Br da forze palestinesi sulle coste libanesi. Rivelazioni che avevano consigliato alla difesa degli imputati, come al Sismi, di puntare su una proroga del giudizio, altrimenti ingestibile. Perché mai il rinvio del 2 luglio 80 non avrebbe dovuto soddisfare le richieste palestinesi, visto che era stata la difesa degli imputati ad aver svolto un ruolo importante per ottenere questo risultato?
Il sequestro di Ortona era stato causato dalla forte approssimazione organizzativa dei membri del “Fronte» che operavano in Italia. Saleh viene descritto da chi lo ha conosciuto come una figura distante da logiche di clandestinità e operatività militare. Coinvolgere i tre autonomi romani era stata una sua enorme leggerezza. Travolti dalla loro impetuosa generosità, i tre esponenti del collettivo del policlinico agirono senza una pianificazione, partendo a tarda serata dopo aver interrotto una riunione pubblica e dimenticando, uno di loro, persino i documenti per il viaggio. Fin da subito i palestinesi furono perfettamente consapevoli di questo vizio originario, dell’enorme guaio provocato da chi nelle loro fila aveva organizzato il trasferimento dei sistemi d’arma con il coinvolgimento dei tre autonomi a pochi mesi della retata del 7 aprile. A quel punto la vicenda non poteva più essere risolta nel silenzio, come in altre circostanze. Al contrario, l’affaire si era subito complicato a causa del forte impatto mediatico riservato alla vicenda e per l’interferenza della magistratura e dei nuclei speciali dei carabinieri che conducevano le indagini antiterrorismo. Il malumore palestinese partiva comunque da questa consapevolezza, come dal fatto che la giustizia d’emergenza aveva imposto il rito direttissimo e le condanne immediate.
Perché mai il rinvio del processo d’appello, con l’apertura di ampi margini di trattativa, avrebbe dovuto irritare il Fplp a tal punto da spingerlo a organizzare una ritorsione che avrebbe chiuso ogni prospettiva?

La lettera di Coronas e la nota di De Francisci dell’11 luglio 1980
Si è replicato che in un documento dell’11 luglio 1980, appena nove giorni dopo il rinvio del processo d’appello, il capo della polizia, prefetto Coronas, «prospettava esplicitamente, per iscritto, il pericolo di un’azione di rappresaglia dell’Fplp, dovuta all’esito sgradito del processo». La lettera di Coronas era diretta al questore di Bari che aveva competenza sul carcere speciale di Trani dove era rinchiuso Saleh. L’informativa sottolineava il rischio di un possibile tentativo di far evadere il palestinese dal carcere o colpire la struttura di massima sicurezza per ritorsione. La lettera di Coronas era parallela ad una analoga nota informativa di pari tenore inviata lo stesso giorno dal direttore dell’Ucigos, Gaspare De Francisci, al Sisde. Questi due documenti, secondo i fautori della pista palestinese, avrebbero giustificato l’attualità delle minacce del Fplp, nonostante il rinvio del processo d’appello, e dunque la prova di un legame con la strage alla stazione centrale di Bologna, avvenuta solo 22 giorni dopo.

La tesi dell’ex magistrato Priore, la bomba di Bologna confezionata per far saltare le mura del carcere speciale di Trani
L’ex giudice istruttore Rosario Priore sostenne addirittura che l’ordigno esploso a Bologna era, in realtà, diretto a Trani: «Nelle carte che abbiamo ottenuto dai servizi appaiono delle note in cui vengono allertati tutti i centri, e in particolare quello di Bari. […] Nella provincia di Bari c’era il carcere di Trani in cui era detenuto Saleh, il palestinese capo dei tre che portavano i missili a Ortona. Il carcere aveva muri di uno spessore eccezionale che non potevano essere abbattuti con esplosivo normale, ma con esplosivo in grado di creare varchi. […] C’è una informativa del capo della Polizia, dell’11 luglio 1980, inviata solo al questore di Bari, nella cui giurisdizione ricade il penitenziario tranese: si riferisce di “negative reazioni negli ambienti del Fplp” e non si esclude “una ritorsione nei confronti del nostro paese”. Questo documento potrebbe indurci a ritenere che nella zona ci fosse una persona che collaborasse con il servizio e riferisse notizie molto interessanti» (Corriere del mezzogiorno, 12 agosto 2016).

L’Ansa del maggio 2005, le veline di “Area” e l’interrogazione parlamentare del settembre successivo
ll 30 maggio del 2005 un dispaccio dell’agenzia Ansa rivelava l’esistenza dell’allarme contenuto nella nota del capo dell’Ucigos De Francisci dell’11 luglio 1980, nello stesso dispaccio si precisava che «l’allarme era arrivato da una fonte qualificata e fatta avere alla Questura di Bologna che l’8 marzo lo inviò al Ministero».
Il lancio d’agenzia del mese di maggio venne seguito da una inchiesta apparsa sulla rivista Area nella edizione di luglio/agosto 2005, realizzata da Gian Paolo Pelizzaro, consulente della commissione parlamentare d’inchiesta Mitrokin, «Strage di Bologna ecco la verità. I moventi, i mandanti, le ragioni del depistaggio» che ispirò un articolo di Gian Marco Chiocci apparso su Il Giornale del 16 luglio 2005: La «soffiata della fonte qualificata», presente nella lettera di Coronas come nell’informativa di De Francisci, «sigillata in doppia busta, era indirizzata al Sisde ma anche al questore di Bari» – scriveva Chiocci – «arrivava dalla questura del capoluogo emiliano (dove Saleh aveva vissuto a lungo) la quale l’aveva girata al Viminale l’8 marzo del 1980, a tre mesi dalla strage di Ustica, a cinque da quella alla stazione di Bologna».
Il dispaccio del maggio 2005 e l’inchiesta di Area dell’estate successiva erano confluiti in una interrogazione parlamentare scritta, presentata il 26 settembre del 2005, da un gruppo di 14 parlamentari, primo firmatario Fragalà, dove si chiedeva « se sia nota al Ministero l’identità della fonte delle informazioni riportate nell’appunto datato 8 marzo 1980, proveniente da Bologna e allegato alla citata segnalazione a firma del prefetto Gaspare De Francisci, direttore dell’Ucigos».

L’allarme dell’11 luglio risaliva al marzo precedente, ignorava la svolta del 2 luglio
La lettera di Coronas e l’appunto di De Francisci dell’11 luglio 1980 erano dunque stati originati da un appunto della questura di Bologna dell’8 marzo precedente, circa un mese prima del secondo flusso informativo proveniente da Beirut, dove si riferiscono ampiamente gli aspetti della prima crisi con l’Fplp, che ha inizio il 24 aprile e termina il 2 luglio 80. Poco importa a questo punto l’origine geografica della fonte, se fosse un esponente del Fplp che a Bologna riportava la posizione della propria organizzazione, relativa alle reazioni del gennaio precedente dopo il giudizio per direttissima e le condanne, oppure se si trattasse di un eco dei cablo di Giovannone, determinante invece è la collocazione temporale della informazione, di quattro mesi precedente la soluzione della crisi del 2 luglio.
Detto con più chiarezza, gli allarmi di Coronas e De Francisci si fondavano su una informazione non più attuale, largamente superata dai successivi appunti del Sismi, in particolare da quello del 2 luglio. La minaccia ventilata non era dunque più fondata e il nesso di quelle carte con la strage di Bologna inesistente.

Raisi, il lezzo dei falsari di parola e la querela archiviata contro Anna Di Vittorio

Lo scorso ottobre 2022 il giudice per le indagini preliminari Angela Gerardi ha archiviato la querela presentata dall’ex vice segretario dei giovani missini e poi parlamentare di Alleanza nazionale e variabili successive, Enzo Raisi, contro Anna Di Vittorio, sorella di Mauro Di Vittorio, il ventiquattrenne romano ucciso insieme ad altre 84 persone dalla bomba esplosa il 2 giugno 1980 nella stazione di Bologna.

La notizia nel libro di Paolo Morando
A darne notizia è Paolo Morando nel suo libro appena uscito per le edizioni Feltrinelli, La strage di Bologna, Bellini, i Nar, i Mandanti e un perdono tradito. Un volume che riassume con grande perizia gli ultimi due processi sulla strage, le oltre duemila pagine della sentenza Cavallini, la memoria della procura generale e le udienze del processo Bellini (la sentenza non è stata ancora depositata), ma soprattutto racconta una «piccola storia ignobile» poco nota al grande pubblico. La storia di un tradimento, la definisce Morando, la storia di una manipolazione si potrebbe aggiungere: quella che Francesca Mambro e Giuseppe Valerio Fioravanti realizzarono sulle spalle di Anna Di Vittorio e suo marito Giancarlo Calidori. Storia che permise a Francesca Mambro di accedere alla liberazione condizionale grazie al perdono richiesto ad Anna Di Vittorio, per poi pugnalarla alle spalle. I due infatti sposarono la tesi, promossa da Enzo Raisi e altri esponenti della destra, che indicava il fratello di Anna come il responsabile della strage rimasto accidentalmente ucciso nell’attentato.

Le nuove calunnie contro Mauro Di Vittorio
La querela di Raisi traeva origine proprio da questa vicenda. In occasione del quarantennale della strage di Bologna l’ex missino era tornato ad accusare Mauro Di Vittorio di essere stato il trasportatore della bomba esplosa nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione, il 2 agosto 1980. Una «ossessione» la sua al punto da aver ripetutamente chiesto negli anni precedenti al cadavere vilipeso di Di Vittorio di dimostrare la propria innocenza dopo avergli attribuito una identità politica di comodo, quella di «Autonomo», membro del collettivo del Policlinico, per poter sostenere i suoi legami con il palestinese Abu Saleh e la vicenda dei missili di Ortona; aver poi diffuso notizie non corrispondenti al vero sulle condizioni del suo corpo al momento del ritrovamento, affermando che fosse completamente carbonizzato. Con questa bugia voleva affermare che fosse vicinissimo alla bomba, per meglio dire che la tenesse con sé, così insinuando che la perizia giurata di ricognizione del cadavere presente negli atti giudiziari fosse falsa; sostenere, inoltre, che non avesse documenti d’identità ma che viaggiasse in incognito e che la carta d’identità ritrovata dai soccorritori fosse giunta intonsa all’obitorio dalle mani dell’anziana madre; così dicendo aveva dato del falso ideologico al verbale di riconsegna dei suoi effetti personali redatto dalla Polfer accusando di conseguenza la madre per la consegna della carta d’identità; aveva giurato che il diario di viaggio di Mauro fosse un clamoroso falso e che il biglietto della metropolitana parigina che aveva nella tasca dei pantaloni fosse la prova provata che egli non si sarebbe mai diretto a Londra ma avrebbe fatto tappa a Parigi per prendere in consegna da Carlos la valigia con l’esplosivo.
Affermazioni reiterate in un lunghissimo elenco di interviste, conferenze stampa, interventi sui social, interpellanze parlamentari, in un libro, Bomba o non bomba. Alla ricerca ossessiva delle verità, Minerva edizioni 2012. All’epoca non era stato il solo a sostenere cose del genere. Poi, davanti alle evidenze (chi prima, chi poi, chi in modo netto, chi in maniera subdola) nessun altro ebbe il coraggio di evocare il nome di Di Vittorio.
Una inchiesta a puntate pubblicata proprio su questo blog (leggi qui) aveva dimostrato, prove alla mano, la malafede di chi accusava Di Vittorio. Successivamente anche la procura di Bologna si era occupata del caso e nella archiviazione della indagine bis sulla strage aveva definito Di Vittorio «vittima oggettiva» della bomba. Nonostante ciò, nell’agosto del 2020 le calunnie di Raisi hanno trovato nuovo ascolto e sono state raccolte tra le dieci domande poste da un intergruppo di parlamentari del centrodestra , ‘La verità oltre il segreto’. Si tratta del quesito numero 9: «Perché sulla vittima Mauro Di Vittorio, legato ad ambienti dell’estrema sinistra romana che per tutti quel giorno doveva essere in Inghilterra, rimasto a lungo non identificato perché senza documenti e stranamente riconosciuto da madre e sorella che in teoria non sapevano della sua presenza a Bologna, non sono mai state fatte ricerche approfondite ma ci si è accontentati di una semplice dichiarazione della sorella che per altro ha dato diverse versioni su come sia arrivata a sapere della notizia della morte del fratello nella strage di Bologna?».

La risposta della sorella Anna
A quel punto Anna Di Vittorio ha preso carta e penna per qualificare su L’Alter-Ugo, il blog di Ugo Maria Tassinari, la condotta umana e civile di Raisi con parole che ne riassumevano, certamente per difetto, l’ostinato atteggiamento tenuto nei confronti del fratello: «mi appaiono in lui – oggettivamente – alcune difficoltà umane che lui, forse, non ha mai avuto il coraggio di affrontare e risolvere. Raisi è assolutamente incapace di saper leggere, saper scrivere, saper parlare in pubblico […] sono certa che Raisi sia – oggettivamente – “inconscio” a se stesso» e più avanti sottolineava la «sua impura malvagità».

Raisi l’offeso
L’ex parlamentare non gradì quelle parole e seguendo l’avventato suggerimento dell’avvocato Valerio Cutonilli, uno di quelli che avevano partecipato fin dall’inizio alla costruzione della pista Di Vittorio, e del deputato Federico Mollicone, definiti «primi soggetti percettori della portata offensiva della pubblicazione», e che pare avvertirono Raisi in una telefonata del primo agosto 2020, come indicato nel fascicolo, presentò querela negando, addirittura, di aver mai indicato Mauro Di Vittorio quale responsabile della strage. Il 2 gennaio del 2021, la procura ritenne infondata la denuncia e chiese l’archiviazione. A quel punto Raisi, reiterando la propria ossessione, impugnò la decisione. Il 19 ottobre 2022 il Gip ha chiuso la vicenda dando torto a Raisi.

Il lezzo della calunnia
Non sappiamo se Dante fosse un uomo di destra come ha sostenuto l’attuale ministro della cultura Sangiuliano, certo è che collocò i falsari di parola nell’ottavo cerchio dell’ultimo girone (canto XXX) condannati ad emanare dal più profondo dei pozzi un lezzo insopportabile.

Per chi volesse saperne di più qui l’intera storia
Strage di Bologna, il depistaggio di Raisi, Fioravanti, Pelizzaro & company contro Mauro Di Vittorio

Avvocato Cutonilli, Mauro Di Vittorio non deve dimostrare la sua innocenza, è Raisi che deve giustificare le sue accuse!

Presegue con questa quarta puntata la nostra inchiesta sulla infondatezza delle accuse mosse contro Mauro Di Vittorio, vittima della strage di Bologna accusato dal deputato di Fli Enzo Raisi, a 32 anni di distanza dal massacro, di essere uno degli artefici dell’esplosione della bomba. Un intervento dell’avvocato Valerio Cutonilli, apparso su FascinAzione, ci permette di fare chiarezza su ulteriori aspetti degli ultimi giorni di vita di Mauro, ma soprattutto di ristabilire una questione fondamentale: non è Di Vittorio che deve dimostrare la suo innocenza ma chi lo accusa che deve giustificare i suoi sospetti

di Paolo Persichetti

L’avvocato Cutonilli con un intervento inviato a FascinAzione, il sito gestito da Ugo Maria Tassinari divenuto uno dei più interessanti osservatori sulla destra italiana, ha rotto la consegna del silenzio che regnava da giorni dopo la pubblicazione sul manifesto del 18 ottobre della nostra inchiesta sulla vera storia di Mauro Di Vittorio, uno degli 85 morti della strage di Bologna del 2 agosto 1980 ingiustamente accusato dall’ex carabiniere missino Enzo Raisi, oggi deputato finiano, di essere uno degli artefici del massacro.
Va detto subito che Cutonilli, che ha scritto alcuni anni fa un libro sulla strage di Bologna, edito dalle edizioni Trecento, ed è stato anche l’autore insieme a Luca Valentinotti, pure lui avvocato, di un altro volume, Acca Larentia. Quello che non è stato mai detto, uscito nel 2010 sempre per le edizioni Trecento, in cui mostrava di non aver ben capito la dinamica magmatica di alcune aree dello spontaneismo armato romano, ha usato stavolta toni molto diversi dalle maniere tanto arroganti quanto imprudenti alle quali ci aveva abituato il parlamentare di Fli, colpito all’improvviso da afasia acuta.


Il metodo Raisi-Cutolilli: l’inversione dell’onere della prova

Tuttavia lo stile più dimesso, il ricorso ad alcune precauzioni semantiche e una più diplomatica attenzione alla memoria di Mauro Di Vittorio non hanno modificato la sostanza di un discorso che, pur integrando alcuni elementi obiettivi ristabiliti dalla nostra inchiesta, resta pressoché immutato nel suo originario impianto colpevolista.
Importa poco che Cutonilli si definisca personalmente – mi sia concesso l’uso metaforico del termine – “agnostico” rispetto alla posizione di Mauro Di Vittorio. La richiesta di accertamenti concreti da lui sollevata, e che affronteremo nel dettaglio in seguito (non saremo certo noi a temere una verifica concreta visto che è proprio grazie a questo metodo che siamo giunti ai risultati descritti nell’inchiesta), fa emergere una singolare concezione che porta a capovolgere l’onere della prova e fa di Mauro Di Vittorio il sospettato permanente, colui che deve dimostrare al mondo di non essere colpevole 32 anni dopo essere stato ucciso.
E no! Caro Cutonilli, non è Mauro Di Vittorio a dover confermare la propria innocenza, ma chi dubita di lui a dover provare il suo eventuale coinvolgimento, diretto o indiretto (stando alle elucubrazioni di Raisi), nella realizzazione della strage.
Questo non è avvenuto! Raisi ha lanciato accuse pesantissime senza mai avere nelle mani uno straccio di indizio, niente di niente, soltanto una verità ideologica e molta presunzione, pregiudizio, sprezzo e faziosità.
Troppo facile, ora che sono emersi i documenti negati e testimonianze multiple, invocare delle verifiche supplementari. I riscontri andavano cercati prima di spararle così grosse. Cutolilli tanto rigore lo doveva esigere in precedenza, ma da Raisi. La lezioncina sul metodo non va certo rivolta a chi ha messo l’incauto responsabile della comunicazione di Fli con le spalle al muro di fronte all’evidenza delle sue sciocchezze, per non utilizzare altri termini molto più appropriati.


Le patacche dell’onorevole

Esemplare di quaderno Pigna nero con bordi rossi di moda negli anni 80, un po’ come i moleskine attuali

1) Secondo Raisi la scheda biografica di Mauro Di Vittorio presente sul sito dell’associazione familiari conteneva «informazioni non veritiere». I virgolettati presenti al suo interno erano «un’azione di depistaggio per coprire qualcosa». Che cosa? il tentativo di fornire un alibi, post mortem, a Di Vittorio. Quindi il diario non sarebbe mai esistito perché – a suo dire – non ve n’è traccia nel fascicolo giudiziario. Che dunque quei virgolettati non provenivano dall’articolo di Fabio Negro del Resto del carlino, che a sua volta li aveva estrapolati dal testo integrale pubblicato su Lotta continua del 21 agosto precedente, ma da una qualche mano che in questo modo voleva sviare dalla verità, lasciando intendere l’esistenza di un complotto che per coprire la responsabilità dei “rossi” (autonomi romani, palestinesi dell’Fplp e Carlos più Rz tedesche e compagnia bella) avrebbe favorito l’indirizzo delle indagini verso la pista nera.

Abbiamo visto che le cose non stanno affatto così! Il diario di Di Vittorio esiste, si tratta di tre paginette scritte in un quaderno Pigna dalla copertina nera, riportate integralmente su Lotta continua del 21 agosto 1980, e consegnato dalla Polfer alla sorella di Mauro, Anna, il 12 agosto 1980, il giorno successivo al primo riconoscimento del corpo, quando giunse anche la madre di Mauro, insieme alla borsa Tolfa dove era riposto con la carta d’identità. Il tutto, come prevedono le procedure legali, accompagnato da un verbale di consegna.
Non si tratta affatto di rivelazioni, queste circostanze sono state riportate in gran parte da Anna Di Vittorio nella sua testimonianza presente nel libro di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti (Bur, 2006). Di seguito le pagine 199-202: il racconto, prodotto 26 anni dopo la tragedia, presenta alcune imprecisioni mnemoniche di dettaglio, come il biglietto della metropolitana che non era di Londra ma di Parigi. Affronteremo meglio la questione più avanti. Mentre il pasaggio sulla «misteriosa telefonata» – pagina 201 – è stato sempre smentito da Anna. Smentita ribadita anche durante la nostra inchiesta e che trova conferma nelle circostanze riportate in tempo reale dall’articolo di Luciana Sica di Paese sera del 13agosto 1980.
Nel libro di Fasanella, Anna impiega un altro aggettivo, «strana». La sua frase è: «Il 6 agosto, ricevemmo a casa una strana telefonata e iniziammo a insospettirci.», e dopo il punto aggiunge, «Dalla stazione di Bologna ci avvertirono che era stata ritrovata la carta d’identità di Mauro». Il punto inopinatamente introdotto tra le due frasi interrompe la consecutio, lasciando intendere che potrebbe trattarsi di due momenti diversi e che non si stesse parlando dello stesso episodio. Fasanella è un noto dietrologo e non è improbabile che abbia voluto introdurre forzatamente un alone di mistero su una vicenda che al contrario è chiarissima: la telefonata, che non è affatto anonima come si potrebbe intendere dal modo in cui viene descritta e come sostiene anche Raisi, giunge dagli uffici di polizia che stanno conducendo le prime indagini probabimente dalla questura stessa, che per un eccesso di delicatezza evita di accennare al ritrovamento del documento d’identità tra le macerie della stazione. L’episodio, unito ad altre circostanze, condusse i familiari di Mauro alla rottura delle relazioni con il giornalista.
Nel corso della conferenza stampa, ripressa dal Resto del Carlino del 29 luglio 2012, Raisi riuscirà a dire che Anna Di Vittorio sul libro di Fasanella-Grippo avrebbe detto: «la famiglia ha ricevuto una telefonata anonima da Bologna».

Ora Cutonilli chiede la perizia calligrafica del testo manoscritto presente sul diario. Magari vorrà anche la perizia merceologica per vedere se il quaderno risale al 1980! Constatiamo che si sta chiedendo ancora una volta a Mauro Di Vittorio di dimostrare di essere Mauro Di Vittorio. Ma quelle pagine erano in possesso dell’autorità di polizia, sono state loro ad averle consegnate su ordine della magistratura dopo aver vagliato la loro inutilità ai fini dell’inchiesta. Dobbiamo periziare anche i verbali di consegna?
Stabiliranno i legittimi proprietari del quaderno modi e tempi di una tale verifica che spetta alla sola autorità competente, la magistratura, di cui si regista un singolare silenzio!

2) Sempre Raisi ha detto che nemmeno la carta d’identità sarebbe stata ritrovata tra le macerie ma che a portarla a Bologna sarebbe stata addirittura la madre di Di Vittorio che si sarebbe presentata all’obitorio «con una carta di identità intonsa in mano» (Resto del carlino, 29 luglio 2012).

Come abbiamo già visto, è falso! Perché Raisi dichiara una cosa del genere? Perché ha disperato bisogno che tra le vittime della strage ci sia un clandestino, qualcuno che si aggirava per la stazione senza i suoi documenti addosso e con una valigia piena di esplosivo, altrimenti crollerebbe l’intera impalcatura della sua variante. Sì, perché quella di Raisi è una variante venuta in soccorso dell’originario teorema della pista palestinese, sostenuto da Gian Paolo Pelizzaro, Gabriele Paradisi, François de Quengo de Tonquédec e Lorenzo Matassa, da tempo in crisi per non essere riuscita ad indicare con un sufficiente margine di certezza i possibili autori e formulare un movente credibile. Lo stesso Raisi ha evidenziato durante la conferenza stampa di fine luglio l’insostenibilità della rappresaglia palestinese contro Bologna, gemellata con una città della Palestina. Da qui il bisogno di trovare dei complici italiani optando per l’ipotesi dell’incidente di trasporto e in subordine del sabotaggio.

3) Secondo Raisi anche la telefonata della questura sarebbe un falso. Per farlo cita un passaggio della testimonianza di Anna Di Vittorio nel libro di Fasanella. A chiamare, lascia intendere, sarebbero stati i complici di Mauro, quegli stessi «giovani dei collettivi di sinistra» che avrebbero fatto il riconoscimento in obitorio fuggendo pirma di essere identificati, oppure la fantomatica ragazza accompagnata da un mediorientale (sicuramente piccola e biondina, magari di nome Christa, come suggerisce Gabriele Paradisi nell’intervista a Loriano Machiavelli, associando del tutto abusivamente il nome della Fröhlich a quello della protagonista del romanzo). Una descrizione proveniente, scrive Cutonilli, da «colloqui diretti» che Raisi avrebbe tenuto «con il personale medico di Bologna», dell’obitorio si suppone.

Singolari testimoni che ritrovano la memoria a 32 anni di distanza. Una memoria in sintonia coi tempi, dalle caratteristiche tipicamente neocon, del genere clash of the civilisations, roba da islamofobia post-11 settembre.
La vicenda della telefonata giunta a casa Di Vittorio ci dice, in realtà, che Raisi conosce perfettamente la testimonianza di Anna Di Vittorio resa nel 2006. Dunque la storia della Tolfa con il diario e la carta d’identità consegnata dalla Polizia ferroviaria. Nonostante ciò, egli la ignora completamente e senza mai confutarla, senza mai chiedere spiegazioni ad Anna, anzi lasciando supporre che non dica il vero, lancia le sue accuse gratuite contro il fratello Mauro.
E’ un po’ tardivo, come fa Cutonilli alla fine del suo testo, pretendere di salvarsi in corner chiedendo lumi all’autorità giudiziaria. Forse il vero problema in tutta questa vicenda è rappresentato dal signor Enzo Raisi. E’ lui che dovrebbe dare prova della sua onestà intellettuale e delle sue capacità di esercitare correttamente la funzione pubblica che svolge. Non certo Mauro Di Vittorio, che non può più difendersi, o i suoi familiari!


Il viaggio di ritorno e il biglietto del metrò parigino

Mauro Di Vittorio tra gli effetti personali aveva un biglietto del metro parigino, stazione di Barbès-Rochechouart. Così dicono alcune agenzie dell’epoca riprese dai quotidiani. Questa circostanza è bastata a Raisi per sostenere che Di Vittorio in realtà non è mai andato a Londra ma avrebbe fatto tappa a Parigi per incontrarsi con Carlos e prendere in consegna la valigia carica di esplosivo poi deflagrata nella stazione di Bologna. Il diario non dice nulla del viaggio di ritorno, il cui tragitto si può ipotizzare a partire da due circostanze: il biglietto della metropolitana sopracitato; la multa elevata sul treno a Di Vittorio perché trovato senza biglietto e pervenuta ai familiari dopo i funerali.
Respinto alla frontiera di Dover, Di Vittorio con pochi spiccioli in tasca (tra gli effetti personali vengono trovate solo 300 lire. Anna racconta che aveva lasciato gran parte dei suoi soldi a Peppe per aiutarlo a pagare la multa che aveva portato al sequestro della macchina alla frontiera tedesca), torna indietro e giunge a Parigi via gare du Nord. Parigi non ha una stazione centrale ma un sistema ferroviario a stella con stazioni che fanno capo alle diverse linee ferroviarie che si dirigono verso i quattro punti cardinali del Paese. La linea che congiunge Parigi a Londra, nel 1980 come oggi, è la gare du Nord. Non lontano dal quartiere di Barbès, dove è situata la stazione della metropolitana indicata nel biglietto ritrovatogli addosso. Stazione del metrò che si può raggiungere anche compiendo una semplice passeggiata a piedi. Da Barbès, Di Vittorio aveva due possibilità: salire le scale che portano alla linea 2 che traversa in sopraelevata i quartieri nord del capitale francese, da lì salire sui vagoni in direzione Nation, verso est, per incrociare la storica linea 1, aperta all’inizio del 1900, che l’avrebbe condotto alla vicina gare de Lyon, da dove all’epoca partivano tutti i treni per l’Italia. Oppure scendere e prendere la linea 4 sotterranea per incrociare la linea 1 nel labirinto di gallerie di Châtelet-Les Halles.
La presenza di quel biglietto è dunque assolutamente compatibile con il viaggio di ritorno, un viaggio condotto in modo rocambolesco perché senza biglietto. C’è dunque da supporre che Mauro sia dovuto scendere più volte dai treni, obbligato a percorsi contorti che l’hanno portato verso Bologna, probabilmente passando per Milano.

4/Continua

Link
Strage di Bologna, Mauro Di Vittorio viveva a Londra tra ganja, reggae, punk, indiani d’India e indiani metropolitani
Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio, le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980
L’ultimo depistaggio, la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi
Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio
Stazione di Bologna 2 agosto 1980, una strage di depistaggi
Strage di Bologna, la storia di Mauro Di Vittorio che Enzo Raisi e Giusva Fioravanti vorrebbero trasformare in carnefice
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Rais, Fli, tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese
Daniele Pifano sbugiarda il deputato Fli Enzo Raisi: Mauro Di Vittorio non ha mai fatto parte del Collettivo del Policlinico o dei Comitati autonomi operai di via dei Volsci

Strage di Bologna, ancora una testimonianza in favore di Mauro Di Vittorio che viveva a Londra tra «ganja, reggae, punk, indiani d’India e indiani metropolitani»

Terza parte/continua
Le memorie riaffiorano lentamente dalle brume di un tempo lontano ormai 32 anni.

Dopo il salutare scossone provocato dalla nostra inchiesta in difesa della storia di Mauro Di Vittorio, l’ultima delle vittime ad essere stata identificata nella strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, apparsa sul manifesto del 18 ottobre (leggi qui) scorso e nella quale abbiamo smontato il castello di menzogne costruito nel corso di questi ultimi mesi dal parlamentare finiano Enzo Raisi che ha accusato Di Vittorio di essere uno degli artefici dell’attentato, tornano i ricordi, si fanno più nitidi i contorni, si precisano meglio i dettagli.
Si incrina il muro dell’oblio, per questo ci auguriamo che altri ancora diano il loro contributo. Questo blog è pronto a pubblicarli.
Per mesi abbiamo cercato testimonianze che dessero conferma a quanto avevamo già verificato, al materiale documentale raccolto, parole nuove che reincarnassero quelle carte, tornassero a dare loro un’anima, trasformando in un sentimento caldo la memoria di Mauro.

Non è stato facile. 32 anni sono tanti, troppi, soprattutto per doversi difendere all’improvviso da un’accusa che ti prende alle spalle, a tradimento, perché così è dopo che l’incuria del tempo cancella i ricordi, fa scomparire i testimoni, seppellisce le carte sotto cumuli di polvere, in cassetti dimenticati.
Si parla molto delle vittime in Italia. In questo blog ci sono diversi post e articoli apparsi su alcuni quotidiani che affrontano il tema del paradigma vittimario. Ci sembra che questa vicenda stia dimostrando – se ancora ce ne fosse stato bisogno – come quello delle vittime sia solo un tema strumentale, da mercato politico e giudiziario. Non s’è levata in giro nessuna voce da parte dei “professionisti del dolore” in difesa della memoria di Mauro, nessuno si è preoccupato tra i tanti politici e vertici istituzionali di chiamare Anna Di Vittorio e suo marito Giancarlo Calidori mentre un intero schieramento parlamentare appoggiava l’iniziativa di Raisi nel silenzio complice e ipocrita del presidente della camera Gianfranco Fini. E dalle redazioni dei giornali, fatte salve alcune rare eccezioni purtroppo confinate nella locale, solo tanta sufficienza verso quel che accadeva.
Dopo le lettere dei compagni e amici dell’epoca (qui), dopo la testimonianza di Luciano Di Santo (qui), amico di Marcello, fratello minore di Mauro, indebolito da una malattia che gli impedisce di lottare per difendere la memoria del fratello, ci arriva un ricordo puntuale di Marco Boccitto, giornalista del manifesto, grande amico di Marcello, che ha conosciuto Mauro fino a subirne il fascino, come si capisce da quel che scrive.

Ecco chi era Mauro Di Vittorio
di Marco Boccitto

Ho conosciuto Mauro Di Vittorio all’inizio dell’estate 1980 tramite suo fratello Marcello, uno dei miei primi e “migliori amici”.
Mi colpì subito per le vibrazioni lunghe e serene che emanava, l’approccio libero e disilluso alle lacerazioni che viveva all’epoca il movimento, la filosofia senza smanie di chi sa vivere bene con poco. La decrescita felice non sapevamo neanche cosa fosse, ma lui la praticava con buonissimi esiti. Se ne stava a Londra, in cerca di niente e in attesa di tutto. Diceva che era fantastico, che era pieno di squat in cui vivere e se pure non trovavi lavoro ti davano un sussidio con cui tirare avanti. Parlava di ganja, amicizie intercontinentali, indiani d’India e indiani metropolitani, dei suoi vicini ghanesi e giamaicani, di come il reggae incontrava il punk, insomma l’Inghilterra vista da Brixton, il sobborgo in cui abitava. Difficile mettere d’accordo quei suoi racconti con le rivolte che incendieranno il quartiere di lì a un anno. Difficile anche associare quel suo approccio a un concetto negativo come quello di «riflusso». Ma ancor più difficile è ipotizzare un suo essere altro da questo. «Sai che c’è – gli dissi – se è davvero così ti vengo a trovare…». E lui: «Magari! Da fine luglio sarò di nuovo lì, se vieni puoi stare da me».
Non me lo feci ripetere.  Una sera d’inizio agosto ero davanti alla porta di casa sua, in un fatiscente condominio di squat, a Barrington Road. Con Mauro vivevano una ragazza sarda che forse studiava, un ragazzo veneziano che faceva il cuoco e un altro ancora di cui non ricordo. Di nessuno rammento i nomi. Aperta la porta mi spiegarono che Mauro non c’era, che anche in base a quel che sapevano loro sarebbe dovuto essere lì già da qualche giorno. Chissà, decidemmo, si sarà perso in qualcuno dei suoi giri sconvolgenti. Arriverà. «Intanto puoi dormire nella sua stanza», mi dissero. E così feci. Mi sistemai tra le sue poche cose felici, tra i cylum e gli economici Feltrinelli della beat generation, e malgrado fossi al verde provai a godermi la vacanza in sua attesa.
Qualche tempo dopo gli lasciai un biglietto, qualcosa del tipo «bella sòla che sei, chissà in che trip ti sei perso, grazie comunque x l’ospitalità e alla prossima». Tornato in Italia, il fratello mi parlò del diario bruciacchiato ritrovato sotto le macerie e della storia che conteneva. La spiegazione assurda, ma più che plausibile – anche e me avevano fatto un sacco di storie a Dover perché in tasca avevo solo pochi spicci – del perché Mauro non fosse lì dove doveva stare.

Per saperne di più
Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio, le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980
L’ultimo depistaggio, la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi
Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio
Stazione di Bologna 2 agosto 1980, una strage di depistaggi
Strage di Bologna, la storia di Mauro Di Vittorio che Enzo Raisi e Giusva Fioravanti vorrebbero trasformare in carnefice
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Rais, Fli, tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese
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«Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio», le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980

Seconda parte/continua


Dopo l’inchiesta apparsa sul manifesto del 18 ottobre (leggi l’articolo) che scagiona Mauro Di Vittorio, morto il 2 agosto 1980, insieme ad altre 84 persone, per l’esplosione di una bomba piazzata nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, dall’accusa lanciata 32 anni dopo i fatti dal parlamentare postfascista Enzo Raisi, di essere stato uno degli artefici di quella orrenda strage; dopo la pubblicazione del suo diario di viaggio (leggi qui), ritrovato in una borsa tra le macerie della stazione insieme alla sua carta d’identità che la violenza dell’esplosione aveva separato dal corpo; pubblichiamo la testimonianza di Luciano Disanto, amico e compagno di liceo del fratello minore Marcello che frequentava la casa di via Anassimandro a Torpignattara.

Le due lettere pubblicate su Lotta continua giovedi 21 e domenica 24 agosto 1980, che potete leggere qui sotto, e la testimonianza di Di Santo ci aiutano a tratteggiare alcuni aspetti fondamentali della personalità di Mauro Di Vittorio che dimostrano la sua incompatibilità con i sospetti avanzati dall’ex carabiniere missino, oggi deputato finiano, Enzo Raisi

di Paolo Persichetti

La testimonianza di Luciano Di Santo
Per Mauro Di Vittorio «la ricchezza stava nelle relazioni umane, nella scoperta degli altri. Era fatto così», racconta Luciano Di Santo, amico fraterno di Marcello, il fratello più piccolo di Mauro. E per descrivere meglio il personaggio racconta un episodio: «eravamo andati tutti e tre, io, Marcello e Mauro, al mio  paesino d’origine, Sante Marie, in provincia di L’Aquila, non lontano da Tagliacozzo. Ad un certo punto ci siamo persi Mauro, l’abbiamo cercato per ore. Niente, era scomparso, non si trovava finché l’abbiamo scovato con dei vecchieti del posto. Si era seduto al loro tavolo e discuteva con loro da ore davanti ad un bicchiere di vino, sorridente. Si era dimenticato di noi, del tempo».
«Per noi – continua ancora Luciano – era come un tutore, guardavamo affascinati quel suo modo di rivolgersi al mondo. Aveva lasciato la scuola, deciso di vivere viaggiando. Stava a Londra. Noi più giovani eravamo agguerriti, c’era il 77 in corso e lui raffreddava i nostri bollenti spiriti spiegandoci che le rivoluzioni non si facevano così, non con la violenza. Lui era convinto che i processi di mutamento dovessero passare per i cambiamenti personali, attraverso le relazioni. Se posso usare un’immagine presa dal cinema, dico che era una specie di Forrest Gump, uno spirito libero in cerca delle radici umane, semplici e genuine di ogni essere umano, una voce fuori dal coro».

Le lettere dei compagni e degli amici di Mauro Di Vittorio apparse su Lotta continua del 21 e del 24 agost0 1980

La doppia pagina uscita su Lotta continua giovedì 21 agosto 1980 con il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio e una lettera di compagni del suo quartiere, Torpignattara

Qui sotto il testo di un’altra lettera, apparsa sempre su Lotta continua la domenica successiva, 24 agosto, nella pagina della corrispondenza

Lotta continua del 24 agosto 1980, pagina delle lettere (ocr)


Su Mauro Di Vittorio

L’ultimo depistaggio, la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi
Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio
Stazione di Bologna 2 agosto 1980, una strage di depistaggi
Strage di Bologna, la storia di Mauro Di Vittorio che Enzo Raisi e Giusva Fioravanti vorrebbero trasformare in carnefice
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Rais, Fli, tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese
Daniele Pifano sbugiarda il deputato Fli Enzo Raisi: Mauro Di Vittorio non ha mai fatto parte del Collettivo del Policlinico o dei Comitati autonomi operai di via dei Volsci

Strage di Bologna: la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi e Valerio Fioravanti

L’inchiesta/prima parte – L’ultimo depistaggio sulla bomba esplosa alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 tira in ballo una delle vittime dell’eccidio: Mauro Di Vittorio, ventiquattrenne romano originario del popolare quartiere di Torpignattara. Pur di renderlo funzionale al teorema della pista palestinese i suoi accusatori non hanno esitato a riscrivere cinicamente il suo passato. Il grossolano tentativo di modificare quanto era già emerso 32 anni fa, nei giorni immediatamente successivi all’esplosione, fallisce clamorosamente di fronte alle testimonianze dei familiari di Di Vittorio e alla mole di materiali documentali esistenti

Paolo Persichetti
il manifesto 18 ottobre 2012

Mauro Di Vittorio, Lotta continua 21 agosto 1980

«Prendo un passaggio da un ragazzo tedesco che come salgo mi offre di accendere una pipetta di fumo mi tranquillizza un po’, ma alla seconda pipa nella quale c’erano minimo due grammi di nero mi sconvolgo in modo veramente pauroso. Con la terza la tensione è salita di molto e mi sento male, molto male. Ho un trip violentissimo e delle visioni allucinanti, e per fortuna sono molto stanco per cui mi metto a dormire. Quando il tipo mi sveglia sto meglio e ho fatto molta strada. La sera dopo un passaggio di un belga molto simpatico arrivo a Liegi. Sono contento perché la strada da fare è poca, per cui penso di arrivare il giorno dopo». (Leggi il testo integrale).

L’Europa in autostop
È il 30 luglio 1980, Mauro Di Vittorio sta attraversando l’Europa in autostop diretto a Londra, inconsapevole di avere pochi giorni di vita davanti a sé. Giunto a Dover gli inglesi lo rimandano indietro perché non ha con sé sufficienti garanzie di reddito. Costretto a rientrare in Italia, tre giorni più tardi salta in aria insieme ad altre 300 persone (85 morirono) nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. Oltre venti chili di gelatinato e compound b, una micidiale miscela nascosta molto probabilmente in una valigia, mettono fine per sempre al suo ritorno.
Il racconto degli ultimi giorni di vita di Mauro è in un quaderno in cui sono annotate le tappe e gli incontri del viaggio, probabilmente scritto durante il rientro. Dopo 30 anni le pagine di questo diario sono diventate un affaire di Stato, un presunto mistero – secondo il parlamentare Enzo Raisi, già membro della commissione Mitrokhin – che sulla loro veridicità solleva dubbi insinuando che dietro vi sia una manipolazione per nascondere la responsabilità diretta, anche se involontaria, dello stesso Di Vittorio nella strage.

La fabbrica delle patacche ispirata dalla trama di un romanzo
Per il parlamentare di Fli, che sulla vicenda ha depositato un’interpellanza parlamentare urgente annunciando anche la prossima uscita di un libro, il giovane sarebbe stato un appartenente «all’area di Roma sud dell’Autonomia Operaia», incaricato di trasportare per conto di un gruppo palestinese, l’Fplp di George Habash in contatto con Carlos, la valigia poi esplosa per un incidente o forse addirittura per una trappola architettata all’insaputa del giovane. Episodio che, sempre secondo Raisi, andrebbe iscritto tra i retroscena del lodo Moro (l’accordo segreto tra Sismi e guerriglia palestinese per salvaguardare l’Italia da attentati in cambio del transito di armi), come un incidente di percorso o come una rappresaglia per la sua violazione l’anno precedente, quando davanti al porto di Ortona furono arrestati, perché trovati in possesso di un lanciamissili destinato alle forze palestinesi, tre esponenti dell’Autonomia romana e successivamente Abu Anzeh Saleh, responsabile dell’Fplp in Italia.
Raisi fonda i suoi sospetti sul fatto che nel fascicolo delle indagini, «non sembrerebbe risultare verbalizzato alcun rinvenimento di documento d’identità o agenda del Di Vittorio». Non è affatto vero ma al parlamentare non interessa al punto da sollevare ombre anche sulla scheda biografica presente nel sito web dell’Associazione familiari vittime del 2 agosto 1980, nella quale sono riportati alcuni brani virgolettati del diario.
A rafforzare i dubbi di Raisi ci sarebbero delle nuove testimonianze che riferiscono lo strano comportamento di una ragazza e di un uomo dalle sembianze mediorientali che avrebbero realizzato una ricognizione del cadavere di Di Vittorio all’obitorio di Bologna, fuggendo intimoriti prima che «il primario e il maresciallo presenti sul posto riuscissero a raggiungerli per identificarli».
Sarà soltanto una coincidenza ma il castello di sospetti avanzato da Raisi ricalca senza molta originalità la fantasiosa trama del romanzo Strage, di Loriano Machiavelli (circostanza segnalata dal sempre attento Ugo Maria Tassinari nel suo sito FascinAzione.info), uscito sotto pseudonimo e tra mille polemiche nel 1990 per Rizzoli e ripubblicato due anni fa da Einaudi, nel quale si narra la storia di una coppia di giovani che gravitano nell’area dell’Autonomia, si riforniscono di armi tra Parigi e la Cecoslovacchia fino a quando uno dei due salta in aria alla stazione di Bologna con una valigia di esplosivo attivata a sua insaputa da un sofisticato congegno trasportato da un’emissaria dei “poteri occulti”. Guarda caso anche qui la ragazza si reca all’obitorio con altri compagni.

Una forzatura di troppo
Il deputato post-missino, citando una testimonianza rilasciata 26 anni dopo i fatti dalla sorella maggiore di Di Vittorio, Anna, a Giovanni Fasanella e Antonella Grippo nel libro “I silenzi degli innocenti” (Bur, 2006), lascia intendere che la «strana telefonata» che informò i familiari del rinvenimento a Bologna della carta d’identità di Mauro, non proveniva dalla questura ma da probabili complici del giovane. Sempre Anna, alcuni anni fa concesse il perdono a Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, membri dei Nar condannati per la strage, con una lettera che facilitò l’accesso della Mambro alla liberazione condizionale. Lo scorso 2 agosto, come se nulla fosse, anche Fioravanti, ormai libero, ha ipotizzato in un articolo apparso sul Giornale un ruolo dell’«autonomo» Di Vittorio nella strage. Ma su questo argomento, Anna Di Vittorio e suo marito Gian Carlo Calidori, anche lui colpito negli affetti dalla strage, non hanno intenzione di scendere in polemica. Ritengono che ognuno debba rispondere alla propria coscienza: «Chi siamo noi due per giudicare gli altri?». In realtà, come ci ha spiegato Anna Di Vittorio, «non è mai esistita nessuna telefonata misteriosa». D’altronde quanto riportato nel libro non trova riscontro nelle dichiarazioni rilasciate dagli altri familiari il giorno del riconoscimento ufficiale della salma di Mauro. Luciana Sica di Paese sera, in una cronaca apparsa il 13 agosto 1980, racconta le ore passate nella casa di via Anassimandro, nel quartiere romano di Torpignattara. Descrive il clima attonito di una famiglia che per dieci lunghi giorni non ha voluto credere ai ripetuti segnali che annunciavano la tragica fine del loro congiunto, come la telefonata della questura felsinea del 3 agosto che – forse per un eccesso di cautela – riferiva soltanto del generico ritrovamento della sua carta d’identità in città. La cronista raccoglie le prime dichiarazioni del fratello più piccolo, Marcello, e quelle della zia che ancora non riescono a capacitarsi di quella rimozione. Riferisce dell’interessamento dei vicini che invece hanno sentito in televisione la descrizione dei corpi ancora non identificati ed hanno subito capito; finalmente Anna dopo una telefona all’obitorio decide di partire verso la capitale emiliana insieme a due amici. E’ lunedì 11 agosto, giunta all’istituto di medicina legale entra, sono le nove di sera e all’interno c’è poca luce, i suoi amici non resistono all’odore, tutt’intorno ci sono resti di cadaveri, Anna «vede il corpo del fratello, esce e dice di non averlo riconosciuto». Chiama Marcello a Roma per sapere se Mauro avesse dei pantaloni di velluto grigio. La risposta non offre scampo: «E’ lui».

Il mistero inesistente del diario
A chiarire invece il mistero del diario ci pensa Lotta continua che il 21 agosto 1980 ne pubblica il testo integrale insieme a una lettera firmata «I compagni di Mauro». Nel resoconto del viaggio Di Vittorio racconta di essere partito da Roma in automobile insieme a un amico di nome Peppe, probabilmente il 28 luglio. Due giorni dopo alla frontiera di Friburgo i doganieri tedeschi trattengono la macchina di Peppe perché due anni prima era stato trovato senza biglietto sulla metropolitana di Monaco e non ha ancora pagato la multa. Mauro gli lascia tutti i suoi soldi e prosegue solo, in autostop, con la speranza di arrivare rapidamente a Londra, nello squat di Brixton dove viveva, per trovare altro denaro da inviare a Peppe. I numerosi dettagli riportati offrono facili possibilità di riscontro sulla veridicità intrinseca del racconto e se ancora non bastasse c’è l’importo del biglietto del treno non pagato da Mauro durante il viaggio di ritorno che arrivò alla famiglia, quasi come una beffa, dopo la morte. Ancora più interessante è la lettera dei suoi compagni, dalla quale si capisce che Mauro non era un militante e non era mai stato vicino all’Autonomia. Gli autori del testo sono ex di Lotta continua del circolo di Torpignattara, ancora aperto nel 1980 – come accadde anche per altre sedi del gruppo – punto di riferimento per una parte di quella fragorosa comunità politico-esistenziale che non si era rassegnata allo scioglimento dell’organizzazione quattro anni prima. Mauro, che dopo la morte prematura del padre aveva lasciato la scuola per aiutare la famiglia, era molto conosciuto, amato e stimato. I suoi compagni lo descrivono come «Una persona, un compagno inestimabile che sapeva dare tutto a tutti. Capace di dare se stesso in qualsiasi momento. La persona che tutti avrebbero voluto vicino per qualsiasi cosa: per un viaggio, per parlare di se stessi, della vita, delle contraddizioni e dei problemi che ci si presentano quotidianamente».

Un indiano metropolitano a Londra
La domenica successiva, sempre su Lotta Continua, appare un’altra lettera che è quasi una seduta pubblica d’autocoscienza. In polemica con i toni ritenuti troppo politici della prima, i suoi autori che si firmano «Alcuni amici di Mauro» sostengono che «per Mauro la parola compagno era diventata vuota e priva di senso come lo è diventata per noi, perché questa maturazione l’avevamo vissuta insieme e insieme avevamo smesso di illuderci e insieme avevamo visto crollare miti, ideologie e propositi rivoluzionari. Quindi, oggi, il minimo che possiamo fare è rispettare il suo modo di vedere, le sue disillusioni. Evitare quindi cose che suonano speculative, evitare analisi che lui non avrebbe fatto, evitare termini in cui non si riconosceva più, evitare inni alla rivolta di cui tutti conosciamo la falsità e la vuotezza».
C’è l’intera parabola di quel che accadde in un pezzo del movimento del 77 in queste frasi che annunciano l’epoca del grande riflusso, dove le grandi narrazioni cedono spazio a traiettorie più intimistiche e personali, in ogni caso situate a una distanza siderale dall’immagine del giovane dalla doppia vita con la valigia piena di esplosivo suggerita da Enzo Raisi. Mauro Di Vittorio con i suoi lunghi capelli neri che sembrano anticipare la moda dei dread, la barba folta e l’aspetto freak, era un’altra persona. Chi lo descrive oggi come l’autore della strage di Bologna lo ha ucciso una seconda volta.
«Quest’accusa – replica Gian Carlo Calidori – ci sta facendo vivere un’esperienza sgradevole, ma nonostante ciò continuiamo a confidare, come sempre, nelle Istituzioni della Repubblica Italiana».
E Anna aggiunge: «Nell’agosto del 1980 sono andata a Bologna. Ho visto il cadavere di mio fratello Mauro: era intatto; non carbonizzato; con una sola ferita, mortale, nel costato. Poi, ho incontrato la Polizia Ferroviaria che, molto umanamente, mi ha consegnato gli effetti personali di mio fratello, tra cui il diario di Mauro».

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Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio

L’ultimo viaggio di Mauro Di Vittorio

da Lotta Continua, 21 agosto 1980

Parto con la sensazione di dover fare qualcosa di buono. Tante idee per la testa, chissà cosa combino. Dopo una grattachecca e una controllatina alla macchina comincia il viaggio. Peppe vuol fare la strada più lunga, cioè l’Aurelia, per vedere se ci sono due ragazze del Belgio in Toscana, ma dopo quattro ore di viaggio arriviamo e non le troviamo. Peccato.
Decidiamo di proseguire anche se è notte e arriviamo a Milano. Qui la macchina comincia a fare i capricci e cambiata la candela andiamo un po’ avanti un po’ più nervosi. Il giorno dopo, alla frontiera con la Svizzera ci tengono fermi due ore, ma il morale è  intatto. Ogni tanto ci fermiamo per far riposare la  macchina. Peppe comunque è un ottimo guidatore e sono abbastanza sicuro. Andando avanti cominciano le difficoltà serie con la macchina perché la strada è in salita e c’è molto traffico. Comunque la Svizzera è bella, specialmente al passo del San Gottardo dove ancora c’è la neve e ci fermiamo a bere.
Dopo la Svizzera italiana c’è la Svizzera tedesca e in mezzo a un traffico tremendo e molte parolacce la sera siamo alla frontiera.
Già stavo pensando di arrivare il giorno dopo a Londra e tutto contento facevo i miei progetti, quando è successo l’imprevisto. I doganieri tedeschi dopo averci perquisito la macchina e visto i documenti arrestano Peppe perché due anni prima a Monaco non aveva  pagato la metropolitana.
Peppe è molto abbattuto perché non gli spiegano che cosa gli faranno, allora decidiamo che io vado in autostop ed eventualmente gli mando dei soldi da Londra. La macchina la lasciamo alla frontiera e Peppe viene portato via. Rimango in attesa per tre ore aspettando invano il suo ritorno insieme a due ragazze tedesche che mi offrono della cioccolata dopo due giorni che non mangio altro.
La mattina parto e prendo subito un passaggio in una Mercedes che però mi lascia fuori dell’autostrada. Sono abbastanza giù, anche perché qui parlano solo tedesco e per capire è un vero problema. Comunque sono abbastanza fortunato e cammino abbastanza velocemente, poi prendo un passaggio da un ragazzo tedesco che come salgo mi offre di accendere una pipetta di fumo mi tranquillizza un po’, ma alla seconda pipa nella quale c’erano minimo due grammi di nero mi sconvolgo in modo veramente pauroso. Con la terza la tensione è salita di molto e mi sento male, molto male. Ho un trip violentissimo e delle visioni allucinanti, e per fortuna sono molto stanco per cui mi metto a dormire. Quando il tipo mi sveglia sto meglio e ho fatto molta strada.
La sera dopo un passaggio di un belga molto simpatico arrivo a Liegi. Sono contento perché la strada da fare è poca, per cui penso di arrivare il giorno dopo.
Questa mattina mi sono svegliato bene e dopo un caffé mi sono messo in marcia. Un passaggio dopo l’altro e sono arrivato a Ostenda. Mi permetto pure una colazione e all’una prendo il traghetto. Londra, eccomi. Faccio un giro sul traghetto e tre ore passano subito. Dover con le sue bianche scogliere mi sta di fronte.

Il racconto del viaggio di Mauro Di Vittorio apparso su Lotta continua el 21 agosto 1980. Il diario venne consegnato dalla polizia ferroviaria ad Anna Di Vittorio, sorella di Mauro, dopo il riconoscimento del corpo

Leggi (qui) l’inchiesta che smonta le accuse contro Mauro Di Vittorio lanciate dal parlamentare finiano Enzo Raisi

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