Il sangue degli uomini della scorta di Moro scambiato con quello di un brigatista immaginario, l’incredibile boutade dello storico Davide Conti

Nel corso di cinque processi (ben 15 corti di giustizia) sono state condannate per il sequestro Moro trentuno persone, cinquanta furono quelle inquisite durante le istruttorie, anche se i responsabili effettivi della vicenda furono solo sedici. Eppure dopo quarantasette anni c’è chi scambia ancora il sangue degli uomini della scorta di Moro con quello di un brigatista immaginario. La coscienza di questo Paese è davvero malata se pur di non interrogarsi su quel che avvenne in quel decennio, soprattutto a sinistra, si rincorrono fantasmi, si intossica la memoria, si inquina la storia.

Marco Clementi e Paolo Persichetti

Davvero la mattina del 16 marzo 1978 a dare l’assalto alla scorta che trasportava il presidente del consiglio nazionale della Democrazia cristiana Aldo Moro c’era un undicesimo brigatista dall’identità tuttora ignota, rimasto ferito nello scontro a fuoco, e non i dieci accertati storicamente (le ricostruzioni giudiziarie si fermano a nove)? 
A sostenerlo, sulle pagine del quotidiano Domani del 23 e 24 agosto scorso, in un lungo articolo in due puntate dal titolo «Non fu geometrica potenza, il brigatista ferito in via Fani», è lo storico Davide Conti, per anni ricercatore presso la fondazione Basso, autore di lavori sulla Resistenza, soprattutto romana, e di varie pubblicazioni sul fascismo e neo fascismo, nonché consulente delle procura di Brescia e Bologna nelle indagini sulle stragi, e dell’Archivio storico del Senato della Repubblica.

Se c’è sangue allora c’era un brigatista ferito e mai identificato
La tesi di Conti, che va ad aggiungersi – ultima in data – all’interminabile saga dietrologica sui misteri del rapimento Moro, prende spunto dal fatto che all’interno delle tre vetture utilizzate dal comando brigatista per allontanarsi dal luogo dell’agguato e portare via Aldo Moro, abbandonate pochi minuti dopo a circa 2 km di distanza, in via Licinio Calvo, furono trovate delle tracce di sangue la cui origine, secondo Conti, non sarebbe mai stata identificata a causa di una grave negligenza nelle indagini. Almeno una di queste tracce, se non anche altre, sostiene sempre Conti, sarebbe riconducibile al brigatista ferito. Circostanza che smentirebbe le affermazioni di Adriana Faranda, contenute nel «Memoriale Morucci-Faranda» del 1984, e di Anna Laura Braghetti presenti nel suo libro scritto con Paola Tavella, Il prigioniero, Mondadori 1998, le quali affermano che tutti i militanti delle Brigate rosse che presero parte all’azione rimasero illesi.

Aggiungi un posto in macchina…
Che si tratti di un brigatista ignoto, Conti lo desume dal fatto che una di queste tracce fu rinvenuta sul montante, il battente e la parte esterna della portiera destra della Fiat 128 bianca che fece da barriera, il «cancelletto superiore», bloccando il traffico in modo da isolare la zona dell’assalto. Su questo mezzo avevano preso posto Alessio Casimirri, come autista, e Alvaro Loiacono con funzioni di copertura verso la parte alta di via Fani. Al momento della fuga su questo mezzo, che aveva il compito di chiudere il convoglio, salì accanto al guidatore anche Prospero Gallinari, uno dei quattro assalitori travestiti con abiti dell’aviazione civile che attaccarono direttamente la sconta di Moro.

Secondo Conti, sulla Fiat 128 prese posto anche un undicesimo brigatista, quello rimasto ferito e sue sarebbero le tracce di sangue rinvenute sulla portiera. Il ragionamento di Conti è semplice: se Gallinari rimase illeso – come sostenuto da Braghetti – allora il sangue presente non poteva che essere di un undicesimo componente del commando. Conti sposta arbitrariamente Gallinari nei sedili posteriori per lasciare posto al brigatista immaginario, nonostante sia noto che dietro aveva preso posto Loiacono, che dal lunotto posteriore proteggeva le spalle al convoglio. Ne abbiamo già scritto nel volume Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, apparso per Deriveapprodi nel 2017 e recentemente ristampato dall’editore con una nuova copertina.

L’uomo in più del commando, un mantra della dietrologia
L’uomo in più è uno dei leit motiv preferiti della narrazione dietrologica, anche se a mutare ogni volta è la sua posizione e identità geopolitica: c’è chi – da Sergio Flamigni in poi – lo colloca a destra nei panni del superkiller professionista; chi lo piazza (vedi Guido Salvini nella relazione stesa per la commissione antimafia) in alto sul lato sinistro, quinto sparatore in abiti civili che poi fugge salendo via Fani verso via Trionfale; chi ritiene fosse un tiratore scelto che ha sparato con un fucile di precisione da uno dei palazzi prospicienti; chi lo colloca, invece, come supervisore dell’azione su uno dei marciapiedi di via Stresa (variante Flamigni). Poi non manca chi raddoppia, come i fan dei due motociclisti sulla moto Honda e infine chi sottrae, come i sostenitori della tesi che Moro non fosse presente in via Fani e la sparatoria sia stata solo una messa in scena per coprire un rapimento avvenuto altrove; la nota giornalista Rita di Giovacchino ha sostenuto addirittura che fosse stato portato via in elicottero.
La sublime menzogna della narrazione dietrologica poggia su un semplice meccanismo di addizione, che rende l’angusto incrocio tra via Fani e via Stresa uno dei luoghi più affollati di Roma. Ogni nuova tesi, che secondo logica dovrebbe necessariamente escludere la precedente (se c’era lo sparatore da destra non poteva essercene uno in più a sinistra o il tiratore scelto, eccetera), in realtà si aggiunge senza che l’autore senta la necessità di smentire la versione rivale, sfidando senza remore ogni illogicità e incongruenza. Le innumerevoli tesi dietrologiche, concorrenziali e contrapposte (basti pensare alla contraddizione che oppone chi accusa la Nato, il Mossad, Gelli e company a chi punta il dito contro la Stasi, il Kgb, i cecoslovacchi o i palestinesi), si ignorano reciprocamente con un unico reale obiettivo, ossia fare fronte comune per screditare il racconto di chi in via Fani c’era davvero: i brigatisti, o il lavoro, certo confuso, lacunoso e impreciso, della magistratura che pure alla fine, dopo cinque processi (una sesta istruttoria è arenata in un nulla di fatto mentre uno dei due filoni è in attesa di archiviazione) è pervenuta ad identificare la sola responsabilità delle Brigate rosse, o ancora il lavoro, anche questo con i suoi limiti ovviamente, di una storiografia a nostro giudizio più seria e rigorosa.

C’era del sangue ma era della scorta di Moro, l’errore macroscopico commesso da Davide Conti

Il rapporto della dottoressa Laura Tintisona, funzionaria di polizia distaccata presso la commissione Moro 2, depositato il 14 dicembre 2014 (Cf. CM2 0470_001).

Dopo la richiesta del pm Luciano Infelisi, che dispose il 22 marzo 1978 una perizia sulle tracce di sangue e le impronte raccolte dalla polizia scientifica sulle vetture utilizzate dai brigatisti per individuarne l’appartenenza, secondo Conti, che cita una risposta della Digos del 26 settembre 1978 a un quesito posto dall’ufficio istruzione il 28 agosto precedente, le indagini scientifiche si sarebbero arenate. In realtà la perizia, assegnata ai professori Franco Marraccino e Giorgio Gualdi, venne consegnata il 14 novembre successivo al consigliere istruttore Achille Gallucci. Le conclusioni furono eloquenti: le tracce ematiche appartenevano a quattro dei cinque uomini della scorta di Moro. Il sangue rinvenuto sulla tappezzeria del tetto e sul sedile posteriore della Fiat 128 blu, targata Roma L55850, alla cui guida era salito Valerio Morucci che si era introdotto dopo la sparatoria nella Fiat 130 di Moro per raccogliere alcune borse, risultò compatibile con quello dell’appuntato Domenico Ricci, autista del mezzo sulla quale viaggiava Moro. Altre tracce ematiche rilevate sulla portiera anteriore sinistra della Fiat 128 blu e in provette contenenti sostanze prelevate dalla Fiat 128 bianca, targata Roma M53955, nella quale era salito Prospero Gallinari, e dalla Fiat 132 GLS 1600, targata Roma P79650, guidata da Bruno Seghetti e dove salirono Aldo Moro, Mario Moretti e Raffaele Fiore, sono risultate del gruppo “A”, compatibile con tutti i militari uccisi a eccezione di Rivera. A chiarire definitivamente la vicenda è un rapporto della dottoressa Laura Tintisona, funzionaria di polizia distaccata presso la commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, depositato il 14 dicembre 2014 (Cf. CM2 0470_001). La data è significativa poiché il consulente della Commissione Moro 2, Gianfranco Donadio, citato da Conti, divenne consulente solo nel febbraio successivo, tralasciando quanto prodotto in precedenza dalla Commissione stessa.


De relato del pentito o fonti scientifiche?
Sorprende che Davide Conti abbia elaborato la sua tesi ignorando la presenza di documenti essenziali come le perizie scientifiche, rincorrendo invece i de relato del pentito Patrizio Peci, esponente di una diversa colonna, quella torinese, totalmente ignaro della realtà romana e che sul sequestro Moro ha sempre fornito informazioni errate, come il coinvolgimento di Azzolini in via Fani. Dalle perizie balistiche, ultima quella realizzata dalla polizia scientifica per conto della Commissione Moro 2 con le più moderne tecniche forensi, avrebbe saputo – invece di rincorrere le ipotesi giornalistiche di Miriam Mafai – che i colpi sparati dall’agente Iozzino non andarono a segno. Non solo, nelle nuove indagini riaperte dalla procura di Torino sulla sparatoria alla cascina Spiotta del giugno 1975, è emersa una intercettazione che seppur illegale sul piano giudiziario dal punto di vista storico è rilevante, poiché Azzolini racconta i tormenti di Bonisoli dopo la sparatoria in via Fani nella quale rischiò di essere colpito da Iozzino e per reazione sparò numerosi colpi crivellandolo (Cf. L’Unità del 2 aprile 2025 e https://insorgenze.net/2025/03/28/via-fani-azzolini-parlava-di-morucci-non-di-moroni-e-secca-la-smentita-dellaltro-ex-br-intercettato-dalla-procura-di-torino/).

Il nuovo Protocollo dei savi di Sion scritto dal bugiardo di Stato, Sergio Flamigni

Una leggerezza che tuttavia non l’ha indotto a maggiore prudenza, ma al contrario l’ha spinto a ulteriori conclusioni: come l’aver sposato la leggenda della verità concordata tra brigatisti e potere, pari per falsità solo ai Protocolli dei savi di Sion. Accordo, narra la vulgata, che avrebbe trovato soluzione nel “Memoriale Morucci”: «Redatto in carcere – scrive ancora Conti – a partire dal luglio 1984 nel quadro di una fitta e costante interlocuzione con uomini dei servizi di sicurezza, figure politiche e religiose e direttori di giornali». In realtà il “memoriale” venne solo assemblato in quel periodo, poiché costituito fondamentalmente dai verbali degli interrogatori resi davanti la magistratura nelle fasi istruttorie e processuali precedenti e nei quali Morucci aggiunse i nomi ai i numeri con i quali in precedenza aveva indicato i componenti del commando che agirono in via Fani (circostanza che permise l’arresto e la condanna di Alvaro Loiacono), allegando al testo la ricostruzione fatta in sede processuale anche da altri protagonisti, come Franco Bonisoli, Alberto Franceschini (all’epoca ancora non dietrologo) e altri brigatisti dissociati.
Del lavorìo preparatorio che condusse al “Memoriale” erano al corrente Francesco Cossiga, futuro presidente della Repubblica e ministro dell’Interno al momento del rapimento Moro, e Ugo Pecchioli, esponente di rilievo del Pci. Lo si apprende dal promemoria fatto pervenire nel luglio del 1985 dallo stesso Cossiga, poco dopo essere stato eletto Presidente della Repubblica, a Ferdinando Imposimato, allora giudice istruttore dell’inchiesta sul sequestro Moro, e al ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro. (Acs, Migs busta 20 e Cf. La polizia della storia, Deriveapprodi 2022).
E’ noto che a partire dal 1993 con Mario Moretti, e poi a seguire tutti gli altri fino a Gallinari, ultimo nel 2008, i brigatisti che presero parte al rapimento Moro hanno avuto modo di raccontare in libri o testimonianze processuali il ruolo avuto nella vicenda. Cristallizzare la storia del sequestro Moro unicamente nel racconto fatto da Morucci e Faranda è dunque inesatto dal punto di vista del metodo e delle fonti storiche che, nella realtà, si mostrano molto più ricche.

Raffaele Fiore e la Fiat 132

Conti affronta anche il ritrovamento a distanza di tempo delle tre macchine impiegate nel sequestro, sottovalutando che le forze di polizia, andate in tilt nelle prime ore che seguirono l’assalto in via Fani, le rinvennero a distanza di tempo commettendo errori su errori. Si accorsero solo dopo molte ore che la Fiat 128 bianca ritrovata in via del Forte Braschi, zona Pineta Sacchetti (Ansa delle 19.03 del 16 marzo), non era quella dei brigatisti. Solo allora ripresero le ricerche tornando in via Licinio Calvo. Per confermare la sua interpretazione richiama un servizio del tg1 che avrebbe dimostrato l’assenza della Fiat 128 blu, in via Licinio Calvo, al momento del rinvenimento della Fiat 128 bianca. Tutto ciò per sostenere la tesi del garage limitrofo (via dei Massimi), dove sarebbero state provvisoriamente parcheggiate le auto (insieme a Moro, nascosto in una prigione momentanea) per essere posizionate successivamente, una alla volta, in via Licinio Calvo. Versione ribadita in una puntata di Report alla quale lo stesso Conti aveva partecipato.
L’autore sembra ignorare le conclusioni dell’indagine realizzata nel settembre del 2015 dal Servizio centrale antiterrorismo per conto della commissione Moro 2. L’accertamento ha definitivamente smentito questa narrazione tossica. Il punto di ripresa dell’operatore tv, che ha girato le immagini il 19 marzo ma diffuse dal servizio del tg1 il 20 marzo 1978, non aveva alcuna visibilità sul tratto di via dove le due Fiat 128, la bianca e la blu, erano state lasciate dai brigatisti il 16 marzo precedente. Quelle immagini non hanno mai provato nulla (Cf. Cm2 0329_009). Recentemente una inchiesta pubblicata dal sito Sedicidimarzo sulle foto riprese dalla polizia scientifica al momento del ritrovamento della Fiat 128 bianca (Cf. https://www.sedicidimarzo.org/2024/01/peccato-che-sia-cosi-buia-o-della.html) ha mostrato come sul posto fosse già presente la Fiat 128 blu, autovettura sulla quale erano poggiati distrattamente alcuni agenti di polizia.
Infine Conti contesta anche che sia stato Fiore a condurre la Fiat 132 in via Licinio Calvo, poiché questi non riferisce la circostanza nella testimonianza rilasciata ad Aldo Grandi, nel volume L’ultimo brigatista, Bur 2007. Un vuoto che porta Conti a concludere che alla guida ci sia stato l’ennesimo ulteriore brigatista (o chi per lui), rimasto ignoto (a rigor di logica sarebbe il dodicesimo). Ma non riferire non vuol dire negare. Non c’è spazio qui per affrontare una delle problematiche tipiche sollevate dalla storia orale quando raccoglie testimonianze a tre decenni dai fatti. Va però considerato che Fiore non era romano e scese nella Capitale solo per l’azione Moro. Appare comprensibile che la sua memoria abbia fatto dei salti, semplificando dei passaggi, soprattutto se l’intervistatore non l’ha incalzato correttamente con domande pertinenti, fermandolo, chiedendogli di precisare o ricordare. Noi abbiamo chiesto Fiore perché la Fiat 132 era stata parcheggiata in modo diverso dalle due Fiat 128. Pur avendo studiato a lungo la topografia della zona, volevamo da lui un ulteriore chiarimento perché un rapporto della Digos firmato dall’ispettore Mario Fabbri, riferiva il rinvenimento del mezzo, per altro in un orario, le 10,00, contraddetto da un altra fonte dei carabinieri, che indicava le 9,47, e dal brogliaccio della centrale operativa che anticipava la prima segnalazione, da parte di una autocivetta denominata Squalo 4, alle 9,23. Secondo il rapporto, il mezzo era parcheggiato sulla parte alta di via Licinio Calvo, a pochi metri dall’incrocio con via Lucilio con l’avantreno rivolto verso via Festo Avieno. Nel rapporto non ci sono immagini allegate. Ad oggi, nonostante le migliaia di documenti consultati, non siamo mai incappati nelle foto del ritrovamento della Fiat 132. Si tratta sicuramente di una anomalia che speriamo venga colmata nel tempo o comunque trovi una risposta soddisfacente.
In effetti il mezzo, come ci ha confermato Fiore, aveva realizzato un percorso diverso dalle Fiat 128. In Brigate rosse (op. cit.) avevamo già segnalato la cosa, sottolinenando come la Fiat 132, ritardata dal trasbordo di Moro nel furgoncino Fiat 850 in piazza Madonna del Cenacolo, fosse partita quando le due Fiat 128 erano già andate via. Fiore ci rispose che nella concitazione saltò la svolta in via Licinio Calvo e fu costretto a proseguire via Festo Avieno fino in fondo, per girare a destra verso piazza Ennio e ridiscendere via Lucilio. Da qui il parcheggio poco accurato all’inizio di via Licinio Calvo che facilitò l’immediato ritrovamento del mezzo, la cui targa era stata già segnalata poco dopo la sparatoria in via Fani da diversi testimoni.

La caccia ai fantasmi
Nel corso di cinque processi (ben 15 corti di giustizia) sono state condannate per il sequestro Moro trentuno persone, cinquanta furono quelle inquisite durante le istruttorie, anche se i responsabili effettivi della vicenda furono solo sedici. Eppure dopo quarantasette anni c’è chi scambia ancora il sangue degli uomini della scorta di Moro con quello di un brigatista immaginario. La coscienza di questo Paese è davvero malata se pur di non interrogarsi su quel che avvenne in quel decennio, soprattutto a sinistra, si rincorrono fantasmi, si intossica la memoria, si inquina la storia (Cf. https://insorgenze.net/2025/06/26/pino-narducci-rapimento-moro-le-sentenze-giudiziarie-al-vaglio-della-storia-parte-prima/) e (Cf. https://insorgenze.net/2025/06/26/pino-narducci-rapimento-moro-le-sentenze-giudiziarie-al-vaglio-della-storia-parte-seconda/).
Sarebbe auspicabile che in futuro gli studiosi cercassero con maggiore cura prove e riscontri alle proprie legittime ipotesi, confrontandosi anche con quanto già scritto ma, soprattutto, con la documentazione esistente, vasta, importante e imponente, da tempo disponibile per chiunque voglia approfondire quella vicenda. E che nel caso si vogliano correggere conclusioni ritenute infondate, lo si facesse senza rilanciare circostanze già da tempo dimostrate fallaci.

Via Fani, «Azzolini parlava di Morucci non di Moroni», è secca la smentita dell’altro ex Br intercettato dalla procura di Torino

Antonio Savino è un ex operaio Fiat e vecchio compagno di militanza di Lauro Azzolini all’interno della colonna Walter Alasia delle Brigate rosse, arrestato anch’egli nella operazione del 1 ottobre 1978 che decapitò la colonna milanese. Quarantacinque anni dopo, la mattina del 17 marzo 2023, era presente in casa di Azzolini quando questi veniva sottoposto a intercettazione da parte della procura di Torino, nell’ambito della nuova inchiesta sulla sparatoria alla cascina Spiotta del 5 giugno 1975 e che ha portato all’apertura di un nuovo processo davanti la corte d’assise di Alessandria. Savino smentisce categoricamente che nel corso della conversazione captata Azzolini si sia mai riferito a persona diversa da Valerio Morucci.

L’intercettazione del 17 marzo 2023
Una informativa del Ros di Torino del 21 marzo 2023 riporta stralci delle conversazioni tra i due, intercettate tramite captatore inoculato nel telefonino di Azzolini. L’attività investigativa e l’intercettazione ambientale realizzata quella mattina è stata dichiarata illegittima dalla corte d’assise nell’ultima udienza dell’11 marzo scorso. I giudici hanno riconosciuto che tutte le sue conversazioni captate dal 14 febbraio al 15 maggio 2023 erano illegali perché avvenute quando ancora il gip non si era pronunciato sulla riapertura delle nuove indagini. Un riconoscimento limitato e tardivo dell’abuso, ma pur sempre significativo poiché ha aperto scorci inquietanti sulle forzature realizzate nel corso dell’indagine. L’intercettazione aveva attirato l’attenzione dei carabinieri perché nel corso del dialogo con Savino, Azzolini lasciava intendere di aver preso parte allo scontro a fuoco del 5 giugno 1975. Ma la ragione per cui l’informativa è stata ripresa su alcuni giornali è un’altra: secondo i carabinieri Azzolini rivelava la presenza in via Fani di un nome nuovo mai implicato nelle indagini sul sequestro Moro.

La crisi di coscienza di Bonisoli
Come scrivono gli stessi estensori dell’informativa, l’audio è pessimo. Le voci sono disturbate dal volume della televisione e spesso giungono deformate oltre al fatto che in alcuni momenti Azzolini sussurra le sue frasi e il suo racconto è infarcito di anacoluti. I due stanno rievocando alcuni episodi della loro passata militanza nella lotta armata. In particolare Azzolini evoca alcune rapine di autofinanziamento condotte dalle Brigate rosse dopo i fatti della Spiotta, in una delle quali ci fu un ferito tra i brigatisti e un’altra dove venne catturata Paola Besuschio, a causa di una incertezza commessa – si racconta sempre nell’audio – da «Franco». Franco sarebbe Franco Bonisoli di cui Azzolini sta accennando le ragioni del tormento interiore che hanno poi suscitato una sua successiva «crisi» di coscienza. Bonisoli si sarebbe recato a casa di Azzolini per confidarsi, siamo al minuto 1,33 dell’audio. Stiamo parlando – come si evince dalla logica del temporale del racconto – di un periodo successivo all’arresto di Besuschio, avvenuto ad Altopascio, una località della Toscana, il 30 settembre 1975, e dell’azione di via Fani, a cui lo stesso Bonisoli aveva partecipato. A tormentare Bonisoli è la morte dell’agente di polizia Raffaele Iozzino, con cui aveva avuto uno scambio a fuoco. Iozzino è l’unico poliziotto della scorta di Moro che è riuscito a rispondere al tiro dei brigatisti prima di essere ucciso.

Morucci, Gallinari e Fiore in via Fani
L’inciso pronunciato immediatamente dopo la frase; «poi dopo viene a casa… eh!», ovvero: «Matteo era così», riferito a Morucci, più volte citato nell’audio, che aveva come nome di battaglia «Matteo», è un’anticipazione di quel che Azzolini dirà poco dopo sul ruolo centrale avuto da Valerio Morucci nell’azione di via Fani. Linguisticamente parlando si tratta di una catafora. Al minuto 1,44 riporta invece le parole di Bonisoli: «dice “ma dopo mi ha tirato ho fatto cosi …(inc.)… quello che la stava scappando ho preso ma quando…”». Frase che fotografa un momento cruciale di quel che avvenne in via Fani: la reazione di Iozzino che esplose dei colpi in direzione di Bonisoli e la replica di quest’ultimo. Circostanza che per altro si dimostra una ulteriore smentita intrinseca delle teorie dietrologiche sul tiratore da destra. Il passaggio che ci interessa avviene al minuto 1,47, quando Azzolini sta ancora parlando del comportamento di Morucci. Il sonoro restituisce un nome, «è stato Moroni… a dire a …(inc.)…», nome che appare per la prima e unica volta in tutta l’intercettazione. La logica del discorso appena avviato e quanto verrà detto poco più avanti fanno intuire che la persona indicata per errore col nome di Moroni era, in realtà, Morucci. Intuibile è il riferimento alla sua testimonianza: «Va bene i compagni…… Gallo… e Fiore a un certo punto si inceppano… si inceppano… non c’avevano le pistole …(parole inc.) le pistole Dio can. Morucci cazzo… che era uno che sapeva usarlo… quando ha visto i compagni a terra ha cominciato a spazzolare anche dalle altre parti». «Gallo» era Prospero Gallinari, «Fiore», Raffaelle Fiore, membro della colonna torinese sceso per sostenere, insieme a Franco Bonisoli, i componenti romani della brigata della «Contro» che organizzarono il sequestro e presero parte all’assalto di via Fani. Azzolini, non c’era quel 16 marzo 1978, questo spiega alcune inesattezze presenti nel suo racconto: tutti i membri del commando avevano la loro pistola personale, sia Gallinari che Bonisoli la utilizzarono come hanno provato le stesse perizie balistiche.

La forzatura interpretativa
«Moroni» non corrisponde ad alcun nome presente nelle Brigate rosse. I carabinieri per risolvere l’enigma si sono abbandonati a una forzatura interpretativa decidendo di attribuirlo a Giorgio Moroni. Una scelta che ha una logica facilmente decifrabile e che nulla c’entra con via Fani. Con Giorgio Moroni i carabinieri di Dalla Chiesa, di cui i Ros sono l’attuale eredità info-investigativa, hanno avuto in passato un grosso contenzioso. Lo scrivono loro stessi in una nota a margine dell’informativa, dove spiegano che «Nel 1978, Moroni, allora militante di Autonomia Operaia, viene perquisito per il sequestro Moro e arrestato con l’accusa di partecipazione a banda armata poiché aveva in casa per la rivista che coordinava (“Nulla da perdere”) il comunicato di un gruppo armato che rivendicava un attentato dinamitardo alla Borsa valori […]». Assolto nel giugno del 1980, intraprende nel 1986 una controinchiesta che lo porta a rintracciare – prosegue la nota – la ragazza che aveva fatto i loro nomi e questa spiega di essere stata obbligata dai carabinieri ad accusarli. Moroni chiede «la revisione e la corte di appello di Genova la concede, il processo di revisione si svolge a Genova, tra il ’92 e il ’93. La revisione viene accolta e il 10 novembre 1994 Giorgio Moroni insieme agli altri viene risarcito per “errore giudiziario”».

Misnaming
L’errore commesso da Azzolini ha un nome preciso, gli studi di neuroscienze lo definiscono «misnaming». Ovvero confondere i nomi delle persone quando si parla. Si tratta di un fenomeno diffuso che non riguarda solo le persone anziane. Avviene soprattutto se c’è una similitudine fonetica o una medesima radice nelle parole, come «mor» nel caso di Morucci-Moroni. Le frasi troncate, a volte biascicate di Azzolini, necessitano di un particolare sforzo di comprensione logica e contestualizzazione storica che gli estensori dell’informativa hanno evitato. L’attore principale che agisce nel racconto è uno: Valerio Morucci. Giorgio Moroni, oltre a non essere mai stato un brigatista, è noto per aver sostenuto all’epoca tesi molto avverse alle Brigate rosse.

Le smentite
Abbiamo chiesto più volte ad Azzolini un chiarimento sulle sue parole. Allora, come oggi, preferisce non replicare pubblicamente e attenersi alla linea difensiva decisa dal suo avvocato, convinto che sia negativo commentare intercettazioni giudiziariamente illegali. Tuttavia se l’intercettazione non può essere utilizzata contro Azzolini nel processo, resta in piedi per i suoi interlocutori e le trascrizioni rimangono intatte nel fascicolo. Una finzione giuridica che non cambia la sostanza del problema e non impedisce di agire nella mente dei giudici. Situazione che vale ancor di più all’esterno dell’aula processuale: sui giornali e i social che l’hanno già ampiamente diffusa e commentata. E se una intercettazione oltre ad essere illegale possiede anche un contenuto infondato appare un crimine non confutarla. Forse è per questo che i gesti, la mimica e il tono della voce con cui Azzolini ci risponde, dicono lo stesso molte cose e si comprende chiaramente cosa pensi della strumentalizzazione che viene fatta delle sue parole. Ma se Azzolini è in qualche modo vincolato dalla sua posizione processuale, il suo interlocutore Antonio Savino smentisce categoricamente chi trova in quella intercettazione una rivelazione che non c’è. La conversazione su via Fani – spiega – è iniziata dopo aver commentato quanto era accaduto il giorno prima, quando: «un gruppo di giovani aveva organizzato eventi nelle campagne del Piemonte sul sequestro Moro, un centinaio di partecipanti che si erano divisi a metà tra guardie e ladri». Savino stigmatizza inoltre che «si voglia a tutti i costi tirare in ballo persone che (come hanno testimoniato anche i pentiti) nulla hanno a che fare con via Fani. Parlo di “Moroni” in guisa di “Morucci”. Purtroppo la scarsa professionalità, il protagonismo, rischiano di coinvolgere innocenti in procedimenti che come minimo risultano dispendiosi per il coinvolto ingiustamente».

Lo strascico giudiziario

La vicenda ha avuto anche un seguito giudiziario. Giorgio Moroni ha citato in giudizio l’autrice dell’articolo apparso sul Fatto quotidiano il 14 marzo del 2024, a giugno si aprirà il processo (qui gli sviluppi della vicenda). Chi si occupa di inchieste giudiziarie sa benissimo che le trascrizioni di intercettazioni vanno prese con molta cautela invece di limitarsi a ricalcare le veline ricevute da mano amica senza gli opportuni approfondimenti. Per altro se la stessa procura di Torino non ha inviato nulla a quella romana, qualche dubbio sulla fondatezza di quel nome deve esserci stato tra gli inquirenti. La presunta rivelazione è stata invece ripresa dall’avvocato Walter Biscotti che il 16 marzo scorso, in occasione del quarantasettesimo anniversario dal rapimento Moro, ha annunciato di voler chiedere alla procura di Roma di effettuare verifiche sul contenuto della intercettazione. L’avvocato Biscotti è stato estromesso dal nuovo processo di Alessandria perché l’associazione vittimaria da lui rappresentata non possedeva i titoli legali per potervi partecipare, poiché costituita solo dopo i fatti oggetto del giudizio. Messo fuori dalla porta principale sta cercando di rientrarvi cavalcando bufale mediatiche.

Quando l’obelisco del Duce doveva saltare in aria

5d6F4qkeOr74M_Smx8wHuatwdIQDnkOUROt6lvKmuEjWPYE_W_NdjhpXYJb6QyQHDiVznQOL4Mk3LdmMvHImrapzlSxD6ouCfY5sIb1VW3lO0d46bj53PXleJnuqQJAkZQymHc26Fd8y0vYkuk3K2eogQJq1n1HWzjLxBA9xxCmaUZ8fPqwrNZhEa0WPxj_K--wLa_o3X3HGeQa0QcLts7Il 25 aprile del 1971 l’obelisco inalzato nel 1932 in onore di Benito Mussolini, monumento alla mitologia imperiale del regime fascista e al culto della personalità, eretto all’entrata del Foro Italico (ex Foro Mussolini) a Roma doveva saltare in aria.
A decidere l’azione dalla fortissima portata simbolica era stato il livello occulto di Potere operaio romano guidato da Valerio Morucci. Il progetto – racconta Paolo Lapponi nel libro di Aldo Grandi, Insurrezione armata (Bur Rizzoli, 2005, p. 161) – era pronto in tutti i suoi minimi dettagli: «Due cariche cave disposte a taglio alla base della stele, che sarebbe venuta giù tutta intera sulla corsia stradale tenuta sgombra al momento opportuno da squadre di militanti». A ricordare l’episodio è stato anche lo stesso Morucci in Ritratto di un terrorista da giovane, Piemme 199, p. 81-82: «Avevo letto da qualche parte che il pezzo superiore dell’obelisco era un monolite fatto arrivare dalle cave di Carrara con il quale si intendeva emulare, nella consumata arte scenografica del regime fascista, le gesta degli antichi romani che avevano portato a Roma obelischi egizi. Poteva bastare una buona carica alla base per farlo venir giù come una pera matura. Però, per essere sicuri, ne preparammo due. Prendemmo delle cassette da frutta, quelle alte e robuste, e le riempimmo di esplosivo da mina, ossia nitrato d’ammonio, meno potente del tritolo ma pur sempre un esplosivo che spalanca le montagne. Saranno stati una quindicina di chili. Abrebbero sentito il botto fino a Napoli. Sul librone che mi aveva regalato Feltrinelli, nella sezione dopo la cannabis, dedicata agli esplosivi, avevo letto che le cariche cave erano più efficaci per arrivare in profondità, e così al centro del nitrato d’ammnio incastrai due coni di rame rovesciati per concentrare l’esplosione. Studiando il piano decidiamo di arrivare all’obelisco passando dietro alla Farnesina e costeggiando lo stadio. Poi bisognava pensare ad interrompere il traffico, perché tutta quella rova che sarebbe crollata poteva ammazzare qualcuno. Prendiamo delle transenne bianche e rosse che alcuni di noi dovevano mettere sul lungotevere per deviare il traffico una volta piazzata la carica». Purtroppo l’operazione non andò in porto «perché a cento metri di distanza, all’Istituto di educazione fisica (Isef), era in corso un’occupazione studentesca. Era troppo rischioso – racconta sempre Lapponi. Aspettammo un giorno o due per vedere se l’occupazione terminava, poi rinunciammo». E così l’obelisco che in pieno terzo millennio proclama «Mussolini Dux», come i tetragoni blocchi di travertino dedicati alle conquiste del regime fascista posti alle sue spalle che – ha scritto Alessandro Portelli sul manifesto del 12 giugno scorso – stanno ancora lì, «come forche caudine (per non dire dei mosaici con l’ossessiva scritta «Duce» che almeno mi metto sotto i piedi)». «L’opera colossale, – declamava Il Popolo d’Italia del 5 novembre 1932 – quella che desta l’ammirazione di chi guarda è il gigantesco monolito eretto nell’Urbe al nome di Mussolini quale segnacolo del rinnovamento nazionale da lui voluto ed attuato. Il candido blocco di marmo strappato ai fianchi delle montagne Apuane, ha attraversato il mare, ha risalito il fiume, ed ora è volto verso il cielo».
L’idea dell’obelisco era venuta al ras del fascismo carrarese Renato Ricci, dal 1927 presidente dell’Opera Nazionale Balilla (ONB), l’organizzazione fascista della gioventù. Ricci aveva impostato un imponente programma di costruzione di infrastrutture, Case del Balilla, palestre, impianti sportivi, convitti. Tra esse spiccava a Roma il Foro Mussolini, vasto complesso di impianti sportivi iniziato nel 1928 sotto la guida dell’architetto carrarese Enrico Del Debbio. In esso avrebbe dovuto campeggiare l’obelisco destinato a celebrare a imperitura memoria il capo del fascismo. L’obelisco, simbolo del «fascismo di pietra», diventava protagonista della storia ideologica di un regime che nel culto della personalità del suo capo cercava il momento di una compattezza totalitaria (per una storia dell’obelisco vedi qui).

L’ira iconoclasta dei movimenti antirazzisti
L’abbattimento a Bristol, vicino Londra, nel corso di una manifestazione antirazzista della statua del trafficante di schiavi Edward Colston e la rimozione, sotto la spinta dei movimenti afroamericani, di quelle erette in onore di generali e uomini politici del Sud schiavista, come quelle del generale sudista Robert E. Lee nel centro di Charleston o Richmond, negli Stati Uniti, dopo l’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto, ha scatenato da noi molte discussioni sulla liceità di queste azioni ritenute eccessive, un’offesa alla memoria del passato, un’indebita censura della storia. Si è tornati a parlare anche della statua milanese di Indro Montanelli presa di mira nuovamente dopo il raid del 2019. Il giornalista, voce della destra storica italiana, nazionalista, fascista, colonialista, poi negli anni della Repubblica esponente della destra più conservatrice e reazionaria, personaggio dalle sette vite, frondista di professione, grande opportunista sempre pronto a tenere un piede in due scarpe, scaltro nel cambiare casacca all’avvicinarsi di ogni cambio di regime e mantenere immutata la sua poltrona al sole che raccontò di aver acquistato durante la campagna coloniale in Etiopia del regime fascista una giovane schiava per soddisfare le sue esigenze sessuali.
A queste anime belle, a questi nuovi guardiani della memoria, ha risposto Alessandro Portelli spiegando che la memoria non è un semplice deposito del tempo passato, «ma una forza attiva nel presente». Un monumento esiste perché chi l’ha eretto intendeva lanciare e lasciare un messaggio. Il significato politico-ideologico del Foro Mussolini, per esempio, fu spiegato in modo esemplare dallo stesso Ricci: «Dal punto di vista storico-politico, un monumento che riallacciandosi alla tradizione imperiale romana, vuole eternare nei secoli il ricordo della nuova civiltà fascista, legandola al nome del suo Condottiero»(1). Come giustamente ha chiosato Portelli «Queste icone, lungi dallo svolgere una funzione di storia e memoria, impongono una sola memoria su tutte le altre, congelano la storia in un passato monumentale e negano tutta la storia che è venuta dopo».

(1) Opera Balilla, Il Foro Mussolini (prefazione di Renato Ricci), Bompiani, Milano 1937, p. 5.

 

La falsa novità dell’audizione di monsignor Mennini. Il confessore di Moro è già stato interrogato 7 volte

I lavori della nuova commissione d’inchiesta parlamentare sulla vicenda Moro sembrano dei minestroni riscaldati e pure insipidi. L’audizione di monsignor Mennini è stata spacciata come una svolta voluta da papa Bergoglio che avrebbe autorizzato l’attuale nunzio apostolico in Gran Bretagna a rivelare finalmente chissà quali segreti. In realtà don Mennini in passato, tra interrogatori davanti alla magistratura e audizioni di fronte alle precedenti commissioni d’inchiesta, è stato già ascoltato 7 volte. Al giornalista Antonio Padellaro smentì di essere mai entrato nella casa di via Montalcini dove era trattenuto Moro per confessarlo. Una congettura diffusa da Francesco Cossiga che non si dava pace del fatto che la sua polizia non era mai riuscita a beccare sul fatto i postini delle Br e i loro canali di comunicazione. Mennini, in realtà, fu messo sotto controllo a partire dal 22 aprile 1978, quando si scoprì che nei giorni precedenti aveva consegnato delle lettere di Moro alla famiglia. Pubblichiamo di seguito una ricostruzione molto autorevole realizzata dal sito cattolino Aleteia delle dichiarazioni di Mennini fatte davanti alle varie autorità: magistratura, commissioni parlamentari e stampa, nel corso dei decenni passati. Come si può leggere non è affatto vero che il nunzio si sia mai sottratto alle convocazioni e abbia utilizzando come scudo la sua immunità diplomatica. Una maldicenza messa in giro in perfetta malafede dalla solita vulgata dietrologica

 

Chiara Santomiero 7 marzo 2015
Fonte http://www.aleteia.org (http://www.aleteia.org/it/politica/articolo/la-verita-sul-caso-moro-5226074065600512)

Domani, lunedì 9 marzo, davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro si terrà l’audizione di mons. Antonio Mennini. Non sarà la prima volta che parla del suo ruolo

Mennini aula bunker Rebibbia

Don Mennini nell’aula bunker del processo Moro

Riuscirà mons. Antonello Mennini, attuale nunzio apostolico in Gran Bretagna, a sollevare alcuni dei veli che pesano sul caso Moro? E’ quanto viene auspicato dalla nuova Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, che lo attende per un’audizione lunedì 9 marzo a Palazzo S. Macuto. “Ci aspettiamo – ha affermato il presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni – un contributo di conoscenza da parte dell’uomo che più di tutti fu spiritualmente vicino ad Aldo Moro. Tanti i punti che potrà affrontare: il suo ruolo in quei giorni, i suoi contatti, l’impegno enorme di Paolo VI ad avviare una trattativa per restituire Moro vivo al Paese e alla sua famiglia e perché questo tentativo non andò in porto” (AdnKronos 27 febbraio).
Mennini, figlio di un importante funzionario della banca vaticana dello Ior, formatosi dai gesuiti del collegio Massimo, era nel 1978 vice parroco a Santa Lucia e in rapporti di confidenza e amicizia con Moro che, dalla sua prigione, lo indicò come “postino” per recapitare alcune lettere.
La convinzione circolata con frequente convinzione nei 37 anni trascorsi dal 16 marzo 1978, il giorno in cui il corpo senza vita del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro fu ritrovato nella famosa Renault rossa in via Caetani a Roma, è che l’allora trentenne don Antonello si sia recato nella “prigione del popolo” in cui le Brigate Rosse detenevano lo statista per recargli il sacramento della Confessione prima che fosse ucciso.
Allo stesso modo si è affermata la convinzione che don Antonello sia stato sottratto in fretta e furia dal Vaticano al confronto con le autorità giudiziarie che investigavano sul caso Moro e infilato in un incarico diplomatico dopo l’altro affinchè non potesse rispondere alle domande sul suo coinvolgimento nella vicenda. Almeno su questo punto, però, è possibile riscontrare una evidenza diversa.
Don Mennini partì per la sua prima destinazione in Uganda, nel 1981, cioè ben tre anni dopo la tragica conclusione del caso Moro. E in, realtà, fu sentito tra procure, corti d’assise e commissioni parlamentari almeno 7 volte. Basta consultare, tra l’altro, l’indice degli atti della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (http://www.archivioflamigni.org/doc/indice-atti-commissione-moro.pdf) istituita nel 1979.
Il 2 giugno del 1978 Mennini fu sentito dalla Procura della Repubblica di Roma e il 12 gennaio 1979 il Tribunale di Roma lo esaminò in merito a “confessione di Moro”. Nel febbraio del 1979 il sostituto procuratore di Roma, Domenico Sica, volle nuovamente ascoltarlo dopo la pubblicazione nel gennaio di quell’anno di un articolo sul Corriere della Sera a firma del giornalista Antonio Padellaro sempre in merito alla presunta confessione avvenuta nella prigione della BR. Padellaro, ex alunno del Massimo come Mennini, aveva chiesto al vice parroco di Santa Lucia se davvero si fosse recato da Moro e questi aveva risposto: “Magari avessi potuto farlo! Purtroppo non mi è stata data la possibilità di offrire consolazione a una persona che mi onorava di affetto e amicizia”.
Il 22 ottobre del 1980 Mennini testimoniò davanti alla Commissione d’inchiesta su via Fani. Il 21 settembre 1982 fu convocato, ma non ascoltato, davanti alla Corte di Assise di Roma dove si svolgevano i procedimenti riunificati Moro uno e Moro bis con la presidenza del giudice Severino Santiapichi. Di lui, però, aveva parlato davanti alla stessa Corte nell’udienza del 19 luglio la vedova di Aldo Moro, la signora Eleonora Chiavarelli. Al presidente Santiapichi il 28 settembre Mennini inviò una lettera informando che stava ripartendo per il servizio diplomatico in Uganda ma restava a disposizione.
Il servizio diplomatico (consigliere di nunziatura in Uganda e Turchia, nel 2000 nunzio apostolico in Bulgaria, dal 2002 presso la Federazione Russa e successivamente anche in Uzbekistan, quindi dal 2010 nel Regno Unito) non impedì a Mennini di tornare davanti dalla Procura di Roma che indagava per il Moro ter nel settembre del 1986 e davanti alla Corte d’Assise per il Moro-quater, di nuovo con il presidente Santiapichi, nel 1993.
Forse è per questo motivo che Mennini richiesto di una nuova audizione dalla cosiddetta seconda Commissione Moro, la “Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”, istituita nel 1988, inviò una lettera al presidente Giovanni Pellegrino per chiedere, “rispettosamente” come si legge, alla Commissione di fare riferimento alle precedenti deposizioni rese alle autorità sia parlamentari che giudiziarie che confermava e rispetto alle quali non aveva nulla da aggiungere. In ogni caso, non trincerandosi dietro lo status di cittadino del Vaticano e “il ruolo ivi ricoperto” come è stato spesso riportato.
“Un comportamento quest’ultimo – afferma la relazione della Commissione parlamentare – che la Commissione non può omettere di valutare almeno a livello indiziario, per affermare dotata di probabilità, sia pur non elevata a certezza, l’ipotesi che tra la famiglia Moro e le Brigate Rosse si fosse stabilito un cosiddetto ‘canale di ritorno'”. Cioè che le lettere dello statista fatte arrivare all’esterno possano avere avuto una risposta diretta e non solo attraverso i mass media. Una lettera indirizzata da Moro a Mennini, ma che il sacerdote non ricevette, e trovata tra le pagine dattiloscritte scoperte nel covo di via Monte Nevoso a Milano nel 1990, sembrava suggerire questa direzione.
Secondo Francesco Cossiga, nel 1978 ministro dell’Interno, Don Mennini entrò nel covo Br e lo confessò durante i 55 giorni. “Ho sempre creduto – affermò Cossiga- che don Antonello, allora suo confessore, abbia incontrato Moro prigioniero delle Br per raccogliere la sua confessione prima dell’esecuzione dopo la condanna a morte. Come ministro dell’Interno allora mi sentii giocato. Mennini ci scappò. Seguendolo avremmo potuto trovare Moro. Ma ancora oggi il Vaticano è riuscito a fare in modo che Mennini non potesse essere interrogato mai da polizia e carabinieri. Avevamo messo sotto controllo telefonico e sotto pedinamento tutta la famiglia e tutti i collaboratori. Ci scappò Don Mennini. Io credo che le Br gli abbiano permesso di recarsi nel covo per incontrare e confessare Moro. Almeno lo spero. Anche se Moro non ne aveva certo bisogno”.
In realtà il telefono di don Mennini, come risulta da un rapporto della Digos agli atti del processo Moro, era già sotto controllo il 22 aprile 1978, cioè il giorno dopo aver consegnato alcune lettere fattegli recapitare da Moro e precedute da due telefonate del sedicente professor Nicolai, alias il brigatista Valerio Morucci: una il 20 aprile e una, di controllo, la mattina del 21 aprile.
In questi anni monsignor Mennini ha mantenuto il riserbo sulla vicenda che lo ha coinvolto: “Sono sempre stato molto discreto quanto al rapporto che avevo con l’onorevole Moro – ha confermato al giornalista Gian Guido Vecchi -. In tante vicende, vuoi in Italia che altrove, la curiosità della gente, non di rado alimentata dai media, è spesso spinta in una ricerca quasi ossessiva di segreti, misteri non chiariti, fatti taciuti, per cui non ci si contenta mai di stare alla realtà dei fatti verificati e storicamente provati. Va quasi da sé che la tragica scomparsa dell’onorevole Moro, cui possiamo associare tante altre persone vittime innocenti della barbarie del terrorismo, resta una ferita ancora aperta: soprattutto, credo, nel cuore dei suoi famigliari, di quanti gli erano più vicini e lo hanno sinceramente amato, come pure di coloro che si sono trovati a dover compiere delle scelte terribili” (Corriere della Sera 27 dicembre 2010).

Per ulteriori approfondimenti
Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia  /1a puntata
Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol /2a puntata
Via Fani e il fantasma del colonnello Guglielmi /3a puntata

Chi era Prospero Gallinari?

prospero-gallinari-2Nelle cronache televisive e giornalistiche di questi giorni la figura di Prospero Gallinari è stata descritta come quella di un personaggio ambiguo e reticente, morto portando con sé (supposti) «segreti e misteri sul caso Moro». Un’accusa che serve a sorreggere un’antica calunnia: questi silenzi sarebbero stati la merce di scambio per uscire dal carcere. Una tesi che Miguel Gotor ha largamente sostenuto nel suo Il Memoriale della Repubblica, Einaudi 2011, cadendo tuttavia in palesi contraddizioni.
Mario Moretti è da 32 anni in stato detentivo, semilibero dal 1997, anche se Gotor con una grossolana imprecisione scrive che è libero dal 1994. Un errore importante poiché su questa grave inesattezza poggia l’intera impalcatura del suo teorema.
Gallinari, come abbiamo visto (leggi qui) era agli arresti domiciliari per gravi motivi di salute che lo rendevano incompatibile alla detenzione; Rita Algranati è in carcere. Due presunti componenti del commando che operò in via Fani sono all’estero. Uno di questi, Alvaro Lojacono, ha scontato la pena in Svizzera. Tutti gli altri, a 34 anni dai fatti (una distanza senza precedenti nella storia d’Italia e nel resto d’Europa), hanno terminato le loro condanne: chi perché essendosi dissociato ha usufruito da tempo di ampi sconti di pena; chi perché alla fine del lungo percorso penitenziario ha avuto accesso alla liberazione condizionale.

A queste accuse ha risposto Francesco Piccioni in una intervista apparsa su Contropiano (leggi qui).
Altri commentatori hanno poi offerto delle raffigurazioni grottesce e caricaturali di Gallinari, dipinto come uno «stalinista», pronto a sacrificare chiunque se il disegno superiore della rivoluzione lo avesse richiesto (Andrea Colombo), personaggio spietato, sospetto agente del Kgb, adepto della scuola del comunismo sovietico (Fasanella), dove avrebbe «imparato a coniugare la durezza ideologica con la disponibilità al compromesso, la rivendicazione orgogliosa delle proprie scelte, anche quelle più tragiche, con la tendenza a scendere a patti con il diavolo» (sempre Fasanella).
Ma chi era veramente Prospero Gallinari? Senza avere la pretesa di essere esaustivo, questo scambio che ho avuto in queste ore con Andrea Colombo dopo un suo articolo apparso sul sito online de Gli Altri, può aiutare a capirne qualcosa di più

Caro Andrea Colombo,
ripeto, il tuo pezzo poteva essere bello perché capace di cogliere alcuni aspetti decisivi della personalità di Prospero Gallinari e soprattutto di ricordare come non si sia mai fatto estorcere – come ha recentemente sottolineato Scalzone – “nessuna confessione d’innocenza” di fronte all’accusa rivelatasi alla fine inesatta di essere stato l’esecutore materiale di Moro, nonostante ciò l’avrebbe probabilmente aiutato ad uscire molto prima dal carcere per le sue difficilissime condizioni di salute.
Caratteristiche che tu però hai confinato unicamente alla dimensione umana del personaggio, mentre in una sorta di chiaroscuro ne hai demonizzato quella politica, dandogli dello “stalinista”.

Cito: «era un rivoluzionario generoso e di animo buono, ma era anche uno stalinista, uno di quelli che se il partito glielo avesse ordinato ti avrebbe eliminato, con le lacrime agli occhi ma senza esitare, convinto che questo fosse il suo dovere di rivoluzionario e di soldato della guerra di classe. Quella spietatezza politica era inaccettabile, certo, ma Prospero la condivideva con migliaia e migliaia di militanti dei suoi tempi. Che non erano i nostri, perché Prospero Gallinari era davvero un uomo e un rivoluzionario e un comunista “d’altri tempi”.
Affermazione che fa il paio con quella precedente, “Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. […]Ci guardava con sospetto, come quasi tutti i brigatisti, operai e contadini la cui continuità con la tradizione comunista era molto più ferrea della nostra».

Mi riferivo, con tutta evidenza a questi infelici passaggi quando ho accennato a quel dizionario dei luoghi comuni nel quale alla fine sei inevitabilmente scivolato. E mi sembra che nella replica tu abbia colto perfettamente il senso della mia critica, imbarcandoti tuttavia in un tentativo di precisazione del senso che attribuivi al termine “stalinismo” che non solo non rende giustizia a Prospero, ma trasforma questa categoria in una sorta di concetto metastorico del tutto fuorviante.

Andiamo per ordine: sostieni che la risposta di Gallinari su Tienanmen sarebbe un dettaglio banale! A me non sembra proprio, al contrario la trovo dirimente. Tu invece lasci ingiustamente pensare che sia stato un escamotage intelligente per dissimulare un’identità in quel momento impopolare. E la cosa, se mi permetti, è ancora più offensiva per la memoria di Prospero perché oltre a dargli dello stalinista gli dai pure del dissimulatore.

Le Br, nel bene o nel male, hanno sempre detto quello che sono state e sono sempre state quello che hanno detto. Se avessero appoggiato il “socialismo di mercato” cinese, come accade per tutte le varie tendenze con venature rosso-brune, nazional-bolsceviche, identitarie e comunitariste, che ormai dilagano ben oltre gli ambienti veterocomunisti, in quel momento l’avrebbero sostenuto senza problemi.
Ma la loro storia ci dice che hanno tentato di rappresentare l’opposto.

Nella tua replica introduci con molta leggerezza una equivalenza tra terzointernazionalismo e stalinismo per poi affermare che “voi”, cioè noi brigatisti di più generazioni, saremmo stati gli epigoni di quella cultura politica.
Capisco che nella tua affermazione sia contenuta una carica polemica antica derivante dalla tua originaria appartenenza ad una delle componenti dell’operaismo che si è sempre narrata come l’unica legittima rappresentante di quella storia, in realtà molto complessa, e si è autoincensata come l’antitesi intelligente e moderna, rivale e alternativa alle culture considerate “vetero” presenti nel resto del movimento, anzi “esterne” al movimento come vi piaceva tanto dire delle Brigate rosse.

Per fortuna, caro Andrea, la storia è ben più complessa, articolata, carica di sfumature e sorprendenti smentite. Dovreste liberarvi, tu e i tuoi amici postoperaisti e postnegriani, da certe leggende ideologiche, uscire dalle narrazioni autocelebrative e calarvi all’interno di una visione più laica degli anni 70, che alcune ricerche sociologiche sull’origine politica-ideologica dei militanti della lotta armata, e delle Brigate rosse in particolare, già consentono.

Da tempo questi dati ci dicono che il grosso dei militanti della lotta armata viene dal filone operaista, comprese le Br che pure, a differenza di altre formazioni armate più omogenee, hanno avuto una composizione socio-ideologica molto eclettica che nei 19 anni della loro storia ha reclutato nelle aree politiche più disparate, subendo anche influenze legate al peso delle diverse generazioni che vi affluivano.

Se le Br fossero state soltanto quella sorta di cartolina di Épinal in salsa emiliana legata alla vicenda del gruppo dell’appartamento o dei trentini della facoltà di sociologia, sarebbero finite con la trappola di Girotto-frate Mitra. Quella emiliana fu una enclave mitizzata e mediatizzata a cui crede ormai solo quel cospirazionista attardato di Fasanella, anche perché per anni molti di quel gruppo hanno rappresentato la parte visibile dell’organizzazione, quella finita in carcere.

In realtà l’insediamento più grosso e strutturale stava nelle fabbriche del triangolo industriale, proveniva dall’esperienza dei Cub, era l’anima operaia, quell’operaio massa nuovo e sovversivo.
Ma ciò che ha fatto sopravvivere questo gruppo per quasi due decenni è stata la capacità di uscire anche dalla fabbrica, radicarsi nel territorio, insediarsi nelle periferie romane e milanesi, fino a Napoli.
Nelle Br non confluiscono solo ex Fgci (fatto anche generazionale. Chi era giovane nei primi anni 60 passava da lì come avvenne per alcuni fondatori di Potop), qualcuno, o pezzi del gruppo feltrinelliano, ma comunisti libertari come Faina, larghe fette di Potere operaio, meno di Lc, maoisti, quelli prima confluiti per Potop (altri ex mao confluiti in Potop fondano gruppi armati concorrenti) e altri ancora, e poi quel magma definito genericamente Autonomia, prima e dopo il 77.
Il reclutamento in una città come Roma, soprattutto nella zona periferica sud-est, si prolunga fino alla metà degli anni 80.

Che il terzointernazionalismo non sia riassumibile nello stalinismo lo si deve affermare per rispetto delle altre famiglie del comunismo internazionale. Quanto meno avresti dovuto prendere delle precauzioni periodizzando. I troskisti, i bordighisti, per citarne solo alcune, sono a pieno titolo figli di quella tradizione.
Senza dover citare Revelli, quella proiezione verso l’assoluto del fine che giustifica ogni mezzo non è propria solo dello stalinismo, che l’ha portata alla sua aberrazione massima, all’abisso senza ritorno. E’ insita in molte altre culture non solo del comunismo rivoluzionario, in quelle leniniste, nel troskismo, nella tradizione anarchica, ma e propria anche delle culture nazionaliste e fasciste, appartiene – lo sai meglio di me – alla grande avventura sionista tuttora in corso.
Aggiungo che non manca nemmeno nelle esperienze dell’operaismo armato: devo forse ricordare le gesta di Segio o le imprese di Fioroni?

Si da il caso che nella biografia di Prospero Gallinari non troverai nulla di tutto ciò!

Ecco appunto, torniamo a Prospero. La sua cultura è un must particolare, originale, che ha delle similitudini con gli altri emiliani ma non è sovrapponibile a quella di altri dirigenti brigatisti come Moretti, Curcio, Senzani, Balzerani, Guagliardo, per stare al gioco dei nomi conosciuti.

Un comunismo contadino che mette radici nell’Emilia profonda, che ha legami forti con la memoria della Resistenza in una zona segnata duramente dalla guerra civile (legami giustificati anche dalla vicinanza anagrafica), nella quale è presente la tradizione insurrezionalista, con elementi secchiani e dunque certamente di scuola “emmelle”, ma che si intrecciano pure con l’opposizione ingraiana. Un sostrato che si misura, e qui sta l’intelligenza e l’originalità del percorso di Gallinari, con le nuove culture sovversive della metropoli degli anni 70: quella operaia prima e quella delle periferie urbane dopo.

Posso capire cosa c’entra tutto ciò con lo stalinismo?

Ti sei mai chiesto come sia stato possibile che uno come Gallinari abbia di fatto installato, fatto crescere, dato basi solidissime alla colonna romana, la colonna terziaria per definizione, quella sociologicamente più negriana…. Quella dell’operaio sociale, dei disoccupati, dei borgatari, degli studenti, dei lavoratori dei servizi, dei ferrovieri.
Chi mai tra questi giovani, Gallinari avrebbe guardato con sospetto, come sostieni?

Solo una persona con una grande duttilità, una enorme capacità di ascolto e di adattamento avrebbe potuto “accudire” quel fiume di giovani che volevano entrare nell’organizzazione.

Le tue, Andrea, sono incrostazioni ideologiche, pregiudizi che non reggono alla luce dei fatti e di cui faresti bene a liberarti.

Non c’è stata organizzazione meno terzointernazionalista delle Br, questo è il punto. Forse alcuni accenti del genere riapparvero nell’aspro dibattito interno che divise quanto restava delle Br-pcc alla metà degli anni 80, ma era un momento in cui la voglia di tirare bilanci e rifondare tutto spingeva a cercare spunti ovunque. Durò poco.

La Brigate rosse, in realtà, hanno innovato, praticando un’eresia organizzativa ed ideologica. Guardavano agli esempi della guerriglia urbana metropolitana, Marighella e non il Che. Antileniniste sul piano dell’organizzazione, rifiutavano il modello del doppio livello, legale e illegale, della separazione tra direzione politica e braccio armato propugnando l’unificazione tra politico e militare, con un discorso che traeva coerenza dal rifiuto della divisione del lavoro manuale e intellettuale.

Nelle Br non esistevano i capi che mandavano i gregari a sporcarsi le mani, l’intellettuale che dava la linea e gli altri che eseguivano. Il dirigente andava in prima linea, non diceva armiamoci e partite per poi giustificarsi, come fece un certo professore, dicendo: “hanno capito male i miei libri”. Era moralismo rivoluzionario? Probabile.
Comunque si trattava di una formula organizzativa differente da quelle di altre formazioni di matrice operista ortodossa che invece praticarono senza problemi questa dualità tipicamente terzointernazionalista.

Vengo infine all’ultima parte, lì dove affermi che Prospero era uno di quelli, «che se il partito glielo avesse ordinato ti avrebbe eliminato, con le lacrime agli occhi ma senza esitare, convinto che questo fosse il suo dovere di rivoluzionario e di soldato della guerra di classe. Quella spietatezza politica era inaccettabile, certo, ma Prospero la condivideva con migliaia e migliaia di militanti dei suoi tempi».

Qui siamo alla calunnia bella e buona. Diversa solo nello stile dalle parole che ha scritto Fasanella su Panorama.
Dovresti rileggere quanto ha ricordato Lanfranco Pace in una intervista apparsa sul Foglio di questi giorni sull’atteggiamento misurato con il quale Gallinari gestì la grave crisi provocata dal modo in cui Morucci e Faranda uscirono dalle Br, rubando parte dell’arsenale militare dell’organizzazione. Un comportamento gravissimo, definito allora “banditesco” e che nella storia delle organizzazioni rivoluzionarie ha sempre provocato l’eliminazione dei responsabili.

Nelle Br esisteva una prassi che consentiva a chiunque fosse in crisi o in disaccordo di andare via dall’organizzazione se avesse voluto, ritirandosi a vita privata se era ancora possibile. Quando chi usciva era già latitante, otteneva in dotazione l’arma personale, dei soldi e un minimo di aiuto logistico, a rischio – come avvenne molte volte – di cadere in trappole micidiali tese dalla polizia. Nessuno veniva messo alla porta, gettato in strada.

Morucci e Faranda non si accontentarono di ciò, ebbero un comportamento “poco leale”, nonostante ciò quella vicenda venne ricondotta da Gallinari all’interno di una gestione politica del dissenso. Giudizi molto duri ma nessuna rappresaglia. Aggiungo che a minacciare Morucci in carcere furono altri personaggi, no sto qui a fare il nome, ma sai benissimo di chi parlo.

E visto che parliamo di Morucci ricordo – come da egli stesso raccontato nei suoi libri – che fu lui e non certo Gallinari ad intrattenere rapporti molto stretti con Feltrinelli, quando era ancora responsabile del lavoro illegale di Potere operaio (e le Br erano appena un piccolo gruppetto), fino ad avere quasi una doppia appartenenza.
Feltrinelli aveva rapporti internazionali di peso, non solo con Cuba e le guerriglie sud americane ma anche con il blocco orientale. Perché mai allora l’etichetta di stalinista non ricade su di lui ma l’appiccichi a Gallinari? E perché mai è lui che dovrebbe rispondere della leggenda del superclan come va dicendo Fasanella?

Concludo ricordando il ruolo e il comportamento tenuto da Prospero negli anni di carcere anche nei momenti di massima tensione interna alle Br o con altri gruppi (7 aprile, movimento della dissociazione), sempre improntato a ricondurre sul piano del confronto politico, anche aspro ma sempre politico, le divergenze, le rotture, lontano da qualsiasi sopraffazione fisica.

Basta leggere le sue memorie, il rammarico con cui racconta gli anni bui delle rese di conti che nel clima allucinato delle carceri speciali portò tronconi scissionisti delle Br a scagliarsi contro altri pezzi della stessa organizzazione, scatenando una guerra contro le proprie ombre, alla ricerca del capro espiatorio di turno.
Gallinari difese quelli che avevano ceduto sotto la pressione degli interrogatori o delle torture dando prova di saggezza, umanità, buon senso, grande lungimiranza politica e umana.

Un grande dirigente, il cui atteggiamento restio ad entrare nei dettagli era una questione di stile non di reticenza. Un vecchio stile comunista, misurato, asciutto, che si sforzava di trattenere i sentimenti, di mettere in avanti sempre la lucidità.

Paolo Persichetti

*  *  *  *


E’ morto il br Prospero Gallinari: era generoso, altruista, coraggioso

Andrea Colombo
Gli Altri online 14 gennaio 2013

Prospero Gallinari era una persona meravigliosa. Molti lo sanno ma temo che pochi lo scriveranno. Invece è bene che sia detto. Era generoso, altruista, coraggioso. Era uno di quelli di cui si dice “col cuore grande” e forse non è solo un caso che alla fine, dopo una lotta lunghissima, proprio il cuore lo abbia fregato.
Certo, Prospero ha sparato, Prospero ha ucciso. Tecnicamente Prospero è stato un assassino. Ma chiunque lo abbia conosciuto anche solo di sfuggita sa perfettamente che questa verità è bugiarda. Non rende neppur minimamente ragione della vita e dell’animo di Prospero Gallinari.
Era un uomo d’altri tempi. Un militante comunista di quelli che per due secoli hanno fatto la storia. Un partigiano nato per caso a guerra finita. Da ragazzo si faceva chilometri a piedi per andarsi a leggere l’Unità nel bar del paese più vicino alla fattoria in cui era cresciuto. Da uomo fatto era ancora quel ragazzo.
Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. «Io – mi ha detto una volta – sono sempre stato un militante del Partito comunista italiano e, anche se ti sembrerà strano, in tutte le organizzazioni di cui ho fatto parte ho sempre rappresentato l’ala moderata». Ci guardava con sospetto, come quasi tutti i brigatisti, operai e contadini la cui continuità con la tradizione comunista era molto più ferrea della nostra.
Per anni e anni Gallinari è rimasto in galera col cuore sempre più malconcio, passando da un infarto a un altro. Avrebbe avuto il diritto di scontare la pena fuori da quelle mura, con un male così grave. Non gli veniva consentito solo perché era considerato, a torto, l’uomo che aveva ucciso Aldo Moro. Avesse detto che no, non era vero, che si assumeva tutte le responsabilità di quell’esecuzione atroce ma a sparare non era stato lui, lo avrebbero tirato fuori subito. Nessuno osò mai proporgli un gesto simile. Sarebbe bastato a farsi togliere per sempre la parola.
Gallinari sarebbe morto in galera senza un fiato se Mario Moretti, nel suo libro-intervista a Riossana Rossanda e Carla Mosca, non avesse dettio che a uccidere, in quel garage di via Montalcini, era stato lui. Tutti gli impedimenti che fino a quel momento avevano reso impossibile la sua scarcerazione caddero come per miracolo.
Sia chiaro, Prospero era un rivoluzionario generoso e di animo buono, ma era anche uno stalinista, uno di quelli che se il partito glielo avesse ordinato ti avrebbe eliminato, con le lacrime agli occhi ma senza esitare, convinto che questo fosse il suo dovere di rivoluzionario e di soldato della guerra di classe. Quella spietatezza politica era inaccettabile, certo, ma Prospero la condivideva con migliaia e migliaia di militanti dei suoi tempi. Che non erano i nostri, perché Prospero Gallinari era davvero un uomo e un rivoluzionario e un comunista “d’altri tempi”.
Credo che a tutti quelli che lo hanno conosciuto, per quanto lontanissimi fossero dalle sue scelte, per quanto severamente lo possano aver criticato, mancherà moltissimo.

 *  *  *  *

Replica di Paolo Persichetti
15 gennaio 2013 at 19:52

C’è un episodio sconosciuto che vorrei raccontare: nel 1989 erano in corso nell’aula bunker di Rebibbia diversi maxi processi; l’appello del Moro ter, quello per insurrezione contro i poteri dello Stato, oltre a quello contro le Br-Udcc nel quale ero imputato. In quel momento si discuteva molto di soluzione politica, c’erano settori dello Stato che volevano chiudere la vicenda della lotta armata. L’atteggiamento dei media verso i prigionieri politici era cambiato e così accadeva che ogni tanto ci veniva offerta la parola. In una pausa delle udienze, il giornalista Ennio Remondino intervistò Prospero Gallinari e tra le diverse domande gli chiese anche con chi stessero i prigionieri delle Br: con il governo cinese, che aveva inviato i carri armati in piazza, o con i manifestanti di Tienamen? «Con gli occupanti della piazza, e con chi se no?», fu la risposta di Gallinari. Naturalmente Bruno Vespa, allora direttore del Tg1, tagliò quella frase che smontava uno dei cliché più classici e mistificatori incollati sulla pelle dei militanti della lotta armata.
Caro Andrea hai fatto la fine di Vespa. Peccato che il tuo pezzo molto bello sia alla fine scivolato nel dizionario dei luoghi comuni.

Paolo Persichetti

 *  *  *  *

Replica di Andrea Colombo
15 gennaio 2013 at 20:50

Caro Paolo, mi sono riletto il pezzo, scritto molto a caldo, per rintracciare gli eventuali luoghi comuni. Non sono sicuro che ci siano, anche se come medium internet non agevola l’approfondimento. Cmq provo a spiegarmi. Non sapevo di quella domanda di Ennio Remondino, ma non avrei avuto alcun dubbio sulla risposta di Prospero. Però, scusa, che c’azzecca? Se Prospero fosse stato con il Pcc, in quell’occasione, non sarebbe stato stalinista ma stupido, e non lo era.
Mi riferivo a qualcosa di meno banale, più tragico, per certi versi anche più funesto. Una intera generazione di comunisti, quella terzinternazionalista, ha accettato parecchie aberrazioni, sapendo che erano tali, dunque soffrendole, perché questo era l’interesse del partito e, dunque, della rivoluzione. Esempio non brigatista e non sanguinolento: quando il Pci decise di estromettere Giuliano Pajetta, la cui sola colpa era quella di aver fatto la resistenza in Jugoslavia, Giancarlo sapeva perfettamente che si trattava di una feroce ingiustizia e che suo fratello fosse oggetto di quella ingiustizia che gli rovinò la vita non lo faceva certo felice. Ma scelse di tacere perché questo chiedeva il partito, cioè la rivoluzione. Di esempi simili ce ne sono letteralmente migliaia: quello era lo stalinismo. Era atroce, era in qualche misura “inumano” ma aveva una sua altrettanto atroce nobiltà. Voi, secondo me, siete stati gli ultimi epigoni di quella cultura.
Non sarò reticente: so perfettamente che tutti gli inquilini di via Montalcini soffrirono come cani il 9 maggio del 1978. Però scesero lo stesso in garage perché ritenevano che questo chiedesse, anzi imponesse, la rivoluzione. Quella contraddizione è tragica e secondo me voi, magari non sempre essendone coscienti, la avete vissuta più di chiunque altro in quegli anni. E Prospero, credo, persino più degli altri.
Questo volevo dire, e non sono convinto, ripeto, che sia un luogo comune.

Link
Prospero Gallinari, un uomo del 900
Gallinari è morto in esecuzione pena. Dopo 33 anni non aveva ancora ottenuto la libertà condizionale
Prospero Gallinari quando la brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni
“Eravamo le Brigate rosse”, l’ultima intervista di Prospero Gallinari
A Prospero Gallinari volato via troppo presto
Ciao Prospero
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili

Per saperne qualcosa di più
La biblioteca del brigatista
Il nemico inconfessabile
La biblioteca del brigatista
Mario Moretti, Brigate rosse une histoire italienne
La révolution et l’Etat
La vera storia del processo di Torino al “nucleo-storico” delle Brigate rosse: il Pci intervenne sui giurati popolari
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro
Doppio Stato e dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella

Università della Sapienza, salta il seminario suggerito dalla Digos

n1035440415_221871_6553

Lapsus…

Il Br dissociato Valerio Morucci era stato invitato, nella veste di ventriloquo del ministero dell’Interno, a tenere il 12 gennaio 2009 una lezione nell’università La Sapienza di Roma.
Questa vicenda segnala un rischio per la libertà di ricerca, di insegnamento, di studio, per la cultura di questo paese che sembra aver perso ogni germoglio critico, sprofondato nel sonno della ragione.
Che storia può mai essere quella promossa dal ministero dell’ordine e della sicurezza? Da quando in qua la polizia di Stato si occupa dei programmi universitari?
Il rettore della Sapienza, prof. Luigi Frati, ha provocatoriamente dichiarato che l’unico luogo per tenere una lezione di storia degli anni 70 sarebbe via Fani, come a dire che gli anni 70 possono essere studiati solo sui marciapiedi o gli angoli di strada dove sono avvenuti gli attentati (a dire il vero, un’altro dissociato, Alberto Franceschini, ebbe la “geniale idea” di farsi intervistare da Claudio Martelli proprio in via Fani, suscitando lo sdegno generale degli stessi che oggi invece, all’improvviso, hanno cambiato idea). In realtà potremmo anche accettare questa proposta, a patto che si possa fare altrettanto nelle piazze e nelle stazioni dove sono avvenute le stragi  di Stato, nelle carceri dove sono state represse le lotte dei detenuti, sulle strade, nelle fabbriche, le università, le campagne dove sono stati uccisi manifestanti, scioperanti, semplici cittadini, giovani militanti, sindacalisti, operai, braccianti, dalle forze di polizia in assetto di ordine pubblico. Oltre 200 morti solo dal 1945 al 1969… dopo vennero gli anni 70. Ma forse – si potrebbe obiettare – i luoghi migliori sarebbero quei cantieri e quelle fabbriche dove si muore di lavoro: come il petrolchimico di Porto Marghera, l’Icmesa di Seveso o la Thyssenkrupp. Già, il lavoro salariato, questo perfetto rimosso del nostro tempo. È lì dentro che sta l’arcano della rivolta armata che mette ancora tanta paura.


Università della Sapienza, salta il seminario suggerito dalla Digos

Paolo Persichetti
Liberazione
3 gennaio 2009

È stata annullata la conferenza che l’ex brigatista Valerio Morucci doveva tenere il 12 gennaio presso l’università La Sapienza di Roma. La decisione è stata presa dal preside della facoltà di Scienze Umanistiche Roberto Nicolai. Morucci doveva tenere un seminario su «Cultura, violenza e memoria» all’interno di una delle lezioni del prof. Giorgio Mariani, ordinario di Letteratura angloamericana e promotore dell’iniziativa. Morucci non è nuovo ad incontri del genere, come quello tenuto al liceo Giulio Cesare tempo addietro per discutere uno dei suoi ultimi libri. Niente di veramente nuovo, dunque; come abbastanza scontato è stato il vespaio di polemiche suscitato dalla notizia. La vera novità (questa sì piuttosto grossa) si trova, invece, nelle giustificazioni addotte dal prof. Mariani per spiegare le ragioni dell’invito. In una lettera, scritta il 28 dicembre, inviata ai colleghi di facoltà, Mariani sostiene d’aver invitato Morucci «perché sollecitato da un ufficiale della polizia di Stato che segue il percorso post-carcerario di alcuni ex terroristi». Le autorità di polizia e di giustizia – prosegue il docente – «vedono con favore questi incontri che aiutano le nuove generazioni a scansare la tentazione di ripetere scelte sbagliate, in particolare in un momento in cui la protesta legittima di studenti e giovani si fa sentire nuovamente». Capita l’antifona, studenti dell’ Onda?

Università La Sapienza di Roma

Università La Sapienza di Roma

Il funzionario in questione, stando alle parole del rettore della Sapienza Luigi Frati, sarebbe un importante funzionario della Digos (anche se in serata è poi giunta la smentita di rito da parte di questo ufficio della questura). Da tempo va di moda la polemica contro il «presenzialismo mediatico» degli ex militanti della lotta armata. Ora apprendiamo, però, che dietro alcuni di loro – perlopiù ultradissociati e collaboratori di giustizia – agiscono come veri e propri agenti editoriali e addetti alla pubbliche relazioni dei funzionari del ministero degli Interni. Circostanza che chiarisce la reale natura della narrazione degli anni 70 che costoro portano avanti. A questo punto non si comprendono nemmeno i motivi della polemica da parte di chi ne dovrebbe ricavare solo vantaggio. Ma la stupidità è un tratto tipico di molti reazionari attuali. Tempo fa Morucci ha rivendicato il diritto di parola, evocando l’articolo 21 della costituzione. Per farne cosa? Adesso lo sappiamo: diffondere la verità ufficiale del ministero degli Interni, alla faccia della libertà di pensiero.
Solo in un paese dove le parole hanno perso senso e il senso le parole può accadere una cosa del genere. Tutto questo perché sugli anni 70 incombe tuttora l’ipoteca dell’emergenza. A quando una storia libera di essere studiata e discussa senza discriminazioni e senza funzionari di polizia che vengono a suggerirci i testi e gli autori?


L’intervista: il prof dell’invito: «
Era utile ascoltare i suoi tragici errori»

Carlo Piccozza
la Repubblica del 3 gennaio 2009

copertveline2

Quando la storia la scivevano dagli uffici del governo

Roma – Professor Giorgio Mariani, perché una lezione alla Sapienza di un ex brigatista rosso?
«L’idea era di avere un dialogo con lui, non di farlo salire in cattedra. L’esperienza di chi, come Valerio Morucci, dopo scelte tragicamente sbagliate, valuta criticamente il suo passato, può essere di insegnamento, soprattutto ai giovani. Mentre gli studenti tornano all’impegno politico, avverto la necessità di aiutarli ad acquisire le armi della critica che sono l’antidoto più efficace contro la tentazione macabra delle armi vere».

Ma alcuni suoi colleghi l’hanno criticata sostenendo che non può mettere in relazione la protesta degli studenti con la pratica terroristica.
«Non c’è relazione, infatti, ma la biografia di Morucci nel racconto Schegge di memoria, pomo della discordia dell’incontro da me annullato, non è un recupero romantico né una demonizzazione del movimento studentesco. Solo un’analisi. Una interpretazione critica, forte della memoria sugli errori consumati nel percorso del dopo ’68. Perché scandalizzarzi? Dare la parola a chi ha fatto scelte tragicamente sbagliate, per me non significa legittimare chicchessia. E poi quell’iniziativa mi era stata suggerita da un funzionario di polizia che segue il percorso post-carcerario di alcuni ex terroristi e che sarebbe stato presente all’incontro».

La questura di Roma smentisce, però, che l’incontro sia stato suggerito da qualche funzionario della Digos.
«Non so se fosse della Digos. Ma che fosse un funzionario di polizia, sono certo. D’altro canto quando Morucci si incontrò con gli studenti del liceo Giulio Cesare, lo fece accompagnato da agenti di polizia».

Link
I Ravveduti
Sbagliato andare a Casapound, andiamo nelle periferie
Le veline del manifesto


Le veline del Manifesto

C’era una volta un giornale comunista. Al manifesto piace la storia raccontata dal ministero degli Interni
Per Morucci, porte chiuse alla Sapienza

Iaia Vantaggiato
il manifesto
2 gennaio 2009

n1035440415_221871_65531

Lapsus...

“Certo, fa una certa impressione pensare che a Rabin e Arafat abbiano potuto dare il nobel per la pace e in Italia fa scandalo anche solo il fatto che un  ex-terrorista vada a parlare all’università della sua storia”, commenta Valerio Morucci, ironico ma anche furibondo. Sull’esito dell’ennesimo “scandalo” che lo ha coinvolto, Morucci si fa poche illusioni: è pronto a scommettere che la “lezione” che avrebbe dovuto tenere il 12 gennaio all’università “La Sapienza” di Roma – titolo Schegge di memoria – non ci sarà. La levata di scudi di studenti e docenti, spalleggiata dallo stesso rettore Luigi Frati è bastata e avanzata per convincere il professor Giorgio Mariani, docente di letteratura anglo-americana alla facoltà di Scienze umanistiche, a ripensarci. Dopo le proteste, in questi casi inevitabili, Frati non ci era andato giù leggero. Aveva convocato il preside della facoltà, Nicolai, per esprimergli i sensi del suo più totale disaccordo. Nel caso la sua posizione non risultasse abbastanza chiara aveva aggiunto un truculento testata-manifesto consiglio, quello di “tenere il seminario nello stesso luogo e alla stessa ora in cui il gruppo di fuoco delle Br ha massacrato gli innocenti che facevano da scorta ad Aldo Moro”. Valerio Morucci, ex Potere operaio, ha fatto effettivamente parte del commando Br di via Fani ed è stato poi, con l’allora compagna Adriana Faranda, il “postino delle Br”, incaricato di consegnare tutti i messaggi copj13 brigatisti, nei 55 giorni del sequestro. Sua, tra l’altro, l’ultima telefonata, quella a professor Franco Tritto, in cui le Br annunciavano l’uccisione di Moro e indicavano il luogo dove ritrovare la salma. Uscito dalle Br anche in seguito al dissenso sull’esito di quella tragica vicenda (Morucci era contrario all’uccisione di Moro) è stato tra i primi terroristi a dissociarsi dalla lotta armata. Uscito di prigione, ha scritto numerosi libri sia di narrativa che di analisi storico politica sulle vicende che lo hanno visto protagonista, ed è probabile che anche in questa veste fosse stato invitato a tenere il seminario incriminato da un professore di letteratura  angloamericana. Nel seminario, Morucci avrebbe parlato del suo percorso politico e individuale, dal ’68 alla militanza in Potere operaio allo stretto rapporto con Giangiacomo Feltrinelli, l’editore guerrigliero capo dei Gap. Non avrebbe giustificato nulla ma spiegato molto, come ha già fatto nei suoi molti e apprezzati libri. Avrebbe aiutato a capire, senza indulgenze e senza sciocchi anatemi, come e perché in Italia, non molti anni fa sia nato e cresicuto un fenomeno armato senza pari in occidente. Quello che dovrebbe fare un paese deciso a capire e non a demonizzare. Quello che dovrebbero fare università e rettori degni del nome.

Link
Universita della Sapienza, salta il seminario suggerito dalla digos
I Ravveduti
Sbagliato andare a Casapound, andiamo nelle periferie