Le torture ai brigatisti raccontate da Luigi Bisignani

luigi-bisignani-uomo-sussurra-potenti-acquista-libro-online-sconto-scarica-download-pdf1Chi è Luigi Bisignani? I magistrati che lo hanno arrestato qualche tempo fa per poi concedergli i domiciliari, lo hanno descritto come un «soggetto più che inserito in tutti gli ambienti istituzionali e con forti collegamenti con i servizi di sicurezza». Uno che sa o che lascia credere di sapere, che del posseso di informazioni riservate ha fatto il suo mestiere.
Coinvolto in un’inchiesta sul mondo delle lobby, condotta dai pm napoletani Francesco Curcio e Henry John Woodcock, Bisignani si è visto contestare l’appartenenza ad un’associazione per delinquere finalizzata alla gestione di notizie riservate, appalti e nomine, in un misto, secondo l’accusa, di dossier e ricatti, anche attraverso interferenze su organi costituzionali realizzate manovrando un sistema informativo parallelo.
Trovare una definizione esatta per collocarlo è difficile: faccendiere, lobbista, uomo d’affari, addentro al mondo dell’informazione e dei servizi, capace di far circolare e orientare notizie, a suo tempo iscritto alla loggia P2, insomma un uomo di relazioni, punto di raccordo tra ambienti diversi, sempre capace di far valere i suoi rapporti influenti, la ricca agenda e la quantità di informazioni riservate in suo possesso. Un evergreen del potere discreto, che non agisce in prima fila ma dietro le quinte del palcoscenico.
In un libro-intervista, L’uomo che sussurra ai potenti, appena apparso per Chiarelettere, rispondendo alle domande del giornalista Paolo Madron, Bisignani si diverte a raccontare retroscena, piccoli segreti, gossip, lo fa con ironia, schizza ritratti velenosi di personaggi della finanza, della politica, della chiesa, della magistratura (tra i più gustosi), dei Servizi segreti, dei media, in altri casi è servile, appare un magiordomo del potere, ogni tanto rivela qualche verità. Tra queste, in una paginetta e mezza racconta delle torture condotte nel 1982 dalla squadra del professor De Tormentis, ovvero quel Nicola Ciocia che i lettori assidui di questo blog conoscono molto bene. Se un frequentatore del potere come Bisignani sapeva, quanti altri come lui sapevano?
Eccovi l’estratto, buona lettura

Bisigna 1Bisigna 2bisPer saperne di più
Chi è “Tormentis”?

Il processo di Perugia
Non erano calunnie, il tribunale di perugia riapre il processo sulle torture contro le Br
Il processo alle torture si farà. La corte d’appello di Perugia accoglie la richiesta Enrico Triaca, il tipografo delle Br sottoposto a waterboarding dal poliziotto dell’Ucigos Nicola Ciocia
A Perugia il processo alle torture di Stato di militant blog.org
Dalle torture a Bilderberg, l’ambigua posizione dell’ex magistrato Ferdinando Imposimato
Processo alle torture, il professor De Tormentis chiamato a testimoniare. Il prossimo 18 giugno la decisione della magistratura
Il brigatista torturato chiede la revisione del processo. Vuole sapere tutto sulla squadra speciale guidata da Nicola Ciocia che praticava il waterboarding
Enrico Triaca denunciò le torture ma fu condannato per calunnia. In un libro il torturatore Nicola Ciocia-alias De Tormentis rivela “Era tutto vero”. Parte la richiesta di revisione
Condannato per calunnia dopo aver denunciato le torture, Triaca chiede la revisione del-processo

Per approfondire la storia delle torture
Le torture della repubblica

Non erano calunnie. Il tribunale di Perugia riapre il processo alle torture contro le Br

Anni ’70 – svolta sul “caso Triaca”

Samir Hassan, il manifesto 20 giugno 2013

IMG_1517L’istanza di revisione del processo per calunnia presentata dal collegio difensivo di Enrico Triaca, il tipografo delle Br arrestato il 17 maggio del ’78 nel corso delle indagini sulla morte di Moro, è giunta ad una svolta. Lo scorso 18 giugno la Corte d’appello di Perugia, presieduta da Giancarlo Massei, ha ammesso tre nuovi testi le cui testimonianze potrebbero finalmente far luce su una delle pagine volutamente più dimenticate degli anni ’70. Dopo l’arresto, infatti, Triaca fu pestato e torturato, sottoposto alla pratica del waterboarding da una squadra speciale dell’Antiterrorismo comandata da “De Tormentis”, eteronimo di Nicola Ciocia, dirigente dell’Ucigos. Soprattutto in base a queste premesse, la decisione della corte perugina sembra muovere in una direzione tanto anomala quanto importante. Sentiti i pareri favorevoli sia del procuratore generale sia degli avvocati di Triaca (Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo), i giudici hanno dato il placet affinché, nella prima udienza del dibattimento fissata il prossimo 15 ottobre, vengano ascoltati Matteo Indice, Nicola Rao e Salvatore Rino Genova. Il primo, giornalista de Il Secolo XIX, raccolse nel 2007 le testimonianze di Rino Genova e l’ammissione, fatta però dietro lo pseudonimo di “ Professor De Tormentis”, di Nicola Ciocia che svelò di essere stato a capo di una squadra alle dirette dipendenze degli Interni, creata in seguito al sequestro Moro e specializzata negli interrogatori sotto tortura. Nicola Rao, noto giornalista, è invece autore del libro Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le BR. La storia mai raccontata (Sperling & Kupfer, 2011), in cui sono racchiuse le dichiarazioni di Ciocia in relazione alle torture praticate a Triaca. Il nome di Rino Genova, noto ex commissario Digos, è invece legato alle confidenze di Ciocia da lui raccolte in merito alle torture perpetrate su Triaca, oltre al fatto che lo stesso Rino Genova ha assistito in varie occasioni ai “lavori” della squadra De Tormentis contro altri presunti brigatisti. Nell’accogliere per intero le prove presentate dal collegio difensivo di Triaca (tra cui un’intervista fatta da Fulvio Buffi per il Corriere, nel febbraio 2012, in cui Ciocia rivendica la paternità del nomignolo “De Tormentis”), la corte si è riservata di valutare se sentire anche lo stesso Ciocia, altro teste indicato dagli avvocati di Triaca; una riserva dovuta al fatto che, essendo quelle di Ciocia delle dichiarazioni autoaccusatorie, la posizione di quest’ultimo potrebbe mutare in sede processuale da teste a indiziato (anche se per fatti ad oggi prescritti).
«La decisione della Corte d’appello è un segnale positivo. Da qui si deve partire per mantenere viva l’attenzione su questo caso; far emergere la verità di fondo, inchiodare lo Stato davanti ai suoi crimini e costringerlo, anche se solo formalmente, ad una pubblica assunzione di responsabilità. Ciononostante, ho l’impressione che lo Stato sia trincerato dietro i suoi stessi silenzi, come ben dimostrano l’oscuramento dei media in merito a questo episodio», dichiara lo stesso Triaca. «La portata del processo – continua – assume una forte valenza simbolica, un ariete capace di scardinare il muro di silenzio che impedisce un dibattito aperto e storicizzante su gli anni ‘70». Quanto alla continuità della repressione di Stato, alla tortura sistemica e sistematica degli apparati statali, Triaca afferma: «Oggi lo Stato tortura anche attraverso singoli episodi, di puro e violento sfogo. Contro di noi si combatteva una battaglia più grande, non riconducibile ad un singolo caso, una pianificazione repressiva studiata a tavolino. La continuità dello Stato, oggi, non è tanto nel modo di persecuzione quanto nella capacità di depistare e mentire, di giustificare e assolvere la tortura di Stato». Che si tratti di un passo importante è anche l’opinione di Francesco Romeo, uno dei legali di Triaca, che aggiunge: «Il processo del ’78 fu un processo sommario e sbrigativo, volto non tanto a condannare Triaca quanto a negare la denuncia delle torture. Noi, oggi, puntiamo a ristabilire la verità storica di quanto realmente accaduto».

Per saperne di più sul processo di Perugia
Il processo alle torture si farà. La corte d’appello di Perugia accoglie la richiesta Enrico Triaca, il tipografo delle Br sottoposto a waterboarding dal poliziotto dell’Ucigos Nicola Ciocia
A Perugia il processo alle torture di Stato di militant blog.org
Dalle torture a Bilderberg, l’ambigua posizione dell’ex magistrato Ferdinando Imposimato
Processo alle torture, il professor De Tormentis chiamato a testimoniare. Il prossimo 18 giugno la decisione della magistratura
Il brigatista torturato chiede la revisione del processo. Vuole sapere tutto sulla squadra speciale guidata da Nicola Ciocia che praticava il waterboarding
Enrico Triaca denunciò le torture ma fu condannato per calunnia. In un libro il torturatore Nicola Ciocia-alias De Tormentis rivela “Era tutto vero”. Parte la richiesta di revisione
Condannato per calunnia dopo aver denunciato le torture, Triaca chiede la revisione del-processo

Per approfondire la storia delle torture
Le torture della repubblica

Il Processo alle torture si farà. La corte d’appello di Perugia accoglie la richiesta di Enrico Triaca, il tipografo delle Br sottoposto a waterboarding dal poliziotto dell’Ucigos Nicola Ciocia

La corte d’appello di Perugia ha accolto la richiesta di revisione del processo che portò alla condanna per calunnia di Enrico Triaca, dopo che questi aveva denunciato le torture subite durante gli interrogatori seguiti all’arresto avvenuto il 17 maggio 1978 nell’ambito delle indagini sul rapimento Moro.
IMG_0475La corte, letta l’istanza presentata dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo, sentito il parere favorevole espresso dal procuratore generale, ha ammesso come nuovi testi Nicola Rao, giornalista e autore del libro Colpo al cuore. Dai Pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Spelling & Kupfer, nel quale si riportano le rivelazioni di Nicola Ciocia, ex funzionario dell’Ucigos, in merito alle torture praticate su Enrico Triaca; Salvatore Rino Genova, ex commissario della Digos che ha raccolto le confidenze di Ciocia sulle torture realizzate contro Triaca ed ha assistito alle altre sevizie e torture praticate da Ciocia negli anni successivi sul corpo di altre persone arrestate con l’accusa di appartenere alle Brigate rosse; e infine di Matteo Indice, giornalista del Secolo XIX che nel 2007 raccolse la testimonianza di Genova e le ammissioni di Ciocia che raccontò (a condizione di apparire soltanto con lo pseudonimo di “professor De Tormentis”, il nomignolo che gli era stato affibbiato durante una pausa delle torture da Umberto Improta) di essere stato a capo di una squadra speciale del ministero degli Interni, addetta agli interrogatori sotto tortura, creata nel 1978 durante il sequestro Moro ma che aveva sperimentato i suoi metodi già a metà degli anni 70 nell’inchiesta napoletana contro i Nap e contro la criminalità organizzata, e che ebbe mani libere durante tutto il 1982 dopo la decisione del governo Spadolini di ricorrere in modo sistematico all’uso della tortura per contrastare la lotta armata. La corte ha accolto per intero le prove documentali presentate, tra cui l’intervista di Fulvio Bufi, apparsa sul Corriere della sera del 10 febbraio 2012 (leggi qui), nella quale Ciocia ammette di essere il “professor De Tormentis”.
La corte si è riservata di valutare la posizione di Nicola Ciocia, l’altro teste indicato dalla difesa di Triaca per le sue dichiarazioni autoaccusatorie, rinviando la decisione a dopo l’esame degli altri testimoni. Le loro dichiarazioni infatti potrebbero risultare “indizianti”, modificando la posizione di Ciocia da teste a indiziato seppur per fatti oggi prescritti (ricordiamo che il reato di tortura non è previsto dal codice penale italiano, le sevizie commesse da funzionari dello Stato vengono equiparate a normali violenze e lesioni private i cui tempi di prescrizione sono molto rapidi), trasformandolo in “testimone assistito” dal proprio difensore che proprio perché non potendo più essere imputato o indagato, non potrebbe più avvalersi della facoltà di non rispondere o dichiarare il falso, pena il reato di falsa testimonianza o reticenza, reato che essendo commesso sul momento non sarebbe più cancellato dalla prescrizione.
Di seguito il dispositivo letto dal presidente Giancarlo Massei


Corte d’appello di Perugia

Presidente Giancarlo Massei
Relatore Massimo Ricciarelli
Procuratore generale Massimo Cosucci

La Corte d’appello di Perugia,
letta l’istanza di revisione presentata nell’interesse di Triaca Enrico, valutati gli elementi di prova addotti, letta la lista dei testi depositata nelle more,
rilevato che in relazione alle fonti e ai temi di prova indicati si impone l’ammissione in qualità di testi di Nicola Rao, Salvatore Rino Genova e Matteo Indice, dovendosi invece formulare una riserva con riguardo alla posizione di Nicola Ciocia da rivalutarsi alla luce delle dichiarazioni che saranno rese dagli altri testi potendosi allo stato profilare elementi indizianti tali da determinare incompatibilità alla testimonianza richiesta.
Ritenuto inoltre di ammettere tutte le prove documentali prodotte, per questi motivi ammette le prove documentali prodotte e ammette altresì in qualità di testi Nicola Rao, Salvatore Rino Genova, Matteo Indice, con la riserva in ordine della posizione di Nicola Ciocia.
Dispone che la citazione dei testi avvenga a cura della difesa e rinvia la causa per l’audizione dei testi all’udienza del 15 ottobre 2013 ore 9 invitando le parti a comparire senza ulteriori avvisi.

Perugia 18 giugno 2013

La registrazione audio dell’udienza (fonte www.radioradicale.it)

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Le torture della repubblica
Dalle torture a Bilderberg, l’ambigua posizione dell’ex magistrato Ferdinando Imposimato
Processo alle torture, il professor De Tormentis chiamato a testimoniare. Il prossimo 18 giugno la decisione della magistratura

Dalle torture a Bilderberg, l’ambigua posizione dell’ex magistrato Ferdinando Imposimato

Si tiene stamani l’udienza presso la corte d’appello del tribunale di Perugia che dovrà decidere se accogliere la richiesta di revisione della condanna per calunnia pronunciata contro Enrico Triaca dopo che questi aveva denunciato le torture subite nelle fasi successive all’arresto avvenuto nel maggio 1978. La corte dovrà decidere se le nuove prove depositate a sostegno della richiesta di revisione, dopo le pubbliche ammissioni fatte recentemente da Nicola Ciocia (l’ex funzionario di polizia originario di Bitonto, soprannominato “professor De Tormentis” per la sua abilità con la tortura dell’acqua e sale), che ha rivelato di aver torturato Triaca, siano tali da consentire la riapertura del dibattimento

jpg_2178052Enrico Triaca, noto alle cronache come il “tipografo delle Br”, arrestato il 17 magio 1978, pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, in via Caetani a Roma, denunciò di essere stato torturato mentre era nelle mani della polizia perché rendesse dichiarazioni accusatorie. Dagli uffici della Digos, dove era stato condotto dopo l’arresto, fu portato nella caserma di Castro Pretorio. Qui venne a parlargli un funzionario che si presentò come un suo compaesano (Triaca è di origini pugliesi), quindi fu prelevato da una squadra di uomini travisati che lo incappucciarono e lo trasportarono in una sede ignota. Nel corso del tragitto iniziarono le minacce mentre i suoi sequestratori scarrellavano le armi. Arrivato a destinazione fu violentemente pestato ed alla fine sottoposto al waterboarding, la tortura dell’acqua e sale che produce una sensazione di annegamento (leggi qui il racconto di Triaca).

La ritorsione di Gallucci
showimg2Riportato in questura, di fronte al magistrato fece mettere a verbale le torture subite ma per rappresaglia venne a sua volta denunciato per calunnia dall’allora procuratore capo di Roma Achille Gallucci, che per conto del potere democristiano custodiva il tribunale della capitale, non a caso denominato il “porto delle nebbie”, insabbiando le inchieste non gradite a piazza del Gesù (dove si trovava la sede della Dc) e rivolgendo gli strali della giustizia inquisitoriale contro i nemici politici.

Una folla di nomi famosi
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Nel corso del processo farsa tenutosi nel novembre successivo, Triaca fu condannato ad un anno e quattro mesi di carcere per calunnia. Pena che si aggiunse a quella per appartenenza alle Brigate rosse e in un primo momento anche per il sequestro Moro. Verdetto ribadito in appello e poi in cassazione. Nel corso del processo, oltre all’allora capo della Digos romana, Domenico Spinella, sfilarono poliziotti che successivamente hanno fatto molta carriera, da Carlo De Stefano che condusse l’iniziale perquisizione nella tipografia di via Pio Foa, arrivato a dirigere la Polizia di prevenzione (denominazione assunta dall’Ucigos), poi nominato prefetto e recentemente sottosegretario agli Interni durante il governo Monti (leggi qui), a Michele Finocchi, promosso capo di gabinetto del Sisde, praticamente il numero due sotto la gestione di Malpica e coinvolto nello scandalo dei fondi neri per questo latitante in Svizzera dove venne successivamente arrestato dal Ros dei carabinieri. Il ruolo di Finocchi è centrale nella gestione dell’interrogatorio violento di Triaca poiché è lui che raccoglie i due fogli della “deposizione” estorta, di cui uno mai controfirmato.

Dalle torture a Bilderberg, l’ambigua posizione di Imposimato
Ferdinando-ImposimatoNon ci sono solo poliziotti ad interrogare Triaca, arrivarono anche Luciano Infelisi e poi come giudice istruttore Ferdinando Imposimato, che delle torture non si curò minimamente. Omise, coprì anche lui nonostante l’ibrida funzione di magistrato dell’istruzione gli avrebbe imposto di fare luce su tutte le circostanze dell’arresto.
Ad Imposimato la questione non interessava ed oggi, alla stregua dell’abbé Barruel, utilizza la coltre fumogena della dietrologia evocando il ruolo di alcune lobby nelle vicende della lotta armata per il comunismo, come il gruppo Bilderberg (dietro l’imput del suo ultimo delirante libro, la procura di Roma ha riaperto una quinta inchiesta sul rapimento Moro), per evitare imbarazzanti domande su quello che resta l’unico vero mistero della lotta armata: l’impiego delle torture di Stato.

La tortura dell’acqua e sale (waterboarding), conosciuta nelle questure italiane anche con il nome della “cassetta”
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Le parole di Nicola Ciocia, alias “professor De Tormentis”
162521007-2d0fba44-c393-4578-8c05-7b233e6357f74«Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti» (a Matteo Indice, Il Secolo XIX 24 giugno 2007).
La struttura – rivela a Nicola Rao, autore di Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali. Come lo Stato uccise le Br, Sperling&Kupfer 2011) è intervenuta una prima volta nel maggio 1978 contro il tipografo delle Br, Enrico Triaca. Ma dopo la denuncia del “trattamento” da parte di Triaca la squadretta viene messa in sonno perché – gli spiegarono – non si potevano ripetere, a breve distanza, trattamenti su diverse persone: «se c’è solo uno ad accusarci, lascia il tempo che trova, ma se sono diversi, è più complicato negare e difenderci». All’inizio del 1982 il “profesore” viene richiamato in servizio. Più che un racconto quella di “De Tormentis” appare una vera e propria rivendicazione senza rimorsi: «io ero un duro che insegnava ai sottoposti lealtà e inorridiva per la corruzione», afferma presagendo i tempi del populismo giustizialista. «Occorreva ristabilire una forma di “auctoritas”, con ogni metodo. Tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto».

Di seguito un estratto della richiesta di revisione preparata dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo
«I difensori contattavano il sig. Matteo Indice nato a Genova il 7/6/1977, giornalista, [leggi qui la sua intervista a Ciocia che parla nascondendosi sotto lo pseudonimo di “professor De Tormentis”] ed in data 30/7/2012 acquisivano le dichiarazioni (anche a mezzo registrazione audio con conseguente trascrizione integrale allegata); Matteo Indice dichiarava: di aver conosciuto Nicola Ciocia nel 2007 per il tramite di Salvatore Genova che lo accompagnò a Napoli per incontrarlo; di averlo incontrato a casa sua, in Campania, ove Ciocia gli raccontò nei dettagli la storia della struttura denominata “i cinque dell’ave Maria” da lui diretta; Ciocia ammise che lui ed i suoi uomini praticavano torture ma, lo facevano per il bene dello Stato; ammise di aver praticato la tecnica dell’acqua e sale (waterboarding) nei confronti di detenuti comuni e politici sia di destra che di sinistra; fece capire anche che il waterboarding era il sistema più leggero e, che usavano anche altro senza specificare oltre; ammise di essere stato soprannominato “Dottor De Tormentis”; Ciocia citò al giornalista anche il caso Triaca da lui definito interrogatorio esemplare, premettendo che lo avevano torchiato; a richiesta del giornalista se fosse stata usata l’acqua e sale Ciocia rispose “certo che lo usammo”; Ciocia spiegò anche che il suo gruppo era clandestino ed era stato creato per volontà dell’Ucigos, i suoi superiori erano i vertici dell’Ucigos da questi veniva incaricato di trattare ed interrogare le persone arrestate; delle azioni del suo gruppo erano informati: il Capo della polizia ed il Ministro dell’Interno dell’epoca (cfr. doc. all.  y, z))».

«De Tormenti sono io»
Bufi

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Le torture della repubblica

Processo alle torture, il “professor De Tormentis” chiamato a testimoniare. Il prossimo 18 giugno la decisione della magistratura

La richiesta di revisione della condanna per calunnia pronunciata contro Enrico Triaca dopo la denuncia delle torture subite nel 1978 è giunta ad un punto di svolta. Il prossimo martedì 18 giugno si terrà una prima udienza davanti alla corte d’appello di Perugia chiamata a pronunciarsi sulla legittimità delle nuove prove presentate. Se la corte dovesse accogliere l’istanza della difesa di Triaca si riaprirà il dibattimento. Forse vedremo per la prima volta il volto di Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, sapremo allora se l’ex funzionario dell’Ucigos avrà il coraggio di reggere lo sguardo dell’uomo che torturò con l’acqua e sale nel 1978.
Sarà chiamato a testimoniare anche Salvatore Genova, collega e compartecipe di Ciocia le cui rivelazioni hanno squarciato il muro di omertà durato decenni, insieme ad altri testi che hanno raccolto in questi anni rivelazioni e ammissioni

Libri – Dagli anni 70 a Bolzaneto, la continuità trentennale d’apparati, metodi e in certi casi anche di uomini nel ricorso alla tortura

th_1dd1d6fe940b0becc9a0299f6069644e_tortura_cop-1«Ciò che qualifica la tortura – scrive Patrizio Gonnella in, La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica, DeriveApprodi – non è la crudeltà oggettiva del torturatore, ma lo scopo della violenza». Una violenza che può avere due obiettivi: uno giudiziario ed uno politico-simbolico. Nel primo caso si tratta di estorcere informazioni da utilizzare per lo sviluppo successivo delle indagini o da impiegare in sede processuale come dichiarazioni accusatorie; nel secondo il fine è quello di esaltare il potere punitivo dello Stato. I due scopi spesso si sovrappongono: la tortura giudiziaria contiene sempre quella punitiva, mentre la tortura punitiva non sempre contiene la ricerca d’informazioni.
Le torture praticate contro i militanti rivoluzionari accusati di appartenere a gruppi armati tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 erano un classico modello di tortura investigativa. Operate dalle forze di polizia, contenevano entrambi gli obiettivi: estorcere informazioni e disintegrare l’identità politico-personale del militante. La deprivazione sensoriale assoluta, introdotta negli anni 90 attraverso l’isolamento detentivo previsto con il regime carcerario del 41 bis, è invece la forma più avanzata di tortura giudiziaria. Congeniata per sostituire la tortura investigativa, ha rappresentato una ulteriore tappa del processo di maturazione dell’emergenza italiana che ha visto la progressiva giudiziarizzazione delle forme di stato di eccezione, non più controllate dall’esecutivo ma dalla magistratura.
I pestaggi che avvengono nelle carceri o nelle camere di sicurezza delle forze di polizia appartengono invece al genere della tortura punitiva, ispirata dal sopravanzare di visioni etico-morali dello Stato: correggere comportamenti ritenuti fuori norma riaffermando la gerarchia del comando. Così è avvenuto nel carcere di Asti tra il 2004 e il 2005, dove una sentenza della magistratura ha registrato le violenze imposte ai detenuti per ribadire e legittimare i rapporti di potere all’interno dell’istituto di pena.
Una situazione analoga si è verificata nella tragica vicenda che ha portato alla morte di Stefano Cucchi, anche se in questo caso sussistono fondati sospetti che la violenza punitiva ricevuta nelle camere di sicurezza del tribunale, gestite dalla polizia penitenziaria, sia stata preceduta da violenze subite nella fase investigativa prima dell’ingresso in carcere.
In linea generale le violenze poliziesche hanno un carattere «informe», non a caso Walter Benjamin ne coglieva l’aspetto «spettrale, inafferrabile e diffuso in ogni dove nella vita degli Stati civilizzati», al punto da costituire una delle tipicità proprie dell’antropologia statuale. Queste violenze variano d’intensità, d’episodicità ed estensione con il mutare dei rapporti sociali e il modificarsi della costituzione materiale di un Paese. Ci sono poi momenti storici in cui questa violenza si condensa, assumendo una forma sistematica che si avvale dell’azione d’apparati specializzati. Quella che è una caratteristica permanente degli Stati dittatoriali denota anche il funzionamento delle cosiddette democrazie quando entrano in situazioni d’eccezione. Nell’Italia repubblicana è avvenuto almeno due volte: nel 1982, quando il governo presieduto dal repubblicano Spadolini diede il via libera all’impiego della tortura per contrastare l’azione delle formazioni della sinistra armata e nel 2001, durante le giornate del G8 genovese.
Se nel primo caso si è fatto ampio ricorso alla tortura investigativa e ad un inasprimento del regime carcerario speciale, già in corso da tempo, con una estensione dell’articolo 90 e la sperimentazione di quel che sarà poi il regime del 41 bis, con i pestaggi dei manifestanti, il massacro all’interno della scuola Diaz e le sevizie praticate nella caserma di Bolzaneto durante il G8 genovese si è dato vita ad una gigantesca operazione di tortura punitiva e intimidatoria nei confronti di una intera generazione.
In entrambe le circostanze vi è stato un input centrale dell’esecutivo, la presenza di una decisione politica, la creazione di un apparato preposto alle torture e l’individuazione di luoghi appositi, di fatto extra jure, oltre all’atteggiamento connivente delle procure. Se nel 1982 – fatta eccezione per un solo caso – queste insabbiarono tutte le denunce, nel 2001 hanno facilitato la riuscita del dispositivo Bolzaneto, come dimostra il provvedimento fotocopia predisposto prima dei fermi in vista delle retate di massa. Adottato per ciascuna delle persone arrestate, prevedeva in palese contrasto con la legge il divieto di incontrare gli avvocati. Un modo per garantire l’impenetrabilità dei luoghi dove avvenivano le sevizie che restarono così protetti da occhi e orecchie indiscrete per diversi giorni.
Nonostante tanta familiarità con la storia del nostro Paese, la tortura non è un reato previsto dal codice penale e ciò in aperta violazione degli impegni internazionali assunti dall’Italia, l’ultimo nel 1984. Se la giuridicità ha un senso, il suo divieto andrebbe integrato nella costituzione al pari del rifiuto della pena di morte. La sua condanna, infatti, attiene alla sfera delle norme fondatrici, alla concezione dei rapporti sociali, ai limiti da imporre alla sfera statale. Non è una semplice questione di legalità, la cui asticella può essere innalzata o abbassata a seconda delle circostanze storiche.
In ogni caso introdurre questo capo d’imputazione ha senso solo se prefigurato come “reato proprio”. «La tortura – spiega Eligio Resta – è crimine di Stato, perpetrato odiosamente da funzionari pubblici: vive all’ombra dello Stato», come ha sancito la Convenzione Onu del 1984. Nella scorsa legislatura, invece, il Parlamento italiano aveva elaborato una bozza che qualificava la tortura come reato semplice, un espediente che lungi dal limitare l’uso abusivo della forza statale ne potenziava ulteriormente l’arsenale repressivo alimentando il senso d’impunità profondo dei suoi funzionari.
Ancora nel marzo del 2012, l’allora sottosegretario agli Interni, prefetto Carlo De Stefano, rispondendo ad una interpellanza parlamentare della deputata radicale Rita Bernardini era riuscito ad affermare che almeno fino al 1984 in alcuni trattati internazionali sottoscritti anche dall’Italia erano presenti «limitazioni» di «non di poco conto, (morale e in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica)», al divieto di fare ricorso all’uso della tortura. Un modo per mettere le mani avanti e richiamare una inesistente protezione giuridica alle torture praticate in Italia fino a quel momento.
D’altronde fu lo stesso Presidente della Repubblica Sandro Pertini che nel 1982, per rimarcare la distanza che avrebbe separato l’Italia dalla feroce repressione che i generali golpisti stavano praticando in Argentina, affermò: «In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi». Di lui, ebbe a dire una volta lo storico dirigente della sinistra socialista Riccardo Lombardi, «ha un coraggio da leone e un cervello da gallina».
In Italia le torture c’erano, anche se in quei primi mesi del 1982 non vennero inferte negli spogliatoi degli stadi ma in un villino, un residence tra Cisano e Bardolino, vicino al lago di Garda, di proprietà del parente di un poliziotto (lo ha rivelato al quotidiano L’Arena l’ex ispettore capo della Digos di Verona, Giordano Fainelli e lo ha confermato anche Salvatore Genova, allora commissario Digos). Si torturava anche all’ultimo piano della questura di Verona, requisita dalla struttura speciale coordinata da Umberto Improta, diretta dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci su mandato del capo della Polizia Giovanni Coronas che rispondeva al ministro dell’Interno Virginio Rognoni.
Sulle gesta realizzate da questo apparato parallelo sono emersi negli ultimi tempi fatti nuovi, circostanze, testimonianze, ammissioni. Il prossimo 18 giugno la corte d’appello di Perugia si riunirà per decidere se riaprire uno dei pochi processi in cui l’imputato denunciò di avere subito torture. Il seviziatore di Enrico Triaca, conosciuto con lo pseudonimo di professor De Tormentis, ha ammesso in un libro di avergli praticato il waterboarding nel maggio del 1978, in quello che fu un assaggio di quanto avvenne quattro anni dopo. Il suo nome è Nicola Ciocia, oggi ex questore in pensione, ieri funzionario dell’Ucigos. Cosa farà la magistratura?
Vorrà ribadire ancora una volta che l’Italia ha sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi?

Per saperne di più
Le torture della Repubblica

Se questo è un uomo. Ora provate a dire che il 41 bis non è tortura

Il filmato qui sotto mostra Bernardo Provenzano ripreso dalle telecamere di sorveglianza della sala colloqui 41 bis del carcere di Parma durante l’unica ora mensile di colloquio ammessa con i propri familiari. Le immagini venute in possesso della trasmissione televisiva Servizio Pubblico risalgono al 15 dicembre 2012.
Provenzano è stato arrestato nell’aprile del 2006. Sei anni di 41 bis lo hanno ridotto in questo stato. L’uomo ormai ottantenne appare poco presente a se stesso, incapace di intendere. I suoi movimenti sono rallentati, il suo stato è poco vigile, non riesce ad impugnare correttamente la cornetta del citofono che permette di parlare con i familiari al di là del vetro. Per ogni gesto deve essere sollecitato più volte dal figlio. Ricurvo su se stesso porta un vistoso berretto di lana sul capo perché – dice – «fa freddo». Il figlio si accorge della presenza di un cerotto e gli chiede prima cosa sia successo e poi di togliersi il copricapo. Sulla testa appare il segno evidente di una ferita. Alla richiesta di cosa sia accaduto, Provenzano, articolando le parole con molta difficoltà, risponde di aver preso «Lignate, sì. Dietro i reni». Il figlio gli chiede se sia caduto, Provenzano risponde di sì in modo confuso. Due giorni dopo queste immagini, forse a seguito di una caduta, l’anziano detenuto è rimasto colpito da un’emorragia celebrale. Ricoverato d’urgenza è stato operato. Da allora sembra che abbia molte difficoltà a parlare e sia quasi incapace di intendere e di volere, tanto che per questo è stato escluso da un processo.

Di fronte a queste immagini c’è forse qualcuno che può ancora negare come il 41 bis sia una particolare forma di tortura esercitata attraverso lo strumento della deprivazione sensoriale assoluta?
Attualmente 673 persone (rilevamento del 2011) subiscono questo trattamento di restrizione assoluta, ulteriormente aggravata per quelli tra di loro che si trovano nelle “aree riservate” (circa una ventina).

Nelle scorse settimane il legale della famiglia Provenzano, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, ha chiesto la revoca del 41 bis per il suo assitito e la sospensione dell’esecuzione della pena per motivi di salute, ma l’istanza è stata respinta. Dopo l’apparizione di un articolo su Repubblica del 21 maggio, nel quale si faceva riferimento alle presunte percosse subite da Provenzano, il ministro della Giustizia ha chiesto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di svolgere delle verifiche.

Attorno alle condizioni di salute di Provenzano si è accesa una singolare polemica che, omettendo completamente ogni interrogativo sul senso di un tale regime carcerario praticato su un uomo ridotto ormai ai minimi termini, solleva al contrario il sospetto che dietro le innumerevoli cadute registrate in cella nel corso dell’ultimo anno, in particolare l’ultima che l’ha ridotto in coma, vi sia dell’altro.
Che cosa? L’eventuale tentativo – si lascia intendere – di esercitare pressioni fisiche per impedire ad un Porvenzano ormai allo stremo di collaborare con la giustizia. E’ la tesi in particolare dell’eurodeputata Sonia Alfano, appartenente all’ormai dissolta Italia dei Valori, che nel corso dell’ultimo anno ha realizzato diverse visite al prigioniero. Secondo la parlamentare il peggioramento delle condizioni di salute di Provenzano potrebbe essere collegato al fatto che l’ex boss aveva mostrato interesse per un’eventuale collaborazione con la giustizia che gli avrebbe permesso di ottenere un regime carcerario più morbido del 41bis. Secondo Alfano, Provenzano sarebbe stato “neutralizzato”, ovvero sarebbe stato picchiato fino a rendere impossibile una sua collaborazione. In ragione di ciò, si sostiene in un comunicato diffuso da Servizio Pubblico: «la procura di Palermo ha aperto un’indagine per fare luce sui tanti misteri che ancora una volta avvolgono il super boss dei corleonesi».

Sul corpo di Provenzano si sta giocando uno scontro senza mezzi termini tra chi mostra di utilizzare il 41 bis come una sorta di anticipazione della morte del detenuto, seppellito nei cimiteri per vivi che sono questi particolari reparti carcerari, affinché l’ex capo mafioso porti nella tomba tutti i suoi segreti, e chi utilizza questo regime detentivo come mezzo per estorcere dichiarazioni da utilizzare contro i propri avversari politici. Una bella contesa insomma che mostra come giustizia e legalità non siano altro che arene della contesa politica.

Il 41 bis
imagesQuesto regime detentivo prevede la sospensione di tutte le regole ordinarie previste nell’ordinamento penitenziario. Può essere applicato anche a chi è in attesa di giudizio.
I detenuti in 41 bis possono fare una sola ora di colloquio al mese con parenti strettissimi attraverso un vetro divisorio e con i citofoni. Non potendo cumulare le ore come nelle carceri normali, molti di loro senza mezzi economici finiscono col fare pochissime ore di colloquio nell’arco dell’anno. La telefonata di 10 minuti ai familiari (alternativa al colloquio) è registrata e il familiare deve recarsi, per poterla ricevere, nel carcere più vicino al luogo di residenza. Le ore d’aria sono solo due mentre la socialità è limitata ad un massimo di tre persone individuate dalla Direzione dell’istituto senza possibilità di alcuno scambio tra detenuti (cibo, vestiti, libri…). La corrispondenza è limitata alle persone con cui si fanno i colloqui e sottoposta a censura. Non si possono tenere più di tre libri in cella. Recentemente il ministro della Giustizia Severino con una circolare ha disposto che il numero di tre libri dovesse ritenersi complessivo. In esso andavano inclusi anche quelli lasciati in magazzino, vietando al contempo la possibilità di ricevere giornali, riviste e libri dai familiari e per posta e autorizzandone unicamente l’acquisto tramite la ditta che gestisce il sopravitto e che offre una scelta ridottissima (settimana enigmistica, sorrisi e canzoni ecc. Niente riviste culturali, politiche, di letteratura, scientifiche o specialistiche).
Nelle sezioni con regime 41 bis opera un corpo speciale di polizia penitenziaria – il Gom (Gruppo operativo mobile) – che può stabilire norme particolari per questo tipo di sezioni. Alla sospensione dei diritti voluta dal Ministero si possono perciò aggiungere divieti particolari e specifici come la possibilità di avere con sé solo un numero limitatissimo di indumenti, calzini, fogli di carta, biro, ecc.

Gli imputati rinchiusi in regime di 41 bis sono esclusi dai processi. Non vengono più condotti nelle apposite gabbie predisposte nelle aule bunker dei tribunali ma portati in stanze, ricavate all’interno delle carceri, collegate in videoconferenza con i tribunali dove sono presenti soltanto giudici e avvocati. Viene così azzerato il diritto alla difesa.

Le aree riservate
Nelle carceri di Parma, Ascoli Piceno, Terni, Tolmezzo, Novara, Viterbo, L’Aquila e Spoleto, sono state allestite delle aree riservate, un 41 bis ancora più ristrettivo.

Attualmente tre prigionieri politici sono sottoposti a questo regime detentivo:
Nadia Desdemona Lioce (a L’Aquila)
Marco Mezzasalma (a Parma)
Roberto Morandi (a Terni)

Domani a Parma si terra una corteo nazionale contro il carcere e il 41 bis

25mag13carcereSul resoconto del corteo di Parma potete leggere qui

Approfondimenti
Cronache carcerarie

41 bis
Dopo la legge Gozzini tocca al 41 bis, giro di vite sui detenuti

Carcere, gli spettri del 41 bis

 

Per l’amnistia e contro la tortura!

In occasione della riapertura delle udienze, domani 31 gennaio 2013, per i processi che si stanno tenendo contro alcuni manifestanti arrestati a ridosso degli scontri di piazza del 14 dicembre 2010, con una spettacolare iniziativa sui ponti della Capitale diverse strutture politiche e centri sociali romani provano a riaprire la battaglia contro la tortura di ieri e di oggi e contro le estradizioni politiche, per una amnistia generale che includa anche i reati politici, come devastazione saccheggio. I ponti sul Tevere sono stati colorati da striscioni contro la tortura e il carcere, i reati di piazza, l’arsenale giuridico impiegato contro le manifestazioni antigovernative, in solidarietà con Lander Fernadez, militante basco sottoposto a procedura di estradizione su richiesta della Spagna, ed in favore dell’amnistia. Qui sotto il comunicato diffuso sull’iniziativa

Tutte liberi! Vento in poppa ai fuggiaschi

ba412bb8-2d40-43dd-a738-eaa7ccfc5286Domani si celebra il processo per i fatti del 14 dicembre del 2010, una giornata bella ed intensa, un corteo enorme che reagì determinato e rabbioso alla compravendita dei voti in aula per garantire la fiducia al governo Berlusconi, una risposta larga e condivisa che fu capace di rompere il silenzio accumulato in quella stagione. Quel giorno sembra lontano, la dittatura della finanza ha stravolto ancora una volta il quadro politico internazionale, eppure ci sono ancora compagn* che rischiano la propria libertà per quella giornata.
A partire dalla solidarietà nei confronti degli imputati, questa iniziativa vuole alimentare una discussione urgente sul tema giustizia (e non sulla legalità, quello ha già troppi relatori) che sembra sia iniziato nel nostro paese.
Che la repressione sia un strumento del potere per negare il dissenso si sa. Che i diktat finanziari, impongono strette sul controllo è noto, ed è evidente ancor di più nei paesi in cui la condizione sociale è maggiormente aggravata dalla crisi. Ma se la Corte Europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo condanna l’Italia per “violazione dei diritti umani, tortura e trattamento inumano e degradante”, e se Amnesty International dichiara che in italia “essere donne, partecipare a una manifestazione, essere migranti, rom, gay, detenuti, significa correre un serio rischio per i propri diritti umani”, il tema trasborda evidentemente la sensibilità del movimento solamente.
Le gravissime condanne per Genova e per il 15 ottobre, l’utilizzo continuo del reato di devastazione e saccheggio (reato introdotto dal Codice Rocco), la leggerezza con cui si richiedono dure e assurde misure cautelari, le condizioni nelle carceri e l’impunibilità delle forze dell’ordine, la volontà ultima di celebrare il processo contro i notav nell’aula bunker del carcere delle vallette, fanno riferimento tutte ad una sospensione “tecnica” della democrazia in corso, che pone al centro del suo mandato il Codice Rocco, già fondamento teorico del fascismo.

TUTTE LIBERI
VENTO IN POPPA AI\ALLE FUGGIASCHI

c.s.o.a. Corto Circuito, csoa Astra 19, c.s.o.a. Spartaco, Esc Atelier, c.s.o.a. La Strada, c.s.o.a. Sans Papiers, Esc – AtelierAutogestito, Lab! Puzzle, Militant, Strike Spa


Approfondimenti utili

Dopo le pesanti condanne per devastazione e saccheggio confermate dalla cassazione torniamo a parlare di amnistia (un libro per riflettere: politici e amnistia, tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità d’Italia ad oggi)
Stéphan Gacon, L’Amnistie, Seuil, Paris 2002, pp. 424
L’Amnistia Togliatti, Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2006, pp. 392
Une histoire politique de l’amnistie, a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, pp. 263

Altri link
Agamben, Europe des libertés ou europe des polices
Agamben, Lo stato d’eccezione
Il caso italiano, lo stato di eccezione giudiziario
La fine dell’asilo politico
La giudiziarizzazione dell’eccezione/2
La giudiziarizzazione dell’eccezione/1
Garapon, l’utopia moralizzatrice della giustizia internazionale
Arriva il partito della legalità
La logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale
Giustizia o giustizialismo? Dilemma nella sinistra
Processo breve, amnistia per soli ricchi
Recidiva: l’indulto da sicurezza, il carcere solo insicurezza
Niente amnistia perché ci vogliono i 2/3 del parlamento? Allora abolite le ostative del 4-bis e allungate la liberazione anticipata: basta la maggioranza semplice

Il filo che lega le torture contro le Brigate rosse alle violenze poliziesche di Genova 2001

Dalla brigatista torturata nel 1982 alla guida della questura di Genova subito dopo il G8 da dove denunciò i giornalisti per gli articoli sul massacro alla Diaz, fino agli affari con i dittatori africani: tutte le ombre nascoste nel passato di Fioriolli

Carlo Bonini
La Repubblica 9 Gennaio 2013 (Vai alla fonte)

fioriolli_oscarROMA — Al centro della vicenda napoletana balla un prefetto in pensione la cui storia, da sola, racconta la linea d’ombra di un pezzo della storia recente della polizia Italiana. E che ha il suo incipit nel gennaio 1982. Oscar Fioriolli, classe 1947, trentino di Riva del Garda, poliziotto formato nei reparti Celere, è nelle squadre speciali dell’Antiterrorismo. Le Br-Pcc hanno sequestrato il generale americano James Lee Dozier, vicecomandante delle Forze terrestri alleate per il sud Europa. E il Viminale ha deciso che nella caccia all’ostaggio sia arrivato il momento di mettere in un canto la Costituzione. Salvatore Genova, in quei giorni funzionario della Digos di Verona, è testimone dell’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, arrestata come sospetta fiancheggiatrice delle Br e ritenuta possibile chiave per arrivare al covo in cui è prigioniero l’alto ufficiale. Racconta Salvatore Genova nell’aprile dello scorso anno all’Espresso: «Separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia (il compagno della Arcangeli ndr.) e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna (…) Carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».

Di quel peccato originale, Fioriolli non vorrà mai parlare. Ma su quel peccato originale costruisce una carriera. Non ha modi né bruschi, né grevi da sbirro. Piuttosto le stimmate, la forma mentis, di quella polizia politica. Ama le belle cose e mischiarsi tra la gente che conta. Tra l’87 e il ’97, dirige la Digos di Genova, e il suo primo incarico da questore (1997) è ad Agrigento. Dove resta due anni prima della rotazione a Modena (1999-2001) e Palermo, dove resta però solo pochi mesi. Il G8 di Genova lo riporta nell’agosto 2001 nella sua città, dove è rotolata la sola testa del questore Francesco Colucci. Fioriolli è nella massima considerazione di Gianni De Gennaro, allora capo della polizia, e la sua biografia combacia come un calco con l’urgenza che, in quel momento, ha il Viminale. A Fioriolli non va spiegato quello che deve fare. E la sua prima mossa è una denuncia in Procura contro la stampa genovese accusata di “calunniare” la polizia nelle sue ricostruzioni sui fatti della Diaz. La seconda, la melina che impedisce la compiuta identificazione della “macedonia” di polizia che ha fatto irruzione nella scuola. La questura di Genova, del resto, è roba sua. A cominciare dalla Digos e dal suo dirigente Spartaco Mortola. Che come lui è nella cerchia di amici di un faccendiere siriano, tale Fouzi Hadj. Un tipo ricercato per bancarotta, da cui Fioriolli riceve un prestito di 50 mila euro e che fa balenare opachi affari in materia di sicurezza con la dittatura della Guinea Conakry.

Nel gennaio 2005, Fioriolli è a Napoli, nella questura che è stata fino a poco tempo prima di Izzo e terremotata dall’inchiesta della Procura sui fatti della caserma Raniero (prova generale del G8 genovese). Sappiamo oggi come è andata. Gli ultimi anni sono a Roma, a capo della scuola di formazione per l’ordine pubblico e alle specialità. In tempo per la pensione. E per togliere il disturbo prima che cominci a grandinare.

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Il verbale. L’ex commissario e il caso Dozier: «Così torturammo i brigatisti»

Il Corriere della sera pubblica alcuni passaggi della deposizione rilasciata dall’ex commissario della Digos, Salvatore Genova, che confermano le torture praticate durante le indagini contro le Brigate rosse. Il verbale è stato raccolto nell’ambito dell’inchiesta difensiva condotta dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo per ottenere la revisione del processo che ha portato alla condanna di Enrico Triaca per calunnia, dopo che questi aveva denunciato le sevizie subite. L’ex commissario, ormai in pensione col grado di questore, ribadisce, questa volta nel corso di un atto giudiziario che Triaca diceva la verità: «Nicola Ciocia dell’Ucigos mi raccontò di avergli praticato il wateboarding. Tortura che impiegò anche nel 1982, durante le indagini sul rapimento Dozier, sempre su ordine dei vertici della polizia e del governo»

Giovanni Bianconi
Corriere della Sera, 6 gennaio 2013
showimg2-1-cgiROMA — Finora si trattava di ricostruzioni giornalistiche, interviste più o meno esplicite, mezze ammissioni anonime. Adesso invece è tutto scritto in un atto giudiziario, un interrogatorio di cui il testimone si assume la piena responsabilità. Sapendo di poter incorrere, qualora affermasse il falso, in una condanna fino a quattro anni di galera. È il rischio accettato dall’ex commissario di polizia, nonché ex deputato socialdemocratico, Salvatore Genova, uno degli investigatori che trentuno anni fa partecipò alla liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse.
Il 30 luglio scorso Genova ha deposto davanti a un avvocato che lo ascoltava nell’ambito di proprie indagini difensive, svelando le torture inflitte ad alcuni sospetti fiancheggiatori delle Br per arrivare alla prigione di Dozier; metodi «duri» avallati dal governo di allora, aggiunge l’ex poliziotto, con una dichiarazione tanto clamorosa quanto foriera di reazioni e (forse) ulteriori accertamenti giudiziari. «È stato tutto disposto dall’alto — ha detto Genova all’avvocato Francesco Romeo, difensore dell’ex brigatista Enrico Triaca, uno dei presunti torturati —.  C’è stata la volontà politica, che poi scompare sempre in Italia, che è stata quella del capo della polizia, d’accordo con l’allora ministro Rognoni… E infatti noi facemmo». L’avvocato lo interrompe: «Mi sta dicendo che l’autorizzazione a fare quel tipo di tortura…». E Genova: «Non poteva non essere, non era cosa personale di Ciocia (il poliziotto chiamato “De Tormentis” che secondo il suo ex collega dirigeva i “trattamenti”, ndr)… Fu De Francisci che fece una riunione con noi. Lui era il capo dell’Ucigos e ci disse “facciamo tutto ciò che è possibile”».
L’Ucigos era l’organismo responsabile delle indagini antiterrorismo sull’intero territorio nazionale, e nel ricordo di Genova il prefetto De Francisci che la guidava dette il «via libera» a sistemi d’interrogatorio poco ortodossi: «Anche usando dei metodi duri, disse così, perché ovviamente eravamo veramente allo stremo come Stato…». L’alleato americano premeva per ottenere risultati, «tant’è che durante tutte’queste indagini noi fummo sempre seguiti, non ovviamente con interferenza ma con la loro presenza, da agenti della Cia».
Il sistema d’interrogatorio attraverso tortura, al quale il testimone sostiene di aver assistito personalmente, è chiamato waterboarding: il prigioniero viene legato mani e piedi a un tavolo, un imbuto infilato in bocca e giù litri di acqua e sale per dare la sensazione dell’annegamento. «Era una tecnica molto usata dalle squadre mobili», denuncia Genova; ecco perché fu chiamato il «professor De Tormentis», al secolo Nicola Ciocia, poliziotto di dichiarate simpatie mussoliniane che a Napoli e in altre regioni del Sud aveva combattuto la criminalità comune e organizzata.
«Di quella tecnica io a quel momento non ne conoscevo l’esistenza», precisa Genova. Davanti ai suoi occhi, al waterboarding fu prima sottosposto un presunto fiancheggiatore delle Br, poi il futuro «pentito» Ruggero Volinia. Lo arrestarono insieme alla fidanzata, «semidenudata e tenuta in piedi con degli oggetti, mi sembra un manganello che le veniva passato, introdotto all’interno delle cosce, delle gambe». «Dopo aver ingurgitato acqua e sale», racconta Genova, Volinia «alzò leggermente la testa e la mano, chiese un attimo per poter parlare: “E se vi dicessi dov’è Dozier?”».
Così, nel gennaio 1982, si arrivò alla liberazione del generale. Alla quale seguirono i maltrattamenti sui suoi carcerieri, che vennero alla luce grazie a indagini giudiziarie e disciplinari su alcuni poliziotti. Genova, che poté usufruire dell’immunità parlamentare garantitagli dal seggio socialdemocratico, oggi ha deciso di riparlarne. Prima al quotidiano ligure II Secolo XIX e ora col difensore di Triaca, l’ex br arrestato nel ’78, all’indomani dell’omicidio Moro, che denunciò di essere stato torturato e per questo fu condannato per calunnia. Oggi l’avvocato Romeo ha presentato un’istanza di revisione di quel processo, basata anche sulle rivelazione di Genova. Il quale racconta di aver saputo che ad occuparsi di Triaca fu proprio De Tormentis-Ciocia, l’esperto di waterboarding che si muoveva –  a suo dire – con tanto di garanzie ministeriali.
«Non ci fu alcuna copertura — ribatte l’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni -. Anzi, i comportamenti “duri” accertati furono prontamente perseguiti. C’era una certa esasperazione degli investigatori, questo sì; gli Stati Uniti volevano mandare le loro “teste di cuoio” per liberare Dozier, e io mi impuntai per difendere le nostre competenze. Ma non ho mai avallato alcun genere di tortura». E il prefetto in pensione De Francisci replica alla testimonianza di Genova: «Sono tutte bugie. Io non ho torturato nessuno né tollerato niente di ciò che luì dice. È un bugiardo, lo citerò in giudizio». Dopo trent’anni e più, un capitolo rimasto oscuro e ora riaperto della storia dell’antiterrorismo italiano promette nuovi sviluppi.

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Le parole di un torturato bussano alle porte del Quirinale, Enrico Triaca scrive a Giorgio Napolitano

«In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi», disse una volta Sandro Pertini, Presidente della Repubblica. Il vecchio Pertini, ormai un po’ troppo in avanti con gli anni (in un discorso di fine anno confuse la dittatura militare guatemalteca con il Nicaragua insorto; il giorno dopo la retata del 7 aprile 1979 inviò un telegramma al pm Calogero – alla faccia della separazione dei poteri – per complimentarsi della sua inchiesta-teorema su una fantomatica cupola insurrezionale e degli arresti del giorno prima, più o meno lo stesso stile del suo acerrimo nemico di un tempo, il Duce Benito Mussolini), era in buona fede quando pronunciò queste incaute parole. Non mentiva con se stesso, semplicemente non vedeva, non voleva vedere, non poteva più vedere, troppo lontana nel tempo era la sua cella sull’isola-carcere di santo Stefano e la condanna inferta dal Tribunale speciale.
La lotta armata e la sovversione sociale in Italia vennero sconfitti dai mutamenti produttivi, dalla rivoluzione neoconservatrice che lentamente prosciugarono le basi sociali della rivolta, ma è vero che nel corso di quella guerra civile vennero inferti duri colpi non «negli spogliatoi degli stadi», aveva ragione Pertini, ma in un villino, un residence tra Cisano e Bardolino, vicino al lago di Garda di proprietà di un parente di un poliziotto (lo racconta l’ex ispettore capo della Digos di Verona, Giordano Fainelli e lo conferma anche Salvatore Genova, commissario Digos), oppure all’ultimo piano della questura di Verona, requisita dalla struttura speciale coordinata da Umberto Improta, diretta da Gaspare De Francisci, a cui partecipavano Salvatore Genova, Oscar Fioriolli, De Gregorio e Nicola Ciocia, o ancora in altre caserme d’Italia, quella della Celere di Padova (Cesare Di Lenardo parla di un locale dove c’erano delle docce). Anche Enrico Triaca, prelevato dalla caserma di Castro pretorio, accanto alla stazione Termini di Roma, arriva bendato in un posto dove c’era sicuramente un cancello metallico con apertura automatica. Probabilmente anche questa una caserma, situata forse in cima ad una salita, ancora in città o nelle immediate vicinanze.
Non erano stadi ma erano caserme, come la famigerata Esma argentina, la scuola meccanica della marina dove vennero torturati ed uccisi centinania di militanti di sinistra e oppositori della giunta militare.

Enrico Triaca ha deciso di bussare alle porte del Quirinale, inviando una lettera aperta al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «perché convinto che questa storia non è, e non può essere, solo, storia giudiziaria, se è vero, quel che ci dicono gli ex funzionari, questa volta non si può licenziare la cosa con frasi tipo: parti deviate dello Stato, mele marce o schegge impazzite. Questa volta è lo Stato tutto ad essere coinvolto, la Politica che ordinò le torture, i “bravi” tutori dell’ordine che le eseguirono, la magistratura che li assolse, i media che li coprirono».
Da oltre un anno sono emersi sui media e in un libro fatti nuovi, circostanze, testimonianze, amissioni, rivelazioni. Che farà Napolitano? Vorrà ribadire ancora una volta che «In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi»?


Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
di Enrico Triaca

jpg_2178052Esimio Presidente, scrivo a Lei in quanto Presidente della Repubblica, Capo della Magistratura e uomo politico che ha attraversato l’intera Storia, fino ad oggi, della Repubblica italiana.
E’ certamente per Lei una degna chiusura di carriera la presidenza quirinalizia, come immagino qualsiasi politico agogni per se stesso, anche se, lavoro faticoso, specie in questo inizio di Secolo, in cui decisioni forti sono state prese, come il dover imporre un Professore alla guida del Paese per risolvere i problemi che ci angustiano.
E a ben vedere non è la prima volta che l’Italia si affida a “Professori” per risolvere i propri problemi, già negli anni 70/80 lo Stato fece ricorso ad un “Professore”, in questo caso, al famigerato “Professor de Tormentis” ovvero un ex funzionario di Stato, dell’UCIGOS, così soprannominato dai suoi colleghi e amici. Tale “Professore” ha di recente dichiarato, ma in realtà ci sono anche le testimonianze dell’ex commissario Salvatore Genova, di aver praticato la tortura contro prigionieri politici di quegli anni. Si è vantato (dietro anonimato) di essere lui il torturatore di Stato, il professionista della Tortura, che veniva inviato nelle varie questure italiane quando si ritenevano necessari  i “servigi” suoi, e dei suoi collaboratori.
Da tali confessioni e testimonianze si evince che questo personaggio ha goduto della protezione e copertura della Politica, e non solo.
Tale personaggio, che oggi sappiamo chiamarsi Nicola Ciocia, ha confessato di avermi torturato;  torture che io denunciai di aver subito nel 1978 e per la cui denuncia fui, oltretutto, condannato per calunnia.
Oggi chiedo la revisione di quella condanna, perché la verità venga ristabilita, ma visto il silenzio, POLITICO, che sta accompagnato questa vicenda dopo che stampa e televisione ne hanno denunciato l’avvenimento, non nutro molta speranza nell’esito positivo di questa storia. Pur tuttavia, è una strada che sento di dover percorrere, anche perché ci sono personaggi, coinvolti, o che quanto meno sanno, che ancora oggi ricoprono ruoli Istituzionali, e per contro ci sono ancora prigionieri che sono in carcere dopo 30 anni, dopo aver subito torture dallo Stato che Lei, magnificamente, oggi  rappresenta.
Scrivo a Lei, Presidente, perché convinto che questa storia non è, e non può essere, solo, storia giudiziaria, se è vero, quel che ci dicono gli ex funzionari, questa volta non si può licenziare la cosa con frasi tipo: parti deviate dello Stato, mele marce o schegge impazzite. Questa volta è lo Stato tutto ad essere coinvolto, la politica che ordinò le torture, i “bravi” tutori dell’ordine che le eseguirono, la magistratura che li assolse, i media che li coprirono. E capisco anche le difficoltà alle quali dovete far fronte, per 30 anni avete raccontato al popolo di aver vinto usando, solo, i mezzi e gli strumenti che la legge e la Costituzione vi consentivano, ma è proprio in questi frangenti che si misura la DIGNITA’ e AUTOREVOLEZZA di una persona, di uno STATO.
Lei oltre ad essere l’attuale Presidente della Repubblica è stato, anche, un membro autorevole del Pci, Ministro dell’ Interno e Presidente della Camera, sarebbe quindi logico e coerente un suo intervento; trovo paradossale che in una Società civile, uno Stato di diritto, come si pretende l’Italia, la società civile si interroghi su questi fatti, di cui non serve sottolineare la gravità, mentre la politica e quindi Lei, che ne rappresenta la massima espressione, taccia; la gravità Presidente non risiede solo nel fatto che dei prigionieri 30 anni fa venivano torturati in questo paese, ma nel fatto che tali pratiche si sono succedute nel tempo; ancora oggi  ragazzi vengono massacrati e uccisi nelle caserme, questure, carceri e sui marciapiedi.
Lei poco tempo fa ebbe a dire che “i processi celebrati in quegli anni sono stati processi svolti in uno Stato di Diritto” sottintendendo, così almeno io l’ho letto, processi giusti, equi, ebbene io un dubbio ce lo avrei e credo che anche a Lei dovrebbe venirle leggendo queste righe, ed a maggior ragione, leggendo le confessioni di Nicola Ciocia e Salvatore Genova, ex funzionari di Stato e non “terroristi”.
Signor Presidente, le trascrivo un articolo, sul processo per calunnia ai miei danni, di quello che fu l’organo di informazione del suo partito, il Pci, L’Unità dell’8 novembre 1978: «L’avvocato Alfonso Cascone ha invece avanzato apertamente il sospetto che le accuse di Triaca alla polizia fossero false e che il suo assistito avesse mentito poiché – pensando di essere considerato dalle BR un delatore – temeva rappresaglie. Il reato di calunnia, ha detto quindi il legale, sarebbe stato compiuto in “stato di necessità”. Nonostante i dubbi suscitati dal comportamento della polizia durante il processo, dunque, uno scorcio di verità è arrivata inaspettatamente proprio da uno dei difensori del tipografo delle BR».
L’avvocato Alfonso Cascone presentò una denuncia contro il giornale che venne, immediatamente, archiviata.
Anche l’attuale Esecutivo è stato investito della questione con una interpellanza parlamentare, ma la risposta è stata elusiva e fuorviante, oltretutto affidata ad un personaggio, ironia della sorte,  il cui nome era già, comunque, apparso nella vicenda che mi riguarda.
Ogni volta che una vetrina viene danneggiata in un corteo, politici, magistrati, sindacalisti, opinionisti, intellettuali, si lanciano nella ricerca della frase più di condanna più brillante: fiumi di inchiostro invadono le colonne dei giornali per giorni, per contro solo trafiletti quando ad usare la violenza è un corpo o lo Stato tutto; e la differenza si nota Signor Presidente e rende risibile qualsiasi frase ad effetto pronunciata contro la violenza.
E di frasi “IMPEGNATIVE” ne sono state pronunciate tante, ne riporto solo due:

“Alcuna ragione di Stato può giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità, l’unica ragione di Stato è la verità” Mario Monti, Presidente del Consiglio (23 maggio 2012) Parole riprese e confermate da Anna Maria Cancellieri, Ministro degli Interni. Con riferimento all’attentato alla scuola di Brindisi.

“Non ci sono ragioni di dissenso politico e tensione sociale che possano giustificare ribellismi, illegalismi, forme di ricorso alla forza destinate a sfociare in atti di terrorismo”.
Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica (09 maggio 2012). In occasione della giornata della memoria delle vittime del terrorismo.
Restando a sua disposizione per ogni eventuale altro chiarimento le invio i miei più Cordiali Saluti.
Enrico Triaca

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