“Ferragosto in carcere”, è tempo di fatti. Cosa faranno le istituzioni dopo le 240 visite di parlamentari nei penitenziari?

Provate a immaginare una turca e un piccolo lavandino da condividere per due squadre di calcio, dove fare toilette, lavare le stoviglie, fare il bucato

Paolo Persichetti
Liberazione 17 agosto 2010


Il giorno di Ferragosto, mentre proseguiva l’iniziativa promossa dal Partito radicale che ha portato oltre 240 tra parlamentari (un numero mai visto prima d’ora), consiglieri regionali, operatori del settore, Garanti dei detenuti e magistrati, a visitare gli Istituti di pena, il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha dato i numeri. In una conferenza stampa tenutasi a Palermo, dopo una riunione del Comitato nazionale per la sicurezza, il Guardasigilli ha snocciolato le ultime cifre sulla situazione in cui versano le carceri. 68.121 è il numero record delle presenze raggiunte (e destinate a salire ancora) per una capacità di accoglienza che è solo di 44.576 posti (già gonfiata a dismisura). Di questi, solo 37.219 scontano una condanna definitiva, mentre 24.941 sono in custodia cautelare. Il ministro non lo ha detto, ma ben 14 mila sono i custoditi che non hanno subito ancora la benché minima condanna. 24.675 sono invece i detenuti di nazionalità straniera. Mentre in regime di 41 bis, il carcere duro, si trovano 681 persone, tra cui 3 donne. Alfano non ha mancato di evocare il fantomatico “Piano straordinario per le carceri” che – a suo dire – procederebbe bene. Al Dap sarebbero «pronti a partire con l’edificazione di nuovi padiglioni e di nuovi istituti di pena». Il ministro è uomo che ama ripetersi all’infinito.
Tra le cifre dimenticate c’è anche il numero dei suicidi: 40 quelli riusciti e 73 i tentati. Dalle testimonianze raccolte tra i visitatori fuoriesce una quadro generale uniforme e drammatico dovuto al sovraffollamento bestiale che aggrava ogni precedente carenza e situazione di crisi: dall’igiene, alla sanità, al vitto e sopravvitto, ai colloqui, alle ore d’aria, all’accesso alle misure alternative, al cosiddetto “trattamento” interno, cioè le ipotetiche offerte di studio, lavoro, corsi di formazione, attività di rieducazione e sportive. Non ce n’è più per nessuno in spazi che possono raggiungere le 8-10 persone per cella, addirittura più di 20 nei cameroni una volta destinati alle ore di socialità. Provate a immaginare una turca e un piccolo lavandino da condividere per due squadre di calcio, dove fare toilette, lavare le stoviglie, fare il bucato. Un piccolo televisore per tutti in luoghi dove si può sostare solo in branda. Non serve nemmeno vedere per capire il livello di degrado raggiunto.
L’enorme numero di parlamentari entrato in visita contrasta con il disinteresse mostrato fino ad oggi in Parlamento sulla questione carceraria. Il Senato non è riuscito a votare nemmeno l’inutile legge sulla detenzione domiciliare. Un provvedimento che secondo i calcoli degli uffici dovrebbe favorire l’uscita dalle celle di meno di 2 mila persone. Un goccia d’acqua. Una presa in giro di fronte all’emergenza. Circostanza che ha suscitato alcune critiche nei confronti delle visite di Ferragosto, definite una «passerella mediatica». L’accusa non era rivolta ai Radicali, che raccoglieranno comunque da queste ispezioni un dossier che fornirà materia per portare lo Stato italiano davanti alle giurisdizioni internazionali, ma contro quella che possiamo definire una certa “ipocrisia consociativa”. Il rischio esiste, inutile negarlo. Delle visite largamente preannunciate perdono quasi tutto il loro valore ispettivo poiché permettono di camuffare e arrangiare molte cose nei luoghi meno visibili del carcere. Anni fa, in vista di una cerimonia del presidente della Repubblica Napolitano a Rebibbia, la Direzione fece riverniciare in fretta e furia i corridoi e le sale che il capo dello Stato doveva attraversare. Ma una verifica arriverà presto. Il ministro della Difesa La Russa ha preannunciato per settembre un inasprimento delle norme sull’immigrazione. Sarà il primo banco di prova per capire se l’indignazionemostrata dai parlamentari sia durata il tempo di un’abbronzatura di Ferragosto.

Per saperne di più
Cronache carcerarie
Mario Staderini, segretario dei radicali italiani: “Le carceri sono la prova che viviamo in uno stato d’illegalità”

Quando il privilegio indossa la toga: la casta dei giudici in rivolta

L’Associazione nazionale magistrati in agitazione: «non toccate i nostri stipendi», ma tra i togati emergono dissensi: «scorretto verso chi guadagna poco»

Paolo Persichetti
Liberazione 5 giugno 2010

Crea sconcerto l’intenzione di scioperare annunciata dall’associazione nazionale magistrati (la data verrà decisa oggi durante la riunione dell’esecutivo), non già contro l’insieme dei tagli draconiani messi in campo dal ministro Tremonti, che ha chiamato soprattutto le fasce più deboli del Paese a pagare il prezzo della speculazione finanziaria, ma contro la sola riduzione degli stipendi ai giudici. Per Angelino Alfano si tratta di «uno sciopero politico». Il governo, ha affermato il Guardasigilli, «chiede ai magistrati un sacrificio così come lo chiede alle altre componenti del Paese, però mi batterò e mi impegnerò a fianco dei giovani magistrati perchè su questo aspetto si chiede un costo individuale troppo alto». Luca Palamara, attuale reggente dell’Anm, replica insoddisfatto che i magistrati «non vogliono essere considerati un costo per lo Stato». Posizione che ha trovato immediato sostegno nei versanti della politica che da decenni si mostrano i più proni di fronte a qualunque desiderata della magistratura. Il Pd, per voce del suo responsabile Giustizia, Orlando, si è subito schierato con le toghe. Di Pietro ha parlato di «vendetta del governo». Lisciando il pelo dei suoi ex colleghi, il leader dell’Idv spera di riuscire a cavarsi fuori dalle ultime inchieste che lo vedono coinvolto nella vicenda degli appartamenti messi a disposizione dalla “Cricca”  Anemone-Balducci. Tuttavia la posizione dell’Anm non ha creato l’unanimità all’interno della categoria. In una intervista, la pm Maria Cordova, si è detta contraria, «lo sciopero – ha spiegato al Corriere della sera – non è corretto nei confronti di chi guadagna una miseria. Ci sono cittadini colpiti che percepiscono stipendi molto più bassi dei nostri. C’è chi vive con 600-700 euro, chi ha perso il lavoro. Di fronte a un operaio mi sento di dire: “questo sciopero non lo farò”». Una secca risposta gli è venuta dal procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli: «Mi riconosco completamente nelle posizioni espresse dai rappresentanti dell’Anm». Atteggiamento senza dubbio coerente, fu lui infatti a condurre una spietata caccia contro gli operai, accusati di simpatie brigatiste, che lavoravano in Fiat. Questa chiusura ultracorporativa delle toghe appare alquanto indecente. I magistrati vivono un’agiata condizione di casta, rappresentano una categoria privilegiata e super remunerata da cui è molto difficile essere licenziati. Esaminati da una commissione disciplinare costituita da colleghi, nella stragrande maggioranza dei casi le sanzioni finiscono con un trasferimento in altra sede. Quando va male in un’amputazione dello stipendio. I vantaggi sono enormi: oltre 50 giorni di ferie l’anno, cioè più di 10 settimane. Per non contare congedi, festività soppresse, malattia, sabbatici, permessi per convegni, formazione e studi. Una vera pacchia. Come cantava De André, «dopo aver vegliato al lume del rancore per preparare gli esami da procuratore, una volta imboccata la strada che dalle panche d’una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d’un tribunale, giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male», un semplice uditore giudiziario intasca 1700 euro, che sei mesi dopo con le indennità oltrepassano i 2100 euro. Siamo ancora alle briciole: un magistrato di tribunale con 5 anni di anzianità arriva a 8600 euro lordi mensili, in corte d’appello il malloppo sale a 11350 lordi, in corte di Cassazione arriva a 15760, sempre lordi. Ma il super bottino viene intascato dai procuratori generali, 26820 euro lordi al mese, e dal primo presidente di corte di Cassazione con 29570 euro lordi, ogni 30 giorni. Attenti al goriiilla!!!!

Articoli correlati
Lo scudo di classe di Berlusconi
La farsa della giustizia di classe
Processo breve: amnistia per soli ricchi

Cronache carcerarie
Populismo penale

Caso Cucchi, anche la polizia penitenziaria si autoassolve

Chiusa l’indagine interna
Per il Dap non sono emerse responsabilità
da parte della polizia penitenziaria

Paolo Persichetti
Liberazione 3 dicembre 2009

Per il ministro della Giustizia Angelino Alfano, Stefano Cucchi è caduto dalle scale. Per Carlo Giovanardi è morto di droga. Siccome era un tossicodipendente e spacciava, la sua vita non doveva valere nulla. Se l’era cercata. Per questi signori, Stefano Cucchi sarebbe morto di freddo. Anzi, come ha scritto su queste pagine Erri De Luca, «perché ostinatamente aveva smesso di respirare». Da allora la lista delle facce di bronzo non ha terminato di crescere. L’inchiesta interna condotta dall’amministrazione penitenziaria ha escluso l’esistenza di qualsiasi responsabilità della polizia penitenziaria nelle brutali percosse subite da Stefano Cucchi. E’ quanto sottoscritto ieri, ultimo in ordine di tempo, dal capo del Dap, il magistrato Franco Ionta, la cui funzione è nobilitata dall’appellativo di Presidente. Su questo terribile episodio di violenza istituzionale, la macchina della controverità marcia a velocità folle. Appena pochi giorni prima un’altra commissione interna aveva assolto i medici del reparto penitenziario dell’ospedale dove, invece delle cure, al giovane era stata somministrata cinica indifferenza e sprezzante incuria. In compagnia solo del suo dolore e dell’umiliazione di un corpo bastonato, di membra lacerate, Stefano Cucchi è morto. Delle uniformi di Stato lo avevano arrestato quando era in perfette condizioni fisiche, delle uniformi di Stato lo hanno interrogato, delle uniformi di Stato lo hanno incarcerato, in tribunale un magistrato ha finto di non vedere, l’avvocato d’ufficio ha girato la testa, poi dei camici pubblici lo hanno abbandonato. Da settimane, le varie componenti istituzionali coinvolte in questa vicenda rispondono opponendo omertà d’apparato in difesa di una impunità di principio, di una visione completamente autoreferenziale della legalità e della morale. Ma come cantava De André: «anche se vi credete assolti, siete per sempre coinvolti».

Link
Cronache carcerarie
Caso cucchi, avanza l’offensiva di chi vuole allontanare la verità
Cucchi, anche la polizia penitenziaria si autoassolve
http://perstefanocucchi.blogspot.com/
Stefano Cucchi: le foto delle torture inferte
Caso Cucchi, scontro sulle parole del teste che avrebbe assistito al pestaggio. E’ guerra tra apparati dello Stato sulla dinamica dei fatti
Morte di Cucchi, c’e chi ha visto una parte del pestaggio nelle camere di sicurezza del tribunale
Erri De Luca risponde alle infami dichiarazioni di  Carlo Giovanardi sulla morte di Stefano Cucchi
Stefano Cucchi, le ultime foto da vivo mostrano i segni del pestaggio. Le immaigini prese dalla matricola del carcere di Regina Coeli
Manconi: “sulla morte di Stefano Cucchi due zone d’ombra”

Stefano Cucchi, quella morte misteriosa di un detenuto in ospedale
Stefano Cucchi morto nel Padiglione penitenziario del Pertini, due vertebre rotte e il viso sfigurato
Caso Stefano Cucch, “il potere sui corpi è qualcosa di osceno”
Violenza di Stato non suona nuova

Ignorata la disponibilita offerta da un gruppo di detenute che si offrì di assistere la Blefari. I magistrati puntavano al pentimento
Induzione al pentimento
Suicidio Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine

Lodo Alfano e processo breve: la farsa della giustizia di classe

Il risvolto di una giustizia di classe che protegge i più forti è la persecuzione di classe verso i più deboli. Quella che fomenta i giustizialisti di destra, come la Lega, gli ex di An, Di Pietro, Travaglio e che lascia indifferenti i giustizialisti idealisti di sinistra, poi ci sono le amebe intellettuali come Saviano

Paolo Persichetti
Liberazione 26 novembre 2009

Nessuna revisione per il concorso esterno in associazione mafiosa sarebbe in vista. E’ quanto ha fatto sapere il governo per bocca del guardasigilli Angelino Alfano, interpellato da alcuni giornalisti al termine di un’audizione presso la commissione parlamentare d’inchiesta sugli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti. Dunque, non sarebbero vere le voci, riprese ieri da alcuni quotidiani, che riferivano di uno studio in corso, da parte del governo, sulla «tipizzazione» del “concorso esterno”. Un reato giurisprudenziale. Vera e propria bestemmia, secondo la tradizione del diritto romano che sancisce l’impossibilità di crimini e pene senza legge certa e scritta. I decenni di eccezione giudiziaria hanno però introdotto la consuetudine anglosassone, facendo del giudice non più la «voce della legge» ma un legislatore. Diverse commissioni, presiedute da Grosso, Nordio e poi Pisapia, avevano proposto di sanare il vuoto legislativo tipicizzando in modo certo i comportamenti da sanzionare. Paradossalmente la destra, forcaiola per natura, non volle approvare una riforma che moderava in parte le pene. La sinistra, giustizialista per vocazione, non fu da meno. E così, davanti alla sacrosanta bocciatura del “lodo Alfano” da parte della Consulta, lo scettro della politica, in particolare della politica d’opposizione, è tornato nelle mani della magistratura. Un fatto quasi inevitabile in una situazione che vede il sistema politico ridotto ad una condizione sempre più evanescente di fronte ad un ipertrofico esecutivo e un peso esterno, che non è più del sociale ma delle lobbies. Di fronte al proliferare della decretazione d’urgenza, addirittura di decreti correttivi d’altri decreti, strumenti privi di qualsiasi fondamento costituzionale, di una produzione legislativa ispirata nella quasi totalità dagli uffici della presidenza del consiglio, con un’aula parlamentare che ha addirittura subito l’onta della sospensione a causa dell’assenza di copertura di bilancio per le leggi in discussione, con una opposizione ridotta alla consistenza di un ectoplasma, la politica la fanno i gruppi editoriali e finanziari che hanno mezzi per condizionare l’opinione, i poteri economici e gli apparati, tra cui eccelle per funzioni, la magistratura. Non tutta, perché in massima parte resta, per natura quasi antropologica, filogovernativa; ma una parte che agisce da efficace minoranza attiva. E così ci siamo ritrovati alla situazione di partenza, all’eterna supplenza giudiziaria che ha aperto la via del potere alle destre e ha gettato l’Italia nel pozzo nero del populismo penale e giustizialista. Sono ritornati in primo piano le inchieste e i processi contro Berlusconi, la creazione del suo impero economico e il suo sistema di potere. Le indagini sul funzionamento di Mediaset, i fondi neri, i giochi finanziari e di bilancio, la corruzione via l’avvocato Mills, e poi le inchieste siciliane e fiorentine, rilanciate dalle ultime dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia che hanno consentito di riaprire filoni d’indagine arenati. Spatuzza e Grigoli, due collaboratori di giustizia, sono tornati a parlare del ruolo di Dell’Utri e dei rapporti con i Graviano, famiglia mafiosa trasferitasi al nord. In particolare è molto attesa la deposizione del prossimo 4 dicembre del pentito Spatuzza. Forse troppo attesa dagli spalti giustizialisti che, incapaci di arrivarci con la politica, sognano un Berlusconi finalmente infilzato dalle inchieste e messo definitivamente fuori gioco.
La vecchia scorciatoia giudiziaria torna dunque d’attualità e chi ne soffre di più è ovviamente un’idea di politica carica di progetti, partecipazione e idee. Tutto muore dietro la passione giudiziaria, si fa claque di tribunale, bava da tricoteuses. In un clima del genere non è possibile nemmeno la più timida delle strategie riformiste. Solo ordine, legalità, tribunali, toghe, processi, condanne, odio, risentimento, carceri che però si riempiono solo di poveri cristi. E su questo terreno cresce l’intolleranza, il razzismo, si allungano le radici di una svolta reazionaria delle mentalità che fa egemonia. Berlusconi reagisce tirando fuori dal cilindro, di volta in volta, una soluzione legislativa che pari il colpo (il processo breve è solo l’ultima trovata in ordine di tempo), stravolgendo qualsiasi idea progettuale di riforma del codice penale e di procedura, ridicolizzando il garantismo e rilanciando alla grande la sfacciata rivendicazione di una giustizia di classe, della legge come scudo dei potenti. Il risvolto di una giustizia di classe che protegge i più forti è la persecuzione di classe verso i più deboli. Quella che fomenta i giustizialisti di destra, come la Lega, gli ex di An e Di Pietro, e che lascia indifferenti i giustizialisti idealisti di sinistra.

Link
Processo breve: amnistia per soli ricchi
Cronache carcerarie
Populismo penale

Ho paura dunque esisto
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica

Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo

Sprigionare la società
Desincarcerer la société
Carcere, gli spettri del 41 bis


Carceri affollate: Giudici californiani, «Svuotate le celle»

In California dopo il successo di una Class action promossa da un’associazione di detenuti, la Corte federale ordina la scarcerazione di 43 mila detenuti  entro due anni. Intanto l’Italia subisce la prima condanna per il sovraffollamento delle sue prigioni

Paolo Persichetti

Liberazione 6 agosto 2009

california_prisons_1_4001

La corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato nelle scorse settimane l’Italia a risarcire la cifra simbolica di mille euro per “danni morali” a un ex detenuto, Izet Sulejmanovic, perché vivere in 2,7 metri quadrati di spazio, cifra inferiore al limite di vivibilità di 7 metri quadri a persona stabilito dal comitato europeo per la prevenzione della tortura, è «inumano e degradante». Il trentaseienne bosniaco, condannato nel 2002 a due anni di reclusione per furto aggravato, era finito nel carcere romano di Rebibbia dove era rimasto rinchiuso per alcuni mesi in una cella che ospitava altre 5 persone. 16 metri e 20 centimetri da dividere in sei. Più o meno la realtà quotidiana di tutte le carceri italiane, anzi nemmeno la peggiore. Basti ricordare che tempo fa, nella casa circondariale di Trieste, si era sperimentata la turnazione, regolata con un registro, dei materassi sul pavimento. La cosiddetta “quinta branda”, cioè il posto in più ricavato con mezzi di fortuna nelle celle collettive, in genere da quattro, è stata sorpassata da tempo. Ormai si ricorre ai letti a castello. Le sezioni monocellulari ospitano due, se non tre detenuti per “cubicolo”, mentre nei “cameroncini” si può arrivare a sette-otto ospiti. Poi ci sono i “transiti”, le sezioni di prima accoglienza dove non esistono limiti. Pollai umani. Calca di corpi. La sanzione stabilita dai giudici europei è dunque importante perché riconosce l’illegalità permanente della condizione carceraria. Probabilmente questa è solo la prima di una lunga serie di condanne che investiranno il sistema carcerario italiano, e non si capisce bene con quale faccia i dirigenti del Dap e del ministero della Giustizia potranno affacciarsi in Europa. Il problema tuttavia non è solo italiano, anzi più esattamente l’Italia l’ha importato dagli Stati uniti, soggiogata dalle politiche sicuritarie della tolleranza zero. Ora però arriva il conto e sarà salato in termini economici e sociali. Il livello di tensione e conflitto sta salendo, l’ingestibilità dell’universo carcere diventa ogni giorno di più difficile. L’ossessione della sicurezza «ha generato solo insicurezza», come ricordava tempo fa Michele Ainis su La Stampa. Basta ascoltare gli allarmi lanciati dai sindacati penitenziari. Un coro unanime denuncia l’invivibilità e la pericolosità raggiunta dal sistema.
Negli Stati uniti, ha raccontato l’altro ieri il New York Times, un comitato di giudici federali della California ha ordinato al governatore Arnold Schwarzenegger di ridurre il numero dei reclusi di almeno 40 mila unità entro i prossimi due anni, cioè circa il 27% della popolazione totale.

CAPrison-1.JPG

Il giudizio emesso dalla corte è molto netto, definisce senza mezzi termini il circuito penitenziario, così come oggi è concepito, un sistema «criminogeno». Dopo aver indagato per alcuni anni il trattamento riservato ai reclusi, a seguito di una class action promossa da un’associazione di carcerati, e dopo lo stato di emergenza proclamato dallo stesso governatore nel 2006,  i tre giudici federali hanno stilato un rapporto di 184 pagine nel quale concedono 45 giorni di tempo ai membri dell’assemblea statale e al governatore per presentare un piano che riduca la popolazione dalle attuali 150 mila unità a 110 mila. Nel rapporto i giudici denunciano violazioni patenti dei diritti individuali sanciti dalla costituzione. «La salute fisica e mentale degli istituti californiani è umanamente e costituzionalmente inadeguata da oltre 10 anni». Per lungo tempo sono state negate, in situazioni dove l’affollamento può raggiungere livelli spettrali anche del 300%, «le cure fisiche e mentali essenziali con conseguenze talvolta fatali».

600_prison_1

Il rapporto descrive un flusso d’ingresso negli istituti che stravolge tutte le misure di verifica e gestione, con l’effetto di rendere poco accurate le fasi d’identificazione e di certificazione dello stato di salute degli incarcerati, suscitando situazioni di pericolo per la custodia e i reclusi stessi. Emerge un sistema caotico con tripli letti a castello, brande accatastate in palestre e corridoi. In sostanza l’inchiesta delinea lucidamente il tracollo del complesso carcerario-industriale e della politica della tolleranza zero risoltasi nel suo esatto contrario, ovvero una industria dell’insicurezza. Schwarzenegger aveva già proposto una riduzione di 27 mila unità, ma i giudici ora portano la barra a 43 mila. Nessuno pensa alla costruzione di nuove carceri come in Italia. Una vacanza in California potrebbe suggerire qualche buona idea al ministro Alfano e al capo del Dap, Ionta. Buon viaggio.

Link
Carcere di santa Maria maggiore a Venezia dove si trova la cella “liscia” che ha ucciso  Mohammed
L’indulto da sicurezza, il carcere solo insicurezza
Carcere, il governo della sofferenza
Carcere, solo posti in piedi
Ho paura dunque esisto
Sistema carcere, troppi morti
Detenuto morto nel carcere di Mammagialla, è il sesto in un anno

Mammagialla morning
Come si vive e si muore nelle carceri italiane
Come topi
in gabbia
Abruzzo la terra trema anche per i dimenticati in carcere
Lì dove il secolo è il minuto
Prigioni i nuovi piani di privatizzazione del sistema carcerario
Carceri private il modello a stelle e strisce privatizzazioni e sfruttamento
Aboliamo le prigioni
Il lavoro in carcere
Le misure alterantive al carcere sono un diritto del detenuto
Basta ergastolo: parte lo sciopero della fame
Manuel eliantonio morto nel carcere di Marassi
Carcere di Forli: muore in cella abbandonato nessuno lo ha soccorso
Ali juburi, morto di sciopero della fame
Dopo la legge Gozzini tocca al 41 bis, giro di vite sui detenuti
Carcere, arriva la legge che cancella la Gozzini
Fine pena mai, l’ergastolo al quotidiano
Sprigionare la società
Desincarcerer la société
Sulla mobilitazione attuale nelle carceri
Carcere, gli spettri del 41 bis

Prigioni: i nuovi piani di privatizzazione del sistema carcerario

Anche in Italia rischia di prendere forma un complesso carcerario-industriale?
Diliberto, Fassino, Castelli, Alfano: nell’ultimo decennio sinistra carceraria e destra hanno tentato in tutti i modi di favorire l’ingresso del capitale privato nella costruzione e gestione delle carceri

Paolo Persichetti
Liberazione
14 marzo 2009 (versione integrale non censurata)

«Complesso carcerario-industriale» è la definizione introdotta dalla sociologia critica e dagli attivisti abolizionisti americani per definire il carcere-fabbrica postfordista. Il termine è stato introdotto per la prima volta da Mike Davis, davis-m_slum1 attento studioso di sociologia urbana, per descrivere il sistema penale californiano (Città di quarzo, manifestolibri 1991; Geografie della paura, Feltrinelli 1999; Il pianeta degli Slum, Feltrinelli 2006, sono solo alcune delle sue opere tradotte). Lo ricorda Angela Davis in una sua raccolta di saggi, Aboliamo le prigioni?, da poco pubblicata dalla Minimum fax.
Negli Stati uniti l’impresa privata utilizza la manodopera carceraria. Il vantaggio è notevole: «Niente scioperi né sindacati. Niente indennità di malattia, sussidi di disoccupazione o compensi da pagare ai lavoratori. Le nuove prigioni sono fabbriche cinte da mura. I detenuti immettono dati per la Chevron, ricevono prenotazioni telefoniche per la Twa, costruiscono circuiti stampati, il tutto per un costo molto inferiore a quello della manodopera libera». Qualcosa del genere rischia di accadere anche da noi? Da un buon decennio a questa parte ha fatto breccia nella cultura politica l’idea di un coverimagecoinvolgimento dell’impresa privata all’interno del sistema penitenziario. In parte ciò accade già. Alcuni servizi sono stati esternalizzati per ridurre costi e rendere maggiormente efficienti le prestazioni. Per esempio, in alcuni istituti penitenziari le cucine sono state date in gestione a cooperative sociali di ex detenuti. Nella casa circondariale di Velletri si produce addirittura del vino, il fuggiasco, ricavato da vitigni lavorati con cura da una cooperativa di detenuti. A Rebibbia e san Vittore sono attivi dei call center della Telecom. Niente a che vedere, ancora, con lo sfruttamento che le grandi privates corporation americane fanno della manodopera reclusa. L’idea è quella di favorire l’autoimprenditorialità sociale come uno dei percorsi di recupero e integrazione previsti dalla legge Gozzini, dove il lavoro è ritenuto un passaggio verso l’uscita graduale dal carcere, grazie alle misure alternative (lavoro esterno, semilibertà, affidamento in prova). Anche le condizioni contrattuali rispettano i parametri sindacali minimi previsti all’esterno: contributi, ferie, malattia. Ma la difficoltà di stare sul mercato va lentamente snaturando queste esperienze, risucchiate da logiche molto lontane dai loro presupposti iniziali. La pratica dei subappalti e il controllo del mercato da parte d’imprese più grandi condannano nel tempo queste esperienze locali. Il capitalismo ha le sue leggi.
Tuttavia la costituzione e la legislazione italiana restano, per ora, un ostacolo insuperato per chi vorrebbe privatizzare il sistema penitenziario nel suo complesso. Prima che ciò accada veramente occorre che si realizzi un passaggio concettuale importante: separare la punizione dal suo legame con il reato. In sostanza che il castigo non sia più legato al delitto ma diventi una forma di controllo sociale e sfruttamento delle fasce più basse della popolazione. Per certi versi già avviene in alcune circostanze. Basti pensare a come, nell’accidentato percorso terapeutico della tossicodipendenza, la ricaduta nell’uso di sostanze stupefacenti è assimilata alla recidiva penale e non alla fisiologia clinica.
Un altro requisito è l’esplosione dei tassi di carcerazione, la scelta strutturale di fare della penalità, del sistema giudiziario-penitenziario, un asse essenziale delle politiche di governo sociale. I numeri che vedono ormai superata la soglia limite dei 60 mila detenuti, a fronte di una capienza legale di 43 mila, la retorica dilagante sulla certezza della pena, il populismo penale e l’ideologia vittimaria, sono lì a dimostrarlo: siamo già all’interno di questo processo. Tra il 1995-2005 la popolazione carceraria è cresciuta del 22% rispetto alla media europea, mentre la capacità di accoglienza è rimasta pressoché stabile (+5,5%). prison-industry
Il sovraffollamento, l’eccedenza d’esseri umani rinchiusi, è il cavallo di Troia utilizzato per far passare nel nostro paese l’idea che il ricorso ai privati sia una necessità. Fino alla svolta degli anni 80, i flussi penitenziari venivano governati attraverso il ricorso periodico ad amnistie e indulti. Una politica che non suscitava allarmi sociali e non ha mai pregiudicato la sicurezza e l’ordine pubblico. La paura non era ancora uno dei temi essenziali del marketing politico e diffusa era la consapevolezza che la devianza non aveva radici etiche, non era frutto di un male teologico, ma aveva cause socio-economiche che andavano aggredite. Al di là della ovvia repressione, soltanto politiche strutturali potevano ridurne la dimensione. Insomma l’obiettivo non era solo quello di «sbattere dentro», ma d’intervenire sulle radici sociali del crimine. Poi è arrivata la rivoluzione conservatrice di Reagan, una nuova filosofia della correzione ha avuto il sopravvento anche in Italia e la società è tornata a rinchiudere, incarcerare pezzi di popolazione sempre più ampi. Dietro al sovraffollamento carcerario non c’è un semplice incremento della «devianza sociale», suscitato da quel movimento tellurico che è lo spostamento migratorio di popolazioni verso le zone più ricche del pianeta e dalla precarizzazione strutturale della nuova economia, ma la scelta di fare del carcere uno strumento di governo di questi nuovi flussi. Un fenomeno che ricorda quanto avvenne agli albori del protocapitalismo con le enclosures, le recensioni delle terre coltivabili che spinsero la popolazione delle campagne a cercare fortuna nelle città. Un’improvvisa eccedenza di popolazione che l’immaturità della nuova economia capitalistica non riusciva ad assorbire suscitarono l’immensa piaga del vagabondaggio, represso con leggi durissime e l’internamento nelle case-lavoro antesignane della prigione moderna. privatiedprisons

Come sempre accade nella storia d’Italia, le svolte a destra maturano quando al governo c’è la sinistra. Era il 30 gennaio 2001 quando il ministro della Giustizia Piero Fassino, uno dei peggiori assieme a Oliviero Diliberto, dispose la dismissione di 21 carceri e l’individuazione di nuove aree per la costruzione di un modello inedito di prigione, di media sicurezza e trattamento penitenziario qualificato. Progetto che prevedeva l’ingresso dei privati nella costruzione e gestione dei nuovi istituti. Roberto Castelli, il successivo guardasigilli leghista con laurea in ingegneria, non fece altro che raccogliere l’idea. Era il periodo delle cartolarizzazioni e della finanza creativa di Giulio Tremonti. Venne creata la Patrimonio spa, società del governo che doveva raccogliere gli introiti delle dismissioni di Regina Coeli a Roma e San Vittore a Milano, liberando aree urbane centrali che facevano gola alla grande speculazione edilizia. La Dike Aedifica, controllata al 95% dalla Patrimonio, amministrata da Vico Valassi, un amico del ministro, doveva invece coinvolgere i privati. L’operazione però non decollò e della vicenda s’interessò soltanto la magistratura. Con la nomina di Franco Ionta, capo del Dap, a commissario straordinario all’edilizia penitenziaria con poteri speciali, il guardasigilli Angelino Alfano è tornato alla carica. L’obiettivo ora sarebbe quello di costruire carceri di nuova generazione a impianto radiale, edifici concepiti per essere ampliati successivamente. Carceri «leggere» per detenuti in attesa di giudizio. Nuovi edifici modulari costruiti su terreni demaniali con criteri ecocompatibili.
I fondi verranno presi dalla Cassa delle ammende (utilizzata fino ad ora per il reinserimento dei detenuti. Una bella beffa!) e poi si tenterà nuovamente di coinvolgere i privati attraverso il «project financing». Chi costruisce avrà in cambio la gestione dei servizi (mensa, lavanderia, manutenzione) che non sono di competenza esclusiva dello Stato (sicurezza e sanità). Ma poiché tali servizi non sono sufficientemente remunerativi dei capitali investiti, per invogliare il capitale privato il governo ha previsto a titolo di compenso una permuta con i penitenziari situati nei centri storici di alcune città, come Roma, Milano, Palermo, oppure con quelli situati in posti di indubbio valore naturalistico (ma facilmente convertibile in valore turistico) come Pianosa, Procida o Nisida, oltre all’ipotesi di leasing ventennali o trentennali. La banda del mattone s’appresta a fare soldi a palate.