Morte di Stefano Cucchi, la sorella denuncia: «Nel processo veniamo trattati come fossimo imputati»

Aria pesante nelle prime udienze del processo aperto contro i tre componenti della polizia penitenziaria, il responsabile del Prap e il personale sanitario del reparto penale dell’ospedale Sandro Pertini accusati di avere avuto pesanti responsabilità nella morte di Stefano Cucchi

Tullia Fabiani
L’Unità 21 ottobre 2010


È come se fossimo noi gli imputati. Io e i miei genitori, i colpevoli. L’atmosfera che abbiamo percepito in Aula è ostile, come se accusa e difesa fossero coalizzate contro di noi. Forse ci si dimentica che io e i miei genitori stiamo lì perché è morto mio fratello. O forse siamo quelli che stanno dando fastidio solo perché chiediamo, senza tregua, che venga riconosciuta la verità». Ilaria Cucchi è molto amareggiata: due giorni fa è stata scortata dai carabinieri fuori dal tribunale. Era in corso l’udienza del processo che vede imputate 13 persone tra agenti di polizia penitenziaria e medici dell’ospedale romano Sandro Pertini, dove suo fratello Stefano è morto un anno fa, il 22 ottobre, dopo una settimana di agonia. «Mi hanno detto che dovevo uscire dal tribunale per motivi di ordine pubblico e mai avrei immaginato di creare un simile problema. Mi sento umiliata e molto triste, anche perché dover sentire certe cose…» 



Quali cose?
«Ho sentito dire da uno dei legali della difesa: “Adesso oltre il libro faranno anche il film”. Ecco, questo è l’atteggiamento nei nostri confronti, come se nel raccontare quanto accaduto a mio fratello avessimo chissà quale secondo fine. Come posso sentirmi di fronte a certe affermazioni? È una grande mortificazione; ripeto, la sensazione è di essere gli imputati». 



E dipende dal fatto che va in tv, rilascia interviste, scrive libri su quanto accaduto?
«Si, anche. Penso che certi atteggiamenti, come l’allontanamento dal tribunale, dipendano dai miei interventi. Evidentemente non vorrebbero tutta questa attenzione mediatica». 



Chi non la vorrebbe?
«I soggetti coinvolti: accusa e difesa. Però se i pm si sentono sotto pressione possono sempre farsi sostituire».

La procura ha chiesto comunque che dalla prossima udienza siano ammessi in aula stampa e tv.
«Sì. Ci sarà un’udienza martedì 26 e vedremo cosa decide il gup. Per me non c’è alcun problema, anzi. È importante che i giornalisti possano seguire ciò che avviene in aula, vedere come procede l’udienza e qual è il rapporto tra le parti. Che ci sia o meno la stampa la mia impressione sull’atmosfera che respiriamo quando siamo lì non cambia». 



Ce l’ha con loro perché è stata respinta la vostra richiesta di una super perizia su Stefano?
«No, non è questo. So bene che ci sono motivazioni precise e che è stata rigettata non perché infondata, ma perché, come ha spiegato il nostro avvocato, è inammissibile in questa fase processuale. La questione è un’altra: l’episodio dell’altro giorno, venire allontanati dal tribunale, vietare a mia madre di andare sul piazzale per fumare una sigaretta e dare così tanto fastidio al pm da costringerlo a lamentarsene davanti al giudice. E poi subire ad esempio dichiarazioni da parte del pm che dice ai miei avvocati “Non santifichiamo questa famiglia”. Che significa? Che non siamo dei santi e allora non possiamo chiedere giustizia per la morte di mio fratello? È assurdo. Ed è la dimostrazione che la battaglia che stiamo portando avanti è una battaglia ímpari». 



Perché ímpari?
«Oggi sento che questa giustizia non è per tutti. Sento una forte ostilità e un’ostinazione nel voler continuare a negare la realtà. Ma come si fa a continuare a parlare di lesioni lievi quando queste “lesioni lievi” hanno causato la morte di Stefano?. La verità ci è dovuta e io la pretendo». 



Domani, 22 ottobre, sarà un anno dalla morte di suo fratello. Come passerete questa giornata e cosa vi aspettate dopo?
«Per i giorni che verranno vorrei solo che si mettesse finalmente fine all’ipocrisia. E che cominci un’altra storia. È stato un anno tremendo, ci siamo trovati a combattere una battaglia al di sopra delle nostre capacità e delle nostre forze, con la disperazione di non avere risposte. Abbiamo passato giornate drammatiche e solo oggi, dopo un anno, sembra che stiamo cominciando a realizzare l’assenza di Stefano. Domani ci sarà una messa nella nostra parrocchia, alle 15.30 a Santa Giulia Billiart, al Casilino. Poi seguirà un incontro, uno spettacolo teatrale, e la presentazione del libro “Vorrei dirti che non eri solo”. Perché al di là delle allusioni e delle mortificazioni per me anche un libro è un mezzo buono per denunciare l’uccisione di mio fratello e per continuare a chiedere ancora, un anno dopo, verità e giustizia».

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Il libro di Ilaria Cucchi: “Nessuno deve più morire in carcere o in una caserma”

“Ferragosto in carcere”, è tempo di fatti. Cosa faranno le istituzioni dopo le 240 visite di parlamentari nei penitenziari?

Provate a immaginare una turca e un piccolo lavandino da condividere per due squadre di calcio, dove fare toilette, lavare le stoviglie, fare il bucato

Paolo Persichetti
Liberazione 17 agosto 2010


Il giorno di Ferragosto, mentre proseguiva l’iniziativa promossa dal Partito radicale che ha portato oltre 240 tra parlamentari (un numero mai visto prima d’ora), consiglieri regionali, operatori del settore, Garanti dei detenuti e magistrati, a visitare gli Istituti di pena, il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha dato i numeri. In una conferenza stampa tenutasi a Palermo, dopo una riunione del Comitato nazionale per la sicurezza, il Guardasigilli ha snocciolato le ultime cifre sulla situazione in cui versano le carceri. 68.121 è il numero record delle presenze raggiunte (e destinate a salire ancora) per una capacità di accoglienza che è solo di 44.576 posti (già gonfiata a dismisura). Di questi, solo 37.219 scontano una condanna definitiva, mentre 24.941 sono in custodia cautelare. Il ministro non lo ha detto, ma ben 14 mila sono i custoditi che non hanno subito ancora la benché minima condanna. 24.675 sono invece i detenuti di nazionalità straniera. Mentre in regime di 41 bis, il carcere duro, si trovano 681 persone, tra cui 3 donne. Alfano non ha mancato di evocare il fantomatico “Piano straordinario per le carceri” che – a suo dire – procederebbe bene. Al Dap sarebbero «pronti a partire con l’edificazione di nuovi padiglioni e di nuovi istituti di pena». Il ministro è uomo che ama ripetersi all’infinito.
Tra le cifre dimenticate c’è anche il numero dei suicidi: 40 quelli riusciti e 73 i tentati. Dalle testimonianze raccolte tra i visitatori fuoriesce una quadro generale uniforme e drammatico dovuto al sovraffollamento bestiale che aggrava ogni precedente carenza e situazione di crisi: dall’igiene, alla sanità, al vitto e sopravvitto, ai colloqui, alle ore d’aria, all’accesso alle misure alternative, al cosiddetto “trattamento” interno, cioè le ipotetiche offerte di studio, lavoro, corsi di formazione, attività di rieducazione e sportive. Non ce n’è più per nessuno in spazi che possono raggiungere le 8-10 persone per cella, addirittura più di 20 nei cameroni una volta destinati alle ore di socialità. Provate a immaginare una turca e un piccolo lavandino da condividere per due squadre di calcio, dove fare toilette, lavare le stoviglie, fare il bucato. Un piccolo televisore per tutti in luoghi dove si può sostare solo in branda. Non serve nemmeno vedere per capire il livello di degrado raggiunto.
L’enorme numero di parlamentari entrato in visita contrasta con il disinteresse mostrato fino ad oggi in Parlamento sulla questione carceraria. Il Senato non è riuscito a votare nemmeno l’inutile legge sulla detenzione domiciliare. Un provvedimento che secondo i calcoli degli uffici dovrebbe favorire l’uscita dalle celle di meno di 2 mila persone. Un goccia d’acqua. Una presa in giro di fronte all’emergenza. Circostanza che ha suscitato alcune critiche nei confronti delle visite di Ferragosto, definite una «passerella mediatica». L’accusa non era rivolta ai Radicali, che raccoglieranno comunque da queste ispezioni un dossier che fornirà materia per portare lo Stato italiano davanti alle giurisdizioni internazionali, ma contro quella che possiamo definire una certa “ipocrisia consociativa”. Il rischio esiste, inutile negarlo. Delle visite largamente preannunciate perdono quasi tutto il loro valore ispettivo poiché permettono di camuffare e arrangiare molte cose nei luoghi meno visibili del carcere. Anni fa, in vista di una cerimonia del presidente della Repubblica Napolitano a Rebibbia, la Direzione fece riverniciare in fretta e furia i corridoi e le sale che il capo dello Stato doveva attraversare. Ma una verifica arriverà presto. Il ministro della Difesa La Russa ha preannunciato per settembre un inasprimento delle norme sull’immigrazione. Sarà il primo banco di prova per capire se l’indignazionemostrata dai parlamentari sia durata il tempo di un’abbronzatura di Ferragosto.

Per saperne di più
Cronache carcerarie
Mario Staderini, segretario dei radicali italiani: “Le carceri sono la prova che viviamo in uno stato d’illegalità”

«Piano carceri, unica novità i poteri speciali a Ionta»

Parla Patrizio Gonella, presidente di Antigone

Paolo Persichetti
Liberazione 14 gennaio 2010

Stato di emergenza fino al 31 dicembre 2010. È questo il «primo pilastro» del Piano carceri, largamente preannunciato nei mesi scorsi ( Liberazione ha dedicato alla questione l’inserto di domenica 3 gennaio) e illustrato dal ministro della giustizia Angelino Alfano ieri, al termine della riunione del consiglio dei ministri. Gli altri tre «pilastri» sarebbero «il piano edilizio», che prevede la costruzione di 47 nuovi padiglioni nei penitenziari esistenti; l’approvazione in sede di governo di un disegno di legge con «possibilità di scontare in detenzione domiciliare l’ultimo anno di reclusione e l’introduzione della “messa in prova” per le persone passibili di condanne che non superano i tre anni di reclusione in cambio della disponibilità a prestare lavori di pubblica utilità e la sospensione il processo». Infine l’arruolamento in organico di duemila nuovi agenti di polizia penitenziaria. Ma per le associazioni che lavorano nel pianeta carcere, come Antigone, l’Arci e la Vic-Caritas, non si tratta soltanto di un piano inadeguato, incapace di risolvere il problema del sovraffollamento, ma di un progetto portatore di una filosofia pericolosa che pretende di agire velleitariamente sugli effetti trascurando le cause. Il sovraffollamento non è la conseguenza dell’insufficienza del numero di celle, ma di leggi ispirate a pulsioni liberticide e ultrapenali che fabbricano incarcerazione. Secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’annuncio fatto dal guardasigilli Alfano non aggiunge nulla di nuovo, si tratterebbe in realtà dell’ennesima gesticolazione mediatica.

Si parla di proclamazione dello stato di emergenza. A ben vedere però si tratta unicamente dell’attribuzione di poteri speciali in materia di edilizia penitenziaria al capo del Dap, Franco Ionta. Non ti sembra un’emergenza monca? Nulla è previsto per fara fronte ad un piano d’intervento complessivo sulle carceri e al tempo stesso troppo viene concesso sul fronte dell’edilizia?
Evocare l’emergenza quantomeno rappresenta la presa di coscienza di una situazione eccezionale. Da questo punto di vista si tratta di una importante assunzione di consapevolezza. Dopo di che non è successo niente di più. Si riciclano promesse di posti letto fatte oltre dieci anni fa, quando ministro della Giustizia era Piero Fassino. In realtà, non c’è alcuna traccia di un piano e i 500 milioni messi in finanziaria non permettono la costruzione di nuove carceri. L’unico vero fatto nuovo sono i poteri speciali attribuiti al capo del Dap sul modello di quelli concessi a Bertolaso per la protezione civile.

Esiste un precedente molto pericoloso. I poteri straordinari concessi al generale Dalla Chiesa furono poi all’origine di uno dei casi di corruzione ai danni dello Stato tra più importanti degli anni 80. La famose carceri d’oro.
In realtà di precedenti ne esistono almeno due: uno riuscito, quello delle carceri d’oro, che vide la corruzione arrivare a termine. E quello più recente della DiKe edifica di Roberto Castelli. Operazione fallita grazie all’opposizione della Corte dei conti. È evidente che la scelta di opacizzare i criteri che ispireranno l’attribuzione dei lavori per chiamata diretta desta molte preoccupazioni. Invece di prevedere la velocizzazione delle gare, riducendo all’osso i termini, garantendo comunque concorrenza e trasparenza, si è scelta la via del segreto. Vi è qui anche una mancanza di coraggio nell’assunzione della responsabilità delle proprie scelte, una fuga dalla trasparenza. Un quando davvero preoccupante, speriamo che ci sia un controllo pubblico.

Forse c’è anche qualcosa di più. Non è singolare questa logica del doppio binario? Poteri straordinari solo in materia edilizia che agevoleranno solo i padrini del calcestruzzo e binari normali per i ddl finalizzati alla deflazione carceraria che per altro scontano già la preannunciata ostilità parlamentare di An e Lega e dunque non avranno alcun margine di riuscita?
Si tratta di una presa in giro, un contentino per indorare la pillola durante la discussione che si è tenuta in parlamento. In quella sede il governo ha chiaramente mostrato le sue vere intenzioni esprimendo parere negativo sui punti più significativi della mozione Bernardini, la più avanzata. Si è opposto all’istituzione del difensore civico nazionale, alla revisione della legge Cirielli sulla recidiva, che è una delle cause dell’ingorgo carcerario. Ha dato parere negativo alla possibilità di aumentare le relazione affettive. Ovviamente ha fatto muro ad ogni modifica del 4 bis e 41 bis, per limitarsi ad una generica dichiarazione di intenti in favore della riduzione del sovraffollamento. È chiaro che non c’è alcuna volontà politica. Come per l’edilizia, il ricorso allo stato d’emergenza poteva giustificare il varo di un decreto legge per introdurre le norme deflattive. Come non serve costruire nuove celle, non servivano nemmeno 2 mila nuovi poliziotti della penitenziaria. Non è incrementando la custodia che si risolve il sovraffollamento e il problema dei suicidi. Al loro posto andava assunto personale civile: educatori e psicologi. Infine ci auguriamo che lo stato di emergenza non venga esteso a dismisura fino a comprendere ragioni di sicurezza per ridurre i livelli di conoscenza e accesso alle strutture carcerarie già aperte. Si aprirebbe un vero problema di democrazia.

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Cronache carcerarie
Dietro al piano carceri i signori del calcestruzzo
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Già piu di mille i ricorsi dei detenuti a Strasburgo contro il sovraffollamento
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Sprigionare la società
Desincarcerer la société
Prigioni i nuovi piani di privatizzazione del sistema carcerario
Carceri private il modello a stelle e strisce privatizzazioni e sfruttamento
Aboliamo le prigioni
Il lavoro in carcere
Carceri affollate, giudici californiani “svuotate le celle”

Stato d’eccezione carcerario, strada aperta alla speculazione

I responsabili del sistema penitenziario chiedono poteri speciali

Paolo Persichetti
Liberazione 3 gennaio 2010 – speciale Cemento e castigo

Il capo del Dap Franco Ionta ha chiesto lo scorso novembre l’apertura dello stato d’emergenza per le carceri. Secondo l’ex pm antiterrorismo, salito ai vertici dell’amministrazione penitenziaria nel luglio 2008, i «poteri straordinari» conferitigli all’inizio del 2009, in qualità di «commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria», non sarebbero più sufficienti per fronteggiare la gravità della situazione carceraria. In una lettera inviata a Settembrino Nebbioso, attuale capo di gabinetto del ministro della Giustizia Angelino Alfano, il massimo responsabile del carceri ha chiesto poteri speciali da «commissario delegato». Un ampliamento delle competenze simile a quelle attribuite a Guido Bertolaso nel campo della protezione civile. Un potere d’eccezione che gli consentirebbe di aggirare le normali procedure in materia di edilizia penitenziaria prospettati, a più riprese, nel piano carceri annunciato dal governo. Ionta chiede di fare a meno delle gare pubbliche di appalto per l’attribuzione dei lavori alle ditte costruttrici e di avere in cambio la facoltà di affidare in via riservata, con modalità arbitrarie e discrezionali, i contratti per la costruzione di 47 nuovi padiglioni nei penitenziari già esistenti, e per i quali la finanziaria ha stanziato 500 milioni di euro (in buona parte presi dalla “cassa ammende”, circa 350 milioni, in precedenza utilizzati per finanziare programmi di trattamento e rieducazione che in questo modo verranno meno). Il piano indica anche la costruzione di 24 nuovi penitenziari a struttura modulare, di cui 9 «flessibili» (vale a dire carceri di “prima accoglienza” destinati a governare l’enorme flusso di ingressi/uscite rappresentato da quella fascia di persone arrestate, o detenute con pene lievi, che soggiornano in prigione per pochi giorni), da costruire nelle grandi aree metropolitane o in aree considerate “strategiche”, e di altre 7 strutture “pesanti”, a pianta architettonica tradizionale; progetti per i quali manca la copertura finanziaria. Il project financing si è infatti arenato di fronte all’indisponibilità dei costruttori privati ad anticipare il costo dei lavori in cambio di contratti di lising poco remunerativi a breve termine. Un emendamento alla finanziaria, che consentiva la permuta di aree demaniali e delle sedi di vecchie carceri situati nei centri storici urbani, molto appetiti dagli speculatori del cemento, in cambio di nuove carceri da costruire nelle periferie, è stato fortunatamente bocciato. La richiesta del capo del Dap ha un precedente pericoloso, estremamente evocativo delle mire speculative che si nascondono dietro il piano carceri. Si tratta dei poteri speciali attribuiti nel maggio del 1977 al generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Con un decreto interministeriale ripetutamente prorogato, il responsabile dei nuclei speciali antiterrorismo venne nominato Comandante dell’ufficio di coordinamento per la sicurezza esterna degli stabilimenti penitenziari. A Dalla Chiesa fu affidato il compito di individuare i penitenziari destinati alla creazione di un nuovo circuito di massima sicurezza: le famose “carceri speciali”. In soli due giorni, con l’ausilio anche di elicotteri bimotore, vennero trasferiti sulle isole e da un capo all’altro del Paese circa 600 detenuti. Ma i poteri eccezionali conferiti al generale non si limitavano solo a questo. Dalla Chiesa aveva assunto anche competenze di intelligence che gli consentivano di entrare senza problemi all’interno degli istituti ed esercitare un forte potere gerarchico sui direttori. Nell’ambito di questi poteri d’eccezione, il Parlamento approvò, sempre nel dicembre del 1977, una legge recante «disposizioni relative a procedure eccezionali per lavori urgenti ed indifferibili negli istituti penitenziari». Si tratta del precedente legislativo a cui si ispirano le pretese dell’attuale capo del Dap. Questa legge attribuiva al ministero della Giustizia ampi poteri discrezionali in materia di lavori pubblici e di appalti per la realizzazione di interventi che andavano ben oltre l’ordinaria manutenzione. Da quella operazione prese origine uno dei più importanti episodi di corruzione e truffa ai danni dello Stato. Scandalo scoperto nel febbraio 1988 e che travolse un ministro, il socialdemocratico Nicolazzi. La chiamata nominativa delle imprese di costruzione e l’opacizzazione dei protocolli, oltre all’avvio di un vasto programma di nuova edilizia penitenziaria basato su impressionanti colate di calcestruzzo e ferro in poco tempo divenute fatiscenti, diede origine allo scandalo delle carceri d’oro. Ogni “posto detenuto” venne a costare circa 250 milioni di lire, il prezzo di un appartamento in una grande città dell’epoca. Come allora, la banda del calcestruzzo, sponsor di questo governo, sarà il vero fruitore del piano carceri. Cemento e castigo, ecco l’Italia di Berlusconi.

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Antigone: “Piano carceri, unica novita i poteri speciali a Ionta”
Cronache carcerarie
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«Dietro al piano carceri i signori del calcestruzzo»

Intervista a Cesare Burdese Architetto, esperto di progettazione carceraria ispirata ai modelli riabilitativi della pena

Ermanno Gallo
Liberazione 3 gennaio 2010 – speciale Cemento e castigo

Cesare Burdese è un architetto torinese che da vent’anni si occupa di progettazione carceraria in stretto rapporto con la concezione istituzionale della pena. Recentemente è stato relatore in un seminario tenuto presso il carcere di Sollicciano (13 giugno 2009) con un intervento critico rivolto alla tipologia di edilizia penitenziaria contemplata dal piano carceri proposto dal governo.

Esiste un modello architettonico di carcere trattamentale e riabilitativo distinto dal penitenziario afflittivo di mera custodia?
I vecchi modelli penitenziari, diciamo ideologici, a volte di matrice utopistica, sono tramontati o vanno rinominati.

Intende che quei laboratori sperimentali per la modificazione del comportamento dei detenuti, come Pentonville, o il carcere-paradigma di Filadelfia (isolamento diurno e notturno del detenuto) e di Auburn (lavoro collettivo di giorno agli affidabili, isolamento notturno), o ancora il Panottico del controllo invisibile “interiorizzato”, non hanno più corso storico?
Oggi siamo di fronte a “derivati” ottocenteschi, con prigioni a pianta crociata e radiale oppure a strutture moderne a palo telegrafico. Per fare fronte alla cosiddetta “emergenza” vengono evocate carceri galleggianti, veri modelli protostorici, o carceri grattacielo, strutture obsolete e futuriste al contempo. In ogni caso ogni tipologia dovrebbe essere contestuale, posto che sia replicabile fuori del suo tempo.

Il sovraffollamento attuale, che enfatizza il carattere afflittivo e patogeno della pena, non inficia qualsiasi visione architetturale che si proponga il cambiamento dell’essenza reale del castigo, attraverso la modificazione delle strutture murarie, della camicia di pietra del sistema cellulare, in funzione, ad esempio, del “carcere democratico”, della “dolcezza delle pene”?
Il ritardo casuale o colpevole dell’edilizia rispetto alla legge penitenziaria non può che aggravare lo stato presente delle cose. Constato, oggi più di ieri, che anche nella facoltà di Architettura, dove tengo seminari e ho seguito tesi sull’argomento, per non parlare delle sedi decisionali, pochi considerano l’architettura carceraria una materia di studio e ricerca.

Il circuito carcerario italiano è obsoleto ed esplosivo. Nel piano carceri proposto dal governo esiste una visione architettonica adeguata che potrebbe trasformare questa situazione degradata?
La promessa di 22 mila posti cella in più nel 2012, può essere solo un tappabuchi. Il carcere ha paura del vuoto. Più aumentano i posti – oggi li chiamano “posti letto”, come se fosse un albergo o un dormitorio – tanto più aumenta la bulimia penale e penitenziaria. Un detenuto tira l’altro.

Fino ad oggi sembra che siano stati stanziati in finanziaria solo 500 milioni di euro per l’ampliamento della capienza.
Si prevedono circa cinque mila posti come primo intervento di sostegno. Celle ricavate da ristrutturazioni, ampliamenti o costruzioni di nuovi padiglioni nelle strutture esistenti. Cpt riconvertiti, oppure riutilizzo di strutture prerecintate, come ex caserme, fabbriche dismesse ecc. 150 milioni sarebbero stanziati dal ministero della Giustizia, altri contributi sono attesi dal fondo unico della giustizia e dalle cassa ammende. Mancherebbero al momento oltre 600 milioni, non attingibili dalla casse pubbliche. Stando così le cose, è impossibile creare entro il 2012 i 22 mila posti promessi. D’altronde il settore privato non sembra particolarmente allettato dalle promesse dello Stato.

Come si presentano gli schemi  architettonici del piano?
Le premesse di progettazione e costruzione, avallate dal ministro Alfano, con la supervisione del commissario plenipotenziario Ionta, non fanno prevedere grandi innovazioni. Nell’allegato D del documento ministeriale c’è lo schema di un penitenziario-tipo per circa 400 posti detentivi. Si tratta di un prototipo ad aggregazione radiale. Un modello derivato dai vecchi sistemi di fine ‘800. Questo modello tipologico rappresenta l’immagine della regressione dell’edilizia penitenziaria italiana. E dimostra che la progettazione carceraria è estromessa dal circuito del libero mercato della progettazione.

Pensa che sia tutto riconducibile ad una mancanza di “concorrenza progettuale?”
La circostanza incide molto perché il progetto è demandato acriticamente agli uffici tecnici ministeriali, che non sembrano molto competenti. Poi gli stessi schemi approvati a occhi chiusi passeranno ai cartelli delle imprese di costruzione, che  sono puri comitati di affari Quanto meno lo Stato appare ingenuo, in contraddizione con i suoi stessi organi legislativi, rendendo pubblico uno schema tipologico assurdo.

Non le pare che si vada verso un idealtipo di carcere-cubo, gestito dal settore  privato che capitalizza lucrando sul detenuto e il  lavoro coatto. Insomma una industria-carcere, o come dicono gli americani: un «complesso carcerario industriale»?
Finora, in Italia, la componente produttiva è sempre stata trascurabile nella gestione delle pene. La carenza di personale, l’articolazione degli spazi nel carcere cellulare, hanno permesso solo piccole attività di riproduzione interna, manutenzione e lavori artigianali appaltati da piccole imprese. Difficile parlare di lavoro industriale.

Quindi non è in vista una forma-carcere caratterizzata dalla produttività incentivata dal privato?
Non direi, tenuto conto della legge vigente e della dislocazione cellulare esistente. Casomai vedo la potenziale capitalizzazione a monte della carcerazione.

Cioè attraverso la progettazione e costruzione di nuove strutture carcerarie?
L’Italia è un grande cementificio. Per questo, più che fare dei containers o dei cubi prefabbricati, ai costruttori conviene costruire con colate di cemento. In questo modo, edificando strutture fotocopia, l’edilizia penitenziaria diventa particolarmente redditizia.

E chi potrebbe vincere  queste gare di appalto?
I signori del calcestruzzo.

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Già piu di mille i ricorsi dei detenuti a Strasburgo contro il sovraffollamento
L’abolizionismo penale è possibile ora e qui

L’abolizionismo penale è possibile, ora e qui

Vincenzo Ruggiero
Liberazione 3 gennaio 2010 – speciale Carcere e castigo


L’abolizionismo è stato paragonato a un vascello carico di esplosivo che naviga nei mari della giustizia penale. Non sono d’accordo. In maniera molto semplice l’abolizionismo, direi piuttosto, è una corrente di pensiero che considera il sistema della giustizia criminale, nel suo complesso, come uno dei maggiori problemi sociali. Rassicuriamoci, quindi, e lasciamo in disparte, per altre occasioni, le immagini di deflagrazione. Forme di abolizionismo penale sono già in funzione, ad esempio, tutte le volte che alcuni segmenti dell’amministrazione centralizzata della giustizia vengono sostituiti da modalità decentrate, autonome, di regolazione dei conflitti. E va chiarito immediatamente che gli autori più noti comunemente associati con questa scuola di pensiero non hanno mai propugnato la chiusura di tutte le carceri domani o dopodomani. L’abolizionismo non è un semplice programma di smantellamento dell’esistente sistema punitivo, un programma che del resto troverebbe non pochi alleati tra chi prova vergogna di fronte alla stragrande maggioranza degli istituti di pena nel mondo.
L’abolizionismo consiste in un approccio, una prospettiva, una metodologia, insomma in un modo diverso di guardare al crimine, alla legge e alla punizione. Osservando i presupposti e studiando le matrici culturali dalle quali prende vita, si può rimanere addirittura imbarazzati nello scoprire che una simile ‘esplosiva’ corrente di pensiero si colloca comodamente nella cultura occidentale convenzionale, che guida i comportamenti di ognuno e che ognuno potrebbe mobilitare a giustificazione della propria condotta. Cominciamo da un modo ‘diverso’ di guardare al crimine. Gli abolizionisti sono consapevoli che alcuni atti generano danno, ma che non tutti gli atti dannosi vengono ritenuti criminali. A loro modo di vedere, lo sviluppo delle società porta con sé delle forme di patologia e i sistemi non possono fiorire se alcuni settori che ne sono parte mostrano evidenti segni di fallimento. E’ questa una nozione aristotelica, che ribadisce un’idea condivisa da molti, vale a dire che l’ineguaglianza crescente crea ostacoli alla realizzazione del bene comune. Non sento deflagrazioni in questa idea. Sento piuttosto una critica alle elaborazioni platoniane secondo cui il bene e il male si distinguono in quanto chi pratica il primo dimostra di ‘ignorare’ i precetti della ‘vita buona’, chi persegue il secondo rivela di conoscerne i principi fondamentali. Gli abolizionisti, al contrario, suggeriscono che l’ignoranza caratterizza le istituzioni della giustizia criminale, nel senso che i professionisti che la popolano non conoscono le circostanze, le interazioni e le dinamiche che producono le situazioni problematiche definite in fretta come crimini. Vedo anche molto Rousseau in questo suggerimento, segnatamente il Rousseau critico della concorrenza che genera ‘inganni violenti’, e che al declino della moralità pubblica fa corrispondere la crescita degli strumenti artificiali del controllo delle condotte.
Nel discorso abolizionista c’è posto addirittura per Hegel, il quale vede gli individui, isolati e competitivi, allontanarsi dalla sfera pubblica e smarrire ogni sentimento di obbligo verso gli altri. La patologia che ne risulta porta ognuno a delimitare la propria area intima e a delegare alle autorità la soluzione dei problemi sociali. Una volta designati i guardiani della moralità, gli individui possono curarsi dei propri interessi e permettere nell’indifferenza che il successo venga premiato e il fallimento severamente castigato. Veniamo all’universo sacro della legge. L’equità giuridica può essere definita come il diritto di ognuno a mobilitare le istituzioni statali per la protezione e la salvaguardia del proprio benessere. In altri termini, la legge potrebbe essere interpretata come diritto alla mutua coercizione. Chi non rispetta la libertà degli altri nega a costoro lo statuto di persone libere. La legge, in simili casi, interverrebbe per negare questo diniego e per restaurare la situazione iniziale. Gli abolizionisti rispondono che una simile astrazione potrebbe soltanto applicarsi in società nelle quali eguale accesso alla legge viene accompagnato da eguale accesso alle risorse. Nelle società che conosciamo, al contrario, la legge non fa altro che negare la libertà a coloro che ne posseggono veramente poca, i quali vengono così doppiamente colpiti. Leggo in questa argomentazione un pensiero consolidato nella cultura occidentale, vale a dire un’idea di conflitto e una nozione distributiva della giustizia che attraversano tutta la filosofia e il pensiero sociologico che conosco, da Weber a  Durkheim, da Marx a Galbraith, da Simmel a Bauman.
Abbiamo, insomma, numerose coordinate entro le quali collocare il pensiero abolizionista, e se esaminiamo l’analisi abolizionista della punizione le coordinate si affollano, si sovrappongono, al punto che ognuno può scegliere quelle più vicine alla propria sensibilità. Abbiamo in Louk Hulsman un abolizionismo che riflette il suo Cristianesimo sociale, che si ispira all’ecumenismo di San Francesco, ma anche alle sacre scritture, al Vangelo di Luca e Marco, e particolarmente al rivoluzionario Paolo, il quale nega ogni validità alla legge umana, quella divina essendo sufficiente a farci discernere il bene collettivo dal benessere dei pochi. In Hulsman troviamo l’eco della teologia radicale e della teologia della liberazione, ma anche dell’anarchismo di Bakunin, secondo il quale la realizzazione della libertà richiede azione condotta religiosamente. Tolstoy e Hugo fanno capolino nelle sue argomentazioni, specialmente quando vengono riferite ai temi della redenzione e del castigo, dell’autogoverno, la misericordia e la pietà. Questo sincretismo caratterizza anche il pensiero di Thomas Mathiesen, il quale si schiera a favore di una sociologia del diritto pluralista e interdisciplinare. Allora, i suoi referenti sono Marx e Engels, ma i suoi compagni di strada sono i detenuti e gli emarginati, che il marxismo ortodosso escluderebbe dai processi di emancipazione e mutamento sociale. Da eretico, Mathiesen crede che la ricerca sociale debba coinvolgere i soggetti che la ispirano, quegli attori coinvolti nel conflitto che, attraverso la conoscenza acquisita, sono in grado di perpetuare la conflittualità collettiva.
Pensiamo infine a Nils Christie, che  raccomanda a chiunque si accinga a comporre un testo scritto di avere in mente la propria zia preferita. Ebbene, Kropotkin raccomandava altrettanto, chiedendo ai militanti politici di tenere sempre in mente a chi erano destinati i loro opuscoli. La critica mossa da Christie verso i professionisti della legge e della pena ricorda le invettive anarchiche contro la proliferazione delle leggi, che abituano gli individui alla delega e ne atrofizzano la capacità di giudizio etico e politico. Il suo apprezzamento del conflitto come ‘risorsa da tenere a cuore’ rimanda all’idea secondo cui i problemi possono essere risolti solo se chi vi è coinvolto possiede risorse autonome sufficienti a risolverli. Dobbiamo solo rallegrarci se troviamo difficoltà nel collocare l’abolizionismo in un quadro di riferimento unico e coerente in termini politici, sociologici o filosofici. I suoi tratti sono inclusivi, non esclusivi, permettendo a chiunque sia dotato di spirito critico di individuarvi almeno un aspetto del proprio pensiero.

Vincenzo Ruggiero è professore di sociologia presso la Middlesex University di Londra. Il suo prossimo libro, Penal Abolitionism: A Celebration, verrà pubblicato quest’anno da Oxford University Press.


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Antigone: “Piano carceri, unica novita i poteri speciali a Ionta”
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Dietro al piano carceri i signori del calcestruzzo
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L’abolizionismo penale è possibile ora e qui

Già più di mille i ricorsi dei detenuti a Strasburgo contro il sovraffollamento

Antigone e altre associazioni raccolgono i reclami dei detenuti

Alfredo Imbellone
Liberazione 3 gennaio 2010 – speciale Carcere e castigo


Nell’estate del 2009 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia a risarcire Izet Sulejmanovic per essere stato costretto, durante la sua detenzione nel carcere romano di Rebibbia, a vivere in uno «spazio personale» inferiore ai tre metri quadrati. La condanna ha riguardato solo i cinque mesi di detenzione in cui si sono potute riscontrare tali condizioni di sovraffollamento e il risarcimento è stato quantificato in mille euro.
Per la prima volta in Italia le condizioni di invivibilità delle carceri determinate dal sovraffollamento sono state definite da un organismo giurisdizionale di livello internazionale. È un precedente significativo che, grazie a un intervento europeo, rompe l’immobilismo italiano attorno alla violazione quotidiana del dettato costituzionale contenuto nell’articolo 27 che stabilisce la presunzione d’innocenza fino a condanna definitiva, l’umanità e il fine rieducativo delle pene e l’inammissibilità della condanna a morte.
Grazie a una definizione di standard di vivibilità da parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, la Corte ha potuto individuare nelle condizioni di sovraffollamento un «trattamento inumano e degradante» che viola l’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. La vivibilità minima si misura in termini di spazi assegnati a ogni detenuto, tempo quotidiano che si può trascorrere fuori dalla cella, accesso alla luce e all’aria, privacy per quando si utilizza il wc.
E’ proprio il carattere “oggettivo e misurabile” della sentenza Sulemamovic che la rende un evento potenzialmente dirompente nei confronti delle disastrose condizioni del sistema penitenziario italiano. Non a caso la sentenza ha visto la strenua opposizione in seno alla Corte del giudice italiano Vladimiro Zagrebelsky, contrario a qualsiasi automatismo nel riconoscimento delle condizioni di sovraffollamento come trattamenti inumani e degradanti. In effetti se i detenuti che vivono in queste condizioni continueranno a seguire l’esempio di Sulemamovic, il governo italiano si potrebbe trovare costretto a risarcire decine di migliaia di detenuti. Gli standard di vivibilità definiti a livello europeo si avvicinano infatti molto alla cosiddetta capienza “regolamentare” delle nostre carceri (circa 43.000 posti), o al limite alla capienza “da metro quadrato” calcolata dalla Direzione generale dei Beni e dei Servizi del ministero (circa 52.000 posti). In ogni caso si è ben al di sotto delle attuali presenze (circa 67.000), superiori persino alla cosiddetta capienza “tollerabile” (circa 64.000 posti) stabilita con decreto ministeriale aumentando – sic et simpliciter – i posti regolamentari del 47%.
La significatività della sentenza Sulemamovic non è sfuggita alle organizzazioni che si muovono in difesa dei diritti delle persone detenute. Ristretti Orizzonti mette a disposizione tramite il sito Internet, www.ristretti.it, materiali utili per una documentazione approfondita sulla vicenda; il Comitato radicale per la giustizia Piero Calamandrei ha predisposto un modello di ricorso che ciascun detenuto può compilare e inviare direttamente alla Corte. L’intervento più significativo, tuttavia, sembra essere quello messo in campo dall’associazione Antigone che da settembre 2009 ha messo a disposizione il proprio Difensore civico in una campagna per sostenere i detenuti che vogliono andare davanti ai giudici europei per denunciare condizioni di invivibilità in cui si trovano costretti.
Parlando con Simona Filippi, avvocato di Antigone, abbiamo appreso che a oggi sono più di mille i detenuti che si sono rivolti all’associazione per chiedere aiuto nella presentazione del ricorso. Per supportare i detenuti Antigone ha costituito una rete nazionale di volontari, prevalentemente avvocati, impegnati nella presentazione dei ricorsi. Sinora si sono rivolti a questa iniziativa singoli detenuti, così come gruppi. Dal carcere di Saluzzo hanno scritto ad Antigone: «Siamo in due in cella da uno. […] un passeggio di 25 persone attualmente ci andiamo in 56 persone, in due salette che sono utilizzate per socializzare ci andiamo più di 40 persone e pensate che sono state create per 25 persone. Alle finestre ci sono delle doppie griglie che ci causano dei problemi di vista perché non possiamo vedere fuori. [….]».
Non ci sono termini di scadenza per la presentazione del ricorso laddove la persona detenuta si trova a vivere in condizioni di sovraffollamento. I termini per presentare il ricorso davanti alla Corte europea, infatti, scadono dopo sei mesi dalla cessazione della causa che determina la violazione del diritto. In questo caso, i sei mesi iniziano a decorrere da quando si viene trasferiti in un altro istituto o da quando si esce dal carcere per fine pena. I riferimenti per chi fosse interessato a presentare il ricorso sono: Difensore civico – Associazione Antigone, Via Principe Eugenio 31, 00185 Roma, difensorecivico@associazioneantigone.it.

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Cronache carcerarie
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Caso Cucchi, anche la polizia penitenziaria si autoassolve

Chiusa l’indagine interna
Per il Dap non sono emerse responsabilità
da parte della polizia penitenziaria

Paolo Persichetti
Liberazione 3 dicembre 2009

Per il ministro della Giustizia Angelino Alfano, Stefano Cucchi è caduto dalle scale. Per Carlo Giovanardi è morto di droga. Siccome era un tossicodipendente e spacciava, la sua vita non doveva valere nulla. Se l’era cercata. Per questi signori, Stefano Cucchi sarebbe morto di freddo. Anzi, come ha scritto su queste pagine Erri De Luca, «perché ostinatamente aveva smesso di respirare». Da allora la lista delle facce di bronzo non ha terminato di crescere. L’inchiesta interna condotta dall’amministrazione penitenziaria ha escluso l’esistenza di qualsiasi responsabilità della polizia penitenziaria nelle brutali percosse subite da Stefano Cucchi. E’ quanto sottoscritto ieri, ultimo in ordine di tempo, dal capo del Dap, il magistrato Franco Ionta, la cui funzione è nobilitata dall’appellativo di Presidente. Su questo terribile episodio di violenza istituzionale, la macchina della controverità marcia a velocità folle. Appena pochi giorni prima un’altra commissione interna aveva assolto i medici del reparto penitenziario dell’ospedale dove, invece delle cure, al giovane era stata somministrata cinica indifferenza e sprezzante incuria. In compagnia solo del suo dolore e dell’umiliazione di un corpo bastonato, di membra lacerate, Stefano Cucchi è morto. Delle uniformi di Stato lo avevano arrestato quando era in perfette condizioni fisiche, delle uniformi di Stato lo hanno interrogato, delle uniformi di Stato lo hanno incarcerato, in tribunale un magistrato ha finto di non vedere, l’avvocato d’ufficio ha girato la testa, poi dei camici pubblici lo hanno abbandonato. Da settimane, le varie componenti istituzionali coinvolte in questa vicenda rispondono opponendo omertà d’apparato in difesa di una impunità di principio, di una visione completamente autoreferenziale della legalità e della morale. Ma come cantava De André: «anche se vi credete assolti, siete per sempre coinvolti».

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Cronache carcerarie
Caso cucchi, avanza l’offensiva di chi vuole allontanare la verità
Cucchi, anche la polizia penitenziaria si autoassolve
http://perstefanocucchi.blogspot.com/
Stefano Cucchi: le foto delle torture inferte
Caso Cucchi, scontro sulle parole del teste che avrebbe assistito al pestaggio. E’ guerra tra apparati dello Stato sulla dinamica dei fatti
Morte di Cucchi, c’e chi ha visto una parte del pestaggio nelle camere di sicurezza del tribunale
Erri De Luca risponde alle infami dichiarazioni di  Carlo Giovanardi sulla morte di Stefano Cucchi
Stefano Cucchi, le ultime foto da vivo mostrano i segni del pestaggio. Le immaigini prese dalla matricola del carcere di Regina Coeli
Manconi: “sulla morte di Stefano Cucchi due zone d’ombra”

Stefano Cucchi, quella morte misteriosa di un detenuto in ospedale
Stefano Cucchi morto nel Padiglione penitenziario del Pertini, due vertebre rotte e il viso sfigurato
Caso Stefano Cucch, “il potere sui corpi è qualcosa di osceno”
Violenza di Stato non suona nuova

Ignorata la disponibilita offerta da un gruppo di detenute che si offrì di assistere la Blefari. I magistrati puntavano al pentimento
Induzione al pentimento
Suicidio Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine

Teramo, sospeso il comandante delle guardie che spiegava ad un suo sottoposto come i detenuti non si massacrano in sezione ma nelle celle d’isolamento

Il ministro della Giustizia Alfano ha sospeso dal servizio il responsabile degli agenti del carcere di Castrogno, Giovanni Luzi

Il comandante della polizia penitenziaria della casa circondariale di Teramo, Giovanni Luzi, in un concitato colloquio rimproverava un assistente di polizia penitenziaria per aver pestato un detenuto in sezione, davanti agli altri reclusi, invece di averlo portato “sotto”, cioè nel reparto di isolamento, dove abitualmente al riparo da sguardi indiscreti avvengono i pestaggi, le “punizioni”.

Preso in castagna
Secondo il comandante, l’agente aveva solo sbagliato il luogo dove massacrare il recluso. Registrato con un telefonino, l’audio riversato su un cd, è perveuto in forma anonima al quotidiano locale La Città. La voce riconosciuta è quella del comandante delle guardie che ha ammesso la circostanza e le frasi dette:

Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto. Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto…” (ascolta in integrale L’audio: “il detenuto si massacra di sotto, non davanti a tutti”)

Giovanni Luzi è stato sospeso dal servizio.  Una inchiesta della magistratura teramana è in corso per chiarire le circostanze del pestaggio del detenuto.

Facce di bronzo
“Continuo a pensare che siamo di fronte a un episodio di mero eccesso verbale, per quanto ingiustificato e ingiustificabile perché anche con le parole si può esercitare violenza”, ha sostenuto il segretario generale della Uil Penitenziaria, Eugenio Sarno.

Il segretario del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Donato Capece, invece, punta il dito contro “i corvi”, che fanno più male che bene al corpo di polizia penitenziaria: “Penso che esistessero altri modi per denunciare la situazione”.

Quali?

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Cronache carcerarie

Pianosa, l’isola-carcere dei pestaggi, luogo di sadismo contro i detenuti

Prima di brigatisti e mafiosi, ospitò l’anarchico Passannante e il socialista Sandro Pertini. In settimana si decide se ridestinarla nuovamente a prigione

Paolo Persichetti
Liberazione 8 novembre 2009

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Anche se l’intenzione di riaprire il super carcere di Pianosa sembra per il momento rientrata, di fronte alla ferma opposizione della ministra dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, la proposta avanzata dal guardasigilli Angelino Alfano suona come un sinistro presagio. Il governo ha brutte intenzioni se è vero che con grande disinvoltura tenta di rimettere in funzione una delle più brutali carceri speciali che l’Italia abbia conosciuto. Roba da far impallidire persino Guantanamo e Abu Ghraib. Da circa un decennio, l’isola è diventata un parco ambientale di alto valore naturalistico. Nel 1997 è stato trasferito l’ultimo detenuto rinchiuso nel reparto 41 bis, e dall’anno successivo a presidiare la vecchia struttura sono rimasti solo una sparuta pattuglia di agenti di polizia penitenziaria e alcuni detenuti semiliberi, provenienti dalla vicina casa di reclusione di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, che si occupano dei terreni agricoli. Aperta nel 1858 dal Granducato di Toscana, fu solo nei primi anni del Regno unificato d’Italia che la colonia penale agricola della Pianosa assunse la struttura attuale. Nello stesso periodo vennero create delle succursali nelle isole limitrofe dell’arcipelago toscano, alla Gorgona e sull’isola di Montecristo. Quest’ultimo insediamento fu però abbandonato nel 1880. Negli anni successivi e fino al 1965, l’isola divenne un reclusorio per detenuti ammalati di tubercolosi. Ma la casa penale della Pianosa si è guadagnata anche la fama di carcere per detenuti politici. Nelle sue famigerate celle sono passati l’anarchico Giovanni Passannante, che nel 1878 tentò di accoltellare Umberto I, e durante il fascismo il socialista Sandro Pertini. Ma fu nel maggio 1977 che, insieme alla sezione “Fornelli” dell’Asinara, la diramazione “Agrippa” della Pianosa conquistò un posto centrale nel circuito delle carceri di “massima sicurezza”, ideato dal generale dei carabinieri Carlo Albero Dalla Chiesa. Nel giro di due giorni, grazie anche all’utilizzo di grandi elicotteri bimotori da trasporto truppe Chinook, i reparti dell’Arma trasferirono 600 prigionieri. Un decreto interministeriale, oltre ad attribuire poteri eccezionali a Dalla Chiesa, sospendeva le norme vigenti in materia di appalti e concessioni edilizie (qualcosa di simile è stato chiesto dall’attuale capo del Dap, Franco Ionta). Furono edificate sezioni di massima sicurezza, oltre alle già citate sezioni Fornelli e Agrippa, anche sull’isola di Favignana e nelle carceri di Cuneo, Fossombrone, Trani, Novara, Termini Imerese, Nuoro, Palmi, Messina. Un enorme giro di miliardi da cui scaturirono anni dopo inchieste giudiziarie sulle famose “carceri d’oro”. In un documento fatto pervenire all’esterno, i primi prigionieri politici rinchiusi a Pianosa descrivevano così il luogo: «si tratta di un’isola-carcere, nel senso che la totalità del suo territorio – circa 12 km quadrati – è adibito a istituto di pena. L’isola consta di 4 diramazioni indipendenti. 4 carceri nel carcere. La più grande di esse, chiamata “Agrippa”, dopo aver subito una completa ristrutturazione è divenuta un vero monumento al sadismo repressivo dello Stato borghese». Pianta a forma di quadrilatero, doppio muro di cinta sormontato da filo spinato e un numero sproporzionato di fari. All’interno, celle molto piccole con arredo cementato al pavimento e alle pareti, «mura dipinte con colori speciali che provocano menomazioni visive e disturbi psichici; aria ridotta a mezz’ora la mattina e mezz’ora il pomeriggio, in piccoli cortili. Non più di sei per volta». All’arrivo – scrivono sempre i detenuti – si viene «sottoposti a un brutale pestaggio, dimostrazione del potere assoluto della direzione carceraria». Testimonianze del genere si moltiplicarono negli anni successivi. Il 31 marzo 1981, all’interno della sezione Agrippa avvenne uno delle più brutali violenze della storia carceraria. In una dichiarazione resa pubblica dai familiari, tenuti lontani dall’isola per 15 giorni, si informava che 70 detenuti della sezione speciale erano stati rinchiusi in isolamento dopo essere stati denudati e bastonati e i loro effetti personali distrutti. Ancora nel 1992, quando sull’onda della nuova emergenza antimafia il braccio di massima sicurezza accolse detenuti accusati di appartenere alla criminalità organizzata, i racconti non si discostavano da quanto accaduto negli anni precedenti. «Un litro d’acqua da bere al giorno, 200 grammi di vitto con dentro cicche di sigarette e pezzettini di vetro. La domenica è il giorno più sicuro per consumare la cena, all’apparenza si presenta senza scorie, diversamente dal pranzo dove si trova sia nella pasta che nel secondo un po’ di tutto, tra sputi, cicche, carta, plastica, vetro, preservativi e spaghi» (cf. Il Carcere speciale, sensibili alle foglie 2006). Nel 1993 un rapporto di Amnesty International raccolse le testimonianze denunciando le brutalità subite dai reclusi della sezione Agrippa.

ricorrente

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Carcere, gli spettri del 41 bis
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Fine pena mai, l’ergastolo al quotidiano
Sprigionare la società
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