Dietro l’arresto dell’ex brigatista, oggi settantaduenne, Leonardo Bertulazzi ci sarebbe un patto tra Meloni e MIlei per salvare dalla giustizia argentina un prete italo-argentino coinvolto nei crimini della dittatura sudamericana degli anni 70. Il suo nome è Franco Reverberi, ultraottantenne emigrato giovanissimo in Argentina dove la sua famiglia si trasferì nel secondo dopoguerra in cerca di fortuna.
Il sacerdote assassino che benediva le torture
Nel nuovo continente il giovane Reverberi finì in seminario per poi prendere i voti e diventare parroco di Salto de Las Rosas, una piccola località sotto le Ande. Nel 1976, mentre il ventiquattrenne Bertulazzi lasciava Lotta continua, una formazione della estrema sinistra ormai in crisi per entrare nella nascente colonna genovese della Brigate rosse, don Reverberi, allora trentanovenne, sulla scia del golpe militare guidato dal generale Jorge Videla diventava cappellano militare, ausiliare dell’VIII squadra di esplorazione alpina di San Rafael. Nel 1980 – recitano le accuse della giustizia argentina – iniziò a frequentare il centro di detenzione clandestina “La Departamental”, una delle strutture utilizzate dal regime dittatoriale nell’ambito del “Piano Condor”. Un progetto di sterminio delle opposizioni politiche contro le dittature, portato avanti a colpi di arresti, sparizioni, torture di massa e omicidi dei militanti della sinistra rivoluzionaria, peronisti e radicali (almeno duemila le persone uccise e trentamila quelle scomparse, i cosiddetti desaparecidos). L’operazione concordata tra le dittature fasciste del Sud America (Cile, Argentina, Brasile, Bolivia, Paraguay e Perù) aveva la supervisione della Cia. Reverberi è stato accusato di aver partecipato nel 1976 al sequestro, seguito da torture e omicidio, di un giovane peronista, Josè Guillermo Beron. Secondo le testimonianze rilasciate da diversi sopravvissuti ai centri di detenzione della dittatura, il sacerdote era solito frequentare le stanze delle torture per assistere agli interrogatori leggendo passi della bibbia e invitando i seviziati a collaborare con i propri torturatori, perché questo sarebbe stato il volere di Dio. Finita la dittatura Reverberi riuscì a farsi dimenticare continuando a dire messa. Soltanto nel 2010 emersero le sue prime responsabilità, ma il prete fece in tempo a riparare in Italia per tornare a dire messa nella sua parrocchia natale, Sorbolo, un paesino in provincia di Parma, ospite di don Giuseppe Montali
Due pesi e due misure Raggiunto da una prima richiesta di estradizione, nel 2013 la magistratura italiana respingeva la domanda poiché non emergevano con nitidezza responsabilità dirette del sacerdote. Nell’ottobre 2023 tuttavia la cassazione confermava l’avviso favorevole a una nuova richiesta di estradizione, formulato in precedenza dalla corte d’appello di Bologna, che stavolta conteneva prove nuove sul suo coinvolgimento nella morte del giovane Beron e le torture inferte a nove detenuti. Secondo la cassazione i reati commessi da Reverberi si inserivano in «un sistema seriale di torture, catalogabili come crimini contro l’umanità, posti in essere nei confronti di dissidenti politici del regime militare allora al potere in Argentina, effettuate all’interno di una struttura penitenziaria adibita allo scopo e all’interno della quale vi era l’odierno estradando che svolgeva le funzioni di cappellano militare e che si assume avesse favorito l’operato dei militari». Ancora una volta però Reverberi riusciva a cavarsela: nel novembre dello stesso anno, infatti, sale alla presidenza della repubblica argentina l’esponente dell’ultradestra Javier Milei. Così nel gennaio 2024, il ministro della giustizia del governo Meloni, Carlo Nordio, a cui spettava la decisione finale, non concedeva l’estradizione del prete torturatore, a causa dell’età avanzata (86 anni) e del suo precario stato di salute. Una decisione solo in apparenza garantista, per altro in netto contrasto con l’attività persecutoria promossa dal governo italiano nei confronti di Leonardo Bertulazzi, condannato (leggi qui) – a differenza di Reverberi – solo per reati associativi e per il sequestro dell’armatore Pietro Costa, sulla base dei de relato di due pentiti che non avevano partecipato al fatto, anzi uno dei due non era ancora entrato nelle Brigate rosse quando avvenne.
Il patto dei Bravi I fatti appena elencati mostrano come la decisione di Nordio sia stata frutto di un accordo politico sancito dal caloroso tête-à-tête che Meloni e Milei hanno offerto ai fotografi durante le giornate del G7, tenutesi in Puglia lo scorso giugno 2024. Concessa l’immunità al torturatore Reverberi, come auspicato da Milei, la premier Meloni ha ricevuto in dono la cattura di Leonardo Bertulazzi in aperta violazione del ne bis in idem. La magistratura argentina, infatti, aveva già respinto la domanda di estradizione inviata nel 2002 perché incompatibile con il proprio ordinamento giudiziario, all’interno del quale non si prevede la possibilità di comminare condanne definitive in contumacia. Dopo questa decisione Bertulazzi aveva ottenuto nel 2004 lo status di rifugiato politico. Asilo improvvisamente revocato il giorno del suo nuovo arresto, il 24 agosto 2024, con un atto di puro arbitrio privo di qualsiasi fondamento giuridico. In questi giorni sulla stampa argentina sono emersi i primi retroscena di questa decisione. Secondo Tiempo argentino Luciana Litterio, fresca di nomina alla testa della commissione nazionale per i rifugiati (Conare), su designazione del ministro dell’Interno del governo Milei, avrebbe «ricevuto una chiamata che l’ha messa tra l’incudine e il martello. Il presidente della Repubblica, Javier Milei, gli ha chiesto, o forse gli ha ordinato, di revocare immediatamente lo status di rifugiato a Leonardo Bertulazzi». La nuova responsabile del Conare si sarebbe ritrovata con le spalle al muro – prosegue sempre il quotidiano argentino: «Litterio aveva due opzioni: ignorare la richiesta, rispettando così i patti internazionali firmati dal Paese e onorando il suo passato di accademica specializzata in rifugiati e migrazioni internazionali, con una carriera di 16 anni come responsabile degli affari internazionali presso la Direzione nazionale delle migrazioni. – carica per la quale fu nominata durante il primo mandato di Cristina Fernández e confermata da tutti i governi successivi –, o rispettare l’ordine presidenziale, gettando a mare la sua carriera e il suo prevedibile passaggio a un posto dirigenziale presso l’Unhcr o a un posto diplomatico nelle Nazioni unite».
Una nuova caccia mondiale ai comunisti La mancata estradizione di don Reverberi e il riarresto di Bertulazzi, nonostante l’asilo politico concesso, mostrano che nelle due vicende sono stati applicati registri diversi, privi di qualunque standard giuridico, ispirati solo da un feroce revanscismo anticomunista e dalla volontà di proteggere feroci criminali delle dittature sudamericane. A riprova di questo fatto ci sono le dichiarazioni rilasciate al Sussidiario.net dall’attuale capo di gabinetto del ministero della Sicurezza che ha coordinato l’arresto di Bertulazzi nella sua abitazione argentina, pochi minuti dopo la revoca dell’asilo politico. Secondo Carlos Manfroni, «il ministero della Sicurezza, che ha a capo Patricia Bullrich, ha preso la decisione di non proteggere più gli ex terroristi [comunisti rivoluzionari degli anni 70 ndr] dall’estradizione. Rispetto invece ai terroristi argentini [gli oppositori antifascisti della dittatura ndr], che hanno commesso crimini aberranti nella decade degli anni 70», Manfroni si rammarica del fatto che «sfortunatamente la Corte [argentina ndr] in quegli anni decise che le loro azioni criminali erano cadute in prescrizione e che non si trattava di delitti ascrivibili alla lesa umanità. Un criterio sul quale non sono d’accordo ma che al momento impedisce di incarcerarli».
I crimini del potere e quelli degli insorti Manfroni cita la giurisprudenza che la magistratura argentina ha prodotto negli anni della transizione postdittatura, secondo la quale i reati commessi dagli oppositori alla dittatura militare sono di fatto prescritti, a causa dei decenni trascorsi, mentre i crimini del potere dittatoriale (omicidi, torture e sparizioni), la cosiddetta «guerra sucia», commessi da membri del regime militare, restano tuttora perseguibili perché ritenuti crimini contro l’umanità, per questo imprescrittibili. Una giurisprudenza avanzatissima che, riprendendo i principi del diritto di resistenza, distingue tra violenza frutto della oppressione del potere statale e violenza dal basso commessa dagli insorti. A conclusione della sua intervista, Carlos Manfroni rivela anche la strategia concordata tra Milei e Meloni per giungere alla estradizione di Bertulazzi: «nel 2004 – spiega – l’ex Br non venne estradato perché in Italia era stato condannato in sua assenza. Ma secondo il trattato di estradizione tra Argentina e Italia, se l’Italia è pronta ad offrire un nuovo processo invece di usare la vecchia sentenza, Bertulazzi si può estradare e credo che questo, alla fine, sarà lo strumento che verrà usato». Tuttavia in Italia non esiste nessuna norma che preveda un nuovo processo dopo che è stata emessa una sentenza definitiva.
L’esperienza francese Un precedente recente e significativo che si è scontrato contro questo limite insormontabile riguarda il rifiuto della magistratura francese di estradare dieci ex militanti della sinistra armata italiana degli anni 70. Le corti francesi hanno preso atto della impossibilità da parte italiana di garantire un nuovo processo per chi è stato condannato in contumacia e per questo hanno negato le estradizioni richiamando il mancato rispetto della regola del giusto processo, indicato nell’art. 6 della convenzione europea dei diritti umani. A cui hanno aggiunto anche l’esigenza di tutelare i diritti acquisiti (art. 8) nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese (ovvero le innumerevoli decisioni giudiziarie, politiche e amministrative pronunciate nel tempo dalla autorità francesi). Precedente giuridico che i giudici argentini chiamati a giudicare il caso Bertulazzi non potranno certo ignorare.
Giulio Petrilli ci ha lasciato prematuramente questo notte a causa di una embolia polmonare. Ricoverato d’urgenza non ce l’ha fatta. Corpo possente da vero rugbista lo ricordiamo per la sua incredibile umanità, per la generosià debordante. Nonostante l’assoluzione finale, i sei anni di detenzione trascorsi nelle carceri speciali con l’accusa di partecipazione a banda armata l’avevano segnato. In prigione, nel 1984, era stato anche duramente picchiato dalla polizia penitenziaria dopo una fermata all’aria di protesta fatta con si suoi compagni per denunciare le condizioni di detenzione. Una volta uscito aveva speso tutte le sue energie nelle battaglie contro il carcere, la detenzione politica e per l’amministia, contro la cultura politica giustizialista che imperversava e imperversa in quel po’ che resta della sinistra, contro il populismo penale, pagando anche di persona, affrontando polemiche velenose e attacchi personali. Si è battuto fino all’ultimo contro il 41 bis, restando vicino e conducendo visite ispettive all’interno di queste sezioni speciali. Viveva come un tormento personale la reclusione di questi militanti, le loro condizioni di isolamento. Partendo dalla sua esperienza personale raccontata nell’articolo qui sotto, scritto il 3 ottobre del 2012, Giulio aveva avviato una lotta senza quartiere contro l’ingiusta detenzione. Nonostate l’assoluzione i giudici avevano rifiutato di risarcirgli i sei anni trascorsi nelle carceri speciali perché – avevano spiegato – il loro errore iniziale era stato indotto dalla sue pessime frequentazioni. Vicenda kafkiana che aveva acceso in lui un fuoco inesauribile che lo spingeva a battersi contro ogni forma di reclusione, di internamento, contro l’esilio, ma che al tempo stesso lo bruciava consumandolo. Ho conosciuto Giulio sulle strade intorno a L’Aquila quando mi recavo in Abruzzo durante i miei primi permessi. Ricordo la volta, poco dopo il terremoto, in cui mi portò nella zona rossa per farmi conoscere le ferite terribili inferte a quella città. E poi le tante telefonate, le discussioni, la sua voglia continua di riaprire battaglie come quella sull’amnistia. Giulio non si arrendeva mai. Ciao Giulio!
Dalla filosofia del diritto alla teologia giudiziaria. L’istituto del risarcimento per ingiusta detenzione è disatteso nella gran parte dei casi da una magistratura aggrappata al dogma della propria infallibilità
di Paolo Persichetti 3 ottobre 2012
Soltanto un terzo delle richieste di risarcimento per ingiusta detenzione trovano soddisfazione. E’ quanto emerge dagli ultimi dati forniti dall’Eurispes e dall’Unione delle camere penali italiane. Su una media di 2500 domande annuali (nel 2011 ne sono state presentate 2369) appena 800 vengono accolte. Il motivo è semplice e al tempo stesso sconcertante: l’Italia è l’unico paese in Europa dove l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è regolato da una clausola, inserita nel comma 1 dell’articolo 314 cpp, che esclude il risarcimento nei casi in cui il ricorrente «abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave». Secondo la norma per avere diritto al risarcimento non è sufficiente avere dalla propria parte una sentenza d’assoluzione irrevocabile, secondo una delle formule previste dal codice: il fatto non sussiste, oppure non è stato commesso o non costituisce reato o non è previsto dalla legge come tale. Non basta nemmeno che la giustizia abbia riconosciuto l’illegittimità della misura cautelare. Chi ha ingiustamente subito il carcere deve dimostrare di non aver tenuto un comportamento tale da aver tratto in inganno i magistrati con atteggiamenti omissivi o perché non si è avvalso delle funzioni difensive, che pure restano un diritto fondamentale della persona sottoposta a indagini o imputata, ma anche sotto il profilo delle proprie frequentazioni. Ciò vuol dire che le sentenze assolutorie non sono valutate come tali ma sottoposte ad un nuovo processo che conduce ad esaminare e giudicare sotto il profilo morale la personalità di chi è stato assolto, introducendo un criterio discriminatorio che inanella una serie impressionante di violazioni: dal ne bis in idem, all’invenzione di una sorta di quarto grado di giudizio capace di resuscitare la colpa al di là di ogni assoluzione fino all’inversione dell’onere della prova. Nel giugno scorso, la quinta sezione penale della corte d’appello di Milano ha rigettato l’istanza di risarcimento per ingiusta detenzione di una persona assolta in via definitiva dopo aver trascorso 6 anni nelle carceri speciali, sostenendo che «nessun diritto alla riparazione spetta a chi, frequentando terroristi, o comunque soggetti appartenenti all’antagonismo politico illegale, abbia colposamente creato l’apparenza di una situazione che non poteva procurare l’intervento dell’Autorità giudiziaria. Poco importa, ai fini che qui interessano, l’esito del giudizio penale. Occorre distinguere – prosegue il collegio – l’operazione logica compiuta dal giudice del processo penale da quella, diversa, del giudice della riparazione. La reciproca autonomia dei due giudizi comporta che una medesima condotta possa essere considerata, dal giudice della riparazione come contributo idoneo ad integrare la causa ostativa del riconoscimento del diritto alla riparazione e, dal giudice del processo penale, elemento non sufficiente ad affermare la responsabilità penale». I magistrati hanno teorizzato un doppio criterio di giudizio: il primo sottoposto alle vigenti leggi processuali; il secondo che riabilita la colpa tipologica è non si cura degli effetti legali dell’assoluzione, che seppure elimina la colpa mantiene il sospetto e soprattutto conserva la responsabilità. Siamo di fronte ad un perenne “diritto del nemico” che trasforma in un accessorio a geometria variabile la presunzione d’innocenza recepita dall’art. 27 della costituzione. Chi viene assolto per reati avvenuti in luoghi dove è presente la criminalità organizzata, diventa responsabile del fatto di aver frequentato contesti che brulicano di pregiudicati; chi è assolto da reati di eversione, se ha frequentato luoghi di conflitto, recepito culture antagoniste, anticonformiste e irregolari secondo la norma politico-morale dominante, è ritenuto responsabile di una corrività ambientale che ha indotto la coscienza del giudice a sbagliare. E’ una colpa di natura etico-morale quella che qui viene scovata e sanzionata con il mancato risarcimento. Non sfugge che attraverso questo dogma dell’infallibilità assoluta del giudice, come fu per il concilio Vaticano I° che nel 1870 introdusse l’infallibilità ex cathedra del pontefice, si opera il passaggio dalla filosofia del diritto alla teologia giudiziaria. Un’arrogante pretesa che spiega l’errore ricorrendo all’alibi della “colpa apparente”, giustificata non da una cattiva valutazione degli elementi probabotori a carico o discarico ma dalla doppiezza e dall’ambiguità della persona sottoposta a indagine o giudizio, alla stregua del maligno che con le sue arti malefiche confonde e trae il mondo in inganno. Sarebbe tempo di riportare la giustizia dalle sfere della santità celeste ad una più terrestre dimensione profana.
Il governo francese insiste, la Procura generale presenta ricorso in cassazione contro l’avviso sfavorevole all’estradizione dei militanti d’estrema sinistra coinvolti nella lotta armata degli anni 70. Intanto lunedì 11 luglio alle ore 11 nei locali delle Edizioni Actes Sud, 60-62 Avenue de Saxe, Paris 15 Arrondissement, per denunciare l’ingerenza dell’esecutivo nella decisione della Corte d’appello. Alla conferenza stampa saranno presenti Paul Brétecher (psichiatra), Jean-Paul Chagnollaud (professore di scienze politiche), Pierre Lemaître (scrittore), Éric Vuillard (scrittore). Saranno letti i messaggi di sostegno di Annie Ernaux (scrittrice) e di Michèle Riot-Sarcey (storica). Saranno inoltre presenti gli avvocati Irène Terrel e Antoine Comte
EP
Christophe Ayad, Le Monde 7 luglio 2022
I dieci militanti di estrema sinistra rifugiati in Francia e reclamati da Roma pensavano di non aver più problemi con la giustizia, almeno per qualche anno. Mercoledì 29 giugno, infatti, la corte di appello di Parigi aveva reso un avviso sfavorevole alla loro estradizione verso l’Italia dove avrebbero dovuto scontare delle condanne pronunciate in loro assenza per delle azioni di terrorismo risalenti agli anni 70 e 80. Ma il Procuratore generale Rémy Heitz ha deciso di ricorrere in cassazione contro la decisione della Corte d’appello, come annunciato in un comunicato reso pubblico lunedì 4 luglio. Il ricorso, molto raro in questo tipo di circostanze, ha provocato lo stupore e la collera degli avvocati degli «esiliati» italiani. «Mai in tutta la mia carriera ho ottenuto ragione in un ricorso in cassazione sulla decisione di una corte d’appello in materia di estradizione – ha dichiarato Irène Terrel, avvocata di sette dei dieci militanti italiani – E’ incredibile!». Antoine Comte è anche lui stupefatto: «In materia d’estradizione – sottolinea l’avvocato – il ricorso è chiaramente limitato a delle questioni formali dallo stesso codice di procedura penale». L’articolo 696-15 stipula, infatti, che una eventuale cassazione può pronunciarsi solo sugli aspetti legali della decisione. In sostanza può verificare solo se esistono dei «vizi di forma». Gli avvocati dei militanti italiani, di cui fa parte anche Jean Louis Chalanset, restano fiduciosi sul fatto che la sezione criminale della Corte di cassazione non annullerà la decisione della Corte d’appello favorevole ai loro clienti. Tutti e tre i legali tengono a sottolineare la solidità del lavoro svolto dai giudici d’appello. «Hanno lavorato un anno su questo dossier e le loro motivazioni sono eccellenti, sottolinea l’avvocato Terrel. Il diritto a un processo equo fa riferimento alla incapacità dell’Italia di organizzare dei nuovi processi in condizioni accettabili, trenta o quaranta anni dopo i fatti. La corte evoca anche la nozione di periodo di tempo ragionevole. Infine il riferimento alla stabilità della vita familiare apre le porte ad un riconoscimento dell’asilo di cui queste persone hanno beneficiato in Francia».
Accanimento Per tutte queste ragioni gli avvocati della difesa ritengono che il ricorso risponda soprattutto a degli imput politici. L’avvocato Chalaset denuncia «una ingerenza dell’esecutivo nel giudiziario [che] infrange la separazione dei poteri. La procura generale ha dovuto ricevere delle istruzioni dal Guardasigilli», ha dichiarato alla Agenzia France presse. Per l’avvocato Comte si tratta di un «accanimento» che si spiega con «la volontà di fare un piacere allo Stato italiano». Per l’avvocato rappresentante dello Stato italiano (una novità assoluta nei processi di estradizione), William Julié, questo «ricorso è necessario», poiché la sezione istruttoria della corte d’appello «senza negare la gravità dei crimini» imputati ai dieci anziani militanti, «ritiene che i poroblemi di ordine pubblico siano attenuati dal tempo trascorso». Ora – spiega sempre l’avvocato che ha difeso gli interessi dell’Italia, «Il tempo trascorso si spiega con un’assenza di cooperazione della Francia». In maniera del tutto irrituale l’esecutivo ha chiaramente manifestato la sua volontà. Giovedì 30 giugno, nel corso della conferenza stampa tenuta alla fine del vertice della Nato a Madrid, Emmanuel Macron ha chiesto di valutare «se un ricorso in cassazione fosse possibile» o «se ci fossero ancora delle vie giurisdizionali che ci permettessero di andare più lontano». «Ho appoggiato la domanda del governo italiano su questi brigatisti» in favore dello loro estradizione, ha ripetuto come in ogni altra occasione in cui si espresso su questo argomento. E’ molto raro che un presidente della Repubblica si esprima su una decisione di giustizia e chieda di capovolgerla. «Si tratta di un giudizio che getta un discredito politico sui magistrati», replica duramente l’avvocato Terrel. «Si esprime disprezzo per le decisioni di giustizia, si tratta di una interferenza politica netta». L’Eliseo rivendica completamente la sua presa di posizione, in linea con tutte quelle assunte in precedenza su questo dossier ancora sensibile per l’Italia. In passato Emmanuel Macron aveva persino censurato quelle che a suo dire erano le «visioni romantiche» e la presenza di «compiacimento» dell’intelighentia francese nei confronti del terrorismo d’estrema sinistra in Italia. Il Guardasigilli Eric Dupond-Moretti era arrivato a comparare gli ex brigatisti ai jiadisti del 13 novembre 2015 [massacro del Bataclan], in un raffronto tanto discutibile quanto disonesto storicamente. Nella sua battaglia contro la prescrizione e l’impunità Emmanule Macron riformula la «dottrina Mitterrand», la regola non scritta che nel 1985 ha definito le condizioni d’accoglienza degli anziani attivisti italiani. L’attuale capo dello Stato vi aggiunge l’esclusione dei reati di sangue che non fu mai enunciata all’epoca – si trattava, in realtà, della rinuncia alla lotta armata – tra le condizioni che consentivano alla Francia di accordare il suo asilo. «Nello specifico queste persone sono state implicate in crimini di sangue e meritano di essere giudicate sul suolo italiano. Si tratta del rispetto che noi dobbiamo alle famiglie delle vittime e alla nazione italiana», ha dichiarato a Madrid. Ma è proprio in nome della dottrina Mitterrand che i suoi predecessori hanno rifiutato di riconsegnare a Roma quegli uomini e quelle donne condannati in Italia per dei crimini di sangue e che la giustizia francese, in alcuni casi, aveva ritenuto estraibili. «C’è una strana dissonanza in questo Presidente che vuole riconciliare le memorie sulla guerra d’Algeria e ripianare quella sul genocidio in Ruanda ma non accetta le decisioni della giustizia francese sugli anni di piombo», constata Antoine Comte.
Agli smemorati che si indignano per la decisione della cassazione di Parigi di chiudere definitivamente il contenzioso con l’Italia sulle richieste di estradizione dei dieci ex militanti di gruppi armati di sinistra degli anni 70, riparati in Francia da diversi decenni, vale la pena ricordare che anche l’Italia negli anni 60 offrì protezione e rifiutò di estradare gli esponenti dell’Oas che attentarono contro il presidente francese De Gaulle oppure sul fronte opposto gli esponenti del Fronte di liberazione nazionale algerino
Esattamente un anno fa, nella serata di lunedì 28 marzo 2022 la rete televisiva pubblica francese France 2 ha trasmesso una inchiesta giornalistica all’interno di un format mensile di approfondimento, Affaires sensibles, dal titolo: «Brigate rosse, la fine dell’esilio?». Per circa 70 minuti gli spettatori d’Oltralpe hanno visto scorrere immagini che provavano a riassumere oltre 40 anni di politica d’asilo informale offerta ai rifugiati italiani degli anni 70, nota come «dottrina Mitterrand», anche se non si è mai trattato di una dottrina codificata ma di una politica di fatto, perseguita con alcune rilevanti eccezioni da ben quattro presidenti della Repubblica: Mitterrand, Chirac, Sarkozy e Hollande. Un dibattito tra l’avvocato e presidente onorario della Ligue des droits de l’homme, Henri Leclerc, e il giornalista della Stampa Paolo Levi, chiudeva la trasmissione. Il primo chiamato a difendere le ragioni giuridiche, politiche e umane di questa politica d’accoglienza, il secondo a dare voce un po’ sguaiata alle ragioni avverse dello Stato italiano. Nel tentativo di trovare argomenti suggestivi in favore della estradizione degli ex militanti italiani, ormai integrati da decenni nella società francese, il giornalista Paolo Levi ha paragonato le azioni mirate dei gruppi armati della sinistra dell’epoca, rivolte contro obiettivi selezionati delle gerarchie economiche, politiche e statuali italiane, a quelle indiscriminate dei jihadisti che dagli anni 90 in poi hanno insanguinato le città francesi, fino al massacro del Bataclan, molto più simili per la loro natura stragista alle bombe che in Italia fascisti e apparati dello Stato hanno disseminato nelle piazze e stazioni nei primi anni 70, provocando centinaia di morti e feriti. Preso dalla foga, l’inviato de la Stampa ha provocatoriamente chiesto cosa mai avrebbe pensato l’opinione pubblica francese se gli autori del massacro del Bataclan avessero trovato ospitalità in Francia. Levi avrebbe fatto bene a leggere qualche libro in più prima di lanciarsi in simili incauti paragoni, perché qualcosa di simile è già accaduto in passato. Durante la guerra d’Algeria, in Italia trovarono ospitalità e sostegno esponenti importanti dell’Oas, una organizzazione clandestina della destra francese messa in piedi da membri dell’Esercito e dei Servizi segreti contrari all’indipendenza dell’Algeria. La loro presenza in Italia era sottoposta alla stretta sorveglianza dell’Ufficio affari riservati, recenti studi hanno dimostrato che si avvalevano anche del sostegno del Sifar. Quando le autorità italiane non poterono fare a meno di arrestarli per le loro attività cospirative contro il presidente francese De Gaulle e persino contro Enrico Mattei, odiato per il sostegno che attraverso l’Eni forniva alle forze nazionali algerine, evitarono di estradarli favorendo la loro partenza verso Paesi amici o neutri. Uno di loro, Jean-Jacques Susini, beneficiò di una notevole impunità sul territorio italiano anche quando le autorità furono informate del suo coinvolgimento nel fallito attentato contro De Gaulle presso il monumento commemorativo del Monte Faron, a Tolone. Azione concepita in territorio italiano (1). Susini rimase quattro anni in Italia sotto la benevola protezione dalla polizia nonostante le condanne del Tribunale per la sicurezza dello Stato francese. Al suo arrivo all’Eliseo, nel 1981, François Mitterrand ripagò l’Italia con la stessa moneta, con la differenza che i fuoriusciti italiani non hanno utilizzato il territorio francese come retroterra per fare incursioni in Italia. Di fronte al flusso di rifugiati politici che traversavano le Alpi, fece del suolo francese una sorta di camera di decompressione del conflitto che dilagava in Italia, rifiutando le estradizioni nell’attesa di un’amnistia. «Al di la della risposta giudiziaria – ha spiegato una volta consigliere giuridico dell’Eliseo Louis Joinet, vero architetto di questa politica d’asilo – si trattava di facilitare il cammino di chi tentava di uscire dalla lotta armata per andare verso una soluzione politica. L’importante era non marginalizzare quelli che avevano una riflessione politica».
1 Pauline Picco, Liaisons dangereuses, Les extrême droites en France et en Italie, 1960-1984I, Presses universitaires de Rennes, Rennes, coll. « Histoire », 2016.
I bolliti dell’antiterrorismo e la pena prescritta. Ci hanno provato come al solito, la pena stava per prescriversi allora in tutta fretta la procura di Milano ha avuto la geniale di idea di chiedere l’applicazione di una nuova pena, una pena accessoria coniata ai tempi del fascismo e rimasta intatta successivamente. Che cosa è una pena accessoria? Una pena che si commina in assenza di reato. Si tratta di una misura afflittiva tipologica, ovvero applicata sulla base di un giudizio prognostico sulla personalità del reo, una volta che questi ha terminato di scontare la propria condanna. Può essere una pena infinita, detta anche «ergastolo bianco», poiché rinnovabile di volta in volta sulla base di valutazioni sulla indole della persona. Insomma è una pena comminata non per quello che si è fatto ma per l’idea che magistratura e polizia hanno della persona. Torniamo a Bergamin e all’operazione “Ombre rosse”: la procura dopo aver abusivamente chiesto l’applicazione della delinquenza abituale, comma che avrebbe impedito il riconoscimento della prescrizione della pena ma che la corte d’appello ha censurato nel merito, ha ottenuto dal magistrato di sorveglianza l’erogazione di una nuova pena di 2 anni di casa lavoro. Che cosa è una casa lavoro? Una prigione dove l’internato sottoposto ad un normale regime detentivo durante il giorno deve (dovrebbe) la vorare. Insomma dei lavori forzati. Nel caso di Bergamin tuttavia il magistrato di sorveglianza si è dilungato in una particolareggiata descrizione del trattamento restrittivo che gli dovrà essere riservato, una sorta di 41 bis. Su questa decisione pende ora un ricorso che verrà discusso nei prossimi giorni e che alla luce del pronunciamento della corte d’appello ha poche chances di essere confermato. Nel caso ciò avvenisse i giudici francesi della Chambre d’accusation, dove pende la richiesta di estradizione, dovranno pronunciarsi sulla legittimità di una condanna del genere sopravenuta dopo trent’anni dal passato in giudicato. Sarà molto difficile!
Viste le reazioni scomposte che hanno accompagnato l’indegna retata parigina del 28 aprile 2021 abbiamo chiesto a Enzo Traverso – tra i massimi storici del mondo contemporanea – di ragionare insieme sulla «stagione della conflittualità» tra storia, memoria, politica e giustizia. Tra questi termini il grande convitato di pietra è infatti la storia, cioè il lavoro di comprensione degli eventi del passato. In che senso l’arresto di un pugno di uomini e donne dai capelli bianchi aiuterebbe l’Italia a «fare i conti con la Storia» – se non proprio col Novecento – come hanno scritto alcuni? Da una parte questi ex militanti politici sono trattati come criminali comuni secondo i dettami di un’ideologia presentista tra le più becere e ignoranti. Dall’altra è convocata (impropriamente) tutta la panoplia dei memory studies per imporre una narrazione del trauma, fondata sul paradigma vittimario. In base a che cosa si dice che nella società italiana ci sarebbe una ferita aperta rispetto agli anni Settanta? Come in Francia per l’occupazione dell’Algeria, sembra piuttosto che si tratti di esplicito uso politico della storia, che niente ha a che fare con i processi sociali reali di elaborazione della memoria. Intorno a questi temi, a partire dalla ‘retata parigina’, abbiamo intervistato Enzo Traverso per tentare di andare oltre il monologo collettivo che imperversa nel dibattito pubblico. (Ringraziamo Arianna Lodeserto e raspou.team per le immagini della Comune)
Donne e uomini coi capelli grigi, tra i 60 e i 78 anni, tradotti in manette, all’alba, nelle camere di sicurezza dell’antiterrorismo. «Ombre rosse» è il nome scelto per la retata con cui, il 28 aprile 2021, sono stati arrestati 7 ex militanti della sinistra rivoluzionaria rifugiati in Francia da anni e accusati dalla giustizia italiana di una serie di delitti che vanno dall’associazione sovversiva all’omicidio commessi, secondo l’accusa, tra il 1972 e il 1982. Si tratta di «chiudere con il Novecento», come scrive «la Repubblica»? Il Novecento è chiuso dal lontano 1989, quando cadde il muro di Berlino e finì la guerra fredda. Da allora il mondo è cambiato e con lui l’Italia, che non è più quella di trentadue anni fa. Sotto molti aspetti è ben peggiore: quelle che i media definiscono abitualmente la “seconda” e la “terza” repubblica ci fanno rimpiangere la prima, creata da uomini e donne che avevano combattuto il fascismo e creato un paese nuovo. L’eredità del Novecento rimane tuttavia soverchiante e molti mali strutturali continuano ad affliggere il nostro paese. Basti pensare alla mafia, alla questione meridionale, al razzismo, alla corruzione. Alcuni si sono aggravati, se pensiamo alla disoccupazione giovanile e al razzismo postcoloniale, molto più forte da quando il paese è diventato terra di immigrazione. Durante la seconda metà del Novecento, l’Italia era entrata a far parte del mondo occidentale più ricco; da trent’anni a questa parte se ne sta allontanando: conosce un costante declino demografico ma non vuole integrare gli immigrati, non concedendo la cittadinanza neppure a quelli di seconda generazione; le sue élite invecchiano, ma i giovani rimangono esclusi, e la penisola conosce una diaspora intellettuale impressionante, simile a quella dei paesi del Sud; le élite economiche si sono enormemente arricchite senza produrre sviluppo. Di queste élite, «Repubblica» è uno degli specchi più fedeli, poiché ormai è l’amministratore delegato della Fiat che annuncia pubblicamente la nomina dei direttori di questo quotidiano. “Chiudere con il Novecento” significa affrontare questo nodo di problemi. Per «Repubblica» pare invece che significhi l’estradizione di Marina Petrella, Giorgio Pietrostefani e qualche altro rifugiato.
Nel panorama della politica istituzionale così come nella stampa italiana le reazioni sono state senza sorprese unanimi: «Il dovere di fare i conti con la storia» (Ezio Mauro) «dopo ferite particolarmente dolorose» (Marta Cartabia), ecc. Ti occupi ormai da molti anni del rapporto tra storia, memoria, giustizia e politica (utilissimo il tuo Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, pubblicato in italiano da Ombre corte nel 2006). Cosa pensi di questo linguaggio e questo uso della memoria? C’è davvero una ferita da rimarginare? Per chi appartiene alla mia generazione e ha vissuto quegli anni, non c’è dubbio che si tratti di ferite dolorose che non si sono ancora rimarginate. Gli esuli arrestati in Francia sono i primi a riconoscerlo. Il problema è come fare i conti con la storia. Mario Calabresi, figlio del commissario assassinato nel 1972, ha dichiarato che la notizia dell’arresto di Giorgio Pietrostefani non ha suscitato in lui nessun sentimento di sollievo, soddisfazione, riparazione o giustizia, soltanto pena e imbarazzo. In Italia, i media e la cultura ufficiale — quelli che Althusser chiamava gli “apparati ideologici di Stato” — non hanno saputo e soprattutto non hanno voluto elaborare la memoria degli anni di piombo. Hanno soltanto accompagnato ondate successive di leggi speciali e arresti, dipingendo come mostri i “nemici dello Stato”. I pentiti hanno ovviamente svolto il loro ruolo in questo dispositivo. Gli ex terroristi, insieme a pochi storici, tra i quali vorrei ricordare Giovanni De Luna, sono probabilmente tra i pochi che hanno dato un vero contributo alla conoscenza, alla comprensione e alla costruzione di una memoria critica di quegli anni. Gli ex brigatisti hanno ammesso i loro delitti, talvolta i loro crimini, hanno riflettuto sui loro errori, hanno cercato di capire e spiegare le ragioni delle loro scelte. L’intervista di Rossana Rossanda e Carla Mosca a Mario Moretti (1994) è molto più utile, sotto questo aspetto, di tutti gli articoli pubblicati da «Repubblica» e «Il Corriere della Sera» durante mezzo secolo. Non ho letto l’articolo di Ezio Mauro, ma chi possiede un minimo di onestà intellettuale dovrebbe riconoscere che “il dovere di fare i conti col passato” significa ben altra cosa di una repressione a scoppio ritardato, a oltre due generazioni di distanza dai fatti avvenuti. In questi giorni si commemora l’anniversario della Comune di Parigi. La mia impressione è che i media e il mondo politico, in Italia, continuino, a cinquant’anni di distanza, a esorcizzare il terrorismo come la cultura francese fece nei confronti della Comune negli anni settanta dell’Ottocento. La Comune non era una rivoluzione né il prodotto di una crisi sociale e politica, era un’epidemia, la propagazione di un virus contagioso che bisognava sconfiggere con i metodi più drastici. I comunardi non avevano un progetto politico, erano “licantropi”, bestie feroci, pazzi assetati di sangue, nemici della civiltà, piromani eccitati dall’alcol. La repressione fu brutale, ma dieci anni dopo la Terza Repubblica decretò un’amnistia e i comunardi rientrarono dall’esilio e dalla deportazione. La Comune venne addirittura rivendicata come un’esperienza fondatrice della Repubblica. Mi sembra che in Italia il terrorismo e la violenza politica degli anni settanta continuino a essere visti con lo stesso sguardo miope e vendicativo di cinquant’anni fa. I terroristi sono mostri che devono pagare il loro debito con la giustizia. Se questo è il messaggio che si vuole trasmettere a chi non ha vissuto quegli anni, si tratta a mio avviso del modo peggiore di assolvere al “dovere di fare i conti col passato”.
Un altro capitolo di quel tuo saggio su storia, memoria, politica è dedicato al rapporto tra «verità e giustizia». La ‘giuridicizzazione del passato’ (Henry Rousso) è un fenomeno inversamente proporzionale al collasso dell’orizzonte d’attesa, alla canzonetta sulla ‘fine delle ideologie’ che è l’architrave teorico su cui si fonda il ‘realismo capitalista’ di cui parla Mark Fisher. È questa la chiave con cui leggere la retata parigina? Pensare di poter rispondere oggi, sul piano giuridico, all’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta e a quello del commissario Calabresi, mettendo in carcere gli ultimi esuli, è espressione innanzi tutto della cecità e dell’incomprensione di cui ho appena parlato. Ma questa cecità e questa incomprensione non sono ovviamente frutto di ingenuità, sono state perseguite per decenni. È anacronistico pensare di poter rispondere nel 2021, sul piano giudiziario, a fatti avvenuti negli anni settanta. Se si accetta il principio della loro imprescrittibilità, assimilando di conseguenza questi fatti a crimini contro l’umanità, si entra in un groviglio di contraddizioni indistricabili. Pietrostefani e Petrella = Eichmann? Nel 1946, Palmiro Togliatti, ministro di grazia e giustizia del primo governo repubblicano, promulgò un’amnistia nei confronti di chi si era macchiato dei peggiori crimini fascisti durante la guerra civile. Come giustificare l’accanimento persecutorio, a decenni di distanza, nei confronti dei protagonisti degli anni di piombo che si sono rifugiati in Francia? Dai tempi antichi — pensiamo alle guerre del Peloponneso — l’amnistia ha sempre concluso le guerre civili e le crisi politiche segnate dalla violenza. La legge di amnistia promulgata da Togliatti nel 1946 si inscriveva in una tendenza generale e aveva equivalenti in tutta Europa. Collaborazionisti ed ex fascisti riempivano prefetture, questure e uffici governativi di tutto il continente fino agli anni settanta. In Italia, ha sottolineato Paul Ginsborg (1989), all’inizio degli anni sessanta, la totalità dei prefetti erano stati alti funzionari del regime fascista. In Spagna, durante la transizione alla democrazia, l’amnistia riguardò sia gli esuli antifascisti sia i responsabili del regime franchista. La fine del Novecento ha visto nascere, in Sudafrica, uno sguardo nuovo, diverso, per cercare di “fare i conti col passato” e rimarginarne le ferite. Dopo la fine dell’Apartheid, questo paese ha creato commissioni di verità e giustizia che escludevano inchieste giudiziarie e condanne penali in cambio dell’accertamento della verità. L’esempio sudafricano è stato seguito da molti paesi, soprattutto in America latina, dal Perù alla Colombia. Si tratta ovviamente di esperienze storiche non sovrapponibili, ma il principio rimane fruttuoso per uscire da una crisi e “fare i conti col passato”. In Italia, questo principio non è mai stato discusso. Il paradosso italiano è che i soli ad aver raccontato la loro esperienza sono gli ex brigatisti, non i loro nemici. Lo Stato non ha fatto nulla o quasi per chiarire le trame golpiste, le infiltrazioni neofasciste, le “deviazioni” dei servizi segreti, la messa in atto della “strategia della tensione”, le violenze neofasciste che beneficiavano di coperture in seno agli apparati statali e che hanno fatto molte più vittime del terrorismo di sinistra. Nessuno ha mai chiesto allo Stato di spiegare le centinaia di morti (militanti, giovani, studenti, operai) uccisi in quegli anni dalle forze di polizia. Chi rivendica “il dovere di fare i conti col passato” dovrebbe porsi queste domande. Questa “patologia” italiana ha tuttavia una spiegazione. Lo Stato è inflessibile contro i suoi nemici, molto accomodante o compiacente nei confronti delle violenze messe in atto dai propri agenti e rappresentanti. Le trame golpiste e la collusione degli apparati dello Stato con i gruppi neofascisti che mettono le bombe nei treni vanno nascoste; la persecuzione dei terroristi di sinistra rafforza invece la solidità delle istituzioni. Questo non vale soltanto per l’Italia. Molti studi hanno messo in luce come, nella Repubblica federale tedesca, le condanne inflitte ai membri della Raf superino di gran lunga quelle emesse tra il 1949 e il 1979 nei confronti degli ex nazisti. Quando parliamo di “memoria” semplifichiamo sempre: la memoria è complessa, eterogenea, divisa. C’è la memoria degli ex terroristi e delle loro vittime (e la “post-memoria” dei loro figli); c’è la memoria collettiva dei movimenti sociali, ormai sopita o estinta; c’è la memoria culturale che plasma la sfera pubblica; e c’è anche la memoria delle istituzioni, la memoria dello Stato, che in tutta questa vicenda è probabilmente la più reticente. Ciò spiega anche perché chi si è rifugiato in Francia, alcuni decenni fa, non si voleva consegnare a una giustizia che non nascondeva la sua volontà persecutoria ma offriva ben poche garanzie di imparzialità. Una giustizia che non appariva credibile, come ha dimostrato Carlo Ginzburg in un famoso saggio sul processo Sofri (1991). Basti pensare al ruolo svolto dai pentiti in tanti processi. Non credo si possa dire semplicemente che i rifugiati si sono “sottratti alla giustizia”.
Nelle ultime righe dell’introduzione di un altro tuo saggio fondamentale (2007) rievochi brevemente la tua esperienza di ‘militante rivoluzionario’ del secondo Novecento quando il mondo vi sembrava attraversato da una nuova ‘guerra civile’. Nella narrazione intonata in coro alla notizia degli arresti, non manca l’altra parte, il contesto? Contro chi e perché combattevano questi uomini e queste donne? Sì, manca il contesto: si sta discutendo di vicende che risalgono a più di quarant’anni fa, ossia due generazioni, ma che non sono ancora “storicizzate”. Esse non sono depositate in un passato di cui si conosca il profilo e al quale, soprattutto, si riesca ad attribuire un senso. I rifugiati hanno ricostruito, fra molte difficoltà, la loro esistenza; hanno riflettuto sulla loro esperienza; continuano a fare i conti con la loro coscienza. Le vittime e le loro famiglie sono rimaste con il loro dolore. Ma la storicizzazione — l’elaborazione del passato per farlo entrare nella storia — significa appunto andare oltre i sentimenti. È questa la condizione perché questi stessi sentimenti possano trovare accoglienza in uno spazio collettivo, dentro una coscienza storica, dentro la consapevolezza che un ciclo è finito. La mia impressione è che in Italia la giustizia sia stata un ostacolo a questa elaborazione del lutto, a un processo di ricostruzione del passato che permetta finalmente di possederne una coscienza storica. La violenza politica degli anni settanta era parte di una stagione politica che si è conclusa con una sconfitta della sinistra, del movimento operaio, dei movimenti alternativi. Questa sconfitta non è mai stata elaborata. Questo passato è stato rimosso. Ad alcuni decenni di distanza, il congresso con il quale il Pci decise di cambiare nome non appare come la sua “Bad Godesberg” ma piuttosto come una cerimonia di esorcismo. Potremmo parlare, in termini psicoanalitici, di “rimozione”. Gli anni di piombo sono stati inghiottiti da questa rimozione e sono entrati nelle cronache (e in archivi incompleti o inesplorati), non nella nostra coscienza storica. Non voglio schivare la domanda personale, per quanto del tutto secondaria. Ricordo bene gli anni settanta, che sono gli anni della mia giovinezza. Ho partecipato alla mia prima manifestazione nel 1973, quando avevo sedici anni. Non ho mai avuto la tentazione del terrorismo e ho sempre criticato la scelta della lotta armata, non per ragioni di principio ma perché mi sembrava strategicamente e tatticamente sbagliata. A partire dal 1979, buona parte della mia attività politica consisteva nel partecipare ad assemblee e manifestazioni contro la repressione. Non mi piaceva lo slogan “né con le Br né con lo Stato” perché stabiliva un’equazione tra due entità incommensurabili che non potevano essere combattute con gli stessi metodi. Retrospettivamente, credo sia evidente non soltanto che la scelta della lotta armata fu nefasta e suicida, ma anche che contribuì largamente ad affossare i movimenti di protesta e a congelare una conflittualità politica diffusa. Le Br erano nate in una stagione di lotte come uno spezzone del movimento operaio, un gruppo che si considerava un’“avanguardia” e praticava l’“azione esemplare” o la “propaganda del fatto” per radicalizzare lo scontro sociale. Tendenze simili erano già apparse da almeno un secolo in diversi paesi, soprattutto in seno all’anarchismo. Uno storico come Mike Davis ne ha fornito un repertorio impressionante (2007). In Italia queste pratiche sono passate al setaccio della memoria della Resistenza e della cultura comunista, ed è per questo che le Brigate rosse non facevano esplodere bombe ma selezionavano i loro bersagli. A poco a poco, per sfuggire alla repressione poliziesca, quindi per ragioni pratiche che furono teorizzate soltanto a posteriori, le Br si trasformarono in un’organizzazione clandestina, separata dai movimenti, che conduceva da sola la sua guerra contro lo Stato. È così rimasta risucchiata da una spirale il cui esito non poteva essere che il suo annientamento da parte dello Stato. Una parte della sinistra radicale si illuse di poter “cavalcare” o “usare” il terrorismo: le Br scardinavano lo Stato, bisognava tenersi pronti alle sollevazioni che ne sarebbero seguite. Questi calcoli erano sbagliati e il prezzo di questi errori è stato molto alto. Ma questa è saggezza retrospettiva. Io ero trotskista, ossia facevo parte di un movimento che criticava la lotta armata. A differenza di altri paesi, il trotskismo era minoritario in Italia, dove rimaneva intellettualmente insignificante rispetto alla creatività teorica dell’operaismo e politicamente marginale rispetto a movimenti che sperimentavano pratiche nuove, come Lotta continua. Il trotskismo possedeva tuttavia una coscienza storica più profonda che metteva in guardia contro alcuni rischi, come una sorta di vaccino. Ma dire questo non significa vantare dei meriti. In quegli anni, l’adesione a un gruppo politico non era soltanto il frutto di una scelta ideologica, dipendeva da mille circostanze, spesso non immediatamente ideologiche (le emozioni e le forme della socializzazione svolgono un ruolo molto importante nella politica) e talvolta puramente casuali. Non ho difficoltà ad ammettere che, in circostanze diverse ma perfettamente possibili, mi sarei ritrovato non soltanto con un casco durante una manifestazione ma anche con una pistola nella borsa. Perciò non posso sentirmi estraneo a questa vicenda e credo che, facendo prova di un minimo di onestà intellettuale, lo stesso debbano dire alcune decine di migliaia di persone che appartengono alla mia generazione.
Hai vissuto per molti anni in Francia prima di emigrare di nuovo, questa volta negli Stati uniti. La retata del 28 aprile ha più a che fare con le prossime elezioni presidenziali francesi oppure si inscrive in logiche interne alla politica italiana? Credo che i rifugiati italiani in Francia siano oggetto di un mercanteggio politico assai meschino. Draghi vuole legittimarsi come statista e provare che in poche settimane è riuscito a ottenere ciò che i governi italiani chiedevano da anni. In vista di una sua futura elezione alla presidenza della Repubblica, la mossa è astuta. Macron vuole fornire un’ulteriore conferma della svolta autoritaria che lo induce oggi, in vista di una possibile rielezione, a mostrarsi più repressivo della destra e perfino dell’estrema destra. Nessuna indulgenza nei confronti dei “terroristi”, anche quelli che hanno cessato di esserlo da oltre quarant’anni, che non si sono mai nascosti, che rispettano le leggi della Francia, il paese in cui vivono legalmente da decenni, dove hanno messo le loro radici, e dove avevano ricevuto ospitalità. Nessuno, neppure Marine Le Pen, gli chiedeva di estradare i rifugiati italiani. Probabilmente pensava, con questa misura, di rendere più credibile la sua lotta contro l’“islamo-gauchisme”. Come la stragrande maggioranza dei politici che ci governano, Macron si preoccupa dei sondaggi d’opinione, non certo di “fare i conti col passato”. Per vincere le elezioni, sarebbe disposto a qualunque “politica della memoria”.
Il dibattito – «E’ possibile una discussione depoliticizzata su un tema così politico?», si chiede la filosofa Donatella Di Cesare. Una domanda che centra il vero cuore del problema. Si può ridurre il conflitto sviluppatosi negli anni 70 ad una aggressione realizzata da parte di un gruppo di privati cittadini, i carnefici, contro altri privati cittadini, le vittime? Come se il conflitto di quel decennio – distinguendosi da tutti i precedenti storici – abbia investitito la sfera privata e non quella pubblica. Una operazione di depoliticizzazione possibile anche perché la sfera politica si è indebolta, in modo particolare i rappresentatnti di quelle forze che furono protagoniste nello scontro dell’epoca e vennero spazzate via poco dopo dalla tempesta giustizialista di mani pulite. In questo modo lo Stato e le gerarchie economiche evaporano dietro la figura strumentalizzata della vittima
Donatella Di Cesare, La Stampa 6 maggio 2021
Difronte al dolore delle vittime, alla loro angoscia profonda, alla faticosa elaborazione del lutto, non si può fare altro che tacere prestando ascolto alle loro parole. E’ quello che è avvenuto a molti, anzi moltissimi, leggendo il dialogo tra Gemma Calabresi, vedova del commissario ucciso, e il figlio Mario, pubblicato qualche giorno dopo gli arresti in Francia. Impossibile non provare solo compassione, nel senso più alto di questa parola, ma anche rispetto per la grande dignità che affiora tra le righe. Ecco perché quell’intervista inconsueta, quello scambio privato e familiare che si fa giustamente pubblico, dato che contiene una parte di storia comune, è sembrata un punto fermo. Non sono mancate voci politiche che l’hanno considerata tale, invitando tutti a «leggere e rileggere» una pagina così significativa. Intervenire dopo – nonostante quell’intervista – è perciò molto difficile. Si può farlo solo superando dubbi ed esitazioni. Sembra tuttavia necessario farlo, e per diversi aspetti. Anzitutto il dibattito pubblico, se deve essere tale, non può chiudersi, neppure temporaneamente, e deve proseguire. Uno dei grandi problemi posti dalla testimonianza della vittima è proprio la possibilità che il peso incommensurabile delle sue parole finisca per interdire ogni domanda, per frenare o trattenere ogni questione. L’effetto di questa immensa legittimità no sarebbe però conciliabile con la democrazia che è discussione aperta e matte, anzi richiede, posizioni discordanti. Ma c’è di più. La testimonianza in prima persona di chi ha subito un trauma personale, che si intreccia con quello dell’intero Paese, rischia di far saltare i limiti tra sfera privata e sfera pubblica, tra sfera giuridica e sfera politica. Soprattutto l’emozione finisce per prevalere. Ciò è merso chiaramente non solo negli interventi sulla stampa, ma anche in particolare nei programmi radiofonici e nei talk show televisivi. Sennonché l’emozione, oltre a squilibrare il dibattito, lo depoliticizza. Credo che proprio questo sia avvenuto negli ultimi giorni. La carica emotiva ha prevalso – a parte qualche voce dissonante, limitata, però, alla questione giuridica e al diritto negato. C’è da chiedersi, dunque se sia questo il modo per affrontare il capitolo forse più complesso e impegnativo di questa repubblica. E’ possibile una discussione depoliticizzata su un tema così politico? Anche certo toni complottistici, il rinvio a una misteriosa verità su cui tutto si incentrerebbe, non aiutano. Certo, ci sono sempre «verità mancanti». Ma nel frattempo è lecito chiedersi quando finalmente sarà possibile affrontare con razionalità e pacatezza, soprattutto con un’analisi politica, quel che è avvenuto negli anni Settanta. Ho sempre avuto molte difficoltà con l’etichetta «anni di piombo», così riduttiva e, a suo modo, così sbrigativa. E il femminismo? I diritti civili? L’internazionalismo? E tutte le grandi lotte di quell’epoca? Per me che l’ho vissuta in prima persona, come per molti della mia generazione – quella di quanti avevano allora vent’anni (non i sessantottini!) – è impossibile riconoscersi in quella definizione plumbea e lapidaria. E ci si sente inevitabilmente estraniati, lontani dalla narrazione che prevale. Le cose non tornano. C’è stata in Italia, a sinistra, una grande rivolta – la più importante e diffusa nel contesto occidentale del dopoguerra – che proseguiva quella del ’68, ma che era anche molto diversa, sotto ogni aspetto più radicale. In alcune aree ha assunto la forma di lotta armata. Condannare la violenza è necessario. Ma chiediamoci perché è avvenuta la rivolta degli anni Settanta, quella «breccia» su cui già da tempo il pensiero filosofico riflette. E interroghiamoci sugli effetti che durano ancor oggi e sono evidenti. Ad esempio in alcune metamorfosi della sinistra di governo che, condannando in toto quel movimento, si è privata anche di idee e prospettive che forse potrebbero oggi essere decisive. Sono convinta che, a differenza di quel che si dice, i giovani siano molto interessati e lo dimostrano in più occasioni. Con arresti postumi nonni sanano le ferite. Anzi, si riaprono nella forma peggiore. Intorno a questa storia recente l’Italia non ha ancora costruito una comunità interpretativa che, pur nel rispetto delle differenze, è invece indispensabile.
Esilio e castido (due), rubrica contro le estradizioni
Ci sono due argomenti fondamentali che vengono agitati davanti all’opinione pubblica per giustificare le richieste di estradizione dei rifugiati italiani in Francia: accertare finalmente la verità e far cessare l’impunità. Sul primo punto si potrebbe facilmente obiettare che la verità è sancita nelle sentenze passate in giudicato, perché se così non fosse allora quelle condanne sarebbero infondate e le domande di estradizione illegittime. Quanto all’impunità va detto che è relativa poiché in molti casi larghe porzioni di pena sono già state già scontate con lunghe detenzioni cautelari, circostanza che si omette troppo spesso. Questa rivendicazione di verità e impunità crea un’asimmetria evidente con altre vicende, per esempio le torture praticate sugli arrestati per fatti di lottarmata, alcune riconosciute anche dalla giustizia, vedi sentenza di Perugia del 2013 sul waterboarding praticato da Nicola Ciocia nei confronti del tipografo delle Brigate rosse romane Enrico Triaca. Nel caso delle torture non c’è mai stata alcuna ricostruzione giudiziaria dei fatti e permane una manifesta impunità penale, dovuta anche alle prescrizioni intervenute nel frattempo (il reato di tortura nemmeno esisteva) che invece suscitano scandalo quando intervengono per i rifugiati. Due pesi e due misure.
Signor Presidente, E’ grazie alla volontà di un presidente della Repubblica, François Mitterrand, che dei militanti dell’estrema sinistra italiana coinvolti nella violenza politica degli anni 70 sono stati accolti nel nostro Paese sotto l’espressa condizione di abbandonare ogni attività illegale. E’ probabile che Lei non avrebbe mai preso questa decisione. Ma il contesto era molto diverso da quello attuale, la «strategia della tensione» ancora presente, i giuristi francesi sovente perplessi di fronte alle «leggi speciali» che ispiravano le procedure italiane. E quale che sia oggi l’opinione su questa eredità, lei converrà che non si può risalire il corso del tempo né cambiare gli avvenimenti del passato. Ormai da quarant’anni diverse decine di persone sono uscite dalla clandestinità, hanno deposto le armi, hanno visto i loro fascicoli esaminati dalle più alte autorità dei Servizi segreti, della polizia e della giustizia francese: la loro permanenza in Francia è stata accettata, in seguito ufficializzata attraverso il riconoscimento di permessi di soggiorno. Alcuni si sono sposati creando anche coppia binazionali, molti hanno avuto dei figli che sono oggi cittadini francesi, a volte anche dei nipoti, anche loro francesi. Hanno contribuito alla ricchezza nazionale attraverso il loro lavoro nel corso di diversi decenni, alcuni sono stati persino impiegati nel servizio pubblico. Tutti hanno rispettato il loro impegno di rinuncia alla violenza. Ora che queste persone hanno un’età che oscilla tra i 65 e gli 80 anni, hanno problemi con l‘età, di salute, di dipendenza e invecchiamento, c’è qualcuno in Italia che vuole utilizzarli come dei comodi spaventa passeri per fini di politica interna che non ci appartengono. La loro campagna consiste nell’accusare decine di nostri funzionari dei li uffici pubblici, della polizia, dell’amministrazione della Repubblica francese, di avere per quarant’anni protetto degli assassini.
Una forma di relativismo storico Comportandosi come se il tempo fosse rimasto fermo a cinquant’anni fa, alcuni fingono di credere che queste persone siano rimaste ferme in un eterno presente, allorché la Francia e l’esperienza dolorosa dell’esilio lontano dal Paese natale ha permesso loro, al contrario, di avanzare sulla strada della vita, di diventare altre persone. Per la Francia ha voluto dire dare fiducia all’essere umano, alle sue capacità di trasformazione e di progresso, e questa fiducia è stata onorata. Nell’agosto 2019, su istigazione di Salvini l’Italia ha ratificato la convenzione europea relativa all’estradizione tra Stati membri dell’Unione europea, atto che l’Italia non aveva voluto portare a termine fin dal 1996. Questa iniziativa aveva come unico obiettivo quello di vanificare le decisioni adottate dalla Francia nei confronti di queste persone. Secondo il nostro diritto, infatti, le loro posizioni sono tutte prescritte e non possono dare luogo a estradizioni quaranta o cinquanta anni dopo i fatti. Ricordiamo che in Francia soltanto i crimini contro l’umanità sono imprescrittibili. Ora considerare degli omicidi alla strega di un genocidio, assimilare delle persone accolte dalla Repubblica francese a dei nazisti nascosti da qualche dittatura del Medioriente, è fare prova di un relativismo che può giovare soli ai circoli negazionisti e ai loro amici d’estrema destra.
Istituti fondamentali della giustizia Signor Presidente, la premura mostrata verso il punto di vista dei nostri partner europei non può condurre al confusionismo storico né all’abbandono di istituti fondamentali della giustizia. Nell’Orestea di Eschilo, un omicida vaga nell’esilio braccato dalle dee della vendetta che reclamano riparazione in nome della vittima. Ma Oreste dice questa cosa curiosa: «Non sono più un supplicante con mani impure: la mia macchia si è cancellata a contatto con gli uomini che mi hanno accolto nelle loro case o che ho incontrato per strada». Come se il tempo, l’esilio, il commercio degli uomini avessero un potere purificatore, e che Oreste non poteva ridursi più a colui che fece la cosa più terribile di tutte: uccidere la madre. Alla fine dell’opera, Atena, dea protettrice della Città, prende una decisione più simile ad un’amnistia che ad un’assoluzione. Le Erinni, invitate ad abitare Atene per riaffermare il rispetto delle vittime, accettano la fondazione del tribunale dell’Areopago, la fondazione del diritto moderno. Il ciclo della vendetta si chiude, viene quello della giustizia. Com’è possibile che si dimentichi così spesso questo mito fondatore della nostra comune cultura europea? La vendetta è di nuovo a l’ordine del giorno. La colpa che non si cancella mai, che riduce il criminale al suo crimine, sempre presente, mai passato, è uno strumento per manipolare l’opinione e confondere le coscienze. E l’estrema destra italiana, responsabile dei due terzi dei morti di quelli che vengono definiti «anni di piombo» e che osa parlare in nome delle vittime, non potrà che rallegrarsi di questo risultato. Signor Presidente, ci vorrebbe senza dubbio Atena per convincere il Parlamento italiano a votare la legge d’amnistia attesa da troppo tempo, e che consentirebbe alla società italiana di voltare pagina e volgersi finalmente verso il futuro. Lei tuttavia ha per intero la possibilità di confermare l’impegno della Francia nei confronti degli esiliati italiani, dei loro figli e delle loro famiglie. La decisione di estradarli non può essere solo una questione tecnica. Si tratta di una questione politica che dipende dalla sua persona. Vorrebbe forse fare quel che al suo posto farebbe sicuramente un rappresentante del Rassemblement national (la destra lepenista)? Vogliamo credere invece che lei vorrà confermare che la ragione e l’umanesimo sono un fondamento delle nostre democrazie, che non è buona cosa aggiungere sofferenza alla sofferenza, e forse citare ai suoi interlocutori transalpini quel verso che Eschilo faceva pronunciare ad Atena: «Tu vuoi passare per giusto piuttosto che agire con giustizia».
Firmatari: Agnès b., Jean-Christophe Bailly, Charles Berling, Irène Bonnaud, Nicolas Bouchaud, Valeria Bruni-Tedeschi, Olivier Cadiot, Sylvain Creuzevault, Georges Didi-Huberman, Valérie Dréville, Annie Ernaux, Costa-Gavras, Jean-Luc Godard, Alain Guiraudie, Célia Houdart, Matthias Langhoff, Edouard Louis, Philippe Mangeot, Maguy Marin, Gérard Mordillat, Stanislas Nordey, Olivier Neveux, Yves Pagès, Hervé Pierre, Ernest Pignon-Ernest, Denis Podalydès, Adeline Rosenstein, Jean-François Sivadier, Eric Vuillard, Sophie Wahnich, Martin Winckler
La richiesta di una verità ancora mancante è stata una delle giustificazioni più richiamate nell’orgia di commenti che hanno accompagnato la notizia della retata degli esuli degli anni 70 a Parigi. Tra le voci più autorevoli si è distinta quella del nuovo ministro della Giustizia Marta Cartabia, accompagnata da numerosi esponenti del partito delle vittime. La pagina storica degli anni 70 non può ancora essere chiusa – sostengono questi nuovi soldati della verità – senza che prima non sia fatta chiarezza sui fatti della lotta armata. Di pari passo questo accertamento della verità non può essere separato dalla esecuzione della pena, unico modo – par di comprendere – per arrivare alla verità. Affermazione dalla portata inquietante: ritenere che la verità sia ontologicamente legata alla punizione apre scenari totalitari che non sembrano tuttavia aver creato allarme. Chi chiede verità in questo modo non sta promuovendo un percorso di conoscenza ma semplicemente una conferma, per giunta autoritaria, del proprio pregiudizio. Una verità precostituita a cui i colpevoli dovrebbero adeguarsi. L’esatto contrario della verità storica che invece è un processo libero da condizionamenti, dove si scava alla ricerca di fonti nuove e si rielaborano e si confrontano nello spazio pubblico quelle note. Quello che invece viene proposto dalle milizie della verità punitiva è un mercato della verità, il mercato delle verità contrapposte, verità che cambiano col cambiar delle maggioranze e dei colori politici.La cosa più assurda è vedere la massima autorità della Giustizia promuovere la richiesta di estradizioni, per giunta utilizzando tutti i sotterfugi possibili per aggirare le prescrizioni lì dove l’inesorabile decorso del tempo le ha già sancite (vedi l’invenzione della delinquenza abituale), sulla base di sentenze che ricostruiscono una verità giudiziaria con pesanti conseguenze penali, e subito dopo sentir dire che quei colpevoli devono ancora dire la verità, una verità che dunque non può che essere diversa da quanto sancito nelle sentenze. Ma se così stanno le cose, che legittimità hanno delle richieste di estradizione fondate su sentenze che non dicono il vero? In carcere, dopo la mia estradizione, rivolsi la stessa domanda al magistrato di sorveglianza che erigendosi a quarto grado di giudizio mi chiedeva la verità, altrimenti si sarebbe sempre opposta alla concessione di qualsiasi misura alternativa. «Se lei mi fa questa domanda – risposi – vorrei sapere in base a quale verità giudiziaria sono stato condannato?». Sembrava una di quelle pagine di Lewis Carrol in Alice e il paese delle meraviglie, «prima la condanna poi l’accertamento dei fatti». Ovviamente finì nel peggiore dei modi. Chi dice che ci sono ancora misteri abbia almeno la coerenza di pretendere l’annullamento delle vecchie condanne e dei vecchi processi. Non può al tempo stesso chiedere una nuova verità e confermare quelle vecchie colpe.