Marina Petrella sarà estradata. Addio alla dottrina Mitterrand

In passato le autorità di Parigi avevano più volte rifiutato di attivare la procedura richiesta dall’Italia

Paolo Persichetti

Liberazione 11 giugno 2008

Il primo ministro francese Fillon ha firmato il decreto d’estradizione verso l’Italia di Marina Petrella, la fuoriuscita italiana arrestata dopo essere stata convocata in un commissariato della periferia parigina lo scorso agosto per una condanna afficherifugiatifamiglie1 all’ergastolo legata alla sua militanza nelle Brigate rosse durante gli anni 70. La notizia è stata battuta dalle agenzie lunedì in tarda serata.
Le parole degli Stati sono come le foglie morte che si lasciano trascinare dalla direzione del vento. Non più parole date ma parole vuote. Questo deve aver pensato Marina quando lunedì mattina si è vista notificare il decreto nella matricola del carcere di Fresnes. 
La firma è arrivata dopo che per mesi le autorità parigine non facevano più mistero dell’imbarazzo che aveva suscitato la vicenda nelle stanze del governo. Di fronte alla Chambre e alla corte di Cassazione, che nei mesi scorsi hanno concesso il loro parere favorevole sulla conformità giuridica della richiesta d’estradizione, si era dissolto il maldestro tentativo con il quale l’allora presidente del consiglio Prodi e il suo guardasigilli Mastella avevano tentato di accreditare la cattura di una pericolosa latitante in attività. Altri non avevano esitato a richiamare il principio della certezza della pena, di quelle che almeno non sono andate prescritte nel frattempo. Evidentemente si percepiva un deficit di legittimità a distanza di tanti decenni. Per questo si è scelto di aggiornare le richieste d’estradizione ricorrendo ad ogni tipo d’espediente: congelando la personalità dei militanti di un tempo, avvalorando l’idea che l’essere non sia più un divenire ma un semplice essere stato, cristallizzato e fossilizzato.
 Marina Petrella, invece, lavorava da anni per i servizi sociali del comune d’Argenteuil, si era risposata e aveva dato alla luce una seconda figlia che oggi ha 11 anni. Inoltre non era fuggita dall’Italia come una clandestina, ma aveva lasciato il paese quando si era arenata l’ipotesi di una soluzione politica per le “insorgenze” degli anni 70. Aveva già scontato otto anni di carcere, partorito e allattato la sua prima figlia nella sezione speciale del carcere femminile di Rebibbia. 
La reticenza con la quale i consiglieri giuridici del governo francese avevano cominciato a guardare questo dossier si era rafforzata dopo l’improvviso crollo delle sue condizioni di salute. Ricoverata ad aprile nell’ospedale psichiatrico di VilleJuif (sud di Parigi), su richiesta urgente della direzione del carcere, a seguito di un grave stato 24-decreto-estr-petrella1di degradazione psico-fisica constatato dagli stessi periti nominati dal governo, Petrella è rimasta otto settimane in completo isolamento, in una “cella liscia” (assolutamente  spoglia). Per tutto questo tempo non ha avuto contatti con l’esterno (divieto di colloqui con i familiari e di ricevere corrispondenza), salvo le visite del suo avvocato, Irène Terrel.
 Le sollecitazioni politiche arrivate dall’Italia, dopo l’insediamento della Destra vittoriosa nelle elezioni del 13 aprile hanno probabilmente convinto le autorità francesi che era venuto il momento  d’abbandonare ogni perplessità. Il suo avvocato ha già depositato un ricorso sospensivo della esecuzione dell’estradizione di fronte al Consiglio di Stato che fa leva sulla violazione del principio di irretroattività giuridica. In passato le autorità di Parigi avevano più volte rifiutato di attivare la procedura d’estradizione nei suoi confronti, e dunque ne avevano legittimato la presenza sul suolo francese del tutto consapevolmente. Altro punto sollevato è quello del tempo irragionevole intercorso tra i fatti addebitati e l’esecuzione penale della sentenza, oltre 30 anni di distanza. 
Ma nel frattempo le condizioni psicologiche della Petrella si sono ulteriormente aggravate. Dimessa il 31 maggio per esser ricondotta in carcere, la direzione dell’istituto di pena ne ha chiesto un nuovo immediato ricovero. Tutti i medici che l’hanno visitata concordano, spiega sempre la Terrel, che si è di fronte ad una “grave tendenza suicidaria” provocata da una “caduta di spirito vitale”, una sorta di sciopero della vita di fronte alla prospettiva dell’ergastolo. I periti hanno constatato uno stato psicologico “posseduto dall’immagine del seppellimento”, dall’insopportabile idea di una morte senza lutto che si presenterebbe ogni settimana di fronte alle proprie figlie venute a rendergli visita. Quelle figlie che senza possibilità di scelta vedono la loro vita incagliata all’unico passato giudiziario e penale che non passa, momento imprescrittibile di una storia d’Italia che ha volentieri sotterrato e tuttora ingoia nell’oblio eccidi, massacri, ruberie. Un paese che ha dato forma ad un singolare paradosso: non ha conservato la memoria degli anni 70 ma è stata incapace d’oblio. Alla memoria storica svuotata dei fatti sociali ha sostituito la memoria giudiziaria, all’oblio penale ha sovrapposto l’oblio dei fatti sociali. 
L’applicazione della clausola umanitaria, viene sottolineato nel ricorso, postilla acclusa in calce per volontà dello stesso Stato francese alla convenzione sulle estradizioni del 1957 che ha vigenza legale sul periodo in cui sono stati commessi i fatti contestati, rimane dunque l’extrema ratio di questa vicenda. I famigliari dei rifugiati italiani ed i diversi collettivi di sostegno hanno indetto una manifestazione per oggi in una piazza parigina a supporto di questa richiesta. Certo è che di quella dottrina Mitterrand che aveva tentato di offrire all’Italia delle forme d’uscita dalla spirale del confronto violento, leggendo quel che accadeva come un lacerante conflitto sociale, una latente condizione di guerra civile e non una immotivata e cieca violenza, è rimasto ben poco. Alla fine la zattera dei rifugiati, riparo precario d’esistenze sospese, è rimasta senza approdo davanti al porto della sua Itaca immaginaria.

Cronache dall’esilio

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L’autodafé di Cesare Battisti
Dietro la caccia ai rifugiati degli anni 70 la fragilità di uno Stato che ha vinto sul piano militare ma non politico
L’ex br Lojacono, «ho già scontato in Svizzera 17 anni ma l’Italia non riconosce questa condanna sono forse l’unico al mondo ad avere una doppia pena per gli stessi fatti
Battisti esibito come un trofeo da caccia
Dietro la caccia ai rifugiati degli anni 70 la fragilità di uno Stato che ha vinto sul piano militare ma non politico
Estradizioni, l’Italia ha sempre aggirato regole
L’ex Br Lojacono: “Ho già scontato in svizzera 17 anni ma l’Italia non riconosce questa condanna sono forse l’unico al mondo ad avere una doppia pena per gli stessi fatti
La muta e la preda, Battisti trasformato in trofeo da caccia

Radio radicale: intervista a Paolo Persichetti sul caso Cesare Battisti e sulla politica italiana rispetto agli anni di piombo
Intervista a : http://www.radiondadurto.org
La voce della fogna: Libero suggerisce di liquidare Battsiti
Il Brasile non si fa intimidire: “Da Lula decisione sovrana”
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Mozione bipartizan in parlamento: “Ridateci Battisti”. La lega: “Rapitelo”
Perché il Brasile non ha estradato Battisti. Intervista a Radio radicale
Scalzone da un consiglio ai parlamentari che si indignano per il no alla estradizione di Battisti: “Cospargetevi l’anima di vasellina”
Battisti: la decisione finale nelle mani di Lula. Fallisce il golpe giudiziario tentato dal capo del tribunale supremo Gilmar Mendes
Battisti, “Il no di Lula è una decisione giusta”
Battisti: condiserazioni di carattere umanitario dietro il rifiuto della estradizione
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Lula orientato a non estradare Battisti, il Supremo tribunale fa ostruzionismo e Berlusconi rimanda la visita ufficiale in Brasile

Battisti è il mostro, impiccatelo
Battisti, la decisione finale resta nelle mani di Lula. Fallisce il golpe giudiziario tentato dal capo del tribunale supremo, Gilmar Mendes
Tarso Genro, “inaccettabili ingerenze da parte dell’Italia”
Caso Battisti, voto fermo al 4 a 4. Prossima udienza il 18 novembre
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Caso Battisti: parla Tarso Genro, “Anni 70 in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo”
Caro Lula, in Italia di ergastolo si muore
Caso Battisti fabula do ergastolo

Governo italiano so obtem-extradicoes
Cesare Battisti, un capro espiatorio

Brasile, rinviata la decisione sull’estradizione di Battisti
Il Brasile respinge la richiesta d’estradizione di Battisti, l’anomalia è tutta italiana
Scontro tra Italia e Brasile per l’asilo politico concesso a Battisti

Tarso Gendro: “L’Italia è chiusa ancora negli anni di piombo”
Crisi diplomatica tra Italia e Brasile per il caso Battisti richiamato l’ambasciatore Valensise
Stralci della decisione del ministro brasiliano della giustizia Tarso Genro
Testo integrale della lettera di Lula a Napolitano
Ora l’Italia s’inventa l’ergastolo virtuale pur di riavere Battisti

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24 agosto 2002: storia di una consegna straordinaria
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Un’estradizione alla chetichella
Esilio e castigo

Exil et chatiment
Sergio Segio: “Scalzone e i parigini condannino la lotta armata”
Vincenzo Tessandori, L’ex brigatista tra esilio e castigo
Sroedner.over-blog.it: Esilio e castigo, una storia esemplare di giustizia ingiusta

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Una storia politica dell’amnistia

Libri – Une histoire politique de l’amnistie, a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, 263 pp, 24 euro

Paolo Persichetti
Liberazione
Sabato 25 agosto 2007

Solo pochi decenni fa l’amnistia era considerata ancora una parola di sinistra. Nata con la democrazia ateniese, era parte del repertorio delle forze che si dicevano democratiche. Fin dalle origini aveva animato le battaglie di libertà del movimento operaio. Convogliava un’idea di società tollerante e progressiva, conteneva una domanda di giustizia moderatrice consapevole dell’importanza che il ricorso a strumenti di correzione politica della fermezza penale, ispirati a quella mitezza tratta dalle vecchie massime latine che richiamano prudenza ed equità nell’applicazione della legge, svolgeva una funzione riparatrice delle ingiustizie. 41jpad5dx5l_ss500_Ma alla fine del Novecento una drastica inversione di tendenza sospinge paesi e società civili occidentali a ripudiare questo strumento di soluzione dei conflitti. Ciò non è vero ovunque, basti pensare alla Gran Bretagna di Blair che, nell’ambito del processo di soluzione politica della questione nord-irlandese, ha amnistiato tutti i militanti coinvolti negli scontri armati. Anche se l’esperienza più innovatrice viene dal Sud Africa di Mandela che, ispirandosi ai principi della giustizia ricostruttiva, ha scartato la via penale tradizionale per istituire un criterio d’accertamento dei fatti in cambio di clemenza e risarcimento pubblico delle vittime. Operazione che però ha messo sullo steso piano la violenza istituzionale che appoggiava il sistema segregazionista e quella antistituzionale che lottava in armi contro l’apartheid. Ipotesi che terrorizzerebbe qualsiasi esponente, passato e presente, dello Stato italiano chiamato a dover rispondere delle stragi della strategia della tensione e delle centinaia di morti che hanno insanguinato la gestione dell’ordine pubblico nei primi decenni della repubblica, quando nessuno a Sinistra aveva ancora scelto la via della violenza. Tuttavia queste due esperienze restano episodi minoritari rispetto ad un diritto penale internazionale sempre più ostile alle istituzioni della clemenza. Proprio dal tentativo di trovare una risposta a questo discredito parte l’opera collettanea curata da Sophie Wahnich, storica e ricercatrice del Cnrs, Une histoire politique de l’amnistie. Il volume, frutto di una ricerca multidisciplinare avviata nel 2003 e condotta su scala comparativa tra diversi paesi europei, poggia sulla convinzione che ormai, date le interdipendenze, una soluzione amnistiale per le insorgenze politiche degli anni 70-80 possa essere trovata unicamente coinvolgendo i livelli istituzionali dell’Unione europea, attraverso nuove forme di clemenza sopranazionale. Storicamente le amnistie sono state sempre accompagnate da dispositivi di riscrittura della storia, spesso opposti tra loro: far dimenticare, accertare la verità o renderla illeggibile. Molto diversa è poi la natura delle clemenze che sanciscono forme d’impunità preventiva, tipiche dei poteri costituiti, come accaduto per le dittature militari sudamericane o per i colpi di spugna sui reati economico-finanziari. In questo caso l’amnistia ha aiutato l’oscuramento dei fatti. Altro significato hanno invece le clemenze che temperano, dopo decenni di carcere, le dure repressioni contro gli oppositori politici, ripristinando quando ormai gli eventi sono ampiamente accertati una situazione di normalità giudiziaria stravolta dalle misure d’eccezione. Ma tutte queste distinzioni scompaiono di fronte all’attuale tendenza a voler confondere qualunque amnistia con l’impunità. È questo l’atteggiamento tenuto in Italia da un ceto politico che ha tutto l’interesse a far dimenticare le proprie ascendenze riversando sui reprobi degli anni 70 le pagine più ingombranti del proprio Novecento. Una rimozione che impedendo la chiusura del decennio 70 riemerge continuamente sotto forma di spettri che agitano fobie, polemiche, grottesche imitazioni del passato, ciniche speculazioni delle agenzie repressive, col risultato di avvelenare lo spazio pubblico. Ma la regressione della clemenza ha altre ragioni ancora più strutturali che investono la mutazione dei sistemi politici occidentali insieme all’emergere impetuoso del paradigma vittimario. Le democrazie occidentali sono ben lontane dal costituire degli esempi di superamento dell’inimicizia politica. E ciò, anche in ragione di un’ideologia umanitaria che attorno al «criterio dell’inerme» ha perso ogni capacità di discernimento tra i crimini di lesa umanità universalmente riconosciuti, come tortura, schiavitù, genocidio, misfatti coloniali, o quell’orrorismo di cui ha recentemente scritto Adriana Cavarero (Feltrinelli 2007), e le infrazioni commesse da chi ha esercitato il diritto di resistenza. In realtà chi dice umanità vuole ingannare, metteva in guardia Proudhon. Il diritto penale umanitario (tragico ossimoro) è divenuto lo strumento di distinzione tra bene e male, tra barbaro e civilizzato, favorendo l’emergere di assoluti etico-morali che depoliticizzano e destoricizzano sistematicamente gli eventi, fino a smarrire la differenza che passa tra l’illegalità degli oppressi e quella dei poteri costituiti. Non stupisce allora che la retorica umanitaria sia diventata la nuova arma ideologica con la quale gli Stati hanno moltiplicato guerre e spogliato della loro veste politica le infrazioni commesse da chi si organizza contro l’oppressione, relegandole a mera fattispecie criminale. Ma non tutti gli assoluti servono per essere rispettati, così nulla impedisce di scendere a patti con i tagliatori di teste Talebani, o chi pratica lo sterminio suicida come Hamas, mentre era assolutamente vietato negoziare con le Br. In questo caso il criterio non è più l’umano e l’inumano ma l’omologia tra le entità statali costituite dell’Occidente e quelle in formazione degli islamisti, radicalmente opposte al demone della rivoluzione sociale. Ciò rende più comprensibile anche quel grande stupro di senso che ha portato ad accomunare in un’unica giornata, non certo per ragioni di pietas, il ricordo delle vittime delle stragi di Stato e quelle della lotta armata. Resta da capire dove collocare i morti ammazzati come Pinelli o le centinaia di manifestanti falciati, dal 1946 fino a Carlo Giuliani, dalle forze dell’ordine. Vicende storiche opposte e inconciliabili sono riassunte in un unico paradigma che nulla c’entra col dolore ma assolve unicamente il potere. Altro che ricerca della verità e tentativo di riconciliazione. Il Sud Africa è lontano e le vittime delle stragi muoiono una seconda volta. L’uso strumentale della figura della vittima è uno dei passaggi centrali di questo processo, a cui è dedicato un intero capitolo nel quale si spiega che il diritto alla riparazione simbolica dell’offeso è lentamente scivolato verso un potere di punire quantificato in base alla natura e all’entità della pena da infliggere e al riconoscimento di una capacità d’interdizione e ostracismo perpetuo sul corpo del reo. Questo processo di privatizzazione della giustizia trae la sua origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica. Il sistema giudiziario perde il suo ruolo di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di riparazione psicologica della persona offesa. Una svolta culturale cui sembra aver contribuito la nozione di «stress post-traumatico» introdotta dalla psicologia clinica anglosassone dopo la guerra del Vietnam. Ma può un eventuale sentimento d’ingiustizia considerarsi una «ferita psicologica» sanabile per il mezzo di una condanna penale? In questa prospettiva la ricerca della verità giudiziaria non offre scampo. Essendo un momento necessario all’elaborazione del lutto, la dichiarazione di colpevolezza e l’ostracismo perpetuo restano l’unica soluzione accettabile perché il proscioglimento o la reintegrazione civile dell’accusato ostacolerebbe la guarigione mentale della vittima. L’uso strumentale della retorica vittimistica ha così legittimato il capovolgimento dell’onere della prova, il passaggio alla presunzione di colpevolezza, l’aggravamento delle sanzioni, la limitazione dei diritti dell’accusato e l’immoralità delle amnistie, fino al paradossale esercizio di un’etica selettiva che perde improvvisamente tutta la sua intransigenza di fronte a quella ragion di Stato che premia pentiti e dissociati.

Il Merlo, il Dissociato e il Fuoriuscito

Basta con il livore verso i fuoriusciti è ora di fare la storia degli anni 70

Paolo Persichetti
Liberazione
, venerdì 2 febbraio 2007

Apparso anche su www.carmillaonline.com

Francesco Merlo, su la Repubblica del 18 gennaio, scrive peste e corna dei fuoriusciti riparati in Francia. Li raffigura simili ad 19-il-merlo-e-il-dissociato-jpg un circo Barnum e, come in un mattinale della questura, s’inventa pure un fantomatico dibattito tra ‘uscisti’ ed ‘entristi’ della lotta armata. Soprattutto prende di petto Oreste Scalzone, che dopo trent’anni ha avuto reati e condanna prescritti. Il suo è un minestrone di parole che ammucchiano colore, gossip, dicerie, fandonie, pregiudizi. Ce l’ha persino col loro modo di parlare. L’argot inevitabile d’ogni migrante che ha dovuto apprendere la nuova lingua per necessità. Ma poi aggiunge che alcuni tra loro pubblicano libri, fanno ricerca universitaria, aprono librerie e negozietti, senza rendersi conto della contraddizione. Ha da ridire anche sul fatto che non vestono Prada e si meraviglia di come si possa campare ventisei anni di espedienti, cioè di precariato. Domanda interessante, questa, che dovrebbe rivolgere ai cantori nostrani della deregolamentazione del mercato del lavoro.

images9Chi vede Parigi dagli appartamenti dei grandi boulevards, e guadagna con un solo articolo il corrispettivo di quattro stipendi da operaio e otto da precario nei call center, è preso d’angoscia di fronte ad una simile prospettiva e percepisce i marciapiedi delle città, il caldo maleodorante del suo reticolo sotterraneo di vie ferrate, come un’insidia dura e ingenerosa. Dante parlava dell’esilio con parole molto amare: «tu lascerai ogni cosa diletta/ […] Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ’l salir per l’altrui scale». Sarà che ognuno fa le sue esperienze, saranno le diavolerie della tecnologia, ma a Parigi ci sono tanti ascensori e infinite scale mobili e poi ad esser salato è il burro, non il pane. Insomma, se la città la vivi dai sottotetti dei quartieri popolari e multietnici, quella durezza diventa generosità, solidarietà, complicità naturale, intreccio di vite che arrivano da mille angoli del pianeta, ognuna con la sua valigia di storie. Scalzone, e altri come lui, tutto questo l’hanno vissuto sempre al presente, senza nostalgie, senza rimpianti e con le radici che ormai crescevano all’insù.

Sarà forse solo una lontana parentela, ma le parole di Merlo ricordano quelle di un giornale pubblicato a Parigi con le finanze dell’Ovra, la famigerata polizia politica di Mussolini. Era rivolto alla folta comunità di emigranti italiani e s’intitolava, guarda caso, il Merlo. La sua ragion d’essere era la calunnia quotidiana dei fuoriusciti antifascisti. copj13-1Immorale è il viaggio quando si rimane stranieri, ha scritto tempo fa Claudio Magris. E stranieri i fuoriusciti non lo sono mai stati. La nostalgia è stata quella degli altri, come racconta Milan Kundera, anche lui un tempo esiliato. Nóstos e Àlgos sono parole greche che indicano «ritorno» e «sofferenza». Nostalgia è dunque la tristezza che provoca l’impossibilità di tornare. Ma in altre lingue l’etimologia è diversa e trae origine dal latino ignorare. In questo caso, la nostalgia si esprime come «sofferenza per l’ignoranza» di non sapere quel che accade lontano da noi. Ma Scalzone, in tutti questi anni, non ha avuto il tempo di rimpiangere e ignorare proprio nulla, come Ulisse nell’alcova di Calipso. Coinvolto tra mille incontri e scoperte in tutte le battaglie della nuova modernità liquida, come la chiama Zygmunt Bauman: migranti, senza tetto, giovani delle banlieues, precari, altermondialisti, scioperi come quello generale del ’95, mentre a casa sua facevano tappa musicisti, poeti, teatranti e giramondo, scappati e scampati da magistrature, eserciti e polizie di mezzo mondo, compreso qualche fascista gravemente ammalato e un democristiano ricercato. Per farsi aprire bastava esibire come passaporto un mandato di cattura. copj13I nostalgici sono rimasti in Italia, alcuni perché hanno fatto degli anni ’70 l’oggetto del loro incarognito risentimento, come Sergio Segio. Uno che si racconta avvinto da un ineluttabile destino. «Non c’è salvezza possibile per chi ha sognato di cambiare il mondo», scrive in un libro dove inanella una serie impressionante di goffe citazioni scapigliate, iscrivendosi nel «novero dei destinati alla sconfitta che non scelgono l’esilio ma di andare fino in fondo, pagando quel che bisogna pagare al sogno a lungo coltivato». Convinzione che lo porta a rivendicare una sorta di primazìa etica: l’aver prima commesso l’errore giusto ed in seguito aver ripudiato nel modo più giusto la giustezza dell’errore passato. Prova d’eccellenza assoluta, che giustificherebbe il suo irrefrenabile desiderio d’accedere allo status di persona non comune che un tempo si diceva persino comunista.

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Vittoriale

Immerso nella recita di uno stucchevole copione dannunziano, raffigura se stesso avvolto in un’atmosfera d’estetismo combattente: «anima capace di tenerezza», che sceglie «di morire non nella lenta emorragia della vita ma di fretta, senza risparmio, come candele accese dai due lati, non per malattia del corpo ma per quella della coerenza, per un’inguaribile infezione dell’anima». Poeta armato, novello Sturm und Drang, sognatore impaziente, adepto del carpe diem, declama: «i nostri attimi sono eterni e ci ripagano di tutto». Fiore appassito più che fiore del male, maledetto mancato ma redento riuscito, anche se con parole che indulgono sempre al calibro ben oliato e al rimirar la poesia del gesto, la metrica dell’intenzione che conduce ad un eroico «andar incontro alla bella morte». Quella altrui, ovviamente.
Una prosa a metà tra l’imitazione di Marinetti e quella del Vittoriale, senza risparmiarci il lieto fine hollywoodiano che condanna l’infausto protagonista a vivere finalmente ravveduto e contento, e che – per dirla con Jim Thompson in Colpo di spugnadi fronte allo specchio della propria vita non può fare a meno di sputare ogni mattino sulla faccia di quel che è stato lo scaracchio di ciò che è diventato. L’esperienza dei fuoriusciti copj13-21rappresenta da oltre vent’anni un’anticipazione del possibile, ciò che avrebbe potuto essere il futuro italiano se fosse stata varata una soluzione politica per gli anni ’70. Una smentita cocente per gli imprenditori dell’emergenza, un esempio da cancellare con ferocia e motivo d’incontenibile livore per chi tra dissociazioni e pentimenti, in cambio di laute ricompense premiali, non perde occasione di salire in cattedra e recitare l’autocritica degli altri.
A Sinistra, come a Destra, molti scimmiottano il riformismo blairiano. Ma il primo ministro inglese si è sporcato le mani con il conflitto irlandese, ha negoziato con l’Ira, ha liberato tutti i prigionieri politici, anche con reati di sangue, e stabilito tappe di un processo politico che ha condotto alla fine del conflitto. In Italia, invece, la sua tanto decantata strategia viene imitata solo per liberalizzazioni e privatizzazioni. Siamo l’unico paese in Europa in cui il ciclo politico della lotta armata è stato chiuso vent’anni fa con un atto unilaterale dei suoi militanti. Siamo gli unici ad avere ancora un centinaio di fuoriusciti e prigionieri politici ormai prossimi ai trenta anni di carcere. Siamo gli unici a selezionare le vittime: Calabresi sì, Pinelli no.
Guardare al rientro di Scalzone come all’ennesima occasione possibile per voltare pagina non sarebbe forse più utile e intelligente? Domanda superflua in un paese che ha seppellito i fatti sociali degli anni ’70 sotto la memoria penale, mentre le stragi, da quelle nazi-fasciste a quelle che hanno tentato di fermare i movimenti, rimangono impunite, senza verità, chiuse in un armadio con le ante rivolte verso il muro. In Italia i passati rivoluzionari non possono diventare Storia. Per questo l’unico futuro che riesce ad affacciarsi all’orizzonte sembra avere il colore plumbeo della colpa. Selettiva, naturalmente.

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Negati i permessi all’ex Br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto

Il Giudice di sorveglianza di Viterbo rifiuta la concesione dei permessi all’ex Br «Nel suo libro disprezza lo Stato».
La replica di Persichetti: così tutti dovrebbero tornare in cella. «Il rischio di pericolosità sociale è tutto ideologico. Allora riguarderebbe anche Liberazione che pubblica i miei articoli»

 

Giovanni Bianconi
Corriere della Sera
22 agosto 2006

ROMA – Dei «rifugiati» in Francia che il governo Berlusconi s’era impegnato a rimpatriare è l’unico tornato in un carcere italiano. Semplicemente perché c’era il provvedimento d’estradizione già firmato da tempo, bastava eseguirlo. Accadde quattro anni fa, 25 agosto 2002: Paolo Persichetti, all’epoca quarantenne, già militante dell’ Unione dei comunisti combattenti (frazione scissionista delle antiche Br che nel 1987 uccise il generale dell’Aeronautica Licio Giorgieri) venne fermato a Parigi e accompagnato in cella. Doveva scontare, per concorso nell’omicidio Giorgieri, 22 anni e mezzo di pena. Oggi, sommati i 4 anni trascorsi alla carcerazione preventiva fatta in Italia e a un periodo di detenzione subìto in Francia, per Persichetti è scattata la possibilità di chiedere i «permessi premio»: qualche ora o qualche giorno da passare fuori dal carcere di Viterbo nel quale l’ex terrorista studia, scrive, lavora al dottorato di ricerca in Scienze politiche all’università Paris VIII dove insegnava prima di essere arrestato, invia articoli al quotidiano di Rifondazione comunista Liberazione; e ha pubblicato prima in Francia e poi in Italia un libro – Esilio e castigo, retroscena di un’estradizione, con prefazione dello scrittore Erri De Luca – di forte critica a tempi e modalità del suo rientro in galera. Libro che ora gli è costato l’ ennesimo «no» del giudice di sorveglianza alla richiesta di permesso. Che Persichetti sia un «ex», come gran parte dei latitanti che in Francia vivono e lavorano alla luce del sole, s’intuiva dai suoi trascorsi a Parigi: da lì stigmatizzò il ritorno all’omicidio politico, quando le nuove Br uccisero Massimo D’Antona, nel 1999. E lo conferma la relazione degli «osservatori» del carcere, i quali hanno scritto a maggio di quest’anno che il detenuto «ha esplicitato la volontà di dimostrare il suo cambiamento inteso come rielaborazione del proprio vissuto e conseguente modifica del modo di agire e di vedere la realtà… Sente ormai lontano il modo di agire di certi gruppi politici… Ha ormai raggiunto una maturità che gli consente di esporre le proprie idee in modo da rispettare le regole sociali».
Ma il giudice Albertina Carpitella, non soddisfatta di queste valutazioni, ha voluto leggere il libro in cui Persichetti descrive la sua estradizione, in estrema sintesi, come un colpo di teatro organizzato dallo Stato italiano per bilanciare i risultati nulli (all’epoca) delle indagini sulle nuove Br: per questo fu anche inquisito per il delitto Biagi sulla base di un labile indizio, e poi prosciolto dopo la scoperta dei veri responsabili. Il giudice di sorveglianza, però, l’ha letto con altri occhi e ne ha tratto la conclusione che l’ex brigatista è ancora «socialmente pericoloso». Pur riconoscendo che il detenuto «è ovviamente libero di interpretare a proprio piacimento le vicende personali e quelle politiche, e di manifestare il proprio pensiero con ogni mezzo», il magistrato sentenzia: «Dalla lettura risulta evidente che egli si considera appartenente a una parte politica, che definisce gli “sconfitti”, che concepisce come controparte rispetto a tutte le istituzioni pubbliche, accusate di scrivere la storia da vincitori assumendo atteggiamenti vendicativi attraverso “le relazioni delle commissioni parlamentari”, le “sentenze della magistratura”, eccetera». Per il giudice, il libro tradisce un «atteggiamento di vittimismo politico» e un «perdurante disprezzo dello stato di diritto» che «non si conciliano né con la condivisione dei valori fondanti del sistema giuridico-democratico italiano né con l’assunzione di responsabilità e la valutazione negativa del commesso omicidio, necessarie alla formulazione di un giudizio di revisione critica».
A parte che molte valutazioni negative sulla sua vicenda processuale vengono svolte da Persichetti proprio in nome dello stato di diritto, dalla sua cella il detenuto protesta: «È un’assurdità: con questi presupposti sia Curcio che Moretti, Balzerani, Negri, Gallinari e compagnia (tutti condannati per reati di terrorismo o affini, e tutti liberi, semiliberi, o comunque ammessi a uscire dal carcere, ndr) dovrebbero rientrare in galera per i loro libri, certamente molto meno critici del mio. E il “non cessato rischio di pericolosità sociale”, tutto ideologico, a rigore dovrebbe estendersi anche a Liberazione che mi pubblica regolarmente…». La battaglia legale di Persichetti e del suo avvocato Francesco Romeo proseguirà, ma intanto resta un paradosso. Il libro di Persichetti si conclude con l’auspico che la sua testimonianza «possa contribuire al processo di storicizzazione di un passato che è sempre più urgente sottrarre alle strumentalizzazioni politiche», per giungere «al più presto alla definitiva chiusura degli strascichi penali degli anni 70 e 80, liberando il futuro dalle ipoteche di stagioni ormai da lungo tempo concluse». Forse per il magistrato di sorveglianza di Viterbo è ancora troppo presto, ma per adesso aver messo nero su bianco quella testimonianza ha fatto sì che l’autore non possa uscire di galera nemmeno per un giorno.

Scheda
Arrestato a Roma il 29 maggio 1987, assolto in primo grado viene scarcerato nel dicembre 1989. Condannato in appello a 22 anni e mezzo di carcere, lascia l’Italia nel 1991. Il 24 agosto 2002 viene fermato a Parigi, caricato in una macchina che si dirige immediatamente verso l’Italia dove viene ceduto all’alba del 25 agosto sotto il tunnel del monte Bianco.
Una “consegna straordinaria” (in aperta violazione delle norme sulle estradizioni), la prima del genere in Italia, provocata dalla montatura giudiziaria architettata dal gruppo di inquirenti guidato da Vittorio Rizzi, che indagavano sull’attentato Biagi, e dal sostituto procuratore di Bologna, Paolo Giovagnoli, che l’ha ufficialmente iscritto nel registro delle indagini per poi dover archiviare’ipotesi d’accusa 18 mesi più tardi.

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L’ex brigatista tra esilio e castigo

Recensione – Esilio e castigo, Paolo Persichetti, La Città del Sole, 2005 pagine

Vincenzo Tessandori
La Stampa
31 dicembre 2005

Solo lo stupido non cambia idea. Lo sostengono in molti, e nel loro personalissimo vocabolario manca il termine «coerenza». Alcuni di noi cercano di non tradirla la coerenza, ed è proprio quella personale e quella politica la cosa a cui sembra più tenere Paolo Persichetti, un protagonista del nostro tempo. Uno che non rinnega il passato, e per questo l’aggettivo che gli viene imposto è irriducibile. Ma irriducibile su che cosa? Su quell’utopia tragica chiamata rivoluzione? Sull’idea forse folle, detta libertà? Le carte giudiziarie ci dicono che militava nelle Brigate rosse, colonna romana; che in qualche modo ha avuto mano nell’assassinio del generale Licio Giorgieri, 20 marzo di un quarto di secolo fa; che viveva a Parigi, in quella colonia di fuoriusciti sospettata dal ministro degli interni italiano di formare, in parte, la «centrale francese», lo zoccolo duro del terrore. Queste carte, e più ancora Esilio e castigo, scritto con collera lucida e amara dall’ex brigatista, ci raccontano anche come un ingranaggio giudiziario possa finire per soffocarti.
È un racconto dal ritmo incalzante e di disincantata ironia ma privo del compiacimento, così irritante, per un passato che pare impossibile declinare al tempo remoto. Al protagonista, un quarantenne intellettuale, sembra non si voglia perdonare di aver avuto vent’anni con il loro corollario di idee, sogni, utopie e pure incubi. La militanza nella sinistra più radicale, l’accusa di terrorismo, l’arresto, il processo, il passaggio in Francia, l’università, l’insegnamento. L’illusione che tutto sia finito dura poco, la condanna è come una spada di Damocle anche per questo signor nessuno, cattivo maestro senza discepoli, «personaggio sconosciuto fino a quel momento, uno dei tanti delle generazioni insorte e inventato mediaticamente in quel frangente».
Il ricercato Persichetti Paolo, che tiene lezioni all’università Parigi 8, che non si nasconde, che conduce un’esistenza visibile e, a detta di tutti, non ne conduce una invisibile, dopo anni di indifferenza viene ammanettato e spedito in Italia. La Francia non era mai stata propensa a concedere estradizioni, con Persichetti decide altrimenti. E l’estradizione sembra trasformarlo in un uomo per ogni stagione e per ogni accusa. Anche quella di aver organizzato l’omicidio di Marco Biagi, 19 marzo 2002. Riconosciuto dallo zainetto. Seguono giorni, settimane di terrore vero, intimo. Finquando l’accusa viene riposta in un cassetto. Ma lui rimane un «nemico», trattato come un nemico, fra i più pericolosi, ci ricorda. Perché? Perché, in fondo, solo lo stupido non cambia idea.

La fine dell’asilo politico

Il tabù dell’amnistia

Paolo Persichetti
Hortus musicus n. 20 anno V – ottobre-dicembre 2004

http://www.hortusmusicus.com

I passati rivoluzionari faticano a diventare storia.
Adagiati nel limbo della rimozione periodicamente
vedono schiudersi le porte dell’inferno che risucchia brandelli di vita,
trascina esistenze sospese.

Lasciti, residui d’epoche finite che rimangono ostaggio dell’uso politico della memoria.

Non un passato che torna ma un futuro che manca

Il 30 giugno 2004, la chambre d’accusation de la cour d’appel di Parigi ha concesso “avviso favorevole” alla domanda d’estradizione rivolta dall’Italia nei confronti di Cesare Battisti. Non è la prima volta che un parere del genere viene espresso; è accaduto in più occasioni anche negli anni della dottrina Mitterrand. Questo “avviso” rappresenta, infatti, un semplice parere sulla ricevibilità tecnico-giuridica della richiesta. Almeno tale era l’interpretazione incontestata che coverhm20mediaveniva fornita negli anni in cui il diritto estradizionale non era stato ancora abrogato dall’entrata in vigore del mandato d’arresto europeo. Le nuove procedure, infatti, hanno introdotto il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di giustizia penale, tra gli stati membri dell’Unione. Una prassi che inaugura lo spazio giudiziario europeo sotto i cattivi auspici di un evidente disequilibrio tra le accresciute potenzialità repressive delle autorità statali e le ridotte garanzie di tutela dei singoli cittadini dell’Unione. L’obiettivo primario delle nuove norme entrate in vigore nel 2004 è quello di togliere al potere politico la possibilità di decidere, in ultima istanza, sulla estradizione. Infatti, nella vecchia tradizione sancita dai numerosi trattati bilaterali sorti nell’epoca dello jus publicum europeum, e poi recepita nelle diverse convenzioni europee pattuite nel corso del Novecento, la decisione (ben diversa dalla emissione di un semplice avviso tecnico) restava una prerogativa sovrana del potere politico. Più che di un processo di desovranizzazione siamo di fronte ad una nuova forma di sovranità, non più stabilita su scala nazionale e sulla base di una legittimità politica derivante dal suffragio, ma proiettata in uno spazio sovranazionale sorretto da una legittimità che non trae fondamento dal suffragio, ma dal processo d’integrazione e d’autonomizzazione di alcune tecnostrutture statali. I vari protocolli stabiliti con il sistema informatico Schengen, il mandato d’arresto europeo, Europol ed Eurojust stanno alle vecchie sovranità politiche come la Banca centrale europea sta alla vecchie politiche economiche nazionali di scuola keynesiana. Il diritto estradizionale ha rappresentato per oltre un secolo il meglio della cultura giuridica di scuola liberale. Maturato nella temperie delle lotte nazionali, democratiche e repubblicane del XIX° secolo, esso viene definitivamente sotterrato nell’epoca che vanta il dominio assoluto del modello neoliberale sul pianeta. Circostanza che suggerisce più di una riflessione sulla natura liberticida e dispotica del neoliberismo contemporaneo, marcato dall’eccezione permanente inaugurata subito dopo l’11 settembre 2001.
Trasformato in una foglia di fico, il diritto non riesce più neanche a salvaguardare la propria logica formale interna, assumendo sempre più le goffe sembianze di un travestimento kelseniano dell’essenza decisionista sostenuta da Schmitt. Il nuovo mandato europeo viola persino la regola della non retroattività. Entrato in vigore nel 2004, ai singoli Paesi è stata lasciata la possibilità di retrodatare la soglia temporale a partire dalla quale le nuove norme hanno valore. In Francia questo limite è stato esteso fino al 1993. La procedura applicata nei confronti di Cesare Battisti si è dunque prevalsa, almeno formalmente, delle disposizioni previste dalla convenzione europea del 1957. Ma a nessuno sfugge come il merito della decisione finale sia stato ispirato dalla nuova cultura giudiziaria liquidatoria delle vecchie garanzie previste dalla passata dottrina. Lo spirito del mandato d’arresto europeo è prevalso sulla lettera della vecchia convenzione, l’anticipazione virtuale sulla norma reale. Una circostanza non nuova. Gran parte degli avvisi favorevoli emessi dalle Chambres a partire dalla metà degli anni Novanta nei confronti dei fuoriusciti italiani, si è ispirata a questa anticipazione zelante di norme non ancora in vigore, dando vita ad una vera e propria giurisprudenza virtuale .
Quel che più colpisce nell’ultima decisione presa dai magistrati francesi, senza voler entrare troppo nei dettagli giuridici, è la palese violazione del ne bis in idem, la fondamentale regola che ogni matricola di giurisprudenza apprende sui banchi dell’università fin dalle prime lezioni di diritto. Non si può essere giudicati due volte per gli stessi fatti. Importa poco che nel 1991 la procedura riguardasse solo degli ordini di cattura e non dei mandati d’esecuzione pena. Gli episodi contestati restano gli stessi senza che sia nemmeno mutata nel frattempo la loro qualificazione. Un tempo, recitava una dottrina oramai desueta, di fronte ad una condanna definitiva l’obbligo di tutela e l’esercizio del principio di precauzione dovevano essere esercitati con un’attenzione ancora maggiore, non essendo più consentita alcuna possibilità di correggere il giudizio finale. Le autorità politiche francesi, attraverso alcune dichiarazioni del guardasigilli Dominique Perben e del presidente della Repubblica Jacques Chirac, hanno lasciato trapelare l’intenzione di voler firmare il decreto d’estradizione, una volta che il fascicolo sarà giunto sul tavolo del governo, aprendo così la strada, salvo fatti nuovi, ad una lunga sequela d’altri casi. Un capovolgimento di fronte che appare ancora più netto della decisione assunta nell’agosto 2002 nei confronti del sottoscritto. rossoLa nuova procedura d’estradizione avviata contro Cesare Battisti ha
scioccato la sinistra francese, scatenando accese reazioni e dibattiti. Fatto senza precedenti, molti leaders della sinistra, dai Verdi, alla Lcr, al Pcf fino allo stesso segretario del partito socialista, Fraçois Hollande, hanno reso visita al rifugiato italiano rinchiuso nella prigione parigina della Santé, mentre il sindaco di Parigi, Jean Delanoe, insieme alla giunta di rosso-verde lo ha dichiarato sotto la protezione del Comune. L’ampio sostegno e la forte simpatia iniziale sono stati successivamente compromessi dalle ripercussioni di una disastrosa campagna stampa infarcita d’errori, rappresentazioni grottesche, discorsi improvvisati, pressapochismi storico-politici sugli anni Settanta e sull’Italia recente, a cui hanno preso parte alcuni scrittori di gialli e fantascienza. Molti dei loro interventi hanno offerto pretesti insperati ai sostenitori delle ragioni dello Stato e della magistratura italiana che, per la prima volta da venti anni a questa parte, sono riusciti guadagnare terreno e simpatie, peraltro rispondendo agli argomenti dilettanteschi sollevati in favore del fuoriuscito italiano con discorsi non meno faziosi e ipocriti. Un contesto sfuggito di mano alla tradizionale linea politica tenuta dai fuoriusciti e improntata ad una rigorosa critica della giustizia d’emergenza. Oggetto della disputa era la veridicità del ricorso alla giustizia d’eccezione per reprimere l’offensiva rivoluzionaria degli anni Settanta e più in generale il giudizio sulla natura democratica o dittatoriale dell’Italia. Alcuni interventi apparsi sui quotidiani francesi (le Monde, Libération, L’Humanité) hanno evocato l’immagine maldestra dei «tribunali militari», triste ricordo della repressione della Comune di Parigi e più in generale il ricorso ad uno stato d’eccezione classico, con la sospensione delle giurisdizioni ordinarie e la creazione di tribunali speciali (sul modello del Tribunale speciale fascista o della Cour de sûreté de l’État), senza risparmiare approssimativi ritratti su un’Italia in stivali e camicia nera. Argomenti di chiara marca girotondina che ricalcavano quanto figure come Dario Fo (le Monde dell’11 gennaio 2002, «Le nouveau fascisme est arrivé») e Antonio Tabucchi (le Monde del 6 febbraio 2002, «L’abîme du totalitarisme»), avevano denunciato all’opinione pubblica francese pochi mesi dopo la bruciante, anche se largamente prevista, sconfitta dell’Ulivo nel maggio 2001. pg_008
Su le Monde del 27 marzo 2004, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Edmomdo Bruti Liberati, ha avuto facile gioco nel replicare che tutto ciò non era mai avvenuto. Confortato da questa ovvietà, si è poi lanciato in una vile menzogna, asserendo che la giustizia italiana aveva giudicato quella lunga stagione d’insorgenza politica in modo assolutamente sereno ed equilibrato, senza l’ausilio di misure eccezionali e mantenendo intatte tutte le garanzie costituzionali, nonostante il contenuto d’alcune sentenze dell’Alta corte, emanate nei primi anni Ottanta, lo smentissero apertamente. All’epoca, la Consulta aveva riconosciuto il ricorso all’eccezione, giustificando il diritto di governo e parlamento ad adottare un’apposita legislazione svincolata dalle garanzie costituzionali. In realtà l’esperienza italiana ha innovato il repertorio classico dello stato d’eccezione, mettendo in pratica un modello molto diverso da quella situazione di “sospensione” o “vuoto” del diritto di cui ha recentemente scritto il filosofo Giorgio Agamben (Lo stato d’eccezione, Bollati Boringhieri 2003). L’Italia non ha affatto sospeso il diritto ordinario, non ha avuto bisogno di dotarsi di giurisdizioni speciali. Al contrario ha stravolto, deformato, inquinato il diritto penale corrente, camuffando sapientemente l’eccezione e rendendola in questo modo permanente: attraverso deroghe, nuovi reati, aggravanti speciali, appesantimenti delle pene, riformulazione dei criteri di formazione della prova (la parola dei pentiti), allungamento smisurato della detenzione preventiva, procedure eccezionali e pratiche informali . La norma corrente si è così dissolta in un vasto insieme d’eccezioni, creando una situazione d’ibrido giuridico. L’Italia ha fatto a meno dei giudici militari perché, sotto la toga, la magistratura ordinaria ha indossato l’uniforme dello Stato etico, assumendo una postura politica e sposando una vocazione purificatrice e combattente del proprio ruolo, corredato di un potentissimo arsenale penale speciale. Una formula innovativa della “eccezione giudiziaria” rimasta inconfessata e inconfessabile, come hanno dimostrato le parole di Bruti Liberati e d’altri insieme a lui. Quanto alla suscettibilità di cui hanno fatto mostra le autorità italiane insieme alla stampa di destra come di sinistra, è bene rammentare che nei decenni passati, nonostante la Francia abbia ripetutamente fatto ricorso alla giustizia d’eccezione e addirittura mantenuto nel suo ordinamento la pena di morte, abolita solo nel 1981, a tal punto che gli altri paesi europei non accedevano alle sue domande d’estradizione, ciò non ha compromesso il giudizio delle altre nazioni nei suoi confronti, e questo perché sempre più la forma dell’eccezione moderna investe le democrazie. Lo scandalo sollevato nei confronti delle accuse mosse alla giustizia italiana da una parte della società francese ha fatto emergere anche la sfacciata doppiezza che su fronti avversi oppone il discorso dell’associazione nazionale magistrati e dei suoi supporters giustizialisti della sinistra a quello della destra berlusconiana o leghista. Mentre i primi non esitano a denunciare all’interno del territorio nazionale i «progetti di fascistizzazione dell’ordinamento giudiziario», come affermato dal segretario generale dell’Anm, Carlo Fucci, per poi all’estero attaccare quelli che, avendo letto quanto da loro stessi detto, ripetono ingenuamente le medesime critiche; i secondi, in patria, accusano la magistratura di totalitarismo ma fuori pretendono che le sue sentenze vengano rispettate e venerate, purché non riguardino gli affari personali del loro premier, Silvio Berlusconi.
Se l’estradizione di Battisti verrà portata a termine, sempre che le differenti istanze di ricorso ancora disponibili non la annullino, lo Stato italiano vedrà coronare lo sforzo avviato negli ultimi tempi, con l’ausilio dei mezzi più disparati, per ricondurre nelle carceri vecchi militanti condannati per lontani fatti di lotta armata, che da uno o più decenni erano riparati all’estero . Oltre trent’anni ci separano dall’inizio della lotta armata, almeno quindici dalla sua conclusione. L’80% dei prigionieri è in carcere da un periodo che oscilla tra i 21 e i 26 anni; la maggior parte dei restanti almeno da 16. Tutto ciò però non appaga affatto i partigiani della certezza della pena. I fautori della legalità ritengono, infatti, che vi siano tuttora conti aperti, anche quando le ultime indagini hanno dimostrato che i due attentati del 1999 e del 2002, venuti ad interrompere oltre un decennio di silenzio, nulla hanno a che vedere con il passato e tanto meno con un fantomatico “santuario francese”, inizialmente accreditato dalle autorità per giustificare le estradizioni.  Sulle ragioni di questo surreale ritorno delle armi vi sarebbe molto da dire, compresa la sfrenata voglia di rimozione degli anni Settanta, il rifiuto ostinato dell’amnistia che ha congelato il tempo e cristallizzato le epoche, tentando d’impedire a quel sapere incarcerato, a quelle esperienze sotto chiave o esiliate, di far valere le ragioni dell’irriproducibilità e inattualità dei modelli di lotta armata trascorsi. Larghi settori della società italiana rimproverano i prigionieri e i rifugiati di non aver mai fatto atto di pubblico pentimento e per questo di aver eluso il senso di colpa, mantenendo per giunta un atteggiamento ambiguo nei confronti di una cultura politica che non esclude il ricorso alla violenza. Il superamento del passato resta ancora un terreno di controversia. Ciò che per gli uni è oramai storia, materia d’indagine e inchieste serrate, da discutere con le tecniche fredde e puntigliose delle scienze sociali, per gli altri è tuttora una ferita aperta, una piaga viva che non può e non deve cicatrizzarsi. Allo scandaglio del lavoro storico si contrappone la venerazione di una memoria trasfigurata nel culto di un dolore non riassorbibile. Al lavoro d’incorporazione del passato doloroso e conflittuale, si sostituisce un atteggiamento di rifiuto che fa di quel passato una trincea su cui attestarsi. 131677
I vinti, se non altro per quella saggezza che fuoriesce dal disagio di chi deve confrontarsi con circostanze sfavorevoli, hanno dovuto misurarsi con la sconfitta esplorandone gli aspetti più reconditi, vivendola sui propri tragitti esistenziali, tra esili senza asilo e castighi. All’anatema hanno opposto la riflessione. Avrebbero potuto barricarsi nelle torri in cemento blindato delle carceri, trovare conforto nell’isolamento penitenziario che gli era destinato, come è accaduto ad alcuni, oppure arroccarsi nel dolore per le vittime della propria parte, sentirsi l’emblema sacrificale di un martirio metastorico, vivere di una mortifera nostalgia che come scrive Milan Kundera, «non intensifica l’attività della memoria, non risveglia ricordi, basta a se stessa, alla propria emozione, assorbita com’è dalla sofferenza». Invece hanno rifiutato tutto questo. Non si sono sottratti alla realtà mutata. Hanno cercato, nonostante i muri e le sbarre, di andare oltre. Sono evasi dalla loro pena, sono fuggiti ai carcerieri rimasti a sorvegliare solo i fantasmi di una società attardata, ancora madida di rancore contro le immagini vuote di icone da odiare. Non sorprende dunque, se tuttora resta incompresa, o suscita addirittura scandalo, la scelta di François Mitterand d’offrire uno spazio d’asilo informale ai fuoriusciti italiani. Un atteggiamento che non cercava risposte a come si fosse scatenata la violenza politica, ma a come se ne potesse uscire. Per una sorta di contrappasso della storia, la Francia degli anni Ottanta restituiva l’aiuto ricevuto negli anni della guerra d’Algeria, quando l’Italia rifiutava sistematicamente l’estradizione dei militanti del Fln o dell’Oas, tra i quali anche uno degli autori dell’attentato del Petit-Clamart contro De Gaulle. Ma a differenza di allora, il declino di quelle culture politiche che sapendo pensare il conflitto erano anche in grado di riassorbire la violenza, quando questa straripava nei momenti più aspri dello scontro, ha ceduto il posto a visioni etiche e concezioni penali che mettono al centro della loro azione temi morali come il problema della colpa.
L’ombra lunga di Auschwitz ha portato con sé l’era dell’imperdonabile, dell’imprescrittibile, dell’indicibile e dell’inescusabile. Male, colpa, vittima, sono figure che assurgono a nuove categorie di una visione morale della storia che relega la politica in luoghi reconditi e infimi e annulla ogni differenza di luogo, di spazio e di tempo. Destoricizzati e desocializzati, gli eventi si colorano di un’aura sacrale. Muta la stessa percezione che i soggetti hanno di se e della loro collocazione all’interno dei fatti. L’esaltazione narcisistica del dolore introduce una nuova dimensione simbolica degli avvenimenti. La reciprocità agonistica è sostituita dall’inconciliabilità vittimistica. Una competizione della sofferenza, tra vittima dominante e vittima soccombente, che mina ogni possibile terreno di riconciliazione civile. Per questo l’amnistia è divenuta una proposta indecente, qualcosa che racchiude il massimo d’irrealismo politico e d’immoralità etica. Strano destino quello di un istituto nato con la democrazia ateniese e divenuto un tabù per le democrazie moderne. Forse una spiegazione si trova in quella finzione che presuppone il gioco democratico. L’amnistia si concepisce unicamente se si considera il corpo politico come diviso o potenzialmente divisibile. Invece oggi i sistemi politici democratici hanno sempre più vocazione ad autorappresentarsi come modelli compiuti, assolutamente insuperabili se non attraverso processi regressivi, percorsi a ritroso che ristabiliscano forme autoritarie o oligarchiche. Il concetto è chiaro: al di fuori del sistema non può esserci un’altra sfera politica poiché l’ordinamento democratico è il compimento stesso della politica, il grado più elevato della sua capacità inclusiva. L’artificiale rifiuto di concepire possibili divisioni della comunità, genera un dispositivo perverso, totalmente autovincolante, da impedire al sistema di autocorregersi. Le democrazie attuali sembrano, infatti, unicamente preoccupate di preservare un’immagine consensuale, dove l’esistenza sociale si dipana in una realtà che deve apparire senza rilievi. Evocare l’amnistia sarebbe come ammettere l’esistenza di conflitti di fondo, di fratture che implicherebbero il riconoscimento di repressioni avvenute, della presenza di una palese disarmonia politica. Abbandonare questa ipocrisia, può forse aiutare la ricerca di soluzioni realistiche che calino di nuovo l’idea di democrazia all’interno della storia, riconducendola a quel gesto inaugurale del politico che è il “riconoscimento del conflitto dentro la società”. Ciò consentirebbe di recuperare quegli strumenti di ripoliticizzazione delle controversie, capaci di permettere al sistema d’autocorregersi dopo aver affrontato traumatiche fasi di divisione e scontro. Sarebbe paradossale, infatti, voler ribadire la figura del nemico irriconciliabile nel momento in cui le democrazie intendono affermarsi come un modello di superamento dell’inimicizia politica.

Erri De Luca: Lettera a un detenuto politico nuovo di zecca

“Persichetti, hanno bisogno di te

Erri De Luca
il manifesto
5 settembre 2002


Vedi Paolo, questi poteri hanno bisogno di te. I detenuti politici, gli sconfitti antichi della lotta al terrorismo sono invecchiati. Da loro non si riesce più a spremere nessuna gratificazione di essere i loro vincitori. Per l’anno venturo duemilatre, è vero, sono previsti circa quattro film sul rapimento Moro per l’occasione del quarto di secolo, ma sono appunto film ed è intanto passato un diluvio di anni di prigione per i responsabili. Di loro e di tutti gli atti di lotta armata si sa tutto, ma si finge di non saperli ancora fino in fondo, per mantenere il fascino di un opera al nero che ancora sobbolle. Ora hanno urgente bisogno di carne fresca da mettere a frollare nelle celle dei nemici. Tu quarantenne sei quanto di meglio offre il mercato. Sei la selvaggina allevata nella semiprigionia dell’esilio francese, quella selvaggina indifesa che nella stagione di caccia viene impallinata nelle riserve. Cosa importa che si tratta di atti remoti, gli ultimi della stagione terminale della lotta armata? Cosa importa che tu oggi sia uno straniero rispetto a quel suolo? Tu sei la nuova preda della gratificante lotta al terrorismo che da noi alimenta successi personali. Come in Israele fanno carriera politica i generali, così da noi l’hanno fatta e la fanno i magistrati addetti alla specialità. Oggi l’Italia e l’occidente hanno bisogno ossigenante della giustificazione. Che diritto abbiamo di approfondire lo scarto della nostra ricchezza, del dominio sulle scorte di aria, acqua e suolo del pianeta, che diritto per alzare barriere e barricate contro le povertà? Abbiamo il diritto di una società in pericolo, minacciata di distruzione dal terrorismo, che perciò può giocare in difesa le sue carte peggiori e compattare il fronte interno. Persone come Fallaci e Glucksmann fanno bene a iscriversi alla nuova specie protetta della civiltà in pericolo. Il loro numero zero parte dal ground di Manhattan, il mio dall’abissale sottozero della gran parte della terra.
Ma quale indulto, ma quale amnistia? Qua serve il rinnovo del personale prigioniero. Quello in garanzia da più di venti anni è in scadenza. La Francia ha tenuto in fresco per noi tutta una bella fetta di rimandati, da poter punire oggi come nuovi. Oggi possono cominciare ergastoli per reati politici di trent’anni fa, che pacchia di vittoria, che teste incanutite da impagliare. Da noi il rancore dopo decenni è ancora intatto, fresco di giornata.
Non riescono a ottenere un solo spiffero sui casi sospesi, un paio di tristi omicidi di funzionari ministeriali isolati e disarmati. Senza soffiate non sono buoni a chiudere neanche l’indagine di Cogne, dopo trecento perquisizioni alla casetta da parte di tutta la squadra scientifica e scienziata.
Vedi Paolo, non sei la retroguardia di una schiera di vinti stravinti, ma il tratto d’unione con i futuri sconfitti da imbalsamare vivi in prigioni abitate ormai solo da stranieri. Perché gli italiani sono sempre innocenti. Sei la primizia di nuove carriere fondate sulla deportazione di altri uccelli da gabbia. Che importa che non siete canarini, che non cantate perché non sapete niente dei motivetti nuovi? Conta che siate lì, nei ceppi esposti dell’ultima gogna contro il terrorismo.
Di recente mi hanno chiesto con sincero stupore come mai avevo scritto la prefazione al libro di Scalzone e tuo Il nemico inconfessabile. Oggi le parole, i libri tornano ad avere il rispettabile peso del sospetto, e una prefazione può già fornire il brivido del reato associativo. Oggi mi sento associato ai residui penali degli anni settanta e ottanta molto più di prima e molto più di una prefazione. Avrei l’ambizione di scriverne la conclusione.
Vedi Paolo non ho consolazioni per te, non posso darti il benvenuto nella tua città turbata dal ritardo del campionato di calcio e dalla zanzara tigre. Ti mando queste righe attraverso uno dei due o tre giornali che in Italia accettano questi argomenti. Ti auguro la più profonda anestesia.

Link
Erri De Luca, lettre à un detenu politique flambant neuf

Erri De Luca: lettre à un détenu politique flambant neuf

“Persichetti, ils ont besoin de toi”

Erri De Luca
il manifesto
5 septembre 2002


Tu vois, Paolo, ces pouvoirs ont besoin de toi. Les détenus politiques, les anciens battus de la lutte antiterroriste ont vieilli. On ne peut plus tirer d’eux aucune gratification à en être les vainqueurs. Il est vrai qu’en deux mille trois sont prévus au moins quatre films sur l’enlèvement d’Aldo Moro, un quart de siècle après, mais ce sont justement des films et entre-temps un déluge d’années de prison s’est écoulé pour les responsables. On sait tout sur eux et sur tous les actes de la lutte armée, mais on feint de ne pas les connaître à fond pour entretenir le charme d’une œuvre au noir toujours en frémissement. Maintenant, ils ont un besoin urgent de chair fraîche à mettre à faisander dans les cellules pour ennemis. Toi, avec tes quarante ans, tu es ce qu’il y a de mieux sur le marché. Tu es un gibier élevé dans la semi-prison de l’exil français, ce gibier sans défense qu’on crible de plomb dans les réserves pendant la saison de la chasse. Qu’importe qu’il s’agisse d’actes lointains, les derniers de la saison finale de la lutte armée ? Qu’importe que tu sois aujourd’hui un étranger vis-à-vis de ce sol-là ? Tu es la nouvelle proie de la lutte gratifiante contre le terrorisme qui chez nous alimente des succès personnels. Comme les généraux qui font une carrière politique en Israël, chez nous ce sont les magistrats chargés de cette spécialité qui l’ont faite et la font. Aujourd’hui, l’Italie et l’Occident ont un besoin oxygénant de justification. Quel droit avons-nous de creuser l’écart de notre richesse, de contrôler les stocks d’air, d’eau et de sol de la planète, quel droit avons-nous de dresser des barrières et des barricades contre les pauvretés ? Nous avons le droit d’une société en danger, menacée de destruction par le terrorisme, qui, pour sa défense, peut donc jouer ses plus mauvaises cartes et compacter son front intérieur. Certains intellectuels ont raison de s’inscrire au nombre de la nouvelle espèce protégée de la civilisation en danger. Leur numéro zéro part du ground de Manhattan, le mien de l’abyssal au-dessous de zéro de la plus grande partie de la terre.
Mais quelle remise de peine, mais quelle amnistie ? Ce qu’il faut ici, c’est le renouvellement du personnel incarcéré. Celui qui est sous garantie depuis plus de vingt ans arrive à échéance. La France a gardé au frais pour nous toute une belle tranche de recalés qu’on peut punir aujourd’hui comme s’ils étaient nouveaux. Aujourd’hui peuvent commencer des réclusions à perpétuité pour des crimes politiques d’il y a trente ans, quelle belle victoire toutes ces têtes blanchies à empailler. Chez nous, après des décennies, la rancune est toujours intacte, fraîche du jour.
Ils n’arrivent pas à obtenir le moindre cafardage sur les affaires en souffrance, deux tristes homicides de fonctionnaires ministériels isolés et désarmés. Sans dénonciations, ils sont incapables aussi de clore l’enquête de Cogne, après trois cents perquisitions dans la petite maison par toute l’équipe scientifique et savante.
Tu vois Paolo, tu n’es pas l’arrière-garde d’une troupe d’hommes battus à plate couture, mais le trait d’union avec les futurs vaincus à embaumer vivants dans des prisons uniquement habitées désormais par des étrangers. Car les Italiens sont toujours innocents. Tu es la primeur de nouvelles carrières fondées sur la déportation d’autres oiseaux de cage. Qu’importe que vous ne soyez pas des canaris, que vous ne chantiez pas parce que vous ne savez rien des nouveaux refrains ? Ce qui compte, c’est que vous soyez là, dans les fers du dernier pilori contre le terrorisme.
Récemment, on m’a demandé avec un sincère étonnement comment j’avais pu écrire la préface du livre de Scalzone et toi La révolution et l’Etat. Aujourd’hui, les mots, les livres retrouvent le poids respectable du soupçon, et une préface peut déjà procurer le frisson du délit d’association. Aujourd’hui, je me sens associé à tout le restant pénal des années soixante-dix et quatre-vingt bien plus qu’avant et bien au-delà d’une préface. J’aurais l’ambition d’en écrire la conclusion.
Tu vois Paolo, je n’ai pas de consolation à t’offrir, je ne peux te souhaiter la bienvenue dans ta ville troublée par le retard du championnat de football et par le moustique tigre. Je t’envoie ces lignes à travers un des deux ou trois journaux qui acceptent de traiter ces sujets en Italie. Je te souhaite la plus profonde anesthésie.

Traduction de Danièle Valin