Storia di Vincenzo T

di Paolo Persichetti

Ho conosciuto Vincenzo T nel carcere Mammagialla di Viterbo. Era il 2003, da pochi mesi ero stato riconsegnato all’Italia dopo undici anni di esilio. Ceduto con un sotterfugio in un’alba di fine agosto alla polizia italiana sotto il tunnel del Monte Bianco. Le televisioni avevano lungamente diffuso le immagini del mio arresto attorniato da poliziotti nel cortile della questura torinese, evento salutato con un brindisi nella dimora in costa smeralda dell’allora capo del governo Berlusconi.
Trascorse alcune settimane in osservazione ero stato trasferito nella sezione penale del carcere. Si faceva sera, il corridoio del reparto era affollato perché le celle in quel luogo venivano aperte per le ore di socialità pomeridiana. Una bella novità dopo i lunghi mesi di isolamento passati a Marino del Tronto. In sezione al mio arrivo tutti mi salutano, qualcuno aveva avvertito che sarebbe arrivato il brigatista. Butto il mio sacco nella cella che mi era stata assegnata e vado subito a passeggiare, su e giù in quel brusio generale. Una sensazione bellissima che avevo dimenticato.
E’ lì che si avvicina Vincenzo T. Testa rapata, viso cotto dal sole, naso a patata. «Paolo ti devo parlare». Si rivolge a me come se mi avesse sempre conosciuto. «Ti devo dire una cosa che solo tu puoi capire. Di te mi fido, degli altri no». Vicenzo T mi rivela così il segreto della sua esistenza che tanto lo tormentava. Una sofferenza esistenziale di cui aveva lentamente preso coscienza. «Ho un problema con la testa, sento le voci. Forse ho un problema psichiatrico, ma qui non lo posso dire a nessuno, devo fingere di essere normale».
Nelle settimane e mesi che seguirono Vincenzo T mi ha raccontato tutta la sua travagliata esistenza. Abbiamo passato quasi quattro anni insieme al Mammagialla, leggendo libri discutendo dell’universo mondo perché Vincenzo nonostante i pochi studi ha una fame incredibile di letture e ragiona tanto, anche troppo.
Gli sono stato accanto sempre, come un fratello maggiore, cercando di proteggerlo e aiutarlo. In quella sezione ho conosciuto altri «matti», con loro ho legato molto e passato i momenti più belli della mia carcerazione. A volte mi sembrava di rivivere alcune scene di Qualcuno volò sul nido del cuculo, mi sentivo Jack Nicholson con i suoi picchiatelli. Il direttore dell’Istituto si lamentava di questa situazione: al Mammaggialla un terzo della popolazione detenuta era psichiatrica, l’altro terzo con dipendenze, infine migranti e poi gli altri. La prigione discarica sociale gli impediva di portare avanti progetti di eccellenza, guadagnare punti per la carriera, finire sulle televisioni mostrando pièce teatrali e progetti d’avanguardia, impossibili in un carcere sentina della terra. Per lui era solo un problema di carriera.
Con noi c’era Pino, divenuto psichiatrico per l’abuso di psicofarmaci, e Mauro, il suo cocellante, che parlava in doccia con le trote e ci spiegava che i marziani erano arrivati in skate a Frosinone. Pino era riuscito ad avere la pensione, gli avevo preparato la pratica. Pochi giorni prima di uscire era angosciato perché non sapeva come custodire i cinquemila euro che aveva nel libretto. A dire il vero non sapeva nemmeno dove andare, era nel panico. La prima sera da libero si perse. Non era riuscito a ritrovare la strada della casa famiglia dove lo ospitavano. Passò la notte su una panchina. Poi c’era Vladimiro, il “comandante”, condannato perché aveva rubato delle biciclette e una catenina scavalcando una finestra a piano terra. Anche lui sentiva le voci, «sono come Giovanna D’Arco», diceva. Ricordo una sua lettera arrivata anni dopo, era finito in un carcere psichiatrico, in un grande camerone dove si mangiavano solo patate lesse e altri detenuti si masturbavano guardando la televisione.
Ma quella di Vincenzo T era la storia più dura, un grumo di sofferenza, stigma sociale, persecuzione giudiziaria, abbandono e ignoranza. In carcere cominciarono ad arrivargli con frequenza regolare notifiche di condanna e denunce per violazione degli obblighi della sorveglianza. Ogni volta montava di rabbia, con fatica lo calmavo. Lentamente cominciammo a capire: quando era in sorveglianza speciale, dopo la sua prima lunga condanna, Vincenzo T aveva frequenti crisi psichiatriche. Venivano così disposti dei trattamenti sanitari obbligatori. I carabinieri del suo paese non trovandolo a casa, invece di segnalare il ricovero ospedaliero lo denunciavano per evasione. Sei mesi di condanna ogni volta. Gli feci chiedere le cartelle cliniche, confrontammo le date, erano perfettamente sovrapponibili con le denunce presentate da quella caserma infame. Inviammo tutto all’avvocato che per una volta ebbe gioco facile a smontare le accuse. Ma questo è solo un assaggio, il resto è storia di una mancata diagnosi, dell’assenza di cure, dell’abbandono da parte di una famiglia priva di strumenti culturali ma soprattutto da parte della società, delle istituzioni, come si dice. Solo, senza protezione, Vincenzo T in preda alla sue periodiche crisi psicotiche aveva cominciato a girovagare per l’Italia alternando momenti di tranquillità, dove lavorava come autista di scavatrici per ditte che si occupavano di appalti stradali, a crisi acute. E ad ogni crisi invece della cura arrivava la denuncia e il carcere: oltraggio e violenza a pubblico ufficiale, danneggiamenti, litigi di strada, occupazione di immobili (una vecchia stazione ferroviaria abbandonata, utilizzata come giaciglio in assenza di una casa) e ancora, e ancora. Ricordo quando in semilibertà lo andai a trovare nella zona di Trastevere, dove viveva dopo aver terminato il carcere. Non stava bene, vedeva demoni sorgere dal selciato, era alterato. Anche se non potevo, stavo violando il programma trattamentale, cercai di acchiapparlo per portarlo in ospedale. Fuggì. Sapevo cosa sarebbe successo di lì a poco. Il giorno dopo era di nuovo a Regina Coeli, rinchiuso per oltraggio e violenza a pubblico ufficiale.
Morta l’anziana madre si sono guastati gli ultimi legami con la famiglia che lo aveva estromesso dall’eredità, qualche campagna e la casa materna. Fonte ulteriore di sofferenza, sensazione di una ingiustizia insopportabile. Ancora denunce e condanne, direttissime senza difesa. 
Negli ultimi tempi Vincenzo T aveva messo un po’ di ordine nella sua vita. La famiglia finalmente gli aveva riconosciuto una parte di quanto gli spettava. Con quei soldi aveva comprato una piccola casa, con un amico l’aveva rimessa posto. Lavorava nelle campagne etnee, al nero, la sera lo vedevo sui social fare i suoi balletti con amiche lontane fino a quando è arrivato un cumulo di vecchie condanne, di cui non si era preso cura, a precipitarlo nuovamente nell’abisso del carcere.
Da oltre due anni Vincenzo T è di nuovo in detenzione, in Sicilia. Senza soldi, non riesce a percepire la sua pensione di invalidità psichica perché la carta postale è bloccata. Non ha colloqui e telefonate. Vive nell’indigenza assoluta e i giudici di sorveglianza gli negano sistematicamente le misure alternative, sottolineando la sua «pericolosità» sociale. Vincenzo T mi scrive lunghe lettere dove racconta il carcere di oggi. Per la prima volta non trovo parole per rispondergli.

Milei usa l’estradizione di Bertulazzi per riabilitare la dittatura

Leonardo Bertulazzi nell’atelier di liutaio dove lavorava prima di essere arrestato e sottoposto a procedura di estradizione

La mattina di lunedì 16 luglio è stato esaminato davanti la corte suprema federale di cassazione argentina il ricorso presentato dalla difesa di Bertulazzi contro il nuovo arresto eseguito dopo il parere favorevole alla estradizione concesso dalla corte suprema di giustizia. La corte si è riservata e la decisione finale verrà comunicata nei prossimi giorni.
In precedenza sempre la corte di cassazione aveva annullato la sua incarcerazione, concedendo la misura dei domiciliari, perché il ricorso presentato contro la revoca dello status di rifugiato politico, riconosciutogli nel 2024, sospendeva l’effetto della decisione unilaterale intrapresa del governo fascista di Javier Milei. L’avvocato di Bertulazi, Rodolfo Yanzón, ha ribadito che nonostante il parere favorevole concesso alla estradizione: «Bertulazzi continua ad avere lo status di rifugiato presso le Nazioni Unite, poiché è pendente un causa presso il tribunale amministrativo su questa questione». E la corte suprema è stata molto chiara sul punto: l’estradizione non può essere materializzata finché non verrà chiarita in modo definitivo la questione del rifugio. Milei ha introdotto una nuova legge su misura che impedisce di concedere protezione alle persone implicate in reati di terrorismo (anche se il sequestro dell’armatore Costa per cui è stato condannato Bwrtulazzi non lo è perché realizzato prima dell’introduzioni delle aggravanti speciali antiterrorismo). Norma antiBertulazzi che tuttavia non ha valore retroattivo e non può incidere su una decisone presa ventuno anni prima.

Estradare Bertulazzi per riabilitare la dittatura
Nei giorni scorsi, prima la ministra della sicurezza nazionale, Patricia Bullrich, e successivamente Maria Florencia Zicavo, capo gabinetto del ministero della Giustizia argentino e responsabile della Commissione nazionale per i rifugiati (Conare), oltre a rilanciare la menzogna sul ruolo «importante che Bertulazzi avrebbe avuto nell’operazione che portò al rapimento e al successivo omicidio di Aldo Moro», nonostante in quel momento si trovasse nelle carceri italiane da quasi un anno, fake agitato con forza nello spazio pubblico argentino per rafforzare il dossier fragile che sostiene le ragioni della estradizione, hanno proposto un ribaltamento del giudizio storico sul recente passato dittatoriale argentino.
L’estradizione di Bertulazzi fa parte di una più generale riscrittura e cancellazione della storia e dei crimini della dittatura, all’interno della quale i soli colpevoli e responsabili diventano gli oppositori, coloro che hanno combattuto la dittatura e da questa sono stati perseguitati: ex prigionieri politici, i militanti assassinati, le migliaia di desaparecidos, i minori rapiti e adottati dalle famiglie dei militari del regime. L’operazione Bertulazzi serve ad aprire una prima breccia, ribaltando la responsabilità della violenza e dei crimini attribuendola a chi provò ad opporsi alla dittatura o nemmeno fece in tempo a farlo. Un po’ come se oggi in Italia il governo Meloni iniziasse a dare la caccia ai superstiti ancora in vita della resistenza antifascista.

Il gioco delle tre carte
D fronte a questa operazione la sinistra italiana, il Pd, i «democratici», tacciono, fanno finta di non sentire o capire, per soddisfare la pretesa punitiva della giustizia dell’emergenza di cui sono stati i padrini. La procura genovese in mano a giudici di Md, si è portata garante davanti alla giustizia argentina sulla possibilità che una volta in Italia Bertulazzi possa essere riprocessato nuovamente, e giudicato stavolta correttamente, correggendo le pesanti e inique condanne ricevute all’epoca (leggere l’intervista di Mario Di Vito del manifesto). Una bella promessa che purtroppo non è una garanzia poiché la legge italiana dice altro, prevede solo 30 giorni per fare la richiesta di riapertura del processo, ma poi sarà la corte d’appello a decidere. E l’intera giurisprudenza passata ci dice che una cosa del genere non è mai avvenuta. Addirittura in alcuni casi analoghi i giudici hanno fatto partire il conteggio dei trenta giorni non dal momento della riconsegna all’Italia dell’estradato ma da quando questi avrebbe avuto notizia ufficiale delle condanne pendenti. Ovvero in questo caso oltre venti anni fa, quando la giustizia argentina decise di non estradarlo perché condannato in contumacia.
Il sistema giudiziario italiano non ha mai voluto rimettere in discussione i processi di quegli anni. E così la nuova destra argentina oggi al potere potrà sbiancare la storia della dittatura sulla pelle dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi con la complicità delle anime bella della sinistra italiana.

Il caso Bertulazzi

Genova solidale contro l’estradizione di Leonardo Bertulazzi


di Leonardo Bertulazzi

Ci sono stati tempi in cui la prigione non è stata l’unico modo per epurare una condanna. L’esilio è stato per molti secoli il destino imposto ai trasgressori. Si considerava l’esilio, lo sradicamento come una pena, una pena senza ritorno, una rottura totale del corso della vita di una persona tra un prima nella propria terra, la terra della sua famiglia, e un dopo tutto da costruire, senza l’aiuto dei codici che la vita, relazioni e conoscenze di prima avevano sedimentato.
Questa rottura, questa separazione dell’albero dalle sue radici vive nel senso degli esiliati come una pietra miliare cruciale che segna il profondo della loro coscienza in modo più o meno doloroso, ma sempre presente. L’esilio è sempre stato considerato una pena, una punizione.
Nel 1951 con la convenzione di Ginevra i paesi del mondo hanno sottoscritto l’impegno di promuovere la protezione degli stranieri in cerca di un rifugio.
Ciò che nella convenzione di Ginevra spicca come impegno inderogabile è il principio di “Non Refoulement”: una volta che un paese riconosce un espatriato come rifugiato, offrendogli la sua protezione, si impegna a non mancare alla parola data, a non riportarlo nel paese in cui è in pericolo. Dare asilo significa dire: “Qui sei al sicuro. Qui puoi rifarti la vita».
La convenzione di Ginevra sancisce nel principio del “non refoulement” una prova che era già iscritta nella coscienza collettiva come espressione del valore della parola data, del dovere di uno stato di rispettare i suoi impegni e di non giocare con la vita delle persone e dei profughi, trasformandoli in moneta di scambio per gli affari tra paesi.
Il paese che concede la sua protezione a uno straniero lo mette in condizione di vivere nel suo territorio e nella sua società, dove porterà il granello di sabbia del suo lavoro, attività e relazioni umane.
Ecco perché il caso di Leonardo Bertulazzi fa così male. È arrivato 23 anni fa, ha lavorato, ha formato una casa, è invecchiato in pace. Oggi, a 73 anni, è in prigione e potrebbe essere estradato. Lo stesso paese che lo ha ospitato sembra disposto a cederlo, anche se il suo status di rifugiato è ancora in vigore.
Per giustificare il colpo di scena, viene dipinto come un “assassino”. Falso: mai è stato accusato o condannato per crimini di sangue. La cosa inquietante è vedere uno Stato cedere alle pressioni esterne e dimenticare la sua parola, lasciando un rifugiato alla mercé di coloro che lo hanno perseguitato.
Il “non-refoulement” o non-refoulement non è lettera piccola, è il muro che protegge le vite dalla diplomazia delle convenienze. Se lo abbattiamo, non tradiamo solo Leonardo: infrangiamo la fiducia in tutto il sistema di protezione internazionale.
Il caso Bertulazzi non è un altro dossier. È la prova vivente che la nostra parola vale qualcosa o se finisce fradicia e rotta, come carta bagnata.

Secondino una ceppa di c… Alberto Sordi contro Geolier

Amici napoletani mi hanno spiegato che il nome d’arte Geolier preso da un noto cantante di successo sia frutto di una scelta identitaria legata ad una sottolineata rivendicazione del suo quartiere di origine, il rione Gescal di Secondigliano. Nei giorni scorsi alcuni giornalisti si sono affrettati a spiegare che il termine francese «Geolier» vorrebbe dire in italiano «secondino», termine con il quale a Napoli verrebbero chiamati gli abitanti di Secondigliano, sia per la presenza del carcere che per l’alta densità di popolazione del quartiere incarcerata. Non so quanto sia vero o quanto sia accettata una etichetta del genere, ma facciamo che sia così.

In realtà in italiano il termine geolier si traduce con carceriere. La parola viene da «geôle», dal francese arcaico «gaiole» derivato dal basso latino «caveola», diminutivo del latino classico «cavea», che indica una cavità, caverna e al tempo stesso gabbia. La geôle era la vecchia segreta, la cella riposta nei sotterranei per intenderci e il geolier il carceriere del luogo.
Secondino invece è un termine gergale, dispreggiativo, che indicava in origine «i secondi del capo carcere», in sostanza le guardie carcerarie che dovevano ubbidire al loro superiore in grado, dei sottomessi agli occhi dei detenuti. Termine «in origine lombardo, passato poi in veneto e quindi nella lingua nazionale durante il XIX secolo». Impiegato dai reclusi soprattutto in risposta alla pretesa delle guardie carcerarie di essere chiamate «superiori».
L’equivalente francese, non letterale ma di senso, del termine secondino è «maton» che deriva dall’argot «mater» ovvero guardare, dunque colui che guarda, il guardone.

Tutto questo per dire che se il nostro cantante voleva chiamarsi secondino, avrebbe dovuto impiegare il termine maton, largamente in uso nel francese attuale, e non geolier.

Il détournement, posto che questo fosse il vero obiettivo, non mi sembra granché riuscito.

Torno a dire, e concludo, che quello che a me un po’ sconcerta è la naturalezza con cui si sceglie di assumere questo nome, carceriere o secondino che dir si voglia, senza percepirne il disvalore profondo e che nei quartieri difficili, almeno un tempo, equivaleva all’infamia. 
Se ciò non è più, si tratta di un fatto socialmente e culturalmente rilevante, pregnante di significato, che introduce una cesura tanto più se avviene proprio in quei quartieri difficili, che contano un gran numero di persone detenute, di familiari con detenuti, dove quasi tutti hanno un amico o conoscente incarcerato o che è passato per la detenzione, dove il carcere è purtroppo un orizzonte quotidiano, un percorso inevitabile della propria esistenza che incombe in ogni momento.

Resisto al rischio di trarre conclusioni troppo affrettate intorno ad un fenomeno di costume che però non sottovaluterei affatto.
 Concludo solo ricordando che tra l’Alberto Sordi interprete di Detenuto in attesa di giudizio, con la regia di Nanni Loy, soggetto e sceneggiatura di personaggi del calibro di Rodolfo Sonego, Sergio Amidei e Emilio Sanna, e il povero Geolier, non c’è misura o scelta possibile. Sarà un segno dei tempi, sarà quel che sarà, ma è così.


– Scusi secondino!

– Secondino una ceppa di cazzo. Superiore!

– Superiore? Superiore a chi? Superiore a cosa? Superiore a me?


Il pene della Repubblica, il sequestro Dozier e altre storie 

Ancora un articolo di Pino Narducci (il precedente lo potete leggere qui), magistrato e ricercatore, sull’impiego della tortura nell’azione di contrasto ai gruppi armati dell’estrema sinistra nei primissimi anni 80, ospitato sulla rivista di Magistratura democratica. Ho già scritto molto anche se non a sufficienza su questo tema (su questo blog potrete trovare molto materiale). Aggiungo solo una cosa prima di lasciarvi alla lettura di questo articolo: Cesare Di Lenardo, una delle persone di cui si parla in questo testo, miltante delle Brigate rosse arrestato nel blitz che portò alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, selvaggiamente torturato (la foto qui sotto è presa dalla perizia medica che venne svolta durante le indagini), è ancora in carcere nonostante i 43 anni trascorsi.

di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia

«Dovevamo arrestarci l’un con l’altro», www.questionegiustizia.it, 29 gennaio 2024

Nell’appartamento veronese entrano in quattro, travestiti da idraulici. Tengono la donna sotto il tiro di una pistola, la immobilizzano ed escono con l’ostaggio nascosto in un baule, caricandolo su un pulmino che è rimasto in attesa in strada. Poi, via, di gran corsa, verso Padova dove è stata allestita la base in cui il prigioniero resterà per più di 40 giorni[1].

È il 17 dicembre 1981 e, con il sequestro di James Lee Dozier, generale statunitense NATO[2], le Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente realizzano l’azione più spettacolare di una storia iniziata appena pochi mesi prima, dopo la cattura di Mario Moretti[3].

Durante la fase del rapimento uno dei sequestratori parlava uno “slang” americano, così scrivono i giornali dell’epoca, e quindi, lo scenario è quello di una operazione in cui gli attori non possono essere soltanto i brigatisti italiani. Anzi, la foto del sequestrato diffusa dalle BR-PCC è un fotomontaggio e questo vuol dire che Dozier già si trova all’estero, forse dopo aver viaggiato su uno dei tanti TIR che vanno e vengono dall’Austria. I cronisti sono pronti a scommettere che il rapimento è opera di una centrale europea del terrorismo che comprende le BR, la RAF tedesca, l’ETA basca e l’IRA, organizzazioni che si sono incontrate in riunioni sul lago di Garda e in Svizzera. Insomma, un turbinio di improbabili ipotesi e di vere e proprie bufale.

È vero invece che, a Roma, arrivano alcuni agenti CIA e che il Ministero dell’Interno, guidato dal democristiano Virginio Rognoni, seleziona il nucleo di funzionari che dovrà coordinare le indagini nel Veneto: Umberto Improta, Oscar Fioriolli, Salvatore Genova e Luciano De Gregori. 

Nella Questura di Verona, Gaspare De Francisci, il capo dell’UCIGOS (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali), convoca la squadra messa in piedi dal Viminale. L’Italia non può perdere la faccia e, quindi, secondo ordini che vengono dall’alto, per trovare Dozier si potrà usare qualsiasi mezzo, anche le maniere forti. Nessun timore, rassicura De Francisci, perché, se qualcuno resterà invischiato in una storia di violenza, godrà di una sicura copertura, politica ed istituzionale.

Finalmente può partire la caccia ai rapitori del generale e, questa volta, è consentito ogni metodo per estorcere informazioni.

Il giorno dopo arriva a Verona il funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia (il professor De Tormentis secondo la definizione che gli è stata affibbiata da Improta), lo specialista, con la sua squadra dei “cinque dell’Ave Maria”, delle sevizie che servono a far parlare. Ha già torturato, nel maggio ’78, Enrico Triaca, il tipografo brigatista di via Pio Foà a Roma[4] e questa volta, finalmente, può agire senza adottare particolari precauzioni perché la sorte di coloro che saranno arrestati, veri o presunti brigatisti che siano, è stata decisa dall’alto: se non parlano subito, magari dopo schiaffi e pugni, saranno torturati.

Ciocia resta in Veneto solo qualche giorno. Poi corre a Roma dove sono stati arrestati, il 3 gennaio ’82, Stefano Petrella ed Ennio Di Rocco, membri delle BR-Partito Guerriglia, per fare loro quello che ha già fatto a Triaca.

Dozier è tenuto al sicuro in un appartamento, in via Ippolito Pindemonte, all’interno del quale è stata collocata una tenda in cui vive il prigioniero. 

Ma gli uomini del Viminale non hanno alcuna idea del luogo in cui possa trovarsi né della identità dei brigatisti. E le centinaia di telefoni messi sotto controllo non possono certo condurre alla prigione del generale. Non resta che prelevare le persone, interrogarle e, soprattutto, affidarsi, come già faceva l’inquisizione, alle sedute di tortura.

Alla fine di gennaio accade a Nazareno Mantovani che viene interrogato e picchiato per prepararlo alla vera e propria seduta di tortura che è affidata a Ciocia ed alla sua squadra. I poliziotti hanno un luogo appartato per infliggere tormenti. È un villino che è stato preso in affitto dalla questura veronese. Mantovani ci arriva bendato. Ciocia ed i suoi uomini “trattano” Mantovani con acqua e il sale, ma esagerano, tanto che De Francisci interrompe la seduta dopo lo svenimento del prigioniero. 

Paolo Galati mette i poliziotti sulle tracce di una militante. Oscar Fioriolli dirige la perquisizione a casa di Elisabetta Arcangeli senza sapere che dentro ci troverà anche Ruggero Volinia, nome di battaglia “Federico”. È lui che ha guidato il pulmino con dentro Dozier da Verona a Padova.

Separati da un muro, Volinia e Arcangeli si trovano all’ultimo piano della Questura veronese. Ciascuno può sentire l’altro mentre Fioriolli li interroga ed Improta segue la scena. La brigatista, nuda, è legata mentre i poliziotti le tirano i capezzoli con una pinza e le infilano un manganello nella vagina. Dall’altra parte del muro, percuotono Volinia. Lo caricano su una macchina, lo conducono in una chiesa sconsacrata e, sottoposto ad acqua e sale dal gruppo di Ciocia, rivela il luogo in cui si trova Dozier[5].

Il 28 gennaio 1982, verso le 11:00, sette uomini del NOCS (Nucleo Operativo Centrale Sicurezza), le “teste di cuoio” della Polizia italiana, irrompono nell’appartamento di via Pindemonte. Senza difficoltà, immobilizzano i carcerieri di Dozier: Antonio Savasta, Giovanni Ciucci, Cesare Di Lenardo, Emanuela Frascella ed Emilia Libéra. 

I brigatisti vengono messi pancia a terra sul pianerottolo mentre arrivano Genova ed Improta. Sono bendati ed hanno le mani legate dietro la schiena. Rifiutano di rivelare la propria identità ed i nomi di battaglia ed allora giù calci e botte. Qualche poliziotto ritiene sia ancor più efficace camminare sopra i loro corpi. 

Alle due militanti («Sei una mignotta?» urlano i polizotti, «No!», ed allora giù calci e pugni) va ancor peggio. Abbassano la gonna ed i collant di Libéra e Frascella, sferrano calci sul pube e sul sedere, alzano la maglietta delle due donne e tirano i capezzoli del seno.

Su quel pianerottolo gli arrestati restano una infinità di tempo (sicuramente, dietro le porte dei vari piani del grande edificio, tanti ascoltano quello che sta accadendo, ma nessuno ha il coraggio di mettere la testa fuori). Poi, gli agenti NOCS portano i brigatisti nella palazzina del II reparto celere di Padova.

Il senso di impunità è talmente smisurato che il comandante del reparto scrive un ordine di servizio e non esita a mettere nero su bianco le disposizioni che dovranno essere seguite per custodire i sequestratori di Dozier, un documento che prova, prima ancora di qualsiasi testimonianza, quali metodi illegali saranno usati contro gli arrestati.

I cinque detenuti dovranno «essere costantemente legati e bendati», dovranno essere usati tutti gli accorgimenti per «non far avere loro la percezione del luogo in cui si trovano», il personale «non dovrà assolutamente rivolgere loro parola o rispondere a loro domande, tantomeno pronunciare nomi, luoghi e gradi che possano dar luogo ad eventuali identificazioni», i detenuti potranno «essere accompagnati eccezionalmente» in bagno, «non dovrà essere esaudita nessun’altra richiesta se non previa superiore opportuna autorizzazione» e «si dovrà accertare da parte del personale preposto che i legacci e i bendaggi siano sempre ben messi». 

L’estensore del piccolo manuale di istruzioni per annichilire e spezzare il detenuto non dimentica di raccomandare che «il servizio ovviamente riveste natura di massima riservatezza»[6]

La giornata del 28 gennaio è frenetica e la tortura inizia a produrre i suoi risultati. 

«Quando sei entrata nelle BR? Chi ha partecipato al sequestro? Chi è Sara?». Frascella non risponde alle domande, così chi la interroga le alza la gonna, le cala le mutande e le strappa i peli del pube. La brigatista inizia a cedere e fornisce qualche informazione. 

Escono i “cattivi” e nella stanza entrano i “buoni”. «Dai collabora, ti conviene», continuano a ripeterle. Tornano i “cattivi” e riprendono a strapparle i peli del pube ed a stringergli i capezzoli. La fanno appoggiare a un tavolo e le dicono che le infileranno una gamba della sedia nella vagina. Frascella cede e parla di “Federico”. Bendata e legata su una sedia, la militante non può dormire perché appena si appisola qualcuno corre a svegliarla. È notte fonda quando tornano i “buoni” e Frascella, che ha sentito chiaramente le grida di Savasta e Di Lenardo, vuota il sacco. 

In un’altra stanza, Emilia Libéra è costretta a restare in ginocchio, sul pavimento, per alcune ore. Un “premuroso” poliziotto che la sorveglia le dice che i suoi colleghi, nella stanza accanto, stanno violentando la Frascella. Poi, bendata, viene messa su una sedia. Arriva il “cattivo” e le chiede dove possono trovare Sara, il nome di battaglia di Barbara Balzerani. 

Libéra non apre bocca e allora giù pugni e schiaffi, capezzoli schiacciati e calci sul pube. Le tolgono pantaloni e mutande e la fanno chinare su un tavolo. Il “cattivo” annuncia che le metterà un bastone nella vagina e, aggiunge, lei deve crederci perché lui ha già “trattato” Di Rocco e Petrella. Libéra sa che con i due brigatisti hanno usato l’acqua e il sale e teme che, da un momento all’altro, tocchi a lei la stessa sorte.

Anche Savasta, bendato e legato su una sedia, viene colpito su tutto il corpo ed i seviziatori si divertono a spegnergli sigarette sulle mani. Sente le grida di Libéra e Frascella, ma non la voce di Ciucci che, dicono i poliziotti, è già morto. Poi arrivano i «giustizieri» (così si presentano a Savasta) che puntano la pistola alla tempia del brigatista e minacciano di ucciderlo. Savasta cerca di fermarli: «Io sto già parlando». Ma a loro non interessa, sono giustizieri[7].

I “cattivi” vanno via ed i “buoni” lo portano in un’altra stanza e, dopo avergli chiesto se vuole nominare un avvocato, gli fanno firmare un verbale.

Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci (lui è veramente malridotto perché non riesce a camminare e gira seduto su una sedia da ufficio) vengono messi insieme in una stanza. Discutono e decidono tutti insieme di saltare il fosso e collaborare.  

E così, già quella notte, forniscono le prime informazioni. Quelle di Savasta sono molto importanti perché lui conosce la base di via Verga, a Milano, dove più volte si è riunita la Direzione strategica. 

Di Lenardo non cede ed è l’unico che non si piega alla tortura. Non si può dire che con lui non siano stati chiari: «Nessuno sa del tuo arresto, sei solo un sequestrato e possiamo fare di te quello che vogliamo». Ma il brigatista si ostina a non parlare, si dichiara prigioniero politico ed allora occorre ricorrere a tormenti più sofisticati. 

I poliziotti si danno il cambio per colpirlo sulla pianta dei piedi, ma non disdegnano di sbattergli la testa contro il muro. Lo fanno distendere per terra, nudo, per ricevere scariche elettriche sul pene e sui testicoli, mentre altri gli danno calci ai fianchi e gli comprimono la testa. Poi pugni e schiaffi al volto, colpi sul naso, compressione delle pupille, schiacciamento della testa con i piedi, bruciatura delle mani, tagli al polpaccio. Con i calci, gli rompono il timpano dell’orecchio sinistro. 

A Di Lenardo non viene risparmiato nulla, ma, se i suoi compagni, nella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, già firmano i verbali di dichiarazioni spontanee, il brigatista è irremovibile. Ed allora bisogna fare in fretta perché tra qualche ora si presenterà in caserma il sostituto procuratore veronese per gli interrogatori. I poliziotti sono delusi. Nella base milanese di via Verga, quella indicata da Savasta, non hanno trovato nessuno. Forse, Di Lenardo può fornire altre notizie. Magari, può far arrestare la Balzerani. «Di Lenardo deve parlare». 

Gli tolgono le manette dai polsi e le mettono ai piedi, gli legano le mani con pezzi di stoffa, gli stringono la benda sugli occhi, chiudono la bocca con un’altra benda e lo mettono nel bagagliaio di un’auto si mette in movimento seguita da un altro veicolo. Dopo un giro di mezz’ora le auto si fermano e due poliziotti trascinano il brigatista tenendolo per le ascelle. Di Lenardo comprende che si trova su un prato, sicuramente in una una campagna nei dintorni di Padova. 

Lo fanno inginocchiare e lo pestano. Solito copione: il “cattivo” arrabbiato si alterna al “buono” che modera gli eccessi. Poi una voce, più forte delle altre: «Adesso ti spariamo». Parte un colpo di pistola. Non è morto!!! Nemmeno la finta esecuzione (el simulacro de fusilamiento, tanto in voga in America latina) fa crollare il detenuto[8]

Di nuovo botte. Lo riportano in caserma. Nudo, steso su un tavolo con la testa penzoloni, braccia e gambe legate. Gli riempiono la bocca di sale, gli tappano il naso e giù acqua in grande quantità. Una pausa e poi si riprende. Altra pausa e si riprende. Di Lenardo non respira, sta soffocando, il corpo trema, grida. Si fermano. Mentre viene torturato il brigatista sente qualcuno dire «Genova». Pensa a un poliziotto, ad uno di quelli che, nei giorni precedenti, gli hanno parlato delle operazioni anti BR che hanno fatto nel capoluogo ligure. Si sbaglia. Alcuni giorni dopo, un funzionario cerca di convincerlo a collaborare. Entra nella stanza un poliziotto e dice «dottor Genova, al telefono». Di Lenardo allora comprende: nella stanza, mentre veniva torturato, c’era il commissario Salvatore Genova[9].

I brigatisti non vengono portati in carcere ed il sostituto procuratore veronese li interroga, il 1° e il 2 febbraio, negli uffici della celere. Savasta riempie pagine e pagine di verbale. Così fanno anche Libéra, Ciucci e Frascella. Buon ultimo, nel pomeriggio del 2 febbraio, Cesare Di Lenardo si siede davanti al magistrato. Lui non ha nulla da dire, vuole solo denunciare le sevizie che ha subito. Lo farà di nuovo, il 28 febbraio, con un dettagliato memoriale spedito alla Procura ed al Presidente del Tribunale di Verona.  

Il sistema generalizzato delle violenze sugli arrestati per fatti di terrorismo è cresciuto così a dismisura che, proprio nel febbraio-marzo ’82, diventa incontrollabile e non è più possibile tenerlo segreto.

Pier Vittorio Buffa, de “L’Espresso”, e Luca Villoresi, di “La Repubblica”, pubblicano due articoli grazie a notizie fornite da fonti interne alla Polizia che non vogliono assecondare la linea oltranzista dettata dal Viminale. Le pratiche della tortura sono diffuse e vanno oltre i confini delle province di Padova e Verona. A Mestre, nel II distretto di Polizia, hanno usato gli stessi mezzi. La stessa cosa è avvenuta anche a Roma e Viterbo. A Villoresi, un anonimo investigatore veneto sostanzialmente ammette che la tortura, in alcuni casi, è stata usata e rivendica il risultato di aver «ripulito il Veneto»[10].  

Si moltiplicano le denunce, ma Virginio Rognoni risponde seccamente: «…sulle pretese violenze cui sarebbero stati sottoposti i terroristi recentemente arrestati a Padova e nel Veneto posso dire che sono totalmente false».

Al Ministro dell’Interno risponde anche Magistratura Democratica, l’unico gruppo di giudici che affronta, senza reticenze, il tema dei metodi con i quali viene praticato il contrasto al terrorismo. MD giudica «non sufficienti e definitive le risposte date dal governo», vede distintamente «il pericolo di cedimenti e tolleranze per simili degenerazioni», chiede di «rispettare i termini di legge per presentare l’arrestato al magistrato» e sollecita i magistrati a «fare indagini ed accertamenti medico-legali sulle violenze denunciate». 

Intanto, il processo veronese al gruppo dirigente e ai militanti delle BR-PCC va avanti senza particolari sussulti. Sfilano davanti ai giudici tutti i brigatisti che hanno fatto la scelta di collaborare ed i funzionari di Polizia che li hanno arrestati. Quando arriva il suo turno, Umberto Improta racconta che Ruggero Volinia “Federico”, appena arrestato, subito ha detto di voler collaborare, ha condotto i poliziotti ad un covo a Mestre e poi ha fornito tutte le informazioni sul covo di via Pindemonte. E giunti qui, continua Improta, l’inarrestabile onda del pentitismo ha prodotto altri risultati. Pensate che, aggiunge il funzionario UCIGOS, terminata l’irruzione alle 11:20, Antonio Savasta, appena 15 minuti dopo, già esclamava: «Vi dirò tutto!».

Le uniche voci dissonanti sono quelle di Cesare Di Lenardo e di Alberta Biliato che, presentandosi come prigioniera politica, sostiene che le dichiarazioni che lei ha fatto al magistrato, dopo l’arresto a Treviso, sono solo il frutto delle torture che ha subito.  

Poi un colpo di scena, l’unico del processo. Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci – che sino a quel momento hanno fatto ogni sorta di rivelazione, ma nulla hanno detto sulle violenze – consegnano un memoriale al Tribunale. Non fanno marcia indietro rispetto alla scelta del “pentimento”, ma assicurano di non aver avuto favori perché «il trattamento riservatoci dopo l’arresto è stato per noi tutti identico a quello che altri compagni hanno denunciato». E proseguono: «Quattro lunghissimi giorni che non ti fanno restare dentro neanche la dignità di disprezzare chi ti ha torturato, che hanno un fine ben più ambizioso delle informazioni immediatamente estorte, poiché perseguono l’annientamento della tua identità politica». Così, mentre il processo veronese si avvia alle batture finali, per la prima volta anche i brigatisti “pentiti” denunciano le torture[11].   

A Giovanni Palombarini, segretario di Magistratura democratica, che sostiene che la risposta di Rognoni «non è certo stata tranquillizzante ed esaustiva, non dissipa i sospetti, né quieta le voci»[12], ed ai tanti che denunciano la barbarie che si sta consumando sembra quasi indirettamente rispondere il sostituto procuratore che, al termine del processo veronese ai brigatisti, durante la requisitoria, rivolge «un grazie motivato alla polizia che ha lavorato nella più stretta legalità» perché «..mai ho ricevuto lamentele, non dico denunce, di comportamenti scorretti, non dico di abusi…» sino alla scoperta del covo padovano a cui si è arrivati nella “più piena legalità”, grazie esclusivamente alle «indagini sagaci della polizia giudiziaria».

Proprio mentre il magistrato pronuncia queste parole alla Camera dei deputati si svolge un dibattito dai contenuti molto meno rassicuranti. Il Ministro dell’Interno, per la seconda volta, risponde alle tante interrogazioni sul tema delle violenze. I parlamentari citano decine casi accaduti in tutta Italia, ma, soprattutto, le denunce delineano i profili di un sistema diffuso che ha travolto le regole dello stato di diritto ed ha generato una involuzione autoritaria e repressiva[13].  

E’ il sistema nel quale maturano le torture: diventa prassi comune mettere un cappuccio all’arrestato oppure bendarlo; gli interrogatori dei sospettati avvengono in luoghi diversi dagli uffici delle forze di polizia per creare un effetto di “disorientamento”; i familiari, per giorni, ignorano la sorte della persona fermata ed invano, al pari degli avvocati, la cercano nelle carceri; si esercitano pressioni indebite sulle famiglie affinché convincano gli arrestati a collaborare; ai detenuti si chiede, insistentemente, di rinunciare a nominare un difensore di fiducia e di affidarsi al difensore di ufficio; gli arrestati non vengono portati in carcere, ma sono trattenuti presso commissariati, questure, caserme; gli interrogatori del pubblico ministero avvengono molto oltre i termini stabiliti dalla legge, in alcuni casi anche 9/10 giorni dopo l’arresto; vengono denunciati anche casi di illegale “patteggiamento” nei quali si chiede all’interrogato di non denunciare le violenze subite in cambio di favori che riceverà.

Ma il governo non fa nessuna apertura e Virginio Rognoni, anzi, alza il tiro e sostiene che i terroristi, non riuscendo ad arginare il fenomeno dilagante del pentitismo, hanno messo in piedi una vera e propria campagna diffamatoria per colpire la credibilità delle forze di polizia.

I poliziotti democratici di Venezia organizzati nel SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia) intervengono a gamba tesa nella polemica politica e, con un comunicato diffuso il 10 marzo ’82, sostengono, sulle violenze, che «tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese».  

Anche le Brigate Rosse fanno i conti con un fenomeno, inedito per dimensioni e radicalità, che sta sconvolgendo la vita della organizzazione. Il 18 marzo 1982 diffondono un lunghissimo comunicato nel quale lanciano la parola d’ordine della «ritirata strategica» sviluppando una articolata analisi della pratica della tortura («la tortura misura un nuovo livello di scontro») e degli effetti che sta producendo.  

Il gruppo di Magistratura Democratica nel Consiglio Superiore della Magistratura chiede che l’organo di autogoverno dei giudici metta all’ordine del giorno del plenum la discussione su quella che si sta profilando come una vera e propria emergenza democratica[14]

Il magistrato inquirente di Verona trasmette gli atti alla procura padovana, competente per le violenze accadute in via Pindemonte e nella caserma della celere. 

Vittorio Borraccetti, sostituto procuratore padovano, ascolta tutti i brigatisti, scova testimoni anche tra i poliziotti e, attraverso altri accertamenti medici, dimostra che le violenze non sono una invenzione.   

Nel giugno ’82, il giudice istruttore Mario Fabiani firma i mandati di cattura contro alcuni tra i responsabili di quei fatti, tra i quali Salvatore Genova, vicedirigente la Digos genovese. Le accuse sono di concorso in sequestro di persona, violenza privata e lesioni personali.

Scatta istantanea la solidarietà agli arrestati e monta la rabbia contro i magistrati.

Virginio Rognoni esprime «perplessità ed amarezza» per i provvedimenti, mentre il Questore di Genova telegrafa al Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, manifestando fiducia nella condotta tenuta del commissario arrestato. Nei locali della Questura di Roma si tiene una assemblea permanente dei poliziotti che non escludono di organizzare altre clamorose iniziative. «Se volevano portarci all’esasperazione, ci sono riusciti…nemmeno ad alcuni accusati per banda armata è stato riservato lo stesso trattamento», tuona un anonimo dirigente UCIGOS al giornalista de “l’Unità” che lo avvicina.

Il 5 luglio ’83, in un clima apertamente ostile ai magistrati, si apre il processo padovano mentre un gruppo di poliziotti, solidali con i colleghi imputati, presidia l’ingresso del Tribunale. Salvatore Genova non può essere giudicato perché è stato appena eletto, nella fila del PSDI, nelle elezioni politiche generali del 26 giugno ed occorre attendere l’autorizzazione a procedere della Camera dei deputati che, tre anni più tardi, nel 1986, rifiuta di concederla. Nella udienza dell’8 giugno, il Capitano Lucio De Santis viene arrestato in aula per falsa testimonianza e condannato. Depongono tutti i brigatisti che descrivono le violenze patite, i medici che hanno osservato i segni lasciati dalle torture e i testimoni che confermano l’utilizzo di metodi illegali. 

Un quadro impressionante, alternativo a quello offerto dal testimone Umberto Improta che, in udienza, racconta una storia diversa, cioè di come nacque, nella palazzina della celere, un rapporto cameratesco tra poliziotti carcerieri e brigatisti carcerati: «…il rapporto tra personale UCIGOS, i NOCS e gli arrestati era un rapporto ottimo, di piena collaborazione, addirittura affettuoso…»[15].

Ma i giudici non credono ai poliziotti ed ai funzionari dell’UCIGOS e il 15 luglio 1983, il Presidente del collegio, Francesco Aliprandi, legge il dispositivo della sentenza con la quale gli imputati vengono condannati per il reato di abuso di autorità contro arrestati[16]

I brigatisti e i militanti di altre formazioni picchiati e torturati, durante e dopo il sequestro Dozier, furono moltissimi e, dissoltosi il fumo della retorica che accompagna il plauso ed i riconoscimenti ai liberatori del generale statunitense, emergono i fatti crudi di una operazione nella quale si consumarono violenze che servirono a carpire informazioni senza le quali, come ha francamente riconosciuto Salvatore Genova, quel risultato non sarebbe mai stato raggiunto. Anzi, molte di queste violenze, in realtà, non sortirono nemmeno questo effetto visto che tanti episodi avvennero quando Dozier era già libero e rappresentarono, così, una delle cause scatenanti la scelta di collaborazione assunta dai brigatisti mentre erano in balia dei torturatori. 

Quella padovana è l’unica sentenza degli anni ‘80 che riconosce la responsabilità di pubblici ufficiali per fatti di violenza commessi contro arrestati per vicende di terrorismo. Le decine di denunce fatte da altri inquisiti non producono altro che archiviazioni perché sono ignoti gli autori delle violenze[17].

Tra il 2007 e il 2012, il commissario Salvatore “Rino” Genova decide di raccontare ai giornalisti Matteo Indice e Pier Vittorio Buffa cosa è realmente accaduto durante la stagione di lotta al terrorismo. Descrive le torture, confessa il suo ruolo e quello dei suoi colleghi (De Francisci, Improta, Fioriolli, Ciocia) nell’uso dei metodi illegali e conferma che furono i vertici del Viminale ad impartire la linea della tortura[18]. A Buffa, laconicamente dice: «…Non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro. Questo dovevamo fare…»[19].

Le parole del commissario non scatenano la reazione veemente dei vertici istituzionali. Certo, quelli tirati direttamente in causa replicano che si tratta di fantasie, ma anche nel fronte di quelli che sostengono che mai ci furono violenze sui brigatisti si aprono alcune crepe, con ammissioni, a volte, sorprendenti. È il caso di Giordano Fainelli, ex ispettore capo della Digos veronese, che sostiene che, in realtà, Ruggero Volinia trattò la sua confessione in cambio della immunità per Elisabetta Arcangeli e di una sostanziosa somma di denaro, superiore a quella consegnata a Paolo Galati che parlò dopo aver ricevuto circa 40 milioni e la promessa di un trattamento favorevole per il fratello Michele, brigatista che già si trovava in carcere[20].

Ma Fainelli, che nega che Volinia sia stato torturato, ammette poi che la notte del 26 gennaio ’82, insieme ad Umberto Improta e altri colleghi, condusse Ruggero Volinia in un villino in un residence in cui c’era anche Nicola Ciocia. Non assistette a torture, ma non esclude che «l’euforia collettiva portò qualcuno ad andare oltre le righe»[21].      

A queste vicende fa riferimento Giuliano Amato intervenendo, a sorpresa, sul tema. E non usa un linguaggio paludato: la classe politica «aveva coperto il ricorso a metodi e strumenti ai margini della legalità…quando non extralegali…vi fu il ricorso a forme di pressione fisica e psicologica su alcune migliaia di arrestati e detenuti che, nel caso dei primi, sembra siano talvolta arrivate, malgrado le smentite, a toccare la tortura». La magistratura non è senza colpe perché «se pochissimi magistrati seppero del water boarding e pochi dei pestaggi degli arrestati, diverso è il caso dei trattamenti speciali dei detenuti e della possibilità di usare il carcere come strumento di pressione nei confronti di categorie di persone ritenute particolarmente indegne, che divennero pratiche abbastanza diffuse negli anni Ottanta»[22].  

Nemmeno le inusuali rivelazioni di Giuliano Amato sgretolano il muro del silenzio eretto 40 anni fa. Tace la classe politica della prima Repubblica, tacciono i vertici del Viminale e della Polizia di stato, resta silenziosa la magistratura non meno dei giornalisti che quelle inchieste seguirono, celebrando i fasti di uno Stato democratico che prevaleva sulle formazioni eversive sempre rispettando le regole del diritto.

Insomma, un’Italia reticente (reticente proprio nel senso strettamente giuridico «di chi tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti») che non ha ancora trovato il coraggio di discutere, senza infingimenti, dei metodi che vennero impiegati per sconfiggere le organizzazioni della lotta armata, anche di quelli usati durante le indagini in cui raffinati investigatori «cercavano Dozier dentro la vagina di una brigatista».     

[1] Il nucleo che, con vari ruoli, sequestrò e trasportò Dozier a Padova era composto da Antonio Savasta, Pietro Vanzi, Marcello Capuano, Cesare Di Lenardo, Emilia Libéra e Alberta Biliato. Una avvincente ricostruzione della vicenda Dozier e delle torture inflitte nella fase della investigazione è contenuta nella docu-serie Sky Original Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, 2022. 

[2] Dozier, al momento del sequestro, era sottocapo di stato maggiore addetto al Comando delle forze terrestri NATO nell’Europa meridionale.

[3] Alla fine del 1980, nella organizzazione BR matura la rottura definitiva con la colonna milanese “Walter Alasia” che viene espulsa nel dicembre di quell’anno. Mario Moretti viene arrestato a Milano il 4 aprile 1981. Nello stesso anno, il Fronte carceri e la colonna napoletana danno vita alle BR-Partito Guerriglia, organizzazione che fa capo a Giovanni Senzani. Infine, nell’autunno 1981, si costituiscono le BR-Partito Comunista Combattente, fortemente radicate nella colonna romana, in quella genovese ed in quella veneta (la colonna Annamaria Ludmann-Cecilia) che realizza il sequestro Dozier. 

[4] Enrico Triaca è il protagonista del documentario di Stefano Pasetto Il Tipografo, 2022, vincitore del premio quale miglior lungometraggio all’8° Festival internazionale del documentario Visioni dal Mondo. Sulla vicenda Triaca, vedi dell’autore I tormenti e la calunnia” pubblicato su www.questionegiustizia.it, 12 luglio 2023.

[5] La dettagliata descrizione delle torture inflitte a Nazareno Mantovani, Ruggero Volinia ed Elisabetta Arcangeli è contenuta nella testimonianza resa da Salvatore Genova al giornalista Pier Vittorio Buffa e ad altri organi di informazione. 

[6] L’ordine di servizio del comandante del II reparto celere disciplinava esso stesso una forma di tortura sui prigionieri o, quantomeno, una pratica di trattamento inumano e degradante: bendati, legati, tenuti costantemente al buio e senza avere la possibilità, per diversi giorni, di avere la percezione del luogo in cui si trovavano e della identità di coloro che li interrogavano, i brigatisti furono sottoposti alla “deprivazione sensoriale”. Inoltre, nel processo padovano, venne provato che i poliziotti usarono costantemente anche il metodo della privazione del sonno. A questi mezzi aveva fatto ampio ricorso l’esercito inglese in Irlanda, nei primi anni ’70, contro i detenuti appartenenti all’IRA (Irish Republican Army). Già bollato dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo come pratica di tortura, in seguito la Corte europea dei diritti dell’uomo sostenne che il metodo della “deprivazione sensoriale” costituiva una pratica di trattamento inumano e degradante. 

[7] Quasi certamente si tratta dello stesso gruppo di poliziotti della celere padovana che, secondo le successive rivelazioni di Salvatore Genova, si autodefiniva “Guerrieri della notte”. 

[8] Intervistati per la docu-serie Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, gli ex poliziotti Danilo Amore e Carmelo Di Janni hanno riconosciuto che il racconto di Cesare Di Lenardo sulla finta fucilazione era vero. 

[9] I racconti di Savasta, Di Lenardo, Frascella, Libéra sulle violenze subite sono riportati, integralmente, nella sentenza del Tribunale di Padova del 15 luglio 1983. 

[10] L’articolo di Pier Vittorio Buffa dal titolo Il rullo confessore venne pubblicato su L’Espresso del 28 febbraio 1982. Quello di Luca Villoresi intitolato Ma le torture ci sono state? comparve sull’edizione di La Repubblica del 18 marzo 1982. I due giornalisti vennero arrestati per ordine della magistratura veneziana perché rifiutarono di rivelare l’identità delle loro fonti. L’articolo di Buffa contiene anche una elencazione di altre vicende di violenza su arrestati per fatti di terrorismo: Massimiliano Corsi, Stefano Petrella, Ennio Di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai e Gianfranco Fornoni. 

[11] I giudici veronesi, con la sentenza emessa il 25 marzo 1982, condannarono gli ideatori ed esecutori del sequestro Dozier: Francesco Lo Bianco, Barbara Balzerani, Umberto Catabiani, Vittorio Antonini, Luigi Novelli, Remo Pancelli, Marcello Capuano, Pietro Vanzi, Cesare Di Lenardo, Alberta Biliato, Ruggero Volinia, Antonio Savasta, Emilia Libéra, Giovanni Ciucci, Emanuela Frascella, Armando Lanza e Roberto Zanca. 

[12] Intervista di Giovanni Palombarini a Il Manifesto dell’11 marzo 1982. 

[13] Nella seduta del 22 marzo 1982 della Camera dei deputati, diversi parlamentari fecero riferimento ad una miriade di fatti di violenza praticati su arrestati e detenuti. I casi citati, oltre ovviamente quelli veneti, riguardavano gli arresti di Pietro Mutti, Anna Rita Marino, Giuseppe De Biase, Gianni Tonello, Giorgio Benfenati e Paola Maturi.

[14] La richiesta venne rivolta al Vicepresidente Giancarlo De Carolis da Salvatore Senese, Franco Ippolito ed Edmondo Bruti Liberati, rappresentanti di Magistratura Democratica nel CSM. 

[15] Sulle testimonianze di De Francisci e Improta, i giudici padovani scrissero: «con le loro risposte evasive e con il loro comportamento omissivo circa l’obbligo di indagare…hanno dimostrato il loro preciso intento di difendere gli imputati e il loro operato».

[16] La sentenza del Tribunale di Padova, Pres. Aliprandi, emessa il 15 luglio 1983, è pubblicata su Il Foro Italiano, maggio 1984, vol. 107, No. 5, con commento di Domenico Pulitanò. La condanna venne inflitta agli agenti NOCS Danilo Amore, Carmelo Di Janni, Fabio Laurenzi e al tenente del II reparto celere Giancarlo Aralla solo per l’episodio del trasporto illegale in campagna e della finta fucilazione del brigatista Di Lenardo. Inoltre, Amore venne riconosciuto responsabile anche di violenza privata contro Emilia Libéra. L’amnistia promulgata nel 1990 cancellò la condanna.

[17] Nel 2013, i giudici della Corte di Appello di Perugia, accogliendo la richiesta di revisione della sentenza irrevocabile di condanna per il reato di calunnia, hanno riconosciuto che, nel 1978, Enrico Triaca venne torturato. 

[18] Secondo il ricercatore Paolo Persichetti («8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura» in Insorgenze, 30 marzo 2012) il governo diede il via libera all’uso della tortura nel corso di una riservatissima seduta del Comitato Interministeriale per l’informazione e la sicurezza (CIIS) a cui parteciparono il Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, ed i ministri Rognoni, Lagorio, Marchiora, La Malfa, Di Giesi e Altissimo. 

[19] L’articolo del giornalista Matteo Indice che contiene l’intervista a Salvatore Genova, dal titolo E la CIA si stupì dei nostri metodi venne pubblicato su Il Secolo XIX del 24 giugno 2007. Quello di Pier Vittorio Buffa, dal titolo Così torturavamo i brigatisti comparve su L’Espresso del 5 aprile 2012. 

[20] Michele Galati, componente della colonna veneta delle Brigate Rosse, venne arrestato nel dicembre 1980. Il 4 febbraio ’82, al PM di Venezia, fece le sue prime rivelazioni. Galati sostenne che, da un po’ di tempo, stava già collaborando segretamente con il generale Dalla Chiesa ed altri ufficiali dell’Arma dei Carabinieri con i quali parlava in occasione delle traduzioni dal carcere. Rivelò anche che, nell’ottobre ’81, aveva informato Dalla Chiesa che le BR intendevano rapire un alto ufficiale statunitense in forza alla NATO e di stanza a Verona o Vicenza.

[21] Intervista di Giordano Fainelli al quotidiano L’Adige del 12 febbraio 2012. Anche Salvatore Genova raccontò che ad alcuni brigatisti “pentiti” venne elargita una somma complessiva di 100 milioni di lire, denaro prelevato da un fondo riservato del Viminale. 

[22] Le considerazioni sono contenute nel libro di Giuliano Amato e Andrea Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, il Mulino, 2013.    

L’assurda vicenda giudiziaria di Giulio Petrilli morto questa notte a L’Aquila

Giulio Petrilli ci ha lasciato prematuramente questo notte a causa di una embolia polmonare. Ricoverato d’urgenza non ce l’ha fatta. Corpo possente da vero rugbista lo ricordiamo per la sua incredibile umanità, per la generosià debordante. Nonostante l’assoluzione finale, i sei anni di detenzione trascorsi nelle carceri speciali con l’accusa di partecipazione a banda armata l’avevano segnato. In prigione, nel 1984, era stato anche duramente picchiato dalla polizia penitenziaria dopo una fermata all’aria di protesta fatta con si suoi compagni per denunciare le condizioni di detenzione. Una volta uscito aveva speso tutte le sue energie nelle battaglie contro il carcere, la detenzione politica e per l’amministia, contro la cultura politica giustizialista che imperversava e imperversa in quel po’ che resta della sinistra, contro il populismo penale, pagando anche di persona, affrontando polemiche velenose e attacchi personali. Si è battuto fino all’ultimo contro il 41 bis, restando vicino e conducendo visite ispettive all’interno di queste sezioni speciali. Viveva come un tormento personale la reclusione di questi militanti, le loro condizioni di isolamento. Partendo dalla sua esperienza personale raccontata nell’articolo qui sotto, scritto il 3 ottobre del 2012, Giulio aveva avviato una lotta senza quartiere contro l’ingiusta detenzione. Nonostate l’assoluzione i giudici avevano rifiutato di risarcirgli i sei anni trascorsi nelle carceri speciali perché – avevano spiegato – il loro errore iniziale era stato indotto dalla sue pessime frequentazioni. Vicenda kafkiana che aveva acceso in lui un fuoco inesauribile che lo spingeva a battersi contro ogni forma di reclusione, di internamento, contro l’esilio, ma che al tempo stesso lo bruciava consumandolo. Ho conosciuto Giulio sulle strade intorno a L’Aquila quando mi recavo in Abruzzo durante i miei primi permessi. Ricordo la volta, poco dopo il terremoto, in cui mi portò nella zona rossa per farmi conoscere le ferite terribili inferte a quella città. E poi le tante telefonate, le discussioni, la sua voglia continua di riaprire battaglie come quella sull’amnistia. Giulio non si arrendeva mai. Ciao Giulio!

Dalla filosofia del diritto alla teologia giudiziaria. L’istituto del risarcimento per ingiusta detenzione è disatteso nella gran parte dei casi da una magistratura aggrappata al dogma della propria infallibilità

di Paolo Persichetti
3 ottobre 2012

Soltanto un terzo delle richieste di risarcimento per ingiusta detenzione trovano soddisfazione. E’ quanto emerge dagli ultimi dati forniti dall’Eurispes e dall’Unione delle camere penali italiane. Su una media di 2500 domande annuali (nel 2011 ne sono state presentate 2369) appena 800 vengono accolte. Il motivo è semplice e al tempo stesso sconcertante: l’Italia è l’unico paese in Europa dove l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è regolato da una clausola, inserita nel comma 1 dell’articolo 314 cpp, che esclude il risarcimento nei casi in cui il ricorrente «abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave».
Secondo la norma per avere diritto al risarcimento non è sufficiente avere dalla propria parte una sentenza d’assoluzione irrevocabile, secondo una delle formule previste dal codice: il fatto non sussiste, oppure non è stato commesso o non costituisce reato o non è previsto dalla legge come tale. Non basta nemmeno che la giustizia abbia riconosciuto l’illegittimità della misura cautelare.
Chi ha ingiustamente subito il carcere deve dimostrare di non aver tenuto un comportamento tale da aver tratto in inganno i magistrati con atteggiamenti omissivi o perché non si è avvalso delle funzioni difensive, che pure restano un diritto fondamentale della persona sottoposta a indagini o imputata, ma anche sotto il profilo delle proprie frequentazioni.
Ciò vuol dire che le sentenze assolutorie non sono valutate come tali ma sottoposte ad un nuovo processo che conduce ad esaminare e giudicare sotto il profilo morale la personalità di chi è stato assolto, introducendo un criterio discriminatorio che inanella una serie impressionante di violazioni: dal ne bis in idem, all’invenzione di una sorta di quarto grado di giudizio capace di resuscitare la colpa al di là di ogni assoluzione fino all’inversione dell’onere della prova.
Nel giugno scorso, la quinta sezione penale della corte d’appello di Milano ha rigettato l’istanza di risarcimento per ingiusta detenzione di una persona assolta in via definitiva dopo aver trascorso 6 anni nelle carceri speciali, sostenendo che «nessun diritto alla riparazione spetta a chi, frequentando terroristi, o comunque soggetti appartenenti all’antagonismo politico illegale, abbia colposamente creato l’apparenza di una situazione che non poteva procurare l’intervento dell’Autorità giudiziaria. Poco importa, ai fini che qui interessano, l’esito del giudizio penale. Occorre distinguere – prosegue il collegio – l’operazione logica compiuta dal giudice del processo penale da quella, diversa, del giudice della riparazione. La reciproca autonomia dei due giudizi comporta che una medesima condotta possa essere considerata, dal giudice della riparazione come contributo idoneo ad integrare la causa ostativa del riconoscimento del diritto alla riparazione e, dal giudice del processo penale, elemento non sufficiente ad affermare la responsabilità penale».
I magistrati hanno teorizzato un doppio criterio di giudizio: il primo sottoposto alle vigenti leggi processuali; il secondo che riabilita la colpa tipologica è non si cura degli effetti legali dell’assoluzione, che seppure elimina la colpa mantiene il sospetto e soprattutto conserva la responsabilità. Siamo di fronte ad un perenne “diritto del nemico” che trasforma in un accessorio a geometria variabile la presunzione d’innocenza recepita dall’art. 27 della costituzione.
Chi viene assolto per reati avvenuti in luoghi dove è presente la criminalità organizzata, diventa responsabile del fatto di aver frequentato contesti che brulicano di pregiudicati; chi è assolto da reati di eversione, se ha frequentato luoghi di conflitto, recepito culture antagoniste, anticonformiste e irregolari secondo la norma politico-morale dominante, è ritenuto responsabile di una corrività ambientale che ha indotto la coscienza del giudice a sbagliare. E’ una colpa di natura etico-morale quella che qui viene scovata e sanzionata con il mancato risarcimento.
Non sfugge che attraverso questo dogma dell’infallibilità assoluta del giudice, come fu per il concilio Vaticano I° che nel 1870 introdusse l’infallibilità ex cathedra del pontefice, si opera il passaggio dalla filosofia del diritto alla teologia giudiziaria. Un’arrogante pretesa che spiega l’errore ricorrendo all’alibi della “colpa apparente”, giustificata non da una cattiva valutazione degli elementi probabotori a carico o discarico ma dalla doppiezza e dall’ambiguità della persona sottoposta a indagine o giudizio, alla stregua del maligno che con le sue arti malefiche confonde e trae il mondo in inganno.
Sarebbe tempo di riportare la giustizia dalle sfere della santità celeste ad una più terrestre dimensione profana.

Autobiografia di un picchiatore fascista

Archivio – L’incredibile percorso di riscatto di un giovane fascista romano degli anni 50. Oltre ad essere un impressionante scandaglio antropologico del mondo dei «fasci», il volume è la testimonianza incredibile di un percorso di liberazione dal culto della sopraffazione, dai miti superomisti, razziali e nazionalisti verso un approdo libertario e marxista. L’esperienza umana, politica e culturale di Giulio Salierno ci insegna una verità poco di moda: quello che conta è il punto d’approdo, il percorso. Un tragitto laico privo di pietismo, di perdonismo, di pentitismo. Salierno supera il proprio passato attraverso l’esercizio della critica, una critica radicale. Strumento per nulla apprezzato oggi, anzi osteggiato, ritenuto pericolosamente sovversivo.
E se dunque la domanda giusta non è «da dove vieni» ma «dove vai», è su quel dove vai che dobbiamo soffermarci, perché non tutte le direzioni si equivalgono

Quella di Giulio Salierno è una storia fuori margine, come d’altronde recita il titolo di uno dei suoi libri, Fuori margine. Testimonianze di ladri, prostitute, rapinatori, camorristi, uscito nel 1971. Giovane fascista, fanatico e violento, cresciuto nella sezione del Movimento sociale italiano di Colle oppio, la formazione politica che raccolse nel dopoguerra i nostalgici del regime mussoliniano, Salierno è un destinato: brillante (giovanissimo ha già incarichi di responsabilità), determinato, interpreta con un fervore febbrile l’antropologia del revanscismo fascista dopo la sconfitta del 1945. Gli stralci della intervista che qui pubblichiamo, apparsa sull’Europeo e ripresi dall’Unità nel 1973, anticipano di pochi anni i contenuti di uno dei suoi volumi più importanti, Autobiografia di un picchiatore fascista, apparso nel 1976 per Einaudi. Vera e propria etnografia della destra romana, tra sezioni missine che non consideravano conclusa la guerra persa nel 1945, palestre di boxe come l’«Indomita» e la «Bertola», campi paramilitari, traffici di armi e esplosivi, attentati, agguati squadristi contro le sezioni comuniste di Garbatella e Cinecittà, violenza sadica, connivenze con apparati dello Stato travasati nella Repubblica direttamente dal ventennio, incontri con Pino Rauti, Julius Evola e Giorgio Almirante, segretario del partito neofascista fino al 1987, salvato da un’amnistia per il suo coinvolgimento nella latitanza in Spagna di Carlo Cicuttini, responsabile insieme a Vincenzo Vinciguerra della strage di Peteano. E una ossessione: uccidere Walter Audisio, il comandante partigiano, divenuto nel frattempo parlamentare comunista, responsabile della esecuzione di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Fargli «un buco nella testa – scrive Sergio Luzzato nella nuova edizione pubblicata da minimum fax nel 2008 – con un foro di ingresso in cui si potesse infilare il dito mignolo e un’altro d’uscita in cui si potesse ficcare il pugno», era una idea che corrispondeva esattamente alla mentalità del neofascismo giovanile della Roma dei primi anni 50. «I ragazzi come Salierno» – spiega ancora Luzzato – sapevano come fare: «bastava appostarsi fra la Nomentana e la Salaria, caricare il fucile automatico e sparare contro l’onorevole Audisio. Bastava vendicare il Duce». Oltre ad essere un impressionante scandaglio antropologico del mondo dei «fasci», il volume è la testimonianza incredibile di un percorso di liberazione dal culto della sopraffazione, dai miti superomisti, razziali e nazionalisti verso un approdo libertario e marxista.
Coinvolto in un omicidio nel corso di una rapina finita male, nel 1953 Salierno deve fuggire assieme al suo complice dopo una lettera anonima fatta pervenire alla polizia da ambienti missini che volevano scaricarlo. Arrivato a Lione si arruola nella Legione straniera, ma una volta giunto in Algeria viene riconosciuto da un poliziotto italiano che era sulle sue tracce e arrestato. L’ingresso nel carcere di Sidi-Bel-Abbès, le condizioni bestiali di detenzione vissute in quel luogo, lo portano a conoscere la realtà dei prigionieri politici algerini che combattono per l’indipendenza tra sevizie e torture. Inizia qui il suo percorso di ripensamento. Solidarizza con i giovani militanti algerini e una volta estradato in Italia abiura il fascismo, scopre Gramsci e la letteratura marxista, studia sociologia tra mille difficoltà in un carcere che non riconosceva il diritto allo studio. E’ il primo detenuto del dopoguerra a laurearsi. Nel 1968 ottiene la grazia dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat per «motivi di studio». Collabora con Umberto Terracini e Franco Basaglia. Nel 1971 pubblica insieme ad Aldo Ricci, Il carcere in Italia, rimasto uno dei classici della saggistica sul tema. Gli istituti asilari (il carcere, i manicomi, gli ospedali, la scuola, la polizia e l’esercito), sono per Salierno uno specchio della società borghese. Alla domanda «Chi va in carcere e perché?», risponde che non a caso la condizione sociale, il grado di istruzione, la collocazione professionale, la provenienza geografica, la derivazione familiare, sono una sorta di condanna aprioristica e senza appello che la società «emette nei confronti delle classi subalterne, emarginandole nei ghetti della miseria e della degradazione culturale e morale ancor prima che negli istituti di pena». L’esperienza umana, politica e culturale di Giulio Salierno ci insegna una verità poco di moda: quello che conta è il punto d’approdo, il percorso. Un tragitto laico privo di pietismo, di perdonismo, di pentitismo. Salierno supera il proprio passato attraverso l’esercizio della critica, una critica radicale. Strumento per nulla apprezzato oggi, anzi osteggiato, ritenuto pericolosamente sovversivo.
E se dunque la domanda giusta non è «da dove vieni» ma «dove vai», è su quel dove vai che dobbiamo soffermarci, perché non tutte le direzioni si equivalgono.

l’Unità, venerdì 1 giugno 1973
«Imparavamo ad usare le armi sotto la guida di uno o due istruttori missini»

«Ero pieno di armi. Oltre cinque pistole, un fucile, numerose bombe a mano, avevo un Thompson calibro 45 che sparava quaranta colpi. Me l’’aveva dato un altro attivista. Gia allora tutti gli attivisti missini avevano armi». Sono frasi di Giulio Salierno rilasciate in una lunga intervista al settimanale L’Europeo. Oggi simpatizzante di un gruppo della cosiddetta sinistra extraparlamentare, Salierno a sedici anni e mezzo era già vicesegretario giovanile del Msi. A diciassette segretario giovanile e delegato al congresso come dirigente della «Giovane Italia». A diciassette e mezzo era commissario politico per cinque sezioni. A diciotto (nel 1953), venne scelto per ammazzare il compagno Walter Audisio, il leggendario colonnello «Valerio». Una carriera fulminea, costruita giorno per giorno nelle sezioni del partito neofascista e sopratutto nei campi paramilitari già allora organizzati per sovvertire l’ordinamento democratico della Repubblica. Su questi campi paramilitari, sull’addestramento alla violenza, sulla tecnica della provocazione, Salierno racconta vicende e tecniche, illustra i metodi organizzativi neofascisti, più volte denunciati dalle forze politiche democratiche – dal nostro Partito innanzi tutto – e di cui ha avuto occasione di occuparsi anche la magistratura. E’, quella riportata dal settimanale, un’ennesima importante testimonianza resa da chi ha personalmente vissuto una simile esperienza. «Imparavamo ad usare le armi in campagna – dice l’intervistato –, soprattutto durante la stagione di caccia. Non costituiva un problema: bastava smontare il fucile o la mitragliatrice e uscire da Roma. Io l’ho fatto una enormità di volte, e nessuno mi ha mai arrestato. Una volta per Capodanno ho perfino sparato in città, col mitra. Nessuno mi ha detto nulla. Altri si addestravano nei campeggi organizzati dal partito. Non che i campeggi fossero veri campi di addestramento militare. intendiamoci. Dal momento che si trovavano sotto la giurisdizione del partito, l’uso delle armi v’era ufficialmente proibito. Però c’era sempre un istruttore o due che portavano un mitra o un fucile o un paio di rivoltelle e così, oltre allo spirito guerresco, nei capeggi si assorbiva l’abitudine a usare il mitra, il fucile, la rivoltella. Non ci vedevamo nulla di male. Perché avremmo dovuto vederci qualcosa di male? Se consideri la violenza come tecnica politica, come ideologia politica, addirittura come filosofia, sparare ha lo stesso valore che fare a pugni. Insomma una bomba non i più una bomba, un attentato non è più un attentato, una strage non e più una strage».
Quando Salierno faceva queste cose, il Msi indossava il doppiopetto di Arturo Michelini. Almirante, il «massacratore di partigiani», era – all’interno del partito neofascista – «il teorico della linea dura». «E’ arduo dimostrare che una strage è stata voluta al vertice del Msi – dice ancora Salierno –. Magari è stata suggerita da un dirigente, si, ma prenderlo in castagna i quasi impossibile perché tra l’esecutore materiale e lui non c’è mai un filo diretto. Il filo è una catena dove ciascun anello e rappresentato da attivisti fidatissimi, cioè i duri, che costituiscono la struttura paramilitare all’interno del Msi. Non solo: l’attentato fascista dev’essere sempre fatto in modo da lasciare il dubbio che l’autore sia un rosso. Noi dicevamo addirittura che l’attentato perfetto è quello che si fa “teleguidando” il rosso: cioè inducendo il rosso a farlo lo per te. Per esempio attraverso un agente provocatore».
Le cose dette con tanta chiarezza da Salierno sembrano storia di questi giorni. Ricordano Piazza Fontana, gli attentati ai treni operai, l’attentato al direttissimo Torino-Roma, le bombe di Piazza Tricolore che uccisero l’agente Marino, la strage davanti alla Questura di Milano. Episodi tragici della trama nera, sui quali sta indagando al magistratura, per i quali sono stati chiamati in causa dirigenti nazionali del Msi. Nella stessa Intervista, come abbiamo accennato all’inizio, Giulio Salierno rivela un altro episodio gravissimo, sul quale è bene che la magistratura faccia piena luce aprendo un’inchiesta. «Ad un certo punto – dice Salierno – fu deciso di giustiziare Walter Audisio». Del progetto si era già parlato nel 1948 e venne ripreso nel 1953 «in seguito ad una osservazione del generalissimo Franco». «Un gruppo di dirigenti del Msi – continua l’intervistato – s’era recato in Spagna ed era stato ricevuto da Franco. Nel corso del colloquio Franco aveva chiesto: “Com’e che i fascisti italiani non hanno ancora eliminato Walter Audisio. detto colonnello Valerlo?”». E più avanti: «Per arrivare a ciò ci voleva una cosa sola: un giustiziere pronto ad uscire dal partito qualche mese prima e poi disposto a rivelare il suo nome dicendosi fiero del gesto. Il giustiziere prescelto fui io. Uscii dal partito, dunque, e immediatamente dopo ebbe inizio lo studio dell’attentato». II compagno «Valerio» fu pedinato dagli attivisti del Msi e fu deciso che sarebbe stato ucciso davanti casa. «Un piano perfetto – dice Salierno –. Mi ci preparai con lo scrupolo di un vero killer ed in pochi mesi fui pronto». […]

La cella di Gramsci

Archivio – Visita ai luoghi nei quali Gramsci trascorse la sua vita da recluso

Nonostante l’immunità parlamentare, l’otto novembre del 1926 Antonio Gramsci veniva fermato e arrestato insieme a tutti gli altri parlamentari del gruppo comunista. Tre giorni prima erano stati varati alcuni provvedimenti «per la sicurezza e la difesa dello Stato», ulteriore tappa delle norme «fascistissime» progressivamente approvate dal dicembre 1925 e che avevano dato forma allo Stato totalitario: sciolti tutti i partiti e le associazioni che si opponevano al regime; soppressi tutti i giornali d’opposizione; abolito il diritto di sciopero, istituito il confino di polizia per i dissidenti; introdotta la pena di morte per chi avesse attentato alla vita dei reali e del Duce; istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, lo stesso Mussolini assunse l’interim dell’Interno.
I comunisti si erano fatti trovare largamente impreparati di fronte alla svolta autoritaria tanto che alla fine del 1926 circa un terzo degli effettivi del partito erano in carcere. Condotto in un primo tempo nella prigione romana di Regina Coeli, Gramsci fu assegnato al confino di Ustica ma subito poi trasferito nel carcere di san Vittore a Milano per l’istruttoria. Nel maggio del 1928 fu condannato, nel corso del maxi processo al gruppo dirigente del Pcd’I, a una pena di reclusione poco superiore a vent’anni. Assegnato al carcere di Portolongone fu trasferito per ragioni di salute nella prigione di Turi, in Puglia. In seguito ai provvedimenti di amnistia e di condono per il decennale fascista, la sua condanna fu ridotta a 12 anni e 4 mesi. A causa di un aggravamento delle sue condizioni di salute, dopo diverse richieste nel 1933 viene trasferito in una clinica a Formia. Il 25 ottobre 1934 ottiene la libertà condizionale, che al contrario di oggi non prevedeva il «ravvedimento» da parte del detenuto. Nei mesi successivi si trasferisce a Roma, presso la clinica Quisisana, per un lungo periodo di degenza. Riacquisita la piena libertà nell’aprile 1937, muore il 27 dello stesso mese a causa di un’emorragia cerebrale.

Nessuno nel carcere di Turi dimenticherà il detenuto 7047

l’Unità 27 aprile 1950
Pagina 3
Domenico Zucaro

Turi aprile – Un po’ appartata e quasi isolata dai giardini pubblici se ne sta la casa penale di Turi, dove per più di cinque anni rimase «ristretto» Antonio Gramsci.

[…]

Indietro nel tempo
Sono passate le nove del mattino. E’ l’ora migliore per la visita. Due guardie carcerarie mi fanno entrare. Avverti la presenza di un qualche cosa che domina su tutta la vita di un penitenziario, dal momento che ti senti chiudere il grosso portone alle spalle. Allora non ti rimane che seguire i movimenti dell’agente-portinaio, numero uno, poi del secondo, di tutti gli altri infine. Entriamo cosi nel regno del «Regolamento». Sfoglio il grosso libro matricola. Giro le pagine e si va indietro nel tempo: a me interessa il numero 7047 che era quello di Antonio Gramsci durante la detenzione in questa casa penale.

[…]

Una dura odissea
Nello stesso imbarazzo mi sono trovato quando ho preso contatto con altre cose che riguardano direttamente Gramsci e sono ancora qui vive. Allora da tutto l’insieme ho avuto una nozione delle sue sofferenze, della condizione in cui per 5 anni e 4 mesi ha vissuto Gramsci in questo penitenziario.
Antonio Gramsci pare fosse stato assegnato in un primo tempo al penitenziario di Portolongone per scontare la pena di 20 anni e 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Alla richiesta del pm Isgrò, secondo il quale il cervello di Gramsci per vent’anni non avrebbe dovuto funzionare, il Presidente del Tribunale Speciale, Generale Saporiti, aderì in pieno ed aggiunse una pena accessoria di L. 6.200 di mutui e 3 anni di vigilanza, come risulta dal foglio matricolare.
Invece, date le sue condizioni di salute, Gramsci ebbe per destinazione Turi. Così il 19 luglio 1928 insieme a due detenuti comuni lombardi, condannati per appropriazione indebita e falso, vi giunse dopo una traduzione durala più di 15 giorni.
Questo trattamento indiscriminato metteva Gramsci sullo stesso piano dei detenuti comuni mentre ai detenuti politici in condizione di salute precaria spettava la traduzione diretta. A Gramsci fu riservato sempre il trattamento peggiore nei suoi trasferimenti da un carcere all’altro: lunghe soste su binari morti, viaggi su carri bestiame in pieno inverno e cosi via. Soltanto nel trasferimento da Turi a Civitavecchia gli fu consentila la traduzione più comoda. Difatti sul foglio matricolare, il 19 Novembre 1933 è la data di trasferimento, e sti sa che fu preso in forza lo stesso giorno dalla Casa Penale di Civitavecchia. Allora Gramsci era già in condizioni di salute disperate.
Il carcere di Turi nella classificazione degli stabilimenti di pena viene considerato come casa di cura per detenuti infermi. Ma non vedo come possa in buona fede essere sostenuta una tale distinzione, non so se e sufficiente per questo una misera infermeria sprovvista quasi di ogni specie di attrezzatura e la presenza saltuaria di un medico.

Il compaesano di Gramsci
I detenuti politici avevano un cortile tutto per loro, diviso dai «comuni», a mezzo di un doppio muro, tra cui corre una specie di camminamento. Qui Gramsci veniva nelle ore stabilite dal regolamento e s’incontrava con gli altri compagni che allora erano una cinquantina. E forse anche lui aspettava ansioso «l’ora dell’aria», come sempre hanno fatto e fanno t detenuti. Di questi ce n’è ancora uno. E’ l’ergastolano Faedda che vedeva tutti i giorni Gramsci. Quest’uomo ora ha 73 anni ed è nativo di Bazanta, paese vicino ad Ales, luogo di nascita di Gramsci.
Faedda nel 1928 è stato lo scopino del Teatro dei «politici» – : cioè faceva pulizia nelle celle, portava il vitto giornaliero ai detenuti e così lasciava pacchi, libri, riviste, ccc. Mi dice che allora per questi servizi riceveva dall’Amministrazione 14 lire al mese. Ma tutti i «politici» gli regalavano sempre qualcosa in natura. Quando al mattino entrava nella cella di Gramsci lo trovava già al lavoro e spesso faceva con lui una chiacchierata in dialetto sardo. Se poi era di buon umore, ben volentieri Gramsci scherzava con lui – Mi batteva la mano sulla spalla e mi diceva: «Coraggio Faedda, presto andremo via da qui» – racconta Faedda – Non gli chiedevo nulla, ma lui mi regalava o una pagnotta di pane o del vino o del formaggio. Una volta mi diede due sigari.

I ricordi del secondino
La guardia scelta Vito Semerano – anche lui ha conosciuto Gramsci – presta servizio in questo penitenziario da 23 anni; attore faceva il turno nel braccio «politici», al primo piano. Forse Semerano è stato l’uomo che he avuto il maggior rispetto in questo luogo per Gramsci. E questa considerazione mi viene suggerita da un particolare che Semerano mi racconta.
Ci troviamo davanti alla porta della cella di Gramsci e lui mi parla delle sofferenze negli ultimi tempi di Gramsci per il suo stato grave di salute. Specialmente il sistema nervoso doveva essere molto scosso e non poteva dormire. So che per regolamento la luce nell’interno della cella deve rimanere sempre accesa durante lo notte.
– A una certa ora la spegnevo – mi dice Semerano. Era lui infatti di sorveglianza durante la notte; quando poi era di turno durante il giorno spesso entrava in cella e trovava Gramsci al tavolo di lavoro.

Attività instancabile
– Copiava sempre dai libri – mi dice – e mi chiederà i quaderni per scrivere. Quando ne aveva riempito uno, me lo consegnava ed io lo passavo al direttore. Una volta bollale le pagine, veniva depositato in magazzino. Gramsci preferiva depositare i suoi quaderni per evitare che nelle perquisizioni venissero sciupati. Qualche volta si faceva comprare dell’inchiostro fuori dal carcere perché migliore.
Chiedo, a Semerano quanti quaderni consumasse in un mese; lui ricorda che arrivava a portargliene anche una quindicina. Gli dico che adesso quei quaderni sono già usciti in parte stampati in diversi volumi e comprendono tutta l’opera che Gramsci ha scritto in questa cella. Semerano mi sorride e mi fa appena sentire la sua voce: – Avevo compreso che erano molto importanti! –. Semerano ricorda ancora che alla partenza da Turi furono riempite quattro casse di libri e manoscritti.
La lapide di marmo murata sulla facciata dei penitenziario serve soltanto per dare una nozione al pellegrino di passaggio, perché la maggior parte dei turesi ha nella memoria la propria immagine di Gramsci. Molti ricordano i tempi in cui Tania, cognata del recluso, aveva preso alloggio nel piccolo albergo Lauretta. Allora, per diverso tempo, e alle volte anche per più di un mese, mi dicono, la s’incontrava sovente nelle strade e alcuni osavano interrogarla con gli occhi, altri invece o le facevano visita o la invitavano a casa, perché Tania era sempre sola. Doveva essere anche vigilata dalla polizia, ma questo pericolo per i turesi contava fino a un certo punto di fronte ai doveri dell’ospitalità. – Non si poteva lasciare una donna sola nel dolore – mi dice qualcuno.
Forse allora nessuno di qui aveva mai visto Gramsci, eppure non si faceva die parlare di lui. Al centro di ogni commento stava il fatto importante dell’epoca; si tratta del rifiuto di Gramsci a inoltrare domanda di grazia.
Ma già da come aveva impostata e poi portata a conclusione la sua ragione di essere rapporto al mondo e agli uomini, Gramsci era entrato nell’immagine popolare con tutti i caratteri del simbolo: Maestro, Liberatore, Martire, e così è scritto anche sulla lapide di marmo all’ingresso.
Sulla lapide è scritto anche: – In questo carcere – visse in prigionia – Antonio Gramsci – Maestro Liberatore Martire – che ai carnefici stolti – annunciò la rovina – alla Patria morente –
la salvazione – al popolo lavoratole la vittoria».

Il retroscena della cattura di Cesare Battisti, l’inchiesta sporca che nessuno vi racconterà mai

Pubblichiamno alcuni estratti del libro “La polizia della storia, la fabbrica delle false notizie nell’affaire Moro”, all’interno del quale si raccontano i retroscena della cattura di Cesare Battisti in Bolivia, la clonazione del telefono del suo avvocato e l’intercettazione dell’intera attività difensiva, condotta dalla digos su mandato della procura milanese, una volta incarcerato in Italia

«L’attività che ha condotto alla cattura di Cesare Battisti – scriveva la Digos in un rapporto del 24 gennaio 2019 – ha avuto inizio il 16 ottobre 2018 con la richiesta di delega alla Procura generale per l’espletamento dell’attività tecnica»(1). Dodici giorni prima della elezione del leader della destra Jair Bolsonaro alla Presidenza della repubblica brasiliana si erano attivate le intercettazioni sulle linee telefoniche in uso a Battisti ma dopo il 31 ottobre queste risultavano silenti. L’irreperibilità ufficiale di Battisti veniva accertata il 13 dicembre 2018, quando funzionari della Polizia italiana si erano recati a San Paolo per prenderlo in consegna dopo che Bolsonaro aveva revocato l’asilo concesso dall’ex Presidente Lula, incarcerato nel frattempo a seguito di una sorta di «golpe giudiziario».

L’informatore
Secondo la Polizia Battisti si era allontanato nel mese di novembre. Ricorrendo a servizi tecnici «esterni» – è scritto sempre nel rapporto – veniva ricostruito il percorso effettuato dall’ultimo telefono cellulare di Battisti. L’informazione decisiva perveniva però attraverso un metodo classico, la delazione: da un account di posta elettronica dal nome estremamente evocativo, «judas3636@gmail.com», martedì 4 dicembre 2018, alle ore 16.32, giungeva all’ufficio visti delle sede diplomatica italiana di La Paz il seguente messaggio: «Buon giorno, potremmo fornire informazioni preziose su una persona che state cercando da molto tempo, ciò che vorremmo sapere è cosa potrebbe guadagnare la persona che prende il rischio di fornire informazioni sulla sua posizione esatta. Stiamo parlando di Cesare Battisti. Buona giornata». Il giorno successivo l’autore del messaggio veniva identificato: viveva a Santa Cruz de la Sierra, dove immediatamente si concentrarono le indagini. Il rapporto citava il nome di un altro cittadino boliviano che pare avesse preso in consegna Battisti al suo ingresso nel paese. Le verifiche accertarono che «Judas» e questo secondo uomo erano in contatto e che insieme avevano raccolto Battisti dalla frontiera brasiliana per condurlo in un hotel di Santa Cruz, dove aveva soggiornato dal 16 novembre al 21 dicembre. «Il 7 gennaio perveniva una segnalazione della Digos di Milano concernente la possibile presenza del ricercato nella città di La Paz», a scriverlo in un secondo rapporto erano la Dcpp e lo Scip(2). Le indagini si spostarono nella capitale boliviana, dove Battisti cercava di ottenere protezione da parte delle autorità attraverso contati con settori politici. Appariva chiaro che il suo ingresso in Bolivia era avvenuto in modo precipitoso senza un’adeguata preparazione con contatti politici di livello. Grazie al controllo di una serie di telefoni intestati a prestanome, l’uso d’informazioni d’intelligence che utilizzavano fonti molto informate e servizi di appostamento in settori precisi della città, la trappola attorno al ricercato si chiudeva inesorabilmente, finché nel pomeriggio del 12 gennaio 2019 veniva riconosciuto in strada da agenti della polizia locale e tratto in arresto.

La Digos clona il telefono dell’avvocato
Nel mese di gennaio, mentre si stringeva il cerchio attorno al latitante, la Digos milanese lavorava sul telefono di un suo familiare italiano da lui più volte contattato. Dopo l’iniziale intercettazione della linea telefonica, come da prassi erano stati chiesti al gestore i tabulati con il traffico pregresso. Infine il telefonino era stato clonato, una tecnica che consente di poter leggere da remoto tutte le conversazioni via social che sfuggono alle normali intercettazioni della linea telefonica. Dall’analisi del traffico degli ultimi due anni, trattenuti per legge, emergevano dei contatti tra me e il familiare risalenti all’ottobre del 2017, quando Battisti era stato fermato vicino alla frontiera boliviana e arrestato con l’accusa di esportazione della valuta che aveva con sé. Avevo sentito questa persona per consigliarle di prendere un avvocato ed essere pronta al peggio, nel caso Battisti fosse stato ricondotto in Italia, come sembrava in quel momento. Quando mi chiese aiuto per trovare un legale la misi in contatto con l’avvocato Davide Steccanella, mio amico, che si era reso disponibile a prenderne la difesa nella malaugurata ipotesi di una sua estradizione. Le passai anche il numero del Garante nazionale dei detenuti, perché immaginavo – vista la mia personale esperienza dopo la riconsegna all’Italia nel 2002 – che il trattamento penitenziario riservatogli sarebbe stato dei peggiori. Non avevo tutti i torti, visto quel che poi è accaduto una volta ricondotto in Italia. Avevo conosciuto Battisti a Parigi, anche se non c’era tra noi una frequentazione personale. Ci incontravamo con altri rifugiati più che altro in situazioni di «crisi», quando c’erano discussioni politiche sul da farsi. Avevo invece seguito tutte le vertenze estradizionali, la sua e quella di Marina Petrella, perché ne scrivevo, sia quando ero in carcere che in semilibertà, in particolare quando iniziai a lavorare presso il quotidiano «Liberazione». Al giornale mi avevano affidato anche questo incarico: ho scritto più di settanta articoli sulle vicende dell’esilio, delle estradizioni e della cosiddetta dottrina Mitterrand. Sono stato il primo a intervistare in Italia Tarso Genro, il Ministro della Giustizia brasiliano che aveva concesso la prima forma di asilo a Battisti, e che tutti denigravano senza nemmeno ascoltare le sue argomentazioni(3). Sono bastati questi pochi contatti telefonici con alcuni familiari di Battisti per indurre la Digos ambrosiana a ritenere che io fossi a capo di un «rete» che forniva sostegno ai latitanti sparpagliati in mezzo mondo, una sorta di nuovo «Soccorso rosso internazionale», e l’avvocato Steccanella gestisse dall’Italia la latitanza di Battisti fornendogli contatti in loco. Nella richiesta di acquisizione del traffico telefonico pregresso e delle tracce lasciate dai cellulari e schede trovate addosso a Battisti, datata 28 gennaio 2019, venivamo descritti in questo modo: «si tratta di soggetti che almeno dall’ottobre 2018 avevano costantemente seguito e coadiuvato la latitanza di Battisti con informazioni logistiche, consentendogli di trovare ospitalità e mezzi di trasporto, tramite conoscenti, in terra sudamericana ovvero reperire e utilizzare strumenti di comunicazione idonei a mantenere la rete di contatti in una sorta di “cordone sanitario” della propria latitanza». Il 10 gennaio 2019 la Procura generale dispose la clonazione del telefono dell’avvocato Steccanella con l’obiettivo di poter «reperire ulteriori e più circostanziati elementi utili alla esatta localizzazione del latitante», avvalendosi di una giovane società del settore, la BitCorp, che nel preventivo di spesa (500 euro al giorno) forniva chiarimenti sulle modalità di clonazione, ottenuta effettuando: «una serie di “interrogazioni” ai webservice che servono le applicazioni all’interno del sistema che prendiamo come obiettivo. […] In tale modo si è in grado di ricevere in tempo reale ogni flusso di traffico dati generato o transitato attraverso il dispositivo target, in quanto gli stessi webservice ci riconoscono quali legittimi destinatari del flusso»(4). Di questa clonazione l’avvocato Steccanella è venuto a sapere soltanto nel 2021 quando, dopo aver esaminato il fascicolo, l’ho informato personalmente. La clonazione del cellulare dell’avvocato Steccanella è uno – non il solo – degli episodi più sconcertanti e paradossali di questa inchiesta, poiché era avvenuta quando le stesse indagini avevano accertato che Battisti si era avvalso di contatti locali, dimostratisi del tutto inaffidabili, persino estranei a circoli politici. Molto probabilmente la scelta di indirizzare l’inchiesta verso «complici italiani» rispondeva a input politico-ministeriali e a una sorta di effetto doping che la cattura di Battisti aveva suscitato negli apparati di polizia e nella Procura milanese. Una sorta di rottura dei freni inibitori che aveva lasciato via libera alle pulsioni più paranoiche e alla voglia di regolare i conti con quei pochi che in Italia avevano sempre sostenuto pubblicamente le battaglie contro le estradizioni degli esuli degli anni Settanta.

«L’intercettazione dell’attività difensiva»
Quando, il 14 gennaio, Battisti nominò come suo legale di fiducia l’avvocato Steccanella, che da quattro giorni aveva il telefono clonato, nella Procura di Milano deve esserci stato grande imbarazzo e forse anche qualcosa di più. Con il passaggio formale dell’inchiesta dalla Procura generale, che aveva esaurito la propria competenza con la cattura del latitante e la notifica del provvedimento di esecuzione pena, la direzione delle indagini perveniva nelle mani del Coordinatore della sezione distrettuale antiterrorismo, Alberto Nobili, che apriva una inchiesta per identificare i «complici italiani della latitanza di Battisti», ipotizzando il reato di «assistenza ad appartenenti ad associazione sovversiva» (270 ter). Evaso dal carcere di Frosinone il 4 ottobre del 1981, Cesare Battisti era stato lontano dall’Italia trentotto anni: approdato inizialmente in Francia, si era trasferito in Messico per ritornare a Parigi nel 1990, nel 2004 fuggire di nuovo in Brasile e infine nel 2018 approdare per pochi settimane in Bolivia. Nonostante avesse vissuto buona parte della propria esistenza tra Nord Europa e Centro-Sud America, secondo la Digos e la Procura di Milano i complici della sua libertà, quelli che lo avrebbero appoggiato per decenni, stavano in Italia, anzi stavano nelle carceri italiane. Mentre Battisti era in Francia e in Brasile, dal 2002 al 2014 mi trovavo in un cella italiana a da lì – secondo la Digos milanese – l’avrei appoggiato, senza aver mai conosciuto altri paesi fuorché l’Italia e la Francia, senza parlare una parola di portoghese e spagnolo e saper nulla del Sud America, trovandogli rifugio e contati in Brasile e Bolivia. Appena la Procura prese in mano le redini della nuova inchiesta fece «omissare» dall’indagine i risultati della clonazione effettuata sul telefono dell’avvocato Steccanella e il 24 gennaio 2019 dispose «con precedenza assoluta» l’intercettazione e localizzazione delle utenze del mio intero nucleo familiare e dei familiari di Battisti, che si protrarrà fino al maggio successivo. L’ avvocato Steccanella si era gettato anima e corpo in questa nuova impresa, nel frattempo Battisti era stato rinchiuso nel carcere di Oristano dove, col pretesto dei sei mesi di isolamento diurno previsti nella sentenza di condanna (una pena accessoria eredità dell’epoca fascista), era stata aperta un’ala solo per lui. Di fatto gli era stata costruita attorno una piccola sezione di 41 bis abusivo, nonostante l’ordinamento non consentisse questo regime detentivo per la sua fascia di reato. Non ero per nulla stupito di questo trattamento: nel corso delle conversazioni telefoniche che scambiavo col mio amico avvocato spiegavo che ai rifugiati ricondotti in Italia veniva fatta scontare una pena supplementare, che non stava scritta da nessuna parte, il «reato di esilio». Gli raccontavo la mia esperienza, la condizione di «trofeo della repubblica» sul quale si erano sfogati decenni di frustrazioni suscitate nei vertici delle forze di polizia e della magistratura dal rifiuto delle estradizioni e dalla politica di Mitterrand. Gli ricordavo quel povero magistrato bolognese che durante un interrogatorio mi disse che la Francia da decenni tramava contro la democrazia italiana fornendo riparo agli esuli degli anni Settanta e per questo aveva trasformato Parigi in un «santuario della lotta armata». Era la fine del 2002, e mentre in Parlamento si legiferava sulla stabilizzazione normativa del 41 bis, mi avevano già condotto in isolamento a Marino del Tronto, penitenziario di massima sicurezza dove era presente un importante reparto con regime 41 bis. Se non fosse stato per l’ostinata battaglia di una pattuglia di parlamentari garantisti le nuove norme mi avrebbero spedito sotto quel regime detentivo per il resto della pena.
Il rientro di Battisti in Italia era avvolto da un vuoto giuridico: la Bolivia non lo aveva estradato e la procedura di espulsione non era stata rispettata. E siccome il vuoto in diritto non può esistere, l’unico titolo giuridico che faceva testo era il provvedimento di estradizione brasiliano a cui si ancorava l’accordo bilaterale sulla commutazione della pena dall’ergastolo a trent’anni, concluso dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando con l’omologo brasiliano il 7 ottobre 2017. Accordo che aveva sbloccato l’estradizione. Intanto Digos e Polizia di prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa. Ricorrendo agli strumenti dell’indagine difensiva, l’avvocato Steccanella ottenne dal Ministero della Giustizia copia dell’accordo di commutazione della pena pubblicato dall’«Adnkronos» il 7 maggio 2019, ma le sue richieste davanti alla Corte d’appello di Milano non ottennero successo anche se i giudici sottolinearono che i reati di Battisti non impedivano l’accesso ai benefici di legge.

Note
1/ Questura di Milano, Digos, «Riepilogo attività delegata che ha condotto alla cattura del latitante Battisti Cesare» a firma Vice Ispettore Ivan Pavesi, Vice Questore Cristina Villa, 24 gennaio 2019.
2/ Direzione centrale della Polizia di prevenzione e Servizio per la cooperazione internazionale della polizia, «Relazione di servizio», a firma Giuseppe Codispoti, Emilio Russo, Sandro Chiatto, 23 gennaio 2019.
3/ P. Persichetti, Caso Battisti, parla Tarso Genro: «Anni Settanta in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo», «Liberazione», 11 ottobre 2009, anche in, https://insorgenze.net/2009/11/12/caso-battisti-parla-tarso-genro-%c2%abanni-70-in-italia-giustizia-d%e2%80%99eccezione-non-fascismo%c2%bb/; e ancora in, P. Persichetti, «Battisti, Genro: L’italia si è dimostrata autoritaria e arrogante», «Liberazione», 14 novembre 2009, in https://insorgenze.net/2009/11/14/battisti-genro-litalia-e-stata-autoritaria-e-arrogante/.
4/ BitCorp, «Offerta per servizio di intercettazione telematica ibrida e localizzazione su dispositivi mobili», Milano, 8 gennaio 2019.

Bugiardi con la scorta

Saviano usa la parola come strumento di potere non come leva di libertà

Roberto Saviano ha sempre utilizzato la parola come uno strumento di potere mai come una leva di libertà. Lo dimostrano le tante querele da lui intraprese in passato contro persone che la pensavano diversamente da lui o ne criticavano le affermazioni perché inesatte, infondate, approssimative (leggi qui una rassegna delle sue querele). Saviano ha sempre rivendicato per sé quello che nega agli altri, si tratta di una sua caratteristica peculiare derivata dalla presunzione di esser il testimone della verità. Egli è colui che dice il vero, un sorta di nuovo messia venuto a illuminare gli uomini con il suo verbo. C’è chi lo ha descritto in passato come qualcuno che vorrebbe correggere le bozze di Dio e così se Saviano è l’incarnazione del vero, gli altri per forza di cosa sono altro dal vero e chi lo critica e non la pensa come lui un ostacolo alla verità. Dei nemici da abbattere. C’è una intolleranza costitutiva nel modo di porsi, un fanatismo profondo.

Nel gennaio del 2010 sono stato querelato da Roberto Saviano perché su Liberazione avevo scritto che i familiari di Peppino Impastato contestavano la veridicità di una telefonata da lui raccontata in un volume appena pubblicato da Einaudi, La parola contro la camorra (Non c’è verità storica, il centro Peppino Impastato diffida l’ultimo libro di Roberto Saviano). Secondo Saviano la madre di Impastato l’aveva chiamato per incoraggiarlo quando lui era ancora un aspirante scrittore del tutto sconosciuto, molti anni prima del successo di Gomorra e che gli fosse concessa la scorta di polizia. Telefonata che Saviano rappresentava come una sorta di passaggio di testimone che l’avrebbe condotto a prendere il posto di Impastato nell’immaginario collettivo dell’antimafia.

(Fonte https://www.nazioneindiana.com/2004/12/08/felicia/?fbclid=IwA)

I familiari di Impastato obiettavano che la signora Felicietta non avesse telefono e che le chiamate a lei dirette passassero attraverso il figlio Giovanni o la nuora e che di questa telefonata non avevano mai saputo nulla. Saviano avrebbe potuto rivendicare un diritto di replica, Liberazione glielo avrebbe senza dubbio concesso. La querelle era pubblica, c’era stato un comunicato stampa della famiglia. Molto attento a non entrare in polemica diretta con i familiari di Impastato e senza mai chiedere alcun diritto di replica, Saviano querelò invece me. Ero in semilibertà da appena due anni e facevo il giornalista nella redazione di Liberazione. La querela non arrivò mai in giudizio perché prima il pm e poi il gip, nel 2013, mi diedero ragione: avevo fatto correttamente il mio lavoro citando fonti attendibili (Persichetti ha utilizzato fonti attendibili, il gip archivia la querGipela di Saviano contro l’ex-brigatista). Fu uno smacco per lo scrittore che vide così incrinata la sua immagine di testimone della verità.

Saviano mentiva, stavolta lo diceva anche la magistratura. Tuttavia della sentenza non parlò quasi nessuno: un importante giornalista di cronaca giudiziaria mi disse che i grandi quotidiani nazionali non potevano scrivere di una vicenda che dava torto a Saviano e ragione a un brigatista. Fu il web a rompere il silenzio pochi mesi dopo. Il giorno dell’anniversario della morte di Impastato improvvisamente iniziò a circolare la notizia della sentenza che dava torto allo scrittore.

In difficoltà, Saviano tirò fuori sui social una nuova versione dei fatti: non aveva mai ricevuto la telefonata direttamente dalla signora Felicia, come aveva fino ad allora raccontato, ma era stata una sua amica che incontrandola l’aveva chiamato e le aveva passato la donna

(Fonte https://www.facebook.com/RobertoSavianoFanpage/posts/10151452425176864)

Perché non averlo detto prima e raccontato ai giudici? Perché non averlo spiegato direttamente ai familiari di Impastato? A quel punto chiesi pubblicamente a Saviano il nome della sua amica, se ci fossero stati altri testimoni, se l’episodio era avvenuto in strada o in casa di Felicietta?
Da allora sono passati otto anni e Saviano non ha mai risposto. Il testimone del vero tace.

Anche se i giudici alla fine mi avevano dato ragione, cosa molto rara, la vicenda della querela ebbe comunque gravi ripercussioni a livello carcerario. All’arrivo della denuncia venni convocato dalla direzione del carcere che mi chiese copia degli articoli incriminati, ritenuti – dalla responsabile di reparto – fondamentali per una compiuta valutazione dell’osservazione trattamentale. Qualcosa di analogo era già accaduto nel carcere di Viterbo alcuni anni prima, quando il  magistrato di sorveglianza si oppose ai permessi di uscita per un mio libro, Esilio e castigo (Negato un permesso all’ex-br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto Permessi all’ex Br? No, se non abiura). Anche se i giudici alla fine mi avevano dato ragione, cosa molto rara, la vicenda della querela ebbe comunque gravi ripercussioni a livello carcerario. All’arrivo della denuncia venni convocato dalla direzione del carcere che mi chiese copia degli articoli incriminati, ritenuti – dalla responsabile di reparto – fondamentali per una compiuta valutazione dell’osservazione trattamentale.
Nel febbraio 2011 non ero ancora a conoscenza del contenuto della querela e quindi degli articoli denunciati (in procura nonostante le ripetute richieste avevano sempre opposto il segreto istruttorio), poiché mi era stato notificato un semplice verbale di elezione di domicilio – di cui avevo fornito copia alla Direzione – nel quale si indicava unicamente il numero di protocollo del procedimento senza altre informazioni. Per giunta la richiesta della responsabile di reparto (se è vero che gli articoli dovevano essere analizzati per redigere l’osservazione scientifica della personalità) aveva una tale portata formale che non era possibile indicare dei testi prima di averne ricevuto comunicazione ufficiale da parte della procura. A ben vedere, dunque, è alla procura che la Direttrice avrebbe dovuto rivolgere la sua richiesta, non certo a me. Di fronte ad una tale oggettiva impossibilità, trattandosi in ogni caso di articoli diffusi nello spazio pubblico, consigliai alla Direttrice di recarsi sul sito web di Liberazione per avere completa visione di tutti i miei testi.Il suggerimento venne recepito come un rifiuto di «rapportarsi correttamente con l’Amministrazione». Ecco come l’episodio venne raccontato nella Relazione di sintesi sulla osservazione della personalità:

«Si è accennato alla diatriba con lo scrittore Roberto Saviano. All’inizio del 2011, come riportato sulla stampa e in internet (che ospita vari articoli al riguardo), si è verificata una schermaglia tra il Persichetti ed il suo editore da una parte, ed il Saviano dall’altra, nascente da affermazioni di quest’ultimo sul caso dell’omicidio di Giuseppe Impastato, affermazioni ritenute dalla controparte false o, quanto meno, superficiali. La vicenda è sfociata nella presentazione di una querela per diffamazione da parte del Saviano nei confronti del Persichetti e del suo editore. La Direzione dell’Istituto ne è stata informata formalmente dalla Polizia di Stato. Il 02.03.2011 il Persichetti, durante un colloquio col Direttore di Reparto riguardante proprio tale vicenda, è stato invitato a produrre gli articoli relativi alla querelle, al fine di avere un quadro della situazione; ha percepito come atteggiamento “censorio” la richiesta formulatagli dal dirigente e per tutta risposta gli ha detto chiaramente che gli scritti sono liberamente accessibili su internet e che non vedeva la necessità di doverli produrre lui. Si è pertanto ritenuto di dover informare dell’accaduto e dell’atteggiamento tenuto dal semilibero il Sig. Magistrato di Sorveglianza».

Per dare luogo a questa considerazione finale:

«La forma mentis del Persichetti lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona. Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori». (Fonte La relazione del Got Rebibbia).

Leggi anche L’ex-br persichetti, io querelato da Saviano, gip mi diede ragione