Caso Battisti: risposta a Fred Vargas

Il Corriere della sera di oggi 31 dicembre 2010 in un articolo di Giovani Bianconi, che prende avvio in prima pagina e poi gira in terza, cita alcuni passaggi di questo testo scritto nell’ottobre 2004, ripreso e sviluppato in uno dei capitoli (le pagine finali del capitolo otto) del libro Esilio e Castigo. Retroscena di una estradizione, La città del sole edizioni. Per completezza d’informazione lo riproponiamo
integralmente in apertura del blog

A scanso d’equivoci
Paolo Persichetti
Carcere di Mammagialla, Viterbo ottobre 2004

Alcune precisazioni sui presupposti politici che hanno contraddistinto le linee difensive condotte dai fuoriusciti italiani davanti alle Chambres d’accusations nel corso degli ultimi vent’anni

Con un lungo articolo apparso su Le Monde del 15 novembre 2004, l’archeologa e scrittrice di romanzi gialli di successo, Fred Vergas, ha esposto tutti i dubbi e le inconsistenze probatorie che hanno caratterizzato le sentenze di condanna da parte della giustizia d’emergenza italiana nei confronti di Cesare Battisti. Verdetti largamente fondati sulle tardive dichiarazioni del superpentito Pietro Mutti (realizzate quando Battisti era già evaso e in fuga in Messico). È a tutti apparso evidente che un così dettagliato ed efficace intervento sarebbe stato molto opportuno nella scorsa primavera, quando di fronte alla Chambre veniva giocata la partita decisiva. Allora nessuno impedì a Battisti di scendere nel merito dei fatti che gli venivano imputati per difendersi anche tecnicamente dalle accuse più gravi. La scelta di non comunicare con la stampa italiana e di farlo in modo alquanto inappropriato con quella francese, è unicamente farina del suo sacco. Al «diritto di… spiegarsi», come affermato nella sua ultima intervista rilasciata alle Iene su Italia uno, ha abbondantemente rinunciato lui stesso in un momento in cui era rincorso da tutti i media, contribuendo non poco alla propria demonizzazione. Una discutibile ma in ogni caso legittima e libera scelta. Proprio per questo sorprende l’attuale atteggiamento del suo entourage ed in modo particolare la parte finale dell’arringa di madame Vergas del 15 novembre, nella quale si lascia intendere che la difesa di merito non sarebbe stata intrapresa prima perché avrebbe potuto «nuocere alla protezione collettiva accordata senza distinzione degli atti commessi», alla «piccola comunità dei rifugiati italiani, protetta da oltre vent’anni dalla parola della Francia», oltre alle ulteriori dichiarazioni riportate su Le Monde del 23 novembre 2004. Piuttosto che adoperarsi per riparare la situazione, sembra che alcuni dei maggiori sostenitori di Battisti cerchino un capro espiatorio su cui scaricare l’errore di linea difensiva. Viene così attribuita alla comunità dei fuoriusciti una oggettiva funzione di condizionamento, un ruolo quasi censorio, che avrebbe vincolato la strategia difensiva al rispetto di una fantomatica «responsabilità collettiva», all’obbligo della difesa politica di principio previa scomunica. persichetti017a0dinu

Quanto è stato più volte riportato da autorevoli quotidiani, che hanno fatto anche menzione di supposti «malumori» di fronte al «nuovo corso» della difesa Battisti, notizie successivamente riprese dalla stessa stampa italiana, impone un necessario chiarimento pubblico riguardo alla politica difensiva adottata nel corso di oltre venti anni dai fuoriusciti di fronte alle chambres d’accusations, al fine di sgombrare il campo da malintesi, equivoci, inesattezze e caricature grottesche.

1. Già nella scorsa primavera, alcuni scrittori sia pur nelle loro generose intenzioni hanno dato vita ad una disastrosa campagna stampa infarcita d’errori, pressapochismi storico-politici e argomenti dilettanteschi sugli anni Settanta e sull’Italia recente, compromettendo notevolmente gli esiti della vicenda Battisti e più in generale fragilizzando lo stesso sostegno di cui hanno sempre usufruito i fuoriusciti italiani. Molti di questi interventi hanno infatti offerto pretesti insperati ai sostenitori delle ragioni dello Stato e della magistratura italiana che, per la prima volta da venti anni a questa parte, sono riusciti a guadagnare terreno benché avessero dalla loro solo argomenti mistificatori della realtà storica e delle vicissitudini giudiziarie di quegli anni. Un contesto sfuggito di mano alla tradizionale linea politica tenuta dai fuoriusciti e improntata ad una rigorosa critica della giustizia d’emergenza ed ai suoi metodi che hanno stravolto il processo penale, capovolto l’onere della prova, eretto la parola remunerata dei pentiti a fondamento delle accuse.

2. Per oltre venti anni, i fuoriusciti hanno sempre rivendicato il principio del rispetto della dottrina Mitterand «per tutti e per ciascuno», senza esclusioni o differenziazioni legate al tipo di reato o d’appartenenza organizzativa contestata. In questo modo si è inteso difendere l’unico criterio oggettivo eguale per tutti. Un minimo comun denominatore politico capace di tradurre su un terreno giuridico la comune appartenenza ad una medesima vicenda storica, al di là delle singole passate differenze di militanza, di cultura politica e d’ideologia. Una posizione che nulla ha a che vedere con formule confuse sul piano politico e assolutamente inconsistenti su quello giuridico, come la cosiddetta «responsabilità collettiva». Principio che per altro Battisti stesso è sempre stato il primo a non rispettare. Innumerevoli sono state, infatti, le occasioni nelle quali egli ha espresso giudizi denigratori – come ribadito anche nella sua ultima intervista dell’estate scorsa – nei confronti di formazioni politiche armate degli anni Settanta diverse dal suo vecchio gruppo d’appartenenza.

3. La nozione di «responsabilità collettiva» può avere pertinenza all’interno di una riflessione etico-politica che investa la ricostruzione storica generale dei movimenti sociali e dei gruppi rivoluzionari che hanno agito negli anni Settanta e Ottanta, oppure per definire la natura etica del legame associativo che ha operato all’interno di ogni singola formazione. Difficilmente una tale nozione può avere valore operativo sul terreno dello scontro giudiziario. La posta in gioco del processo penale è dimostrare la responsabilità personale. Responsabilità di cui la giustizia d’emergenza italiana è addirittura arrivata a fornire interpretazioni largamente estensive, attraverso forme ellittiche di complicità come il concorso morale o psicologico. Appare chiaro, allora, come di fronte ad un’esigenza d’efficacia sia vitale saper tradurre sul piano strettamente giuridico, lì dove se ne presenti la necessità o la possibilità, anche una difesa del corpo singolo, in carne ed ossa, della persona indicata con nome e cognome nella domanda d’estradizione, altrimenti la confusione tra campi che seppur legati restano distinti da codici propri, come la battaglia storico-politica e quella tecnico-giuridica, conduce ad inevitabili catastrofi difensive.

4. Nelle oltre ottanta procedure di estradizione affrontate di fronte alla Chambres, i fuoriusciti ed i loro legali non hanno mai rinunciato, quando se ne presentavano le condizioni, ad introdurre anche la difesa di merito, ritenuta un valore aggiunto nelle argomentazioni difensive. Numerosi – ed anche clamorosi in taluni casi – sono stati gli episodi in tal senso. A nessuno sfugge, infatti, l’enorme valenza politica generale e le numerose ricadute positive sul piano collettivo che possono suscitare la possibilità di smascherare i pentiti, svelare i metodi della giustizia d’emergenza, smontare i teoremi dell’accusa, fornendo l’immagine cruda e reale della giustizia italiana. Indurre a credere, come purtroppo è stato scritto recentemente, che tutto ciò sarebbe stato interpretato dalla comunità dei fuoriusciti come una maniera di «liquidare a poco prezzo il proprio passato» è un atteggiamento irresponsabile, che ha come unico effetto quello di minare l’unità di un gruppo sottoposto ad un durissimo attacco, creando artificiali malintesi e ingiustificate tensioni, oltre a designare i fuoriusciti di fronte all’opinione pubblica come una combriccola di cinici inquisitori.

5. Inoltre, va ricordato che la procedura d’estradizione non è un’anticipazione o un ulteriore grado del processo, legittimato a valutare il merito delle prove a carico o a discarico della persona richiesta dall’autorità statale straniera. Le Chambres d’accusations sono abilitate unicamente a pronunciarsi sulla ricevibilità giuridica delle richieste, analizzandole sotto il profilo della conformità con le norme internazionali e nazionali: convenzione sui diritti umani, convenzione sulle estradizioni, diritto penale e di procedura interno. Per questa ragione le difese hanno sempre dovuto agire dispiegando una strategia fatta di stadi successivi: in primis rispetto dei diritti umani; ostatività dell’estradizione di fronte ad infrazioni di natura politica; assenza di contrasto con i principi di specialità e doppia incriminazione; assenza di contumacia; prescrizione dell’infrazione ecc. In secondo luogo, e sempre se la corte lo consente, la difesa solleva in aula, altrimenti fuori dall’aula, le questioni di merito, come la non colpevolezza. In ultima istanza subentrava la tutela politica prevista dalla dottrina Mitterand.

6. È fuori discussione che la soluzione generale e definitiva al problema dei prigionieri e dei rifugiati possa venire solo dal varo di un’amnistia. Misura che lo Stato italiano ha sempre rifiutato poiché ha trovato nei fuoriusciti un serbatoio di comodi capri espiatori e responsabili di sostituzione. È altrettanto evidente che sollevare di fronte alle Chambres questo argomento ha ben poca efficacia e pertinenza.

7. Benché l’uso del termine «innocenza» risulti improprio per definire la tradizionale difesa tecnica volta a contestare gli addebiti specifici, è evidente che il ricorso ad una tale terminologia da parte dell’attuale difesa di Battisti è più che altro dovuto ad una concessione all’enfasi retorica ed alla semplificazione mediatica. Espedienti che sicuramente non riescono a compensare le innumerevoli falsità e mistificazioni diffuse nei mesi scorsi dai media fautori della sua estradizione. Ciò che invece desta seri dubbi è il tono scelto per giustificare pubblicamente la decisione di passare alla difesa di merito. Quasi che con questa scelta si volesse marcare una differenza individuale con le tradizionali condotte difensive dei fuoriusciti. Un atteggiamento, tanto più sorprendente quanto, in realtà, questa discontinuità non è con la comunità ma con le precedenti convinzioni di Battisti stesso. Stupisce dunque il bisogno di sottolineare una distanza col resto della comunità, come se la diversità fosse d’improvviso divenuta un valore aggiunto. Le cronache degli ultimi anni ci hanno lungamente documentato sulla sorte avuta da strategie difensive costruite sulla enucleazione esasperata del caso individuale rispetto a quello che è stato il sistema dell’emergenza, la catena di montaggio dell’eccezione che ha investito tutti i rifugiati e i prigionieri.

In conclusione, è auspicabile che tutti coloro che hanno una parte in questa vicenda mantengano un atteggiamento più attento e responsabile, improntato all’onesta intellettuale ed al rispetto di chi da decenni si batte contro le estradizioni. Occorre prestare maggiore cura alle affermazioni che vengono immesse nello spazio pubblico, con particolare riguardo all’interesse generale, al destino comune che lega tutti i fuoriusciti.

Ora l’Italia s’inventa l’ergastolo virtuale pur di riavere Battisti

Rinviata la decisione del Supremo tribunale federale brasiliano sull’estradizione. Il procuratore Cesar Peluso favorevole a patto che l’Italia rinunci all’ergastolo commutando la condanna a una pena non superiore a 30 anni

Valentina Perniciaro
L’altro
11 settembre 2009

Dopo otto mesi di stallo il “caso Battisti” è approdato nelle aule del Supremo tribunale federale brasiliano, equivalente alla nostre Corte Costituzionale. Su richiesta del governo italiano, nove magistrati dovranno pronunciarsi per decidere se sospendere o meno l’asilo politico concesso a gennaio a Cesare Battisti, ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo condannato in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi, dal ministro della giustizia brasiliano Tarso Gendro. Il dibattimento non ha portato alla sentenza come ci si aspettava, ma ad una richiesta di sospensione che dia il tempo di esaminare ulteriormente le carte. A data da destinarsi, quindi. battisti01gCesare Battisti non era presente in aula, al contrario del rappresentante del ministero di Grazia e Giustizia Italo Ormanni e dell’ambasciatore italiano in Brasile. Dovessimo prender per buone le parole e l’enfasi della stampa italiana, immagineremmo già Cesare Battisti su un volo per l’Italia, con solide manette ai polsi. Urlano tutti giulivi, starnazzano ad un’estradizione praticamente ottenuta quando la realtà è chiaramente diversa e rivela una partita aperta, ancora tutta da giocare. Degli undici membri originari del Supremo tribunale federale saranno solamente nove quelli a votare: Meneses Direito è infatti scomparso da pochi giorni mentre Cesar de Melo ha deciso di astenersi su questo specifico caso. Dei nove magistrati sono stati otto ad essersi già pronunciati .Quattro a favore della richiesta italiana tra cui il giudice relatore Cezar Peluso, ed altri quattro hanno difeso la concessione dello status di rifugiato politico. Marco Aurelio de Mello, l’ultimo a dichiararsi pro-asilo politico ha fatto richiesta di sospendere il processo. Quello che la stampa italiana tende a non sottolineare e quasi ad occultare completamente è che anche i giudici che hanno votato per l’estradizione, hanno posto delle clausole che non saranno molto facili da gestire per il governo italiano. L’Italia fino a questo momento ha recitato la parte dello spettatore rumoroso ed arrogante; senza dover muovere alcun passo è stata a guardare con polemiche dai toni medievali e dagli atteggiamenti spesso razzisti a cui ormai stanno tentando di abituarci. Ma se l’Italia dovesse vincere questa prima battaglia si troverebbe comunque non poco in difficoltà per riuscire a sottostare alle leggi internazionali. Cezar Peluso, giudice relatore, quello che con più enfasi ha dichiarato di esser favorevole a veder tornare Battisti in Italia ha però posto come requisito minimo che l’ergastolo venga commutato ad una pena non superiore ai trent’anni, visto che in Brasile è stato abolito.
499445fa87604_zoomIeri il ministro degli Esteri Franco Frattini è riuscito a dichiarare: “Spero che la decisione tenga conto del fatto che l’Europa è la culla dei diritti fondamentali e che se accadesse che un cittadino europeo fosse ritenuto rifugiato fuori dall’Europa significherebbe smentire che l’Europa ha una Carta dei diritti fondamentali e che ovviamente nessuno qui può essere torturato, perseguitato, né trattato indegnamente.”  Forse non è stato mai informato delle condizioni che vivono i detenuti in Italia, schiacciati da un sovraffollamento unico in Europa e dalle discriminazioni razziali ormai sancite con il nuovo pacchetto sicurezza, testo di legge che dovrebbe almeno farci stare silenziosi su come “trattiamo degnamente” le persone. C’è una differenza di fondo tra il Brasile e questo nostro starnazzante paese: nel rovesciare la dittatura, loro, hanno rivoluzionato anche il sistema penale, abolendo la pena di morte e l’ergastolo perché non rispettosi dei diritti umani fondamentali. E’ incostituzionale una condanna che porti scritto sopra “Fine Pena Mai”, è inconcepibile la ghigliottina legalizzata che nella nostra società appare così normale. Ma d’altronde siamo un paese che, nel rovesciare la propria dittatura, non ha sentito l’esigenza di cambiare anche il proprio codice penale: i nostri giudici sentenziano tuttora con il Codice Rocco tra le mani, non c’è altro da dire. Commutare l’ergastolo di Battisti con una pena inferiore ai trent’anni. Come faranno? Se riuscissero ad ottenere la sua estradizione si riaprirebbero le richieste anche per tutti gli altri militanti della lotta armata italiana rifugiati per la maggior parte in Francia, di cui molti ergastolani. Tolgono l’ergastolo a tutti? E chi, e non sono pochissimi, tra gli ex militanti delle Brigate Rosse sta ancora scontando la pena dopo 32 anni di carcerazione? Anche i loro di ergastoli cancelliamo o continueremo a non concedergli nemmeno la condizionale? Ministri e deputati, giudici e magistrati,  giornalisti e parolai che già cantano vittoria in attesa di brindare attorno al nuovo corpo in catene che rientra in patria, inizino a pensare come gestire questo cavillo non da poco posto dai colleghi sudamericani.

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Le consegne straordinarie degli esuli della lotta armata

Caro Lula, in Italia di ergastolo si muore

Caso Battisti fabula do ergastolo
Governo italiano so obtem-extradicoes
Estradizione Cesare Battisti, la menzogna dell’ergastolo virtuale

Cesare Battisti, un capro espiatorio
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Brasile: niente asilo politico per Cesare Battisti
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Brasile, rinviata la decisione sull’estradizione di Battisti

Il relatore del Tribunale supremo del Brasile si pronuncia per l’annulamento dell’asilo politico concesso a Battisti e ne chiede l’estradizione a patto che l’Italia commuti l’ergastolo ad una pena non superiore a 30 anni. Il Brasile infatti non riconosce la pena dell’ergastolo abolita dal proprio codice penale dopo l’uscita dalla dittatura fascista

Una richiesta che mette in seria difficoltà l’Italia. Il ministro degli esteri Frattini e quello della Difesa La Russa, che vantavano i meriti del nostro sistema giudiziario immacolato (salvo quando si occupa di Berlusconi), sono in difficoltà. L’Italia infatti non è disposta ad accogliere una richiesta del genere che inevitabilmente, in ragione del principio di eguaglianza del trattamento, aprirebbe un contenzioso sull’abolizione di questa pena, per altro già prevista nel dettato costituzionale

Insomma l’Italia è sempre più in un vicolo cieco

Paolo Persichetti
Liberazione 11 settembre 2009

Nonostante l’euforia con la quale molti quotidiani italiani, Repubblica in testa, hanno dato per certa l’imminente estradizione di Cesare Battisti, dopo l’udienza tenutasi mercoledì scorso davanti al tribunale supremo brasiliano (l’equivalente della nostra corte costituzionale), la complessa partita politico-giudiziaria che si sta giocando attorno alla vicenda è ancora tutta aperta. ALeqM5igDSk4Oj0Y4UD4b8FwQtlVQjYD1A
Dopo 11 ore di discussione la corte si è aggiornata rinviando ogni decisione a data da destinarsi. Il presidente Gilmar Mendes ha accolto la richiesta di sospensione avanzata del giudice Marco Aurélio Mello. Oltre al merito, infatti, sono state affrontate numerose opzioni procedurali. Nel corso del primo giro di votazioni la corte si è spaccata: il relatore Cezar Peluso e altri tre giudici hanno votato per l’annullamento dell’asilo politico riconosciuto dal ministro della giustizia Tarso Gendro. A loro avviso la scelta di concederlo sarebbe stata infondata perché i reati ascritti a Battisti (condannato a due ergastoli per la sua militanza nella lotta armata nei lontani anni 70) non sarebbero politici ma di «dritto comune». Tuttavia, poiché il Brasile dopo la dittatura militar-fascista ha abolito l’ergastolo dal suo codice penale, il relatore ha legato l’eventuale via libera per l’estradizione all’accoglimento da parte italiana di una clausola che prevede la commutazione dell’ergastolo ad una pena non superiore ai 30 anni.
Joaquim Barbosa e altri due giudici hanno invece difeso la concessione dello status di rifugiato, replicando che sarebbe stato assurdo smentire la politicità dei reati attribuiti a Battisti perché riconosciuta dalla stessa giustizia italiana attraverso l’applicazione di specifiche aggravanti di pena. Ai tre, che hanno anche censurato l’arroganza del governo italiano e le dichiarazioni razziste di alcuni ministri nei confronti del Brasile, trattato alla stregua di una repubblica delle banane, si è aggiunta la posizione più sfumata di Mello.
Quattro contro quattro insomma. Mancavano due membri del collegio, il giudice Menezes Direito deceduto da pochi giorni, ferocemente convinto dell’estradizione di Battisti. In attesa che riacquistasse le forze il presidente del tribunale aveva appositamente rinviato per mesi la discussione del caso, con la segreta speranza di potersi avvalere del suo voto. L’altro magistrato, Celso de Melo, si è pilatescamente tirato fuori dalla contesa. Ago della bilancia potrebbe essere il Presidente Mendes che mercoledì ha preferito non votare, sempre che non si decida di escludere dal voto il relatore, come proposto da alcuni. Mendes, uomo della destra e gran rivale di Lula, è uno dei capofila del partito dell’estradizione, molto sensibile alle pressioni del governo italiano. Terminata la pausa di riflessione, se non ci saranno nel frattempo cambiamenti, l’aritmetica farà il suo corso sfavorevole a Battisti. Se permanesse invece una situazione di parità, dovrebbe prevalere il principio del favor rei.
499e6d2fc191c_zoomQuello che stampa, mondo politico ed esponenti della vittimocrazia italiana omettono di raccontare, è che l’eventuale annullamento dell’asilo politico avrà come unico effetto immediato la riapertura della procedura d’estradizione, sospesa proprio in virtù della copertura fornita dallo status di rifugiato. Insomma non vedremo affatto Battisti manette ai polsi arrivare in Italia, per la delusione del ministro Frattini e del suo collega La Russa, che un po’ di diritto penale comparato e qualche convenzione internazionale potrebbero pure studiarli. In ogni caso la decisione finale – sempre che la magistratura non dichiari irricevibile la richiesta d’estradizione (va ricordato che il mancato riconoscimento dell’asilo politico non inficia minimamente la possibilità di rifiutare una domanda d’estradizione) – spetta in ultima istanza a Lula.
Non è chiaro cosa farà il presidente brasiliano, negli ultimi tempi sembra che per ragioni di politica interna e d’opportunità internazionale abbia ammorbidito la sua posizione e si sia fatto più ricettivo rispetto alle posizioni italiane, nonostante la loro fastidiosa invasività. La stessa scrittrice Fred Vargas, nume tutelare di Battisti, si è fatta portavoce nelle ultime ore di questi timori legati al mutare degli equilibri interni al governo brasiliano, alla necessità per Lula di avvalersi del sostegno elettorale di un ministro rivale di Gendro. Certo la scrittrice poteva pensarci prima. È lei una delle responsabili della disastrosa linea difensiva sempre portata avanti. Per l’Italia, comunque vada, la vicenda Battisti sarà una grosso problema. Con la sua ostinata insistenza si è cacciata in un vicolo cieco. Figuraccia internazionale se il Brasile dovesse alla fine negare l’estradizione, confermando il giudizio pessimo che già in sede internazionale viene espresso nei confronti del suo sistema penale e penitenziario. Sono ben sette i paesi al mondo che nel corso degli ultimi decenni hanno rifiutato l’estradizione di militanti politici degli anni 70. Tra questi, oltre alla Francia della dottrina Mitterrand, c’è stata anche la Gran Bretagna. In caso contrario, l’Italia dovrebbe mettere mano alla pena dell’ergastolo per Battisti adeguandosi a quei parametri internazionali di civiltà giuridica che da noi fanno difetto. A quel punto si porrebbe il problema degli oltre 1400 ergastolani d’Italia, e degli altri detenuti politici in carcere da oltre 30 anni. La disponibilità espressa a suo tempo dal ministro Mastella venne travolta dalla reazione della lobby vittimocratica. A differenza del Brasile, il nostro sistema politico non ha avuto la nitidezza di liberarsi delle eredità della dittatura fascista, di cui conserviamo ancora un codice penale addirittura irrigidito dalle leggi dell’emergenza.

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Caso Battisti: una guerra di pollaio

A cosa mirano Battisti e Vargas con le loro ultime dichiarazioni?

Paolo Persichetti

Iniziata nel febbraio 2004, con l’arresto a Parigi architettato dalla polizia sulla scorta di un finto litigio di condominio, col passare del tempo e la stratificazione delle polemiche e delle strumentalizzazioni, basti ricordare l’investimento che il caso rappresentò nella campagna presidenziale, sia da parte dal candidato Sarkozy, allora ministro degli Interni, che del segretario dei socialisti Hollande (che si recò in visita al detenuto), l’intera vicenda Battisti lascia sempre più perplessi. Il gioco delle rappresentazioni mediatiche contrapposte alla fine ha nuociuto a Battisti stesso. Niente è più lontano dalla condizione umana e dalla vita reale del personaggio, della percezione mediatica che si è imposta in Italia. Abilmente costruita dai media e veicolata dal suo stesso entourage, una volta che lui stesso ha rotto con la comunità dei rifugiati pensando di trovare nell’abbraccio dei salotti parigini la salvezza. 5414l«Vita dorata», «intellettuale della rive gauche»? Battisti in realtà conduceva una vita precaria, dal tenore modesto. Portinaio di un immobile, tirava a campare con meno di 800 euro al mese e viveva in una soffitta. Nei ritagli di tempo si dedicava alla sua passione, la scrittura di gialli che certo non gli davano da vivere. Tutto ciò è stato deformato fino a ridisegnarlo come una delle maschere più odiose degli anni 70: l’icona del male, l’assassino dal ghigno feroce. Sorpassato dagli eventi non ha fatto molto per impedire tutto ciò. E gli scrittori alla Bernard Henri Levy e alla Fred Vargas l’hanno schiacciato sotto il peso del loro narcisismo vittimista, eleggendolo ad emblema della persecuzione contro la casta intellettuale. Parlavano di lui ma vedevano se stessi. La vicenda è uno di quei casi in cui la storia trascende i suoi protagonisti. Come lui stesso ha riconosciuto in una sua recente intervista su un quotidiano brasiliano, Battisti non riesce a comprendere come e perché si sia ritrovato al centro di un affaire internazionale, oggetto di tante polemiche, odio e accanimento. Questa incapacità di comprendere ciò che gli accade la dice lunga sugli strumenti culturali del personaggio che sembra vivere in una dimensione separata, nella trama di uno dei suoi “gialli” piuttosto che nella realtà. Da qui il gusto per le trame, i Servizi che intervengono, i toni guasconi, le semplificazioni che rasentano grettezza.

 

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La scrittrice Fred Vargas

 

Il caso Battisti è uno specchio del nostro tempo e tutti i diversi protagonisti che vi prendono parte ne escono male. Niente torna in questa storia: il rancore dei suoi ex coimputati che lo stigmatizzano solo perché a loro non è riuscito di fuggire. Il fatto che per discolparsi Battisti stesso fa il loro nome, facendo passare per pentiti dei semplici ammittenti che non avevano fatto dichiarazioni su terzi. I familiari delle vittime che omettono di raccontare una evidenza processuale, come la sua estraneità – quantomeno fattuale – nell’uccisione di Torreggiani ed il fatto che Torreggiani stesso girasse armato e avesse ferito il figlio reagendo al fuoco, dopo che in passato aveva ucciso un rapinatore in circostanze che non giustificavano in alcun modo l’uso legittimo delle armi. La vicenda si è ridotta ad una guerra di pollaio che vede i politici fare le dichiarazioni più astruse e insensate, prive delle minime nozioni di diritto internazionale. Lo sprezzo sistematico della sovranità interna brasiliana, l’atteggiamento arrogante e razzista verso una potenza continentale, di gran lunga più influente dell’Italia, ritenuta una repubblica delle banane da ministri che non conoscono nemmeno le competenze della commissione europea ed hanno costretto il responsabile della Giustizia dell’Unione a ripetute smentite. Senza dimenticare le “rivelazioni” sull’aiuto che sarebbe venuto da un esponente dei servizi per favorire la fuga verso il Brasile. Affermazioni confermate e ulteriormente dettagliate dalla Vargas. Circostanza smentita dalla stessa Ucigos. Non esistono precedenti su un ruolo attivo dei servizi francesi nella esfiltrazione diretta di rifugiati italiani, addirittura attraverso la fornitura di passaporti falsi. Uno scenario troppo romanzato. Forse Battisti confonde la realtà con i suoi gialli. Ho vissuto 11 anni a Parigi e sono stato consegnato alle autorità italiane nello spazio di una notte, scambiato sotto il tunnel del Monte Bianco nell’estate del 2002 con modalità che assomigliano a quelle di un rapimento (una “consegna straordinaria” come si dice nel linguaggio tecnico) con la collaborazione diretta dei servizi dei due paesi. Non ho mai visto connivenze degli apparati nei nostri confronti. Al contrario molta diffidenza da parte della polizia francese. Spesso ostilità che per puro “senso dello Stato” tentavano malamente di celare sottomettendosi alla dottrina Mitterrand. Insomma i flic non ci hanno mai amato (per fortuna). Questa storia non convince affatto. In Francia i servizi al massimo hanno potuto chiudere un occhio (per aver così un problema in meno) se vedevano qualcuno andar via, secondo quella tipica politica condotta da paesi che sono stati in passato potenze coloniali e che hanno una tradizione imperiale.

A questo punto le cose sono due:

a) La storia dei servizi è vera. Cioè un settore, quello filosocialista (come dice Vargas che parla di “uno di sinistra”), lo ha veramente aiutato. Ma a questo punto perché svelarlo? Perché bruciare un canale che avrebbe potuto rivelarsi ancora utile in futuro? Quale ratio può esserci dietro queste indiscrezioni tanto controproducenti? E poi, in cambio di cosa l’aiuto sarebbe venuto? L’ambiente dei Servizi non fa niente per niente. Se questo aiuto dovesse trovare conferma, allora avrebbe una spiegazione il fatto che la vicenda Battisti si è rivelata devastante per i rifugiati e per la percezione storica degli anni 70. Forse la merce di scambio potrebbe essere stata proprio questa: stravolgere l’esperienza dell’asilo di fatto contribuendo a raffigurarla come il male assoluto, l’abiezione totale. La gauche caviard parigina, che tanto si è spesa per lui, perché in lui si è raffigurata autorappresentandosi in una sorta di dispositivo narcisista e vittimario, mai è intervenuta per gli altri rifugiati. Tra l’altro non c’era certo bisogno del suggerimento di uno 007 per sapere che il Brasile era tra i paesi che avrebbero potuto offrire ospitalità.

b) Ma se la storia dei servizi è falsa. Allora Battisti e il suo entourage chi stanno ricattando e perché? Quali messaggi trasversali lanciano? Vogliono vendicarsi di cosa? Quale montatura diffamatoria stanno mettendo in piedi? Chi vogliono colpire?

Quali che siano le risposte gli unici che pagano le conseguenze di queste parole sono gli altri rifugiati che restano ancora a Parigi e che non hanno santi in paradiso ma hanno sempre condotto battaglie trasparenti e solidali per tutti e per ciascuno.

Crisi diplomatica tra Italia e Brasile per il caso Battisti. Richiamato l’ambasciatore Valensise

Dopo la richiesta di archiviazione fatta dalla procura generale brasiliana, a seguito della concessione dello status di rifiugiato politico, l’Italia richiama l’ambasciatore Valensise a Brasilia per consultazioni

Paolo Persichetti

Liberazione 28 gennaio 2009

Cesare Battisti non verrà estradato, per questo l’Italia ha deciso di richiamare il proprio ambasciatore in Brasile Michele Valensise. La rappresaglia diplomatica (che nel linguaggio paludato della diplomazia è il segnale di un grave stato di crisi prossimo alla rottura delle relazioni ufficiali) è stata presa dal ministro degli Esteri Franco Frattini dopo la diffusione, nella serata di lunedì, del nuovo parere sulla estradizione – questa volta negativo –  espresso dalla procura generale brasiliana. Antonio Fernando De Souza, nell’aprile del 2008, si era detto favorevole; ora però, a seguito della sopravvenuta concessione dell’asilo politico, da parte del ministro della Giustizia Tarso Gendro, non ha potuto fare altro che inchinarsi e domandare l’archiviazione dell’intera procedura.

Genro Tarso

Genro Tarso

Tra Italia e Brasile non vi è alcun accordo sul riconoscimento reciproco delle sentenze di giustizia e la dottrina giuridica estradizionale è materia che attiene ancora alle decisioni sovrane della politica. Il parere era stato richiesto dal presidente del Supremo tribunale federale (Stf) Gilmar Mendes, dopo le forti reazioni italiane e le pesanti pressioni diplomatiche. Prima il presidente della repubblica Napolitano, poi il presidente della Camera Fini, avevano scritto a Lula per rappresentare lo «stupore e il rammarico» delle autorità italiane. Lo stesso ambasciatore Valensise, accompagnato da un legale brasiliano incaricato dal nostro governo, era stato ricevuto dal presidente del Supremo tribunale federale. Circostanza che ha rasentato l’ingerenza negli affari interni brasiliani. Come avrebbe reagito l’Italia se un ambasciatore estero avesse incontrato il presidente della corte di Cassazione per fare pressione nell’ambito di una procedura in corso?
Lula aveva risposto con una breve ma ferma lettera nella quale ribadiva che la decisione era un atto sovrano del Brasile fondato su indiscutibili basi giuridiche interne e internazionali (art. 4 della costituzione brasiliana, legge post-dittatura del 1997 sul diritto d’asilo e convenzione Onu del 1951, riconosciuta anche dall’Italia). A questo punto la parola torna al Tribunale supremo che si riunirà il prossimo 2 febbraio per pronunciarsi sulla scarcerazione. Per altro l’estradizione di Battisti, se fosse avvenuta, avrebbe sollevato non pochi problemi all’Italia. Infatti la condizione posta dalla procura generale era la commutazione dell’ergastolo comminatogli (abolito dal codice penale brasiliano) a 30 anni di reclusione. Ove mai l’Italia avesse accolto la richiesta (non avrebbe potuto fare altrimenti), si sarebbe posto un problema di uguaglianza di trattamento di fronte a tutti gli altri ergastolani. In questa vicenda l’Italia ha sommato una lunga serie di gaffes e comportamenti arroganti, mostrando di considerare il Brasile una repubblica delle banane che avrebbe dovuto piegarsi supinamente all’attività lobbistica della nostra magistratura, spesso convinta d’essere la fonte battesimale della giustizia mondiale pronta a dare lezioni di legalità al mondo intero. Nonostante il pluridecennale contenzioso aperto con le autorità parigine, quasi 90 procedure di estradizione (accolte solo in due casi), l’Italia non ha mai pensato di mettere in discussione in modo così palese la sovranità interna della Francia. Forse non a caso Gianni Agnelli definiva lo Stivale una «repubblica di fichi d’india».
Questa disfatta diplomatico-giudiziario riapre con forza la questione della mancata chiusura politica degli anni 70. All’estero nessuno riesce a capire come dopo 30 anni permanga ancora una tale volontà di disconoscere la natura sociale del conflitto

Rita Algranati allarrivo in Italia

La "consegna straordinaria" di Rita Algranati

armato che traversò quel decennio e che, una volta concluso, andava affrontato e chiuso. L’Italia continua a negare l’emergenza giudiziaria, i numerosi casi di tortura denunciati nei primi anni 80 (anche da Amnesty). Fino ad ora ben 7 paesi hanno detto no alle richieste d’estradizione italiane: la Francia, la Gran Bretagna, la Grecia. Poi il Canada, il Nicaragua, l’Argentina e il Brasile. Solo grazie a degli atti di pirateria internazionale, favoriti dal clima post Torri gemelle, l’Italia è riuscita a riavere alcuni rifugiati. Clamoroso fu il caso di Rita Algranati nel 2004, scambiata con i servizi Algerini, complice l’Egitto. Insomma la vera anomalia internazionale continua ad essere quella italiana. Per quanto ancora?