All’intervento di Rossana Rossana, «Perché non sono più garantista» del 17 luglio 1979, che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi (leggi qui), replicò l’8 e 9 agosto successivo Oreste Scalzone, rinchiuso da quattro mesi a seguito della retata del 7 aprile 1979 nel carcere romano di Rebibbia
«Cara Rossanda, a proposito del tuo corsivo Perché non sono più garantista, alcune obiezioni.
La tua conoscenza del movimento comunista ‘storico’ è troppo qualificata perché possa sfuggirti il fatto che – soprattutto in quella tradizione – la “veridicità” del merito degli argomenti viene il più delle volte sopraffatta dalla logica dello schieramento. Ora sottrarsi a questa ‘legge’ ogniqualvolta sia possibile è senz’altro doveroso anzi, è il fondamento della possibilità stessa di quella cultura “eretica” che è una delle radici della critica radicale […]
A me pare che nel tuo corsivo si perda la distinzione – anzi, la contrapposizione – fra critica (di parte comunista) del diritto e soppressione del diritto stesso. La critica del ‘diritto uguale’ mette capo infatti a un discorso sulla estinzione del diritto entro la fine delle forme economiche e statuali, dentro la fine di ogni forzosa omologazione dei soggetti diversi in
una astratta eguaglianza definita dal tempo di lavoro, dal valore, dal denaro, dal suffragio, dalla rappresentanza.
Dal punto di vista della trasformazione sociale, una critica del diritto che non sia articolazione della critica della forma “Stato” (e, per meglio dire, del rapporto di capitale, della sintesi sociale, realizzata dal mercato, delle forme statuali), non ha senso né fondamento. Così come una critica delle ‘garanzie’ separata da una critica del potere può mettere capo solo a delle conseguenze regressive, reazionarie: può solo trasformarsi in un’ideologia e/o tecnologia del dominio.
Dal punto di vista della liberazione, una critica del carattere formale, non neutro delle libertà (come parzialissimi e ambigui vincoli, limiti, correttivi del potere) non ha seno se separata da una critica radicale dei poteri.
Mi pare che, nel tuo pezzo non si faccia la distinzione fra ineguaglianza e differenze. Ci si limita a riproporre la critica ‘classica’ – perfettamente valida, ma inefficiente – per cui il “diritto uguale” (formale) si fonda sulla ineguaglianza (reale) dei soggetti. Ma questo è solo il punto di partenza, e solo tale può essere. Andando oltre, oggi possiamo ben dire che – al livello della maturità del comunismo – il problema della rivoluzione non è certo quello di stabilire una sorta di “diritto ineguale” (formale) che rovesci ‘per decreto’ questo stato di cose. In questo senso, il cammino possibile della liberazione, della rivoluzione, è ormai irrevocabilmente oltre l’orizzonte della dittatura del proletariato come perfetta democrazia […]
In questo senso, nessun passo in avanti del discorso è possibile, senza una critica radicale – fondata peraltro su una serie di categorie di matrice marxiana – della democrazia e del socialismo. Si tratta di una critica specificatamente rivolta alla “democrazia socialista”, a quel nesso democrazia/socialismo che, coniugando l’eguaglianza dei soggetti sotto l’indifferenziato dominio della legge del valore con la rappresentanza della “volontà generale” dei cittadini-lavoratori, inevitabilmente abolisce una serie di ‘libertà’, senza perÚ che esse trascorrano nella libertà comunista […]
Dentro questa tematica che si autodefinisce “neogarantista” c’è qualcosa di più di una possibile tattica difensiva; ed è qualcosa che merita di essere approfondito e – se del caso – assunto. E dico questo non solo tenendo conto delle lucide precisazioni di Ferrajoli (la radicale differenza tra questo ‘neogarantismo’ e il vetero-garantismo classico; il suo porsi come necessariamente e dichiaratamente complementare a un’effettiva costituzione di processo di contropotere che continuamente determinino una dinamica squilibrante, una rimessa in discussione permanente della “costituzione materiale”); dico questo soprattutto perché ritengo che questa tematica possa essere assunta come elemento significativo di un rapporto tra costituzione del soggetto comunista di massa e forme dell’antagonismo […]
Si tratta di considerare i dal punto di vista di questo potente, ampio, ricco processo di costituzione del soggetto, del soggetto sociale, di massa, della trasformazione comunista […] Si tratta, per esempio, intanto, di affrontare il tema – appena abbozzato – dell’autodifesa delle comunità (che elettivamente su questo terreno di socializzazione indipendente – strategicamente offensiva nel suo stesso emergere e volgersi – si vengono costituendo) dal potere, dalle materiali operazioni di contenimento, di interdizione, di coazione che esso esercita. In questo senso, in ordine a questa prospettiva, il “neogarantismo” – come coerente e intransigente critica del potere, come sistematica proiezione del conflitto sui livelli e sugli equilibri della “costituzione materiale” – può diventare teoria specifica […] di una potente dinamica conflittuale tra contropotere o componenti critiche e ‘conflittuali’ che si muovono e agiscono nel limite della legalità.
Mi interessa in particolare l’articolazione giuridico-processuale di una linea di intransigente radicalità “neo-garantista”.
Consentimi di fare l’esempio del “processo 7 aprile”, che è stato peraltro il “caus belli” di questo dibattito. Ecco, io credo che tutti dovrebbero fare la fatica di leggersi le 174 pagine del documento-monstre firmato dal consigliere istruttore Gallucci. Di questo documento, davvero si può dire che il mandato di cattura è niente, l’ordinanza è tutto. In essa si tenta una formidabile innovazione del diritto, consistente nella sua pratica dissoluzione e soppressione a favore dell’assunzione, da parte dello Stato, di una logica di guerra. Inversione dell'”onere della prova” […] legittimazione del sospetto, della “verosimiglianza” di un’ipotesi accusatoria agli occhi del potere, come sufficiente motivo per tenerti in galera: questi sono i capisaldi della “filosofia repressiva” di Gallucci. Col 7 aprile si apre in forma stabile – sufficientemente esplicita e clamorosa da poter costituire un corposo precedente -, la lista dei “prigionieri di guerra” in questo paese […]
Ecco: io credo che contro questa “filosofia” della soppressione del diritto da parte dello Stato, la prima trincea, la più radicale e avanzata in questo momento – per quanto riguarda la linea di condotta dei compagni prigionieri – sia un intransigente e animoso “neo-garantismo”.
Anche per questo mi ostino (anche in polemica con parecchi compagni) a rifiutare il ricorso a una tematica politica “innocentista”. Non foss’altro per il fatto che una impostazione innocentista finisce implicitamente per accettare o perlomeno subire l'”inversione dell’onere della prova”. In altre parole: se io accetto di fornire di me un ritratto, un identikit in positivo, vuol dire che abbandono il campo di una pregiudiziale e intransigente battaglia “garantista”.
Sono convinto che una posizione intransigentemente garantista dovrebbe rifiutarsi di accettare la farsa di interrogatori che non hanno più neanche le caratteristiche previste nello stesso codice di procedura e porterebbe a rifiutare il confronto con giudici che sono per loro stessa esplicita teorizzazione veri e propri componenti di un “braccio secolare” e che, come cinghia di trasmissione della ragion di Stato, si consentono ogni arbitrio. CosÏì stando le cose, ho deciso di rifiutarmi di “rispondere” non solo perché questo processo é già pubblico, ma perché credo di far funzionare i verbali di interrogatorio come strumenti di agitazione, di denuncia, di controinformazione. Ritengo comunque che, nella prossima fase, noi non abbiamo da “difenderci”, ma da mettere sotto accusa i nostri inquisitori.
E qui si tratta cara Rossanda, non già di rilevare l’astratto formalismo di questo metodo garantista. Si tratta semmai di lottare perché le “libertà” funzionino come libertà della lotta, come spazi di espressione utilizzati da quei nuovi soggetti – multiformi e concreti – che compongono il movimento della trasformazione sociale.
E’ per questo che l'”innocentismo” non mi convince. Perché mi sembra che equivalga a una mezza sconfitta. Insomma: se uno pretende di tenerti in galera perché, a dire della ragion di Stato, è “verosimile” che tu sia “terrorista”, nel momento in cui ti metti a proclamarti innocente hai già perso a metà. Perché hai avallato la loro decisione di legittimare il sospetto come elemento di accusa. Garantismo intransigente, radicale sul terreno processuale vuol dire invece che – quand’anche uno fosse un “combattente comunista” (o che so, il rapinatore del secolo o il mostro di Londra), non può essere tenuto in galera senza prove specifiche contro di lui. Sarà formalistico, sarà un criterio che può essere utilizzato anche dai Rauti e dai Sindona, come dici tu, ma – fintantoché viviamo sotto il dominio del capitale, fintantoché ci sarà uno Stato, un potere – questo è senz’altro il criterio pi “progressivo”. Anche perché – per un Rauti o un Sindona che, nel regime sociale vigente, fossero eventualmente condannati sulla base di una lacerazione di questo criterio -, senz’altro ci sarebbe un numero cento, mille volte superiore di proletari, di compagni, che finirebbero sotto la stessa mannaia. Converrai infatti, cara Rossanda, che la corporazione della magistratura è ancora meno “neutrale” delle “garanzie”, e che non ci sono dubbi su come userebbe – e già usa – ogni margine di discrezionalità concessole. Sappiamo bene quanto bisogna diffidare dei “tribunali del popolo” e della “giustizia rivoluzionaria” (cioè degli effetti di una critica pratica della “giustizia borghese” che si arresta a metà, che non va “fino al fondo delle cose”, che non è radicale); figurarsi se si può pensare di far funzionare i “tribunali borghesi” in modo (non formale e non neutrale) coevo agli interessi proletari, ai processi di trasformazione sociale. Non v’è dubbio alcuno che – se la verosimiglianza del sospetto agli occhi del potere diviene sufficiente a “legittimare” carcerazioni e condanne – la macchina penale si fa strumento ancor pi organico non solo al “sistema sociale”, ma anche al “regime politico” (e, più in particolare, alle direttive dell’Esecutivo in carica).
Anche per questo – e non certo per astratto moralismo – ritengo che vada respinta ogni sollecitazione ad “abiure” e “patteggiamenti” anche parziali. Ogniqualvolta sia necessario entrare nel merito dei fatti e delle questioni contestate si deve insistere sulla “rivendicazione” di una identità e di una storia di militanti comunisti che hanno operato all’interno della sovversione sociale. E questo non per motivi “di bandiera”, per moralistico ideologismo, per amor di “coerenza”; ma per il fatto che sono oggi in gioco elementi che vanno a configurare un corposo precedente […]
Last, but not least, io ritengo che sia necessario a tutti i costi di evitare di frammischiare elementi di un discorso e di una battaglia politica come la critica delle teorie del partito – guerriglia o delle ideologie militariste” – critica che ha una sua autonoma e antecedente ragion d’essere – con lo sviluppo di una “linea di difesa”. Si tratta infatti di cose ben distinte, che Ë opportuno e utile (oltreché corretto) tenere distinte […]
Insomma, per dirla in altre parole, se un giorno le teorie di Lucio Magri venissero messe sotto processo, l’adesione al Pdup venisse dichiarata reato, e qualcuno venisse ad arrestarmi per via del convegno sotto il tendone del circo Medini di 10 anni prima, non credo proprio che sfodererei il repertorio delle radicali divergenze che mi dividono dal pensiero e dalla prassi di Magri, né il mio primo pensiero sarebbe presentare ai giudici il “dossier” con tutti gli articoli che ho scritto contro di lui.
Anche per queste ragioni non ho condiviso “in radice” la presa di posizione che la più parte dei gruppi dell’Autonomia operaia organizzata ha effettuato, rispetto al discorso sull’amnistia.
Ritengo infatti che – dietro le giaculatorie di rito (formalmente “di sinistra”) tipo “niente trattativa”, “la lotta di classe non può conoscere tregua” et similia – si elude, anzi si rimuove, il problema reale. Affannarsi a dichiarare – in quelle prese di posizione – infondato ogni discorso sulla “trattativa”, dal momento che non esiste una “guerra”, vuol dire chiamarsi elegantemente fuori dagli enormi problemi sollevati, qui e ora, da un nodo – quello dei prigionieri “politici” e “sociali” – che c’é e che incomberà inevitabilmente sulla teoria di questo paese nei prossimi anni. Non foss’altro perché riguarda ormai – direttamente o indirettamente – migliaia e migliaia di persone […]
D’altra parte, c’è da chiedersi davvero – non per far retorica, demagogia e proclami – con quale improntitudine tanta gente possa pubblicamente dichiarare “sopportabile” dalla comunità sociale il quotidiano tributo di morti pagato alla “civiltà del lavoro”, e poi affermare che – se nel magma dei processi di trasformazione sociale ci sono anche “voci” che si esprimono con le armi -, questo deve necessariamente metter capo alla necessità di schierarsi con la “violenza legittima”, e con la scelta da parte dello Stato della “guerra totale” e della “soluzione finale”.
Che il potere faccia mostra di pensarla così, è normale: e il diffondere questa idea, la falsa coscienza di questa “necessità”, nel “senso comune sociale” fa parte delle “tecnologie del potere”. Ma lavorare a una sana critica “disfattista” di questo Stato che scopre il “valore della vita” solo davanti ai feretri dei suoi funzionari è compito di ogni componente “progressiva”.»
Fonte, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni Settanta a oggi, Odradek 1999, ristampa 2007, pp. 123-136 Appendice 1





migranti e richiedenti asilo. D’altro canto, con la crescente interdipendenza tra paesi e popoli, e con la coabitazione ‘coatta’ tra questi ultimi, la presenza dell’altro si rende visibile e finisce per creare insicurezza. Ecco un paradosso. L’insicurezza creata dai mercati riguarda tutti, o per lo meno le maggioranze, in termini di paura rispetto al futuro, vulnerabilità nei confronti del datore di lavoro, impotenza verso i processi decisionali. Ma una simile paura, che Bakhtin definirebbe ‘cosmica’, rivolta com’è a un potere inafferrabile e debordante, viene tradotta in sgomento indirizzato a minoranze visibili. Se lo Stato non può più difenderci dall’economnia, se non è più in grado di guidarla ma solo di obberdirle, allora dovrà difenderci da altre fonti di insicurezza. A uno Stato snello, che rinuncia alle tradizionali funzioni protettive, si chiede allora l’essenziale: la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, anziché la difesa da un’economia che li minaccia. Il populismo penale è legato allo snellimento dello Stato e alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo, d’altro canto, va riferito al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonati dall’autorità. Questo risentimento, però, si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono avvertita. Il populismo non aspira al sostegno dell’opinione pubblica in generale, ma solo di quel settore della società che si crede sfavorito e danneggiato dalla presenza e dalle attività di altri gruppi. Questi ultimi, ritenuti immeritevoli di quanto posseggono, vengono indicati come responsabli dell’emarginazione di chi non vuole far altro che condurre un’esistenza ordinaria e silenziosa. Michael Howard, ministro britannico conservatore, in una dichiarazione rilasciata nel 1993, espresse con chiarezza questo pensiero: la maggioranza silenziosa è diventata rumorosa, perché il sistema della giustizia criminale fa ormai troppo per i criminali e troppo poco per la protezione del pubblico. Secondo una definizione comune, sono populisti i politici che concepiscono politiche penali punitive le quali sembrano rispecchiare gli umori popolari. Il populismo penale che si diffonde oggi, in realtà, nasconde altro. Assistiamo allo spettacolo dell’affluenza privata e dello squallore pubblico. Avvertiamo che i legami sociali si indeboliscono e sappiamo che solo questi legami possono contribuire, almeno parzialmente, a ostacolare gli appetiti individuali
eccessivi. La paura dell’altro, in questo contesto, è paura del tipo di sistema che abbiamo creato, è consapevolezza che sappiamo rispondere al crimine, ma non siamo in grado di rispondere alle sue cause. In una situazione di ineguaglianza crescente, con una polarizzazione della ricchezza che torna a livelli ottocenteschi, si teme che il crimine sia destinato a diffondersi e ad assumere i connotati della disperazione. Si teme l’ineguaglianza, non il crimine. Il populismo penale, infine, può avere una propria funzione latente. Se la severità penale, nei primi decenni della rivoluzione industriale, intendeva disciplinare le orde di spossessati al lavoro di fabbrica, nell’epoca corrente una simile severità può educare chi conduce vita precaria ad accettare la propria insicurezza e interiorizzare il proprio scarso valore sociale e umano. La pena, allora, contribuirà alla riduzione delle aspettative, convincendo chi ne è colpito della propria inutilità. Il populismo penale, in breve, è il compagno ideale della crescita economica, basata spesso sulla produzione dell’inutile che rende alcuni gruppi di esseri umani inutili. Ho detto in apertura che, nell’esaminare i paesi individualmente, si notano differenze non secondarie. Guardando all’Italia, ad esempio, credo che il populismo penale si avvalga di uno sfondo culturale e politico davvero singolare. Con una vita pubblica ormai priva di qualsiasi missione etica, e un’élite che moltiplica le manifestazioni della propria illegalità, il populismo non è il trasferimento in politica del risentimento popolare o delle intuizioni che vengono dalla strada, ma è l’insulto, l’aggressione, la depredazione che alcuni temono di poter subire per strada.
ribadito più volte in occasione di alcune recenti estradizioni e da cui trasuda una singolare idea delle istituzioni. Non sorprende tanto l’ipocrita insistenza, pronunciata con studiata pacatezza, sulla supposta forza paziente ma inesorabile dello Stato. Qui Pisanu ha voluto distinguersi dal suo collega di governo, il guardasigilli Roberto Castelli, che ha affermato lo stesso pensiero digrignando rabbiosamente i denti: «pensavate d’averla fatta franca andando all’estero a godervi la vita… Noi vi cercheremo comunque, dovunque e per sempre». Differenze di stile non di sostanza. Paziente o meno, la forza dello Stato resta per essenza strabica ed eccelle nell’esercizio selettivo della memoria. Colpisce semmai la risonanza biblica presente nelle parole del ministro: quella confusione tra i requisiti formali di uno Stato laico e di diritto col Dio terribile della punizione, l’arbitro ultimo e inesorabile del giudizio universale, molto diverso per altro dal Dio misericordioso dei vangeli. Ma la dottrina giuridica positiva ritiene che la sanzione sia altra cosa dal giudizio divino. Essa ha senso solo all’interno di una temporalità storica ben definita, oltre la quale perderebbe significato fino a capovolgersi. Non più giustizia ma vendetta, abuso, persecuzione. Per questo il codice penale prevede la nozione di prescrizione non solo del reato ma anche della pena. L’idea d’imprescrittibilità che recentemente, sotto la spinta dell’euforia penale, nuovo oppio dei popoli, ha guadagnato terreno, è rimasta comunque confinata a crimini eccezionali come quelli contro l’umanità. Certo per le pene più lunghe la prescrizione interviene solo dopo trent’anni, una distanza immensa. Eppure buona parte dei fuoriusciti oramai hanno superato la soglia dei vent’anni dalla condanna, cioè sono più vicini alla tempo della prescrizione che a quello della sanzione. Chi aspira a riportarli nelle carceri vorrebbe invece fermare il tempo e ricondurre indietro le lancette della storia come quei giapponesi persi nelle isole del pacifico.
Questa anacronistica disputa sul senso di colpa non
«Chiediamo all’Unione europea l’inclusione delle Brigate rosse nella lista delle organizzazioni terroristiche», ha affermato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, durante il vertice della Nato svoltosi a Bruxelles a inizio aprile 2004. Una richiesta paradossale, poiché rivolta nei confronti di un’organizzazione che non esiste più da ben oltre un decennio e che difficilmente può essere giustificata dall’apparizione di uno scarno numero di imitatori sgominati in breve tempo. Dietro questa richiesta del governo italiano, oltre all’intenzione di mettere in difficoltà la Francia per la venticinquennale ospitalità concessa ai fuoriusciti, vi è la piena adesione all’idea che chiunque abbia, in un modo o nell’altro, preso parte a vicende politiche rivoluzionarie rappresenti una minaccia permanente. Si tratta della palese ammissione che ad essere perseguita non è più l’infrazione eventuale ma l’identità, addirittura remota, delle persone oggetto di queste misure restrittive. Costoro verrebbero considerate, contro ogni buon senso, in possesso di un savoir faire rimasto intatto e aggiornato tecnicamente nei decenni. È questo il nuovo sigillo che le democrazie attuali pongono sulla figura del nemico politico interno, eletto a pericolo permanente e immutabile. Assistiamo in questo modo ad una sorprendente osmosi culturale, ad una micidiale simmetria d’atteggiamento tra le parole di Pisanu e quelle degli autori degli attentati D’Antona e Biagi. Entrambi fanno tabula rasa del decennio 90. Entrambi legittimano le proprie posizioni realizzando una curiosa rimozione storica che cancella l’oltrepassamento realizzato dalla quasi totalità dei prigionieri e dai fuoriusciti della lotta armata, riguardo a una vicenda storica considerata conclusa da oltre un quindicennio.
confronti dei fuoriusciti riparati in Francia. Tra questi il primo a cadere nella rete è stato Cesare Battisti, attorno alla cui vicenda si è aperta un‘accesissima disputa giuridica e storica che ha chiamato in causa temi molto rilevanti: l’esercizio o meno della giustizia d’eccezione, il rapporto con il passato, il ruolo e l’uso politico della memoria; oppure questioni etiche come l’evocazione del male, il problema della colpa e dell’eventuale elaborazione sociale del lutto. Una discussione ampia e dai toni spesso crudi, a volte persino impropri e caricaturali, che dimostra come i passati rivoluzionari fatichino a diventare storia. Adagiati nel limbo della rimozione periodicamente vedono schiudersi le porte dell’inferno che risucchia brandelli di vita, trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d’epoche finite che non diventano memoria, ma sono solo ostaggio di quel che riserverà la storia. Non un passato che torna ma un futuro che manca. Oltre trent’anni ci separano dall’inizio della lotta armata, almeno quindici dalla sua conclusione, riconosciuta con documenti politici e dichiarazioni ufficiali, tra il 1987 e il 1989, dagli stessi protagonisti. L’80% dei prigionieri è in carcere da un periodo che oscilla tra i 21 e i 26 anni; i restanti almeno da 16. Poi ci sono i casi estremi, come quello di Paolo Maurizio Ferrari rinchiuso da trent’anni. Tutto ciò non appaga affatto i partigiani della certezza della pena. I fautori della legalità ritengono, infatti, che vi siano tuttora conti aperti, anche quando le indagini hanno dimostrato che i due attentati del 1999 e del 2002, venuti inaspettatatamente ad interrompere oltre un decennio di silenzio, nulla hanno a che vedere con il passato e tanto meno con un fantomatico “santuario francese”, inizialmente accreditato dalle autorità per giustificare le estradizioni. La coazione a ripetere vuoti gesti del passato, era solo l’opera di un piccolo gruppo che ha trovato conforto nei suoi propositi grazie alla rimozione degli anni 70, al rifiuto ostinato dell’amnistia che ha congelato il tempo e cristallizzato le epoche, tentando di impedire a quel sapere incarcerato, a quelle esperienze sotto chiave o esiliate, di far valere le ragioni dell’irriproducibilità e inattualità dei modelli di lotta armata trascorsi.
In realtà l’esperienza italiana ha innovato il repertorio classico dello stato d’eccezione, mettendo in pratica un modello molto diverso da quella situazione di “sospensione” o “vuoto” del diritto di cui ha recentemente scritto il filosofo Giorgio Agamben (Lo stato d’eccezione , Bollati Boringhieri 2003). L’Italia non ha affatto sospeso il diritto ordinario; non ha avuto bisogno di dotarsi di giurisdizioni speciali (troppo forte era il ricordo del tribunale speciale fascista). Al contrario ha stravolto, deformato, inquinato il diritto penale corrente, camuffando sapientemente l’eccezione e rendendola in questo modo permanente. L’Italia ha fatto a meno di giudici militari perché, sotto la toga, la magistratura ordinaria ha indossato l’uniforme dello Stato etico, sposando una vocazione purificatrice e combattente del proprio ruolo, dotandosi di un potentissimo arsenale penale speciale. Larghi settori della società italiana rimproverano i prigionieri e in rifugiati di non aver mai fatto atto di pubblico pentimento e per questo di aver eluso il senso di colpa, mantenendo per giunta un atteggiamento ambiguo nei confronti di una cultura politica che non esclude il ricorso alla violenza. Il superamento del passato resta ancora un terreno di controversia. Ciò che per i prigionieri e i rifugiati è oramai storia, materia d’indagine e inchieste serrate, da discutere con le tecniche fredde e puntigliose delle scienze sociali; per i media, per la quasi totalità del ceto politico e per larghi settori della società civile è tuttora una ferita aperta, una piaga viva che non può e non deve cicatrizzarsi. Allo scandaglio del lavoro storico si contrappone la venerazione di una memoria trasfigurata nel culto di un dolore non riassorbibile. Al lavoro d’incorporazione del passato, doloroso e conflittuale, si sostituisce un atteggiamento di rifiuto che fa del passato una trincea su cui attestarsi. L’elaborazione del lutto diventa in questo modo, secondo una consolidata tradizione inquisitoriale, uno strumento di bonifica delle coscienze, che aggiunge alla sanzione sui corpi anche la correzione delle menti. Un percorso a senso unico che pretende di imporre i valori dei vincitori come l’orizzonte della maturità.
qualcosa che racchiude il massimo d’irrealismo politico e d’immoralità etica. Strano destino quello di un istituto nato con la democrazia ateniese e divenuto