Giovedì 25 luglio alle ore 20,00 verrà proiettato presso il Loa Acrobax di Roma, a ponte Marconi, in via della Vasca navale 6, il film documentario “Il Tipografo” che racconta la vicenda di Enrico Triaca, tipografo delle Brigate rosse durante il sequestro Moro, torturato da una squadretta speciale del ministero dell’Interno dopo il suo arresto avvenuto il 17 maggio 1978, una settimana dopo il ritrovamnento del corpo senza vita di Aldo Moro. Con la pratica dell’affogamento simulato con acqua e sale, waterboarding, tentarono di fargli confessare cose che non sapeva sul sequestro. Nel corso del film Triaca racconta quanto accaduto e un ex agente dei Nocs, che nel gennaio 1982 partecipò alla liberazione del generale Usa, Dozier, rapito dalle Brigate rosse-Pcc, rivela per la prima volta le violenze e le torture praticate dalle forze di polizia durante gli interrogatori.
Un filo nero lega il massacro della scuola Diaz e le torture di Bolzaneto, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario, durante il G8 di Genova del 2001 e le torture praticate contro militanti delle Brigate rosse e di altri gruppi della lotta armata di sinistra arrestati tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80. Si tratta di un uomo, un alto dirigente della polizia, il suo nome è Oscar Fioriolli, classe 1947, poliziotto formatosi nei reparti Celere e poi sul finire degli anni 70 nelle squadre speciali dell’antiterrorismo. Tra l’87 e il ’97 dirige la Digos di Genova, poi è questore ad Agrigento, Modena e Palermo. Nell’agosto 2001, subito dopo i misfatti del G8 che avevano travolto il questore Francesco Colucci, Fiorolli viene chiamato dall’allora capo della polizia, il potentissimo Gianni De Gennaro, a prendere le redini della questura genovese travolta dalle inchieste giudiziarie e dalle polemiche politiche provocate dalla morte di Carlo Giuliani, ucciso dal carabiniere Mario Caplanica, e le violenze sistematiche dei corpi di polizia contri i manifestanti, i pestaggi e le sevizie nel lager di Bolzaneto (predisposto per accogliere migliaia di fermati nei rastrellamenti di piazza) e all’interno dell’edificio Armando Diaz, una scuola elementare messa a disposizione dal comune per accogliere i manifestanti convenuti per le manifestazioni di protesta contro i potenti del mondo. La scelta di Fiorolli non fu casuale, non solo perché conosceva la città, ma perché aveva la forma mentis giusta per affrontare quella situazione, ovvero coprire le violenze delle forze di polizia: depistando, dilazionando i tempi delle inchieste, facendo ostruzionismo, costruendo un muro di omertà su quanto era accaduto. Non a caso tentò subito di mettere il bavaglio alla stampa locale accusandola di calunniare le forze di polizia con le sue ricostruzioni sulle violenze di quei giorni, in particolare nella Diaz, evitò ogni collaborazione dovuta con la magistratura che stava indagando, impedì l’identificazione degli agenti che fecero irruzione nella scuola dormitorio. Fiorolli venne scelto appositamente per la sua biografia: aveva una familiarità ben precisa con le pratiche violente nella quali aveva dato sempre grande prova di affidabilità. Alla fine del 1981 aveva fatto parte della squadra speciale affiliata all’Ucigos che aveva condotto le indagini sul sequestro, da parte della colonna veneta della Brigate rosse-Pcc, del generale Nato James Lee Dozier, vicecomandante della Fatse (Comando delle Forze armate terrestri alleate per il sud Europa) con sede a Verona. Secondo la testimonianza di un suo collega, l’ex commissario della Digos e poi questore Salvatore Genova, nel corso di una riunione convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci all’interno della questura di Verona, presenti Improta, il funzionario cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del gruppo di super investigatori, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e lo stesso Genova, si decise il ricorso alle torture per velocizzare le indagini. A svolgere il lavoro sporco venne chiamato insieme alla sua squadretta di esperti “acquaiuoli” (profesionisti del waterboarding, la tortura dell’acqua e sale) Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, funzionario proveniente dalla Digos di Napoli, già responsabile per la Campania dei nuclei antiterrorismo di Santillo, in forza all’Ucigos. De Francisci fece capire che l’ordine veniva dall’alto, ben sopra il capo della polizia Coronas. Il semaforo verde giungeva dal vertice politico, dal ministro degli Interni Virginio Rognoni. Via libera alle «maniere forti» in cambio di chiare garanzie di copertura. Fu lì che lo Stato decise di cercare Dozier nella vagina di una sospetta brigastista. Prima che entrasse in azione lo specialista Ciocia fu proprio Fiorolli, sempre secondo le parole di Genova, a dare mostra delle sue capacità conducendo l’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, una sospetta fiancheggiatrice delle Brigate rosse arrestata il 27 gennaio 1982.
In una stanza all’ultimo piano della questura di Verona:
«Separati da un muro -raconta Genova – perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».
Non c’è solo un nesso umano che lega quanto avvenuto a Genova nel 2001 con la stagione delle torture avvenute nel maggio 1978 e poi nel 1982 contro decine di persone accusate di banda armata. Esiste un retroterra culturale e procedurale, un savoir faire mai spezzato che ha potuto tramsettersi lungo i decenni successivi, superando il secolo. La vicenda delle torture e delle pratiche giudiziarie e carcerarie d’eccezione non è mai stata sottoposta a una radicale critica e rifiuto, ma al contrario recepita e legittimata dall’opinione democratica e da largi settori della sinistra, sempre reticenti sul tema. Anche negli anni successivi ai fatti di Genova, quando l’opinione pubblica era ancora scossa per le violenze viste in quei giorni, questo nesso è stato occultato, evitato, aggirato con imbarazzo. Il dibattito sulle torture praticate in Italia sembra non avere radici nel Novecento, ma sembra nato a Genova nel 2001. Come fanno gli struzzi a sinistra si è preferito mettere la testa sotto la sabbia piuttosto che allungare il collo e guardare lontano, alle proprie spalle, per cogliere genesi e radici di questo fenomeno. La tortura praticata alla fine anni 70, messa in campo in modo strutturale, con l’ausilio di alcune squadre addestrate che operavano in modo sistematico su tutto ilo territorio nazionale contro la criminalità organizzata, il circuito dei sequestri di persona e la sovversione armata, è rimasta un tabù indicibile e questo perché c’era di mezzo proprio la lotta armata e la maniera con cui lo Stato ha affrontato e combattuto questo fenomeno. Non si doveva rimettere in discussione la narrazione edulcorata della vittoria democratica condotta sul filo del rispetto delle norme e della costituzione, con buona pace della legislazione penale speciale, delle carceri speciali, della legislazione premiale e delle torture.
Nel corso delle celebrazioni che si sono tenute per il cinquantesimo anniversario della strage in piazza della Loggia abbiamo assistito ad una reciproca assoluzione degli organi dello Stato. La presidente del consiglio Meloni a nome del governo, che non era presente, ha accuratamente evitato di ricordare e condannare la matrice neofascista della bomba esplosa durante il comizio del locale comitato antifascista, mentre il presidente della repubblica Mattarella ha scagionato lo Stato da ogni responsabilità, come ai tempi del regime democristiano di cui l’inquilino del Quirinale è degno erede
La strage di piazza della Loggia avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974 durante un comizio del Comitato antifascista locale (8 morti e 102 feriti) si distinse immediatamente dagli episodi stragisti degli anni precedenti (piazza Fontana, Peteano, Gioia Tauro, Questura di Milano) perché l’obiettivo colpito rivelava fin da subito la matrice politica neofascista degli esecutori. Dopo un lungo e travagliato iter giudiziario la Cassazione ha confermato la condanna finale di due ordinovisti: Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, quest’ultimo confidente del Sid di Padova col nome in codice «Tritone». Sono tuttora in corso altri due procedimenti contro gli ordinovisti veronesi Marco Toffaloni, all’epoca minorenne e che avrebbe materialmente deposto l’ordigno, e Roberto Zorzi. Nel novembre del 1973 il movimento politico Ordine nuovo era stato sciolto dal ministro dell’Interno Taviani sulla base della condanna emessa dal tribunale di Roma per ricostituzione del disciolto Partito nazionale fascista. A causa di questo fatto, nel luglio del 1976 Pierluigi Concutelli, capo militare della struttura clandestina di Ordine nuovo, uccise a Roma Vittorio Occorsio, il pubblico ministero che aveva sostenuto l’accusa contro i dirigenti del gruppo neofascista. L’attentato di Brescia come quello successivo sul treno Italicus, nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 all’interno del tunnel Valdisambro (18 morti e 48 feriti), rivendicato da «Ordine nero» in un volantino che parlava di vendetta per la morte di Giancarlo Esposti, un fascista sanbabilino ucciso dai carabinieri sugli altipiani reatini il 30 maggio precedente, erano una chiara rappresaglia contro la messa al bando di Ordine nuovo. Creato nei primi mesi del 1974, Ordine nero aveva raccolto transfughi del disciolto Ordine nuovo, di Avanguardia nazionale e del Fronte nazionale rivoluzionario, struttura prevalentemente toscana. Fu protagonista dell’ultima stagione stragista caratterizzata da un’aperta dichiarazione di guerra contro lo Stato accusato di tradimento verso una esperienza politica, eversiva e golpista, che gli apparati avevano lungamente sostenuto, foraggiato, ispirato e manipolato. Strategia che si distingueva dai precedenti episodi che miravano ad attribuire alla sinistra la paternità degli eccidi con l’obiettivo di scatenare una risposta autoritaria dello Stato.
Le bombe del 1974 , la vendetta di Ordine Nero contro chi li aveva utilizzati e illusi con la strategia della tensione Lungi dall’essere una ulteriore puntata della strategia della tensione questi due sanguinosi attentati, parte di una campagna più ampia avviata nel gennaio del 1974 a Silvi Marina, vicino a Pescara, dove una bomba fallì nel colpire l’ennesimo treno, appaiono piuttosto il segno sanguinoso della sua fine, la conseguenza dell’abbandono precipitoso e rovinoso da parte degli apparati statali che l’avevano utilizzata. Il 9 febbraio un altro ordigno venne ritrovato inesploso su un treno merci diretto da Taranto a Siracusa. A marzo un’esplosione fece saltare una rotaia nei pressi di Vaiano, vicino Prato, dove avrebbe dovuto passare il treno Palatino. La strage mancata fu rivendicata con un volantino di Ordine Nero ritrovato a Lucca. Ad aprile fu colpita la casa del popolo di Moiano, in provincia di Perugia. Nel complesso furono fatti esplodere tra Milano, la Toscana e Savona, oltre una decina di ordigni, culminati nell’attentato compiuto sulla linea ferroviaria di Terontola, il 6 gennaio 1975, a cui segui lo smantellamento del Fronte nazionale rivoluzionario di cui facevano parte Luciano Franci, Mario Tuti, Marco Affatigato, Andrea Brogi e Augusto Cauchi. Gruppo che ebbe contatti anche con Licio Gelli, al quale secondo testimonianze di alcuni pentiti, Cauchi aveva chiesto un finanziamento per la sua attività politica.
La magistratura indaga sui progetti di golpe Tra il 1973 e il 1974 vengono a galla, grazie a diverse inchieste condotte dalla magistratura, una serie di progetti di golpe di segno politico diverso anche se tutti caratterizzati dalla tentativo di scongiurare il «pericolo comunista». Dall’indagine sulla «Rosa dei venti», portata avanti dal giudice istruttore Tamburino, e da cui emergeva traccia della presenza di strutture «parallele» interne agli apparati statali coinvolte nelle attività golpiste e stragiste. Testimone centrale nella ricostruzione di questa rete, siapur tra contraddizioni e reticenze, sarà il generale dell’esercito Amos Spiazzi. In anni più recenti la ricerca storica ha focalizzato meglio quanto avvenuto: accanto alla struttura Nato europea Stay behind, che in Italia aveva preso il nome di Gladio, apparato di difesa «non ortodosso» gerarchicamente dipendente dai comandi Nato, approntato per fare fronte ad una eventuale invasione militare delle truppe de patto di Varsavia e composto essenzialmente da membri della ex brigata Osoppo, partigiani bianchi antifascisti e anticomunisti, di cui si scoprì l’esistenza nella estate del 1990, dopo la vicenda del «piano Solo» venne messa in piedi una seconda struttura che dipendeva gerarchicamente dal ministero della Difesa. Si trattava dei Nuclei per la difesa dello Stato, apparato misto composto da membri selezionati degli uffici informativi dell’esercito, dei Servizi, dei carabinieri e di civili di dichiarata fede neofascista. Tra i membri di questa struttura disciolta nel 1973 vi erano molti ordinovisti. Un’altra inchiesta riguarda il Movimento armato rivoluzionario di Carlo Fumagalli e Gaetano Orlando. Fumagalli era un ex partigiano bianco legato ai Servizi inglesi. Ferocemente anticomunista organizzò una struttura clandestina armata con un forte insediamento in Valtellina, dove realizzò una serie di attentati dinamitardi contro tralicci dell’altra tensione che alimentavano le città e le industrie del Nord Italia. L’intenzione era quella di fronteggiare una eventuale offensiva di piazza o una vittoria elettorale dei comunisti. Nonostante il suo iniziale posizionamento antifascista, Fumagalli non disdegnò l’alleanza con i gruppi ordinovisti in vista di un colpo di stato. L’esperienza più interessante appare tuttavia quella che venne definita il «golpe bianco», portato avanti da Edgardo Sogno, un altro ex partigiano della brigata Franchi, badogliana, liberale e anticomunista. Sogno aveva progettato in pieno agosto 1974 un «golpe liberale», un colpo di mano istituzionale di stampo presidenzialista, sul modello gollista della quinta repubblica francese che forte dell’appoggio dei vertici militari e istituzionali avrebbe dovuto sciogliere il parlamento, liberarsi del ventre molle democristiano ritenuto corrotto e irriformabile, creare un sindacato unico, internare le opposizioni di sinistra e di estrema destra, abolire l’immunità parlamentare e istituire un Tribunale speciale.
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale l’Italia subì delle modificazioni rapide e profonde, da paese rurale si trasformò nel giro di pochi anni in una moderna società industriale. Crebbero i comparti della meccanica, del tessile e della chimica oltre all’edilizia, nacquero i primi assi autostradali e il panorama dei centri urbani mutò drasticamente. Si svilupparono le periferie sotto la spinta di flussi migratori continui provenienti del meridione. Diminuirono le partenze oltreoceano per dirigersi verso il Nord, prima la Svizzera, la Francia, il Belgio, la Germania, in cambio del carbone l’Italia cedeva minatori. Poi solo verso il settentrione, sorsero così le baraccopoli e il problema abitativo divenne uno dei primi temi di conflitto, che rimarrà cronico, oltre quelli legati al nuovo mondo del lavoro, la fabbrica dove i giovani meridionali sradicati dal loro mondo contadino incontravano la disciplina taylorista delle linee di produzione, i ritmi incalzanti, il frastuono, la nocività, un comando di fabbrica oppressivo e asfissiante.
Sviluppo e conflitto Il boom demografico, la prospettiva di una società non più in guerra, l’avvento dei media di massa, radio e televisione, favoriscono nuovi fenomeni sociali e culturali: nasce il “mondo giovanile” anche sotto l’influenza della società americana. Lo stesso sistema produttivo se ne accorge creando la moda per i giovani, la musica, le vespe e le lambrette. L’istruzione deve aprirsi a questa massificazione rompendo vecchi tabù elitari e così anche «l’operaio può avere il figlio dottore», come recitavano i versi di una nota canzone degli anni della contestazione. Una crescita solo in apparenza lineare: da una parte è la stessa produzione capitalistica che richiede un maggiore livello di istruzione, dall’altra l’assorbimento scolastico e universitario è quasi una esigenza di sistema perché viene incontro al boom demografico creando delle aree di parcheggio giovanile anche se motore di tutto restano le rivendicazioni e dunque il conflitto generato dalle classi lavoratrici che aspirano ad una società più equa, evoluta, animata dalla giustizia sociale, dando vita a cicli di lotta sempre più intensi. Dai moti di Valdagno si arriva all’autunno caldo del 1969 fino all’occupazione della Fiat del 1973.
La fine dei «trenta gloriosi» e l’esplosione del Settantasette Siamo all’apice dei cosiddetti «trenta gloriosi» quando iniziano a manifestarsi le prime crepe e gli scricchiolii che stanno minando la società fordista: un mondo strutturato all’interno di un compromesso sociale che vedeva il “Noi” operaio organizzato in grandi partiti di massa con potenti cinghie di trasmissione. Quella realtà irrigimentata tra “tute blu” e “colletti bianchi”, con mondi e morali avverse, dove lavoratori e padroni coabitavano a distanza, combattendosi senza confondersi, cominciava a dissolversi, trascinando via le vecchie gerarchie e autorità. A metà degli anni 70 assistiamo così a una crisi di modello sociale e delle sue forme di rappresentanza politiche da cui scaturiscono nuovi movimenti, spesso sconcertanti perché portatori di inedite forme di protagonismo, di partecipazione e richieste, percepite come incompatibili e esorbitanti dall’ordine economico e politico e di fronte ai quali un paese imbalsamato dai vincoli geopolitici e dai patti consociativi oppose il massimo di chiusura.
Le lotte pagano Nonostante ciò, quella grande spinta aveva consentito un avanzamento sociale senza precedenti, un rinnovamento culturale, delle mentalità e dei costumi, favorendo persino un adeguamento dei modelli di sviluppo ai nuovi standard del capitalismo consumistico. Sono anni in cui i pori della società si aprono, dando voce ai dimenticati e ai dannati. Spira un vento di libertà che s’insinua nelle crepe aperte dai cunei delle lotte operaie, proiettando sulla scena nuove figure e nuovi «soggetti» – come allora venivano chiamati, usciti dalla loro condizione di minorità civile e politica. Donne, matti, carcerati, omosessuali, giovani, soldati di leva, studenti, disoccupati, tutti vogliono essere protagonisti della propria emancipazione. Mai come in quel momento, gli umili e gli offesi, gli oppressi e i degradati, trovano occasioni e forza, dignità e rispetto, che solo una vita tornata finalmente nelle loro mani poteva dare. Il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, l’aborto – per fare degli esempi – mutano la qualità della vita degli italiani. Conquiste a decenni di distanza largamente assimilate anche da chi ne fu ferocemente ostile. E ancora la legge sugli gli asili nido pubblici, il riconoscimento della tutela delle donne nei posti di lavoro con i permessi di maternità e il divieto di licenziamento, l’inclusione di una quota di disabili nei posti di lavoro, l’obiezione di coscienza per il servizio militare, la legge Basaglia con la chiusura degli ospedali psichiatrici, le prime normative sulla nocività del lavoro, le discriminazioni e il super sfruttamento, lo statuto dei lavoratori, i consultori, la riforma penitenziaria (il 1975 è l’anno col minor numero di detenuti nella storia repubblicana), i contratti unici nazionali, l’elevazione della scuola dell’obbligo e l’università accessibile a tutti (con i corsi serali per studenti-lavoratori e il salario studentesco). Conquiste e garanzie andate oggi in buona parte perdute, soprattuto nel mondo del lavoro (con l’avvento della società del precariato e la deregolazione contrattuale) ma anche nelle università e nel carcere.
Il potere consociativo Sul piano istituzionale, invece, il sistema politico rimase prigioniero delle sue alchimie. La distanza che si aprì tra le istituzioni e una parte della società divenne una sorta di terra di nessuno, attraversata e occupata da movimenti sociali che moltiplicano con una irruenza senza precedenti. Alla separatezza del politico si contrappose l’autonomia del sociale. Ogni ricerca di mediazione e volontà di recepire e integrare venne esclusa. Da una parte, il protagonismo dei movimenti fu avvertito come una minaccia intollerabile; dall’altra, qualsiasi attenzione era risentita come una intrusione che poteva insidiare l’autonomia. Le strategie di rottura guadagnarono terreno sulle semplici posizioni contestatrici e la lotta armata divenne una delle opzioni che conquistò settori di movimento andando riempire le fila dei gruppi combattenti.
La repubblica del complotto Questo ventennio agitato che si dilunga dalla metà degli anni 60 alla metà degli anni 80 del Novecento italiano, ricco di veloci rivolgimenti, colpi di scena, conflitti durissimi, rapide mutazioni, grandi avanzamenti, repressioni feroci, non ha più una sua narrazione. Per questo può esser facilmente raccontato, meglio sarebbe dire reinventato, come continuum criminale traversato da trame e segreti, tentativi eversivi e assalti rivoluzionari eterodiretti, P2 e mafia, servizi traviati, tutti perfettamente intrecciati e sorretti da un’unica regia e un medesimo disegno: «impedire il compimento della democrazia», ovvero quell’alternativa o alternanza di governo (qui il lessico muta con le svolte politiche). E’ quanto ha fatto Report nella puntata andata in onda domenica 12 maggio nel servizio preparato da Paolo Mondani. Quanto avvenuto da piazza Fontana, dicembre 1969, alla morte di Falcone-Borsellino nell’estate 1992, avrebbe fatto parte di un unico disegno dove tutto si tiene: tentativi di golpe, stragi fasciste, lotta armata, rapimento Moro, attentati mafiosi, avvento del Berlusconismo. Una insalata mista. Un discorso ormai rodato da alcuni decenni e nel quale i fatti sociali vengono sistematicamente ridotti a eventi delittuosi, l’analisi e la spiegazione che ne segue trasformata in un calco della trama giudiziaria.
La favola del doppio Stato o Deep state La costituzione di Weimar, come lo statuto albertino, non furono mai aboliti dal nazismo e dal fascismo. Vennero disattivati grazie al potere di sospensione proprio dello stato d’eccezione e affiancati da una seconda struttura, che nel caso dell’esperienza nazista il costituzionalista Ernst Fraenkel definì, in un libro del 1942, «Stato duale». Nasce da qui, in modo azzardato, la formula del «doppio Stato», ripresa in un saggio del 1989 da Franco De Felice. Questa categoria, che ha fornito una parvenza concettuale alla retorica del complotto, insieme ai continui riferimenti all’azione di «poteri invisibili» e «occulti» (Bobbio) o di uno «Stato parallelo» (Giannuli), e poco importa se la data d’origine debba risalire allo sbarco degli americani in Sicilia, al Gobbo del Quarticciolo, a Portella delle ginestre, al rumor di sciabole e alle Intentone degli anni 60 (la letteratura dietrologica propone infinite varianti), aiuta davvero a comprendere la storia del dopoguerra e del decennio 70 in particolare? Come spiegare allora che un giovane sostituto procuratore di nome Luciano Violante, destinato ad una carriera d’esponente storico del primo Stato (quello che la vulgata dietrologica ritiene buono), interviene su informativa del ministro degli interni democristiano Paolo Emilio Taviani, medaglia d’oro della Resistenza bianca, fondatore di Gladio, dunque esponente del secondo Stato (quello deviato), per indagare contro Edgardo Sogno, membro a questo punto di un terzo Stato (stavolta traviato), che tramava un golpe gollista di ristrutturazione autoritaria della repubblica, nel mentre operava attraverso i carabinieri della divisione Pastrengo un quarto Stato (deviatissimo e traviatissimo) in combutta col Mar del neofascista Carlo Fumagalli, le bombe stragiste, le cellule nere del Triveneto, il tutto in presenza del «super Sid», scoperto dal giudice Guido Salvini, che forse era dunque un quinto Stato (ancora più che deviato o traviato, uno Stato invertito)? Poi c’erano gli Stati negli Stati come la mafia, cioè lo Stato doppione e, infine, gli antistati, come le Br, che però certuni vorrebbero una diramazione di uno dei precedenti cinque Stati. Che vuol dire tutto questo? Forse che l’Italia era un paese eccessivamente statalista?
La dietrologia contro le trame di Stato che si fa dietrologia dello Stato contro la società L’ idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che in luoghi dove si tessono e scontrano le relazioni sociali, economiche e politiche, prima che una squallida strumentalizzazione politica è il segno tragico di una malattia della conoscenza. Che la comprensione della società si risolva con una risalita verso l’alto, ricostruendo l’ordito della cospirazione, quell’apice dove dei burattinai dovrebbero tirare per forza dei fili, regolando i giochi, è divenuta semplificazione consolatoria. In passato era servita ad alcune forze politiche per trovare un alibi che giustificasse i propri fallimenti ma oggi che queste forze sono scomparse è diventato un nuovo instrumentum regni che favorisce una visione delle cose perfettamente congeniale alla perpetuazione dei poteri mai messi in discussione del capitalismo attuale. In questo modo attraverso le dietrologie si vuole sostenere che dietro ogni ribellione non c’è genuinità, sincerità, ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere.
Nella puntata di Report di oggi, domenica 12 maggio 2024, Paolo Mondani intervista lo storico Giovanni Mario Ceci che ha studiato tutti i documenti desecretati delle amministrazioni Usa degli anni 70 e dei primi 80: Dipartimento di Stato, Cia, Security Concil, rapporti dell’Ambasciata americana a Roma. Ricerca poi raccolta in un volume, La Cia e il terrorismo italiano, uscito per Carocci nel 2019.
Nei report desecretati si può leggere che «Nessuno è stato in grado di trovare nemmeno uno straccio di prova convincente del fatto che le Brigate rosse ricevevano ordini dall’estero». L’affermazione era giustificata dal fatto che solo la prova di una interferenza straniera che avesse messo a rischio la sicurezza e gli interessi statunitensi avrebbe legalmente giustificato l’intervento diretto della Cia negli affari interni italiani, più volte richiesto dal governo di Roma a cominciare dallo stesso Aldo Moro pochi mesi prima di essere rapito dalle Brigate rosse. Nonostante il libro di Ceci, documenti alla mano, sostenganquesta tesi, Mondani riesce a censurare l’intero contenuto del volume, ben 162 pagine, capovolgendone il senso. I documenti raccolti da Ceci dimostrano come la Cia intervenne per reprimere le Brigate rosse, non certo per sostenerle o manipolarle, alla fine del 1981 quando queste rapirono il generale americano James Lee Dozier. L’intervento degli uomini di Langley fu tale che il governo Spadolini non esitò ad autorizzare le forze dii polizia all’impiego sistematico della tortura durante le indagini.
Importanti testimonianze di esponenti delle sezioni speciali antiterrorismo dei carabinieri emersi recentemente hanno dimostrato (leggi qui) che a cercare di avvicinare le Brigate rosse non fu la Cia ma il Partito comunista italiano con l’accordo del generale Dalla Chiesa dopo il gennaio 1979. Si tratta della «Operazione Olocausto», un militante di Botteghe oscure (sede nazionale del Pci), nome in codice «Fontanone», ebbe un ruolo fondamentale nel permettere di agganciare alcuni dirigenti della colonna romana. Altri militanti del Pci fecero da «esche» nelle fabbriche del Nord Italia per permettere la cattura di esponenti brigatisti che cercavano di ricostruire la colonna torinese. L’unico infiltrato ad oggi conosciuto, che riuscì ad entrare nell’organico della colonna veneta delle Br per due anni, 1975-76, fu un operaio di Porto Marghera, Leonio Bozzato, nome in codice «Frillo», arruolato anni prima dal centro Sid di Padova, quando militava in un gruppo marxista-leninista, e successivamente inserito all’interno dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera. Difficilmente ascolterete queste cose nel corso della puntata di Report, se volete saperne di più, oltre al libro diu Ceci si consiglia la lettura di La polizia della storia, lafabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Deriveapprodi 2021.
Aldo Moro e l’ambasciatore Usa Richard Gardner
Quando Moro chiese aiuto alla Cia per contrastare le Brigate rosse
Aldo Moro era convinto che il terrorismo non avesse solo un carattere politico ma anche una dimensione internazionale. Pochi mesi prima del suo rapimento, in un incontro avvenuto nello studio di via Savoia con l’ambasciatore degli Stati Uniti Richard Gardner, affrontò la questione sostenendo che il fenomeno della lotta armata era «probabilmente sostenuto dall’Est, forse dalla Cecoslovacchia». Aggiunse che il terrorismo italiano e tedesco erano «profondamente legati» e mossi da un medesimo disegno: «minare le società democratiche sulla frontiere Est-Ovest». Contrariamente a quel che si ritiene oggi, Moro era convinto che lo sviluppo delle azioni dei gruppi armati avrebbe rafforzato gli obiettivi di governo del Pci: «un’escalation incontrollata dell’ordine pubblico» – affermava lo statista democristiano – avrebbe reso impossibile ogni opposizione alle richieste, che provenivano dalle «public demands», di «inclusione» e «partecipazione del Pci al governo per porre fine alla violenza» e «ristabilire l’ordine pubblico». Argomenti che spinsero Moro ad esortare gli Stati Uniti affinché assumessero «un ruolo attivo nel combattere il terrorismo», chiedendo a Gardner una «maggiore assistenza e cooperazione» da parte dell’intelligence statunitense con i servizi di sicurezza italiani» (1). A scriverlo è lo storico Giovanni Mario Ceci nel volume, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019. I report dell’agenzia di Langley, dell’ambasciata Usa a Roma e di altri attori dell’amministrazione statunitense, che l’autore cita nel libro, ribaltano l’attuale vulgata mainstream sugli scenari complottisti che avrebbero portato al rapimento del leader democristiano da parte delle Brigate rosse, sgretolando la convinzione stratificata da decenni di un sequestro sponsorizzato e supervisionato, addirittura con l’apporto diretto di forze esterne, in particolare atlantiche, al mondo brigatista, per impedire l’alleanza tra Dc e Pci e l’entrata di quest’ultimo nel governo. Nell’incontro del 4 novembre del 1977, lo statista democristiano fece capire agli americani che l’unico vero modo che avevano per arrestare la progressione elettorale del Pci e le sue ambizioni governative era intervenire su quelle che, a suo avviso, erano le matrici della sovversione interna italiana, ovvero la strategia di destabilizzazione della società che avrebbe trovato sostegno nelle interferenze sovietiche. Attività che, secondo Moro, non era finalizzata a sabotare l’avvicinamento del Pci all’area di governo ma semmai a favorirla rafforzando la sua immagine di unica forza politica in grado di salvare le istituzioni calmierando le spinte antisistema dei movimenti sociali ed esercitando la sua capacità di forza d’ordine. Questa personale convinzione di Moro, che per altro mutò drasticamente quando dalla prigione del popolo nella prima lettera a Cossiga scrisse di trovarsi «sotto un dominio pieno e incontrollato», era opinione diffusa negli ambienti politici moderati e conservatori italiani e trovava ispirazione in alcune precedenti veline dei Servizi italiani che chiamavano in causa l’operato dei Paesi dell’Est. Anche il Pci riteneva, ma solo in sede riservata, che vi fosse una qualche interferenza oltre cortina, in particolare dei cecoslovacchi. Sono note le lamentele di Cacciapuoti e di Amendola nei confronti dei “fratelli cecoslovacchi” che sdegnosamente rigettavano l’accusa. I sospetti, dimostratisi infondati, dei dirigenti di Botteghe oscure erano dovuti all’ospitalità che nell’immediato dopoguerra Praga aveva fornito, su richiesta degli stessi comunistin italiani, a diversi esponenti delle milizie partigiane comuniste e dell’organizzazione Volante rossa che non avevano deposto le armi dopo la fine della guerra civile e per questo erano stati perseguiti dalla magistratura. Questo bacino di militanti, il più delle volte coinvolti in azioni di rappresaglia contro ex gerarchi ed esponenti fascisti, nonostante fosse stato esfiltrato dall’apparato riservato del Pci era maltollerato dalla nuova dirigenza di fede togliattiana. Un atteggiamento proiettivo che spinse la dirigenza di questo partito ad avviare una ossessiva campagna, divenuta vincente nei decenni successivi, che ribaltava lo schema complottista attribuendo ogni responsabilità del sequestro Moro all’azione dei Servizi segreti occidentali.
Terrorismo interno o internazinale? L’amministrazione statunitense prese sul serio le richieste di Moro e G.M.Ceci ne ricostruisce attentamente tutti i passaggi: Gardner volato a Washington riferì la richiesta al segretario di Stato Vance ed al consigliere per la sicurezza Brzezinski, la questione venne introdotta in un memorandum inviato ai membri dell’European Working Group, che si riunì il 9 dicembre 1977, dove ci si chiedeva «che aiuto stiamo fornendo all’Italia in relazione al terrorismo (sia interno sia, se ve ne è, Internationally-inspired)? (2). Tuttavia emerse subito un grosso ostacolo dovuto alla presenza della nuova dottrina di «non interferenza non indifferenza» emanata dall’amministrazione Carter e alle limitazioni, introdotte dal Congresso statunitense a metà degli anni 70, che impedivano al governo Usa di intervenire nelle attività di polizia interna di altri paesi. Dopo le polemiche scatenate dai ripetuti interventi diretti della Cia, come fu per il colpo di Stato contro Allende in Cile, le azioni coperte dell’Agenzia d’intelligence furono sottoposte a restrizioni salvo nei casi in cui vi era un manifesto pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi interessi. Situazione che si prefigurava solo nel caso fosse stato dimostrato che quanto avveniva in Italia avesse una matrice internazionale. L’assenza di questa prova, più volte richiesta alle autorità italiane, impedì un intervento diretto e immediato della Cia, i cui analisti per altro in un report della Cia “centrale” ritenevano di non condividere «la tesi, alquanto popolare in Italia, che il terrorismo sia alimentato all’estero, né tantomeno il suo corollario, ossia che scomparirebbe se malvagi potenze straniere smettessero di immischiarsi», mentre un’analisi di Arthur Brunetti, capocentro della Cia a Roma, realizzata nei giorni precedenti il sequestro Moro ribadiva che le Br «sono un fenomeno nato e cresciuto interamente in Italia» e che «nulla indicava che l’Unione sovietica, i suoi satelliti nell’Europa dell’Est, la Cina o Cuba avessero avuto un ruolo diretto nella creazione o nella crescita delle Br». (3) Nel bel mezzo di questo lavorìo diplomatico giunse come un lampo la notizia del rapimento del leader democristiano. Le prime analisi portarono Washington a temere che l’azione delle Br potesse estendersi anche ad obiettivi statunitensi, successivamente i numerosi report prodotti dall’intelligence Usa durante il sequestro focalizzarono l’attenzione verso le possibili ricadute sul quadro politico italiano. Gli analisti osservarono con molta finezza le mutazioni intervenute all’interno della Dc e il profondo cinismo che muoveva la rinnovata «rivalità» e le diverse manovre di riposizionamento dei leader democristiani che ambivano alla successione di Moro come capi del partito per «assumere il ruolo di front runner nelle elezioni presidenziali di dicembre». Secondo la Cia, il governo italiano nel corso del sequestro aveva «riportato una vittoria negativa rimanendo fermo», senza tuttavia essere riuscito a colpire militarmente le Br. Alla fine, concludevano gli analisti di Langley sbagliando completamente previsione, era il partito comunista la forza politica uscita rafforzata dall’esito del sequestro, poiché la linea della fermezza l’aveva collocata – a loro avviso – in una «posizione forte», che avrebbe reso impossibile la nascita di governi senza la sua partecipazione. Sul piano operativo, nonostante una richiesta di top priority da parte italiana, la Cia non andò oltre lo scambio di informazioni. Sotto la pressante insistenza di Roma il governo americano si limitò ad inviare un funzionario del Dipartimento di Stato (non un membro della Cia), Steven R. Pieczenik, psicologo esperto di guerra psicologica che giunse a Roma il 3 aprile 1978 (dopo il trezo comunicato brigatista nel quale si annunciava la collaborazione di Moro all’interrogatorio) e operò su mandato del ministro dell’Interno Cossiga all’interno di un “comitato di esperti”, dove erano presenti figure analoghe. La permanenza dell’esperto americano fu molto breve, convintosi della inutilità del suo contributo, rientrò negli Stati uniti il 16 aprile successivo, dopo appena 13 giorni.
Settembre 1978, la Cia si mobilità contro le Brigate rosse Alla fine l’ostacolo venne superato con un espediente burocratico: riclassificare le Brigate rosse all’interno della categoria del “terrorismo internazionale”. L’8 maggio, il giorno prima della esecuzione di Moro, lo Special Coordinating Comitee del Consiglio nazionale della sicurezza, Nsc, diede finalmente semaforo verde, ritenendo che si potesse «offrire aiuto all’Italia per combattere il terrorismo internazionale», ma quando la decisione venne comunicata alle autorità italiane il corpo di Moro era già stato ritrovato in via Caetani. La circostanza tuttavia non arrestò i propositi statunitensi che nel settembre 1978 giunsero a Roma con l’obiettivo di svolgere un’attività unilaterale di intelligence contro le Br, attivando operazioni di infiltrazione all’interno questa organizzazione. L’ambasciatore Gardner si oppose, raccogliendo le resistenze italiane, sostenendo che questo tipo di attività sarebbe stata compito delle autorità di Roma. Alla fine si raggiunse un compromesso: l’ambasciata americana «avrebbe considerato caso per caso le proposte di reclutamento di persone da infiltrare nelle Br» con la possibilità di decidere autonomamente se «andare avanti da soli o dopo un accordo con gli italiani». Gardner ricorda nel suo libro di memorie che in effetti si registrò davvero «un caso di questo genere» e «la decisone fortunatamente fu di condurre l’operazione in accordo con il governo italiano». (4)
L’operazione Stark L’unico tentativo conosciuto, per altro del tutto infruttuoso, è quello di Ronald Stark, un cittadino americano arrestato nel 1975 per traffico di stupefacenti e scarcerato nel 1979 con una motivazione redatta dal giudice Floridia in cui si riconosceva la sua collaborazione con la Cia. Il suo compito sarebbe stato quello di avvicinare all’interno delle carceri alcuni brigatisti detenuti. L’operazione non produsse risultati perché già dal 1977 i Br erano stati tutti trasferiti nel carceri speciali e Stark non finì mai in questo circuito. Se l’operazione di infiltrazione prese avvio alla fine del 1978 – come afferma Gardner – per Stark fu impossibile avvicinarli. Dalla documentazione della Direzione generale degli istituti di pena viene fuori che Stark fu rinchiuso nelle carceri di Modena, Pisa, Matera, Rimini e che nell’ultimo periodo della sua detenzione si trovava a Bologna. Prigioni estranee al circuito delle carceri speciali e che dopo il 1977 non accolsero più al loro interno brigatisti. Dalla stessa documentazione risulta che l’unico periodo in cui Stark, condannato per traffico internazionale di stupefacenti, si trovò ristretto nello stesso istituto di pena dove erano anche altri brigatisti fu il 1975 nel carcere di Pisa, poco dopo il suo arresto, tre anni prima che le Brigate rosse entrassero nel mirino dell’agenzia di Langley. Ammesso che fosse lui l’agente provocatore reclutato negli ultimi mesi del 1978, gli americani erano davvero in seria difficoltà se l’unica risorsa messa in campo per la loro strategia era riposta in un improbabile personaggio, un narco trafficante tenuto a debita distanza dai sospettosi brigatisti incarcerati che al massimo si trovarono a condividere, come riferisce Curcio nel suo libro, A viso aperto, il passeggio dell’aria con uno che cercava di attaccare bottone. Il racconto che Curcio fa dell’episodio (Stark gli propose durante il passeggio di organizzare una evasione dal carcere) lascia supporre che lo statunitense lavorasse già da confidente per il Ministero dell’Interno. In effetti Gardner afferma che l’operazione fu condotta di concerto con i Servizi italiani. Risulta, infatti, che funzionari del Ministero dell’Interno ebbero ripetuti incontri con lui nel carcere di Matera: tra questi spicca il nome di Nicola Ciocia, il famoso professor De Tormentis specialista del waterboarding, torturatore di diversi nappisti e brigatisti, tra cui Enrico Triaca, Ennio di Rocco, Stefano Petrella e di diversi componenti della colonna napoletana. I documenti ci dicono che l’unica persona caduta nella rete di questo agente provocatore fu Enrico Paghera, militante di Azione Rivoluzionaria che dopo la scarcerazione venne nuovamente arrestato e trovato in possesso di una cartina relativa ad un campo palestinese in Libano di cui era indicato il nome del responsabile e che risultò fornitagli dall’americano.
Note 1. Nella nota 26, p. 69, del suo volume, GM Ceci indica come fonte un report inviato dall’ambasciata Usa di Roma, Ambassador’s Meeting with Christian Democrat President, from Amembassy Rome to SecState, 7 November 1977, DN:1977ROME18056. Anche lo storico G. Formigoni, ricorda sempre GM Ceci, aveva riferito su questo incontro e sulla posizione di Moro in, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, 2016, pp.325-6. 2. GM. Ceci, p. 69, nota 27, Memorandum from Robert Hunter and Richard Vine to Members of European Working Group, Agenda for Meeting, December 9, 1977, in DDRS. 3. Giovanni Maria Ceci, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019, p. 84. 4. Richard N. Gardner, Mission: Italy. Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma.1977-1981, Mondadori, 2004, p. 234.
Sabato 16 marzo introducendo un articolo di Marco Clementi sulla bruciante passione che arde nell’animo degli «storici da bar» ossessionati dal rapimento Moro mi soffermavo su una particolare categoria che arricchisce la folta schiera dei ciarlatani del caso Moro, ovvero i «burocrati della memoria». A titolo di esempio riportavo un recentissimo episodio accaduto nel corso di una lezione tenuta in una università romana da una nota responsabile di un archivio che si occupa di «terrorismo e anni 70». Non facevo nome e cognome della persona e non citavo con precisione i luoghi dove questa lezione si era tenuta non certo per reticenza, «al fine di meglio manipolare quanto detto», come è stato scritto contro di me, ma per evitare una eccessiva personalizzazione perché quel che conta era il peccato e non il peccatore, come recita un vecchio adagio. Mi interessava attirare l’attenzione sulle parole dette (non sull’autrice di quelle parole) e sui dispositivi burocratici e politici che sono stati realizzati per diffondere una memoria istituzionale su quel periodo ricorrendo ai canoni e strumenti tipici dell’uso pubblico della storia.
Nel frattempo l’autrice di quelle parole ha fatto outing smentendo recisamente quanto da me scritto, ovvero che «in via Fani c’erano, la mattina del 16 marzo, non meno di 30 brigatisti, ovvero quasi tre volte i regolari della colonna romana in attività in quel periodo. Alla richiesta di spiegare come fossero fuggiti dal luogo, visto che le macchine descritte dai testimoni sono sempre e solo state tre e nessun pullman è mai stato avvistato nei paraggi, ha risposto che si erano dileguati a piedi per i prati. Di fronte alla stupefacente risposta (accanto a via Fani non ci sono prati…) qualcuno ha voluto sapere se fosse mai stata in via Fani: la risposta è stata no».
Stiamo parlando di alcune affermazioni fatte dalla signora Ilaria Moroni, direttrice dell’Archivio Flamigni, promotrice e curatrice della Rete degli archivi per non dimenticare (spero di non aver sbagliato nulla nel citare i titoli di merito), che «in collaborazione con la Regione Lazio e l’Università di Roma Tre, offre agli insegnanti delle scuole secondarie di secondo grado un corso di formazione gratuito Non solo “anni di piombo” – L’Italia degli anni Settanta, la politica, le riforme, i terrorismi». Corso che, se ho letto bene, sarebbe alla sua seconda edizione. La signora Moroni, nome che aleggia nella cronaca giudiziaria di questi giorni, sostiene che il corso non sarebbe finanziato dalla regione Lazio. Prendiamo atto per ora delle sue parole, se poi magari può spiegarci cosa significa «collaborazione» e cosa la distingue da un semplice patrocinio le saremmo grati, certo è che nel bilancio 2022 della Regione Lazio l’Archivio Flamigni ha ricevuto per le sue attività un obolo di 60 mila euro. Ma veniamo al merito delle affermazioni fatte durante la lezione: dopo la smentita della signora Moroni la mia fonte che ha assistito al corso mi ha riconfermato ogni cosa («30 brigatisti in via Fani», «fuga per i prati», «presenza del colonnello Guglielmi», «prima prigione in via dei Massimi»), salvo un punto oggetto di malinteso tra noi due quando mi aveva riferito la prima volta l’accaduto, ovvero che la signora Moroni non aveva mai detto di non essere mai stata in via Fani. Recepito ciò, non ho alcun problema a correggere il mio piccolo errore, ed a scusarmi per questa imprecisione, per la semplice ragione che non mi chiamo Sergio Flamigni, campione dei pesci in barile. Sempre la mia fonte precisa che le affermazioni di cui sopra sono avvenute nella fase finale della lezione durante le domande e risposte provenienti dal pubblico, come per altro avevo già accennato.
A questo punto però davanti alla replica scritta della signora Ilaria Moroni quanto detto nel corso della lezione passa in secondo piano per la semplice ragione che la responsabile dell’archivio Flamigni ribadisce nero su bianco molte delle cose dette, con questo confermando il racconto della mia fonte e la veridicità di quanto avevo scritto. In particolare la signora Moroni conferma quello che secondo la sua personalissima ricostruzione dei fatti sarebbe il numero dei brigatisti coinvolti, circa 30: «nella gestione dell’intero sequestro, vie di fuga e covi compresi, il numero complessivo dovrebbe orientarsi intorno ai 30».
Ho già spiegato che si tratta di un numero abnorme, molto più del triplo dei regolari presenti nella colonna romana dell’epoca. Non c’è qui lo spazio per un adeguato approfondimento, ma è ampiamente noto che a condurre l’inchiesta e realizzare l’agguato fu sostanzialmente la Brigata della “Contro” della colonna romana (che era tutta in via Fani fatta eccezione per Etro e Faranda che ebbero altri ruoli), supportata da alcuni membri della direzione di colonna e della direzione nazionale. E se è vero che nel corso dei 4 processi portati a termine sono state condannate 27 persone, è storicamente accertato che solo 15 di queste hanno avuto un ruolo effettivo a vario titolo nella vicenda, più una sedicesima assolta perché all’epoca dei processi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Gli altri 12 non ebbero alcun ruolo: i 5 della brigata universitaria tirati in ballo perché custodirono la Renault 4; i tre – compreso Triaca torturato dopo l’arresto – legati alla tipografia di via Pio Foà e alla base di via Palombini; due membri del fronte logistico romano e altri due del fronte di massa nazionale totalmente fuori dalla vicenda. Ventitre della ventisette persone vennero condannate alla fine del primo processo Moro, le altre quattro furono giudicate nei successivi processi grazie alle indicazioni fornite da Morucci e Faranda nel loro memoriale (e in altri verbali), della cui esistenza (il memoriale) sapevano oltre a Cossiga anche il dirigente del Pci Ugo Pecchioli. La signora Moroni dovrebbe saperlo e soprattutto scriverlo, visto che dirige un archivio. Il memoriale oltre a consentire alla giustizia di affibbiare altri tre ergastoli, permise ai suoi autori di ottenere ulteriori sconti di pena, in aggiunta a quelli introdotti dai decreti premiali speciali Cossiga alla fine degli anni 70. La legge sulla dissociazione del 1987 venne varata con l’apporto politico e il contenuto giuridico decisivo del Pci, insieme alle altre forze del fronte dell’emergenza. Corollario di quella legge fu la riforma Gozzini, Mario Gozzini era un indipendente di sinistra eletto nelle liste del Pci. Tutte cose che Ilaria Moroni immagino abbia spiegato durante i corsi di formazione da lei tenuti.
Dopo aver dato i numeri la responsabile dell’archivio Flamigni attribuisce a Mario Moretti cose mai dette, traendo così una conclusione priva di fondamento logico e fattuale: ovvero che a sparare in via Fani dovevano essere in sei. Nel libro con Rossanda, Moretti parla solo di quattro compagni che dovevano fare fuoco (i quattro con le divise dell’aviazione civile nascosti dietro le fioriere del bar Olivetti), due più di quanto normalmente necessario a causa dell’alto rischio di reazione della scorta: due per machina anziché uno. Come si possa arrivare a sei non si capisce. La balistica dice che hanno sparato in tutto 5 persone con sette armi: quattro pistole mitragliatrici e due pistole appartenenti ai 4 Br, più la pistola di un agente. Nessuna fonte di tiro da destra, salvo gli spari del poliziotto della scorta. Il fuoco incrociato evocato dalla Moroni esiste solo nei film dei supereroi. Una volta terminate le raffiche vi fu un aggiramento finale verso destra del brigatista più in alto che sparò con la sua arma personale. Leonardi fu colpito sul lato destro del corpo dopo la torsione del busto verso sinistra, proteso in difesa di Moro. Ma si tratta di cose già dette, ridette, ribadite all’infinito. Un disco rigato. Sinceramente roba noiosa che serve ad aggirare solo le vere domande politiche e storiche che quella vicenda solleva.
Ci sarebbe molto altro da dire: sapere perché per anni il senatore Flamigni ha tenuto nascosto il verbale di D’Ambrosio, citandone solo una brevissima parte che ne travisava il contenuto per rafforzare la sua tesi di un coinvolgimento del colonnello Guglielmi nell’azione di via Fani o rivelare come Flamigni acquisì dalle mani dei fascisti della rivista “Area” il materiale utilizzato per costruire le fake news su via Gradoli. O la figuraccia fatta con il teste Marini scoperto a dire bugie sul parabrezza del suo motorino e sulla moto Honda. Testimonianza di cui Flamigni è stato il più fervente sostenitore per anni. Non abbiamo mai letto una parola che riconoscesse l’errore, ammettesse l’abbaglio. Abbiamo visto soltalto ridursi con passare delle edizioni dei suoi libri il numero di righe e l’importanza dedicata alla vicenda che da centrale si è fatta nella sua narrazione via via più periferica. Per non parlare del quarto uomo di via Montalcini, di cui aveva saputo da una confidenza di due brigatisti dissociati, che lo avevano portato a ritenere si trattasse finalmente della prova della presenza di figure estranee alla Br nel sequestro.
Quando venne fuori l’identità di Germano Maccari, dopo l’iniziale disorientamento Flamigni sostenne che «allora doveva esserci un quinto uomo». Ammettere l’errore, recepire il fallimento di una ipotesi e correggere la propria versione, ripensando integralmente la propria posizione, non appartiene al suo orizzonte culturale, alla sua onestà intellettuale. Tante omissioni di verità e deformazioni dei fatti di cui Flamigni è stato grande maestro nei decenni trascorsi. Ma ci sarà modo e occasione per farlo in modo adeguato.
Concludo rilevando che la signora Moroni segnala ai suoi lettori come io mi sia recato una volta in archivio Flamigni in quel di Oriolo romano. Controllare i miei movimenti deve essere una sua particolare ossessione: ricordo la volta che su fb diede l’allarme perché mi aveva avvistato presso l’Archivio centrale dello Stato. Immagino che questo si spieghi col fatto che la signora Moroni mi consideri più un ricercato che un ricercatore.
I ciarlatani del caso Moro, quelli che Marco Clementi definisce «storici da bar» hanno riempito in questi decenni scaffali di librerie con le loro pubblicazioni, fatto uscire articoli a pioggia sulla stampa (ancora oggi ne sono apparsi un paio), realizzato trasmissioni televisive, Report su tutti ma anche lo scomparso Purgatori non scherzava, dando vita a surreali commissioni parlamentari, ultima quella antimafia che si è chiusa nella passata legislatura con una relazione dell’ex magistrato Guido Salvini, seguita ai lavori della precedente commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni. Tra i ciarlatani non mancano di primeggiare con dichiarazioni alle agenzie membri del governo attuale. Questo fiume di ipotesi mai suffragate, congetture azzardate, ricostruzioni sgangherate – spiega Clementi- resta sempre sul terreno della cronaca, sezionando al millesimo minuti, ore e giorni del sequestro, ripetendosi all’infinito come un disco rigato, eludendo così non solo le smentite ma ancor di più il «tempo storico», le domande di fondo che sole possono aiutare a dare senso e comprensione a quella vicenda.
La burocrazia della memoria La responsabile di un noto archivio che si occupa di «terrorismo e stragi degli anni 70» ha tenuto nei giorni scorsi presso una università romana un corso di formazione per insegnanti delle scuole secondarie, attività finanziata dalla regione Lazio. L’eminente specialista ha raccontato, in barba alle evidenze storiche fino ad ora acquisite, che in via Fani c’erano, la mattina del 16 marzo, non meno di 30 brigatisti, ovvero quasi tre volte i regolari della colonna romana in attività in quel periodo. Alla richiesta di spiegare come fossero fuggiti dal luogo, visto che le macchine descritte dai testimoni sono sempre e solo state tre e nessun pullman è mai stato avvistato nei paraggi, ha risposto che si erano dileguati a piedi per i prati. Di fronte alla stupefacente risposta (accanto a via Fani non ci sono prati…) qualcuno ha voluto sapere se fosse mai stata in via Fani: la risposta è stata no. Le istituzioni hanno creato una burocrazia della memoria pubblica cui è stata demandata la funzione di amministrare la produzione pubblica sulla storia di quelli anni, presenziando commissioni che vigilano sulle modalità di apertura degli archivi, sulla gestione di portali informativi e sulla formazione culturale. L’eminente responsabile dell’archivio di cui stiamo parlando, membro a tutti gli effetti di questo apparato, deve aver confuso le 27 persone, condannate a vario titolo per il sequestro nei quattro diversi processi che si sono susseguiti tra gli anni 80 e 90, con i partecipanti diretti all’azione del 16 marzo. Avrà così pensato che tutti e 27 affollavano via Fani e le strade adiacenti quella mattina. In realtà solo 9 di loro sono stati indicati in sede giudiziaria come presenti direttamente sul luogo dell’agguato. Oggi sappiamo che ve ne fu anche una decima, assolta però durante il processo ma condannata comunque per altri fatti. I restanti 17 sono stati ritenuti responsabili per altre ragioni: perché membri dell’esecutivo nazionale o aventi funzioni apicali, oppure perché avevano gestito la custodia del sequestrato nella base-prigione di via Montalcini o ancora perché avrebbero preso parte ad alcune fasi della inchiesta preparatoria. Nessuno di loro era in via Fani. Eppure i ciarlatani del caso Moro possono raccontare impunemente quel che vogliono.
di Marco Clementi, Domani 16 marzo 2024
Non avrà mai fine l’annosa ricerca di una singola prova, una contraddizione, un elemento di dubbio, capace di far crollare come un castello di carte la narrazione non dietrologica sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. Gli storici, si può osservare, dovrebbero essere contenti: la ricerca, infatti, non si può fermare e ogni nuovo apporto non può che arricchire i precedenti. Teoricamente è così. In pratica non sempre questo accade: si pensi al revisionismo attuato in Russia sulla storia sovietica e la figura di Stalin, per fare solo un esempio. Gli storici in questo caso sono stati messi a tacere e la revisione storica è diventa una questione di Stato. Per quanto riguarda il caso Moro e più in generale la storia delle Br (o se si vuole la sua contro-storia), il dibattito spesso non si svolge tra storici e la cosa che pone una serie di problemi metodologici molto seri. Si potrà obiettare che storcere troppo il naso se un giornalista scrive un libro di storia non è una buona cosa. Infatti, esistono giornaliste e giornalisti che hanno studiato, scritto e analizzato questioni storiche in modo molto professionale, aprendo nuove prospettive di riflessione. Con il caso Moro, però, questo è accaduto molto di rado.
Un popolo di storici e ct Tutti gli appassionati di calcio si sono sentiti commissari tecnici della nazionale almeno una volta nella vita. Tutti hanno fatto la propria formazione, criticato scelte, convocazioni e cambi, pensato che se ci fossero stati loro in panchina quella partita sarebbe finita diversamente. Peccato che nessuno è stato mai chiamato dalla Federcalcio ad allenare la nazionale. Per allenare serve un patentino, si devono frequentare corsi a Coverciano ecc.. In una parola, bisogna essere professionisti che conoscono il linguaggio del campo e hanno esperienza decennale. Non ci si improvvisa e soprattutto agli improvvisati nessuno dà un lavoro. Quando capita di discutere di storia al bar (o sui social), è facile perdere. Qualsiasi cosa si dica, infatti, viene ribattuta con riferimenti fumosi e frasi ipotetiche da chi discute non per capire meglio, ma per imporre la sua tesi di partenza. Le argomentazioni, anche le più precise, non sono prese in considerazione. Al limite, non le ascoltano proprio. È così e basta. Rispetto alle fonti (archivi, bibliografie, saggi ecc.) l’interlocutore propone un paio di articoli di giornali o, quando va bene, un libro (che, sebbene pieno di sciocchezze, almeno è un libro). Conosce particolari mai sentiti, ma non è in grado di fare un discorso di ampio respiro per esempio sulla politica estera inglese durante il XIX secolo, sulle relazioni tra Italia e Germania tra le due guerre, sulle fasi della Shoah, sul nazionalismo ecc.
L’uso politico dei misteri Con il caso Moro avviene la stessa cosa. La produzione saggistica è piena di autori/autrici improvvisati. Hanno letto qualcosa, intuito una pista, trovato qualche riferimento (tralasciando gli altri mille) e si sono messi a scrivere che le cose non sono andate come sembra perché c’era questo e quello e poi la Cia o l’andrangheta, il Kgb o la P2 e dio solo sa ancora chi altri. Tutte le volte che qualcuno ha preso sul serio queste note e ha cercato riscontri documentali, ha finito per dimostrare la fumosità delle stesse. Che, peraltro, ritornano anche a distanza di anni per cui, dato che i lettori si sono dimenticati (giustamente) che un decennio o un ventennio prima si era già discusso della cosa, i ricercatori sono costretti a ricominciare da capo in un gioco dell’oca infinito dove si ritrovano sempre al punto di partenza. La storia non compie alcun passo in avanti e prevale sempre la cronaca, che seziona una giornata chiave dei 55 giorni in ore, minuti e secondi, ricerca quale funzionario di pubblica sicurezza sia arrivato prima e quale dopo, chi c’era e se non c’era come faceva a sapere ecc. ecc. La storia è colpita al cuore dalla cronaca e gli studiosi sono sommersi e emarginati dalle congetture e dall’uso politico dei misteri.
I tempi storici e quelli della cronaca Inevase restano le grandi domande del caso Moro, che sono, in ordine sparso, il ruolo dello Stato italiano e la sua preparazione o impreparazione, il ruolo dei partiti, la strategia delle Br e la congruità del rapimento di Moro con la storia passata dell’organizzazione, la concomitanza del processo di Torino, le reazioni internazionali, il ruolo del Vaticano, le reazioni del movimento, quelle del mondo operaio, le opzioni di sviluppo della vicenda, gli spazi per una trattativa, le conseguenze politiche del rapimento (vedi voto di fiducia al IV governo Andreotti che fino alla sera prima il Partito comunista non voleva in quella formazione) e quelle dell’uccisione dell’ostaggio. Ci sarebbero poi i processi, la storia delle commissioni di inchiesta, dell’associazione delle vittime del terrorismo, la legge sui pentiti, il carcere speciale, le torture e poco altro. Una vicenda complessa, ma non un rebus, che ha un inizio, uno sviluppo e una fine. Storicamente quei 55 giorni hanno smesso di avere conseguenze politiche dopo le elezioni del 1979, quando il Pci uscì sconfitto dalle urne dopo essere stato un anno e otto giorni nella maggioranza di governo. Si aprì l’ultima stagione della prima repubblica che durò dieci anni, con i governi a guida laica per la prima volta dal 1948 e il preambolo di Carlo Donat-Cattin. Nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, cambiò nuovamente tutto e a livello storico la vicenda Moro non ebbe più nulla da dire. Mani pulite, poi, sconvolse ulteriormente il quadro e Berlusconi mise una pietra tombale sul passato. Il caso Moro continuò a contare per i singoli protagonisti e le loro coscienze, ma su questo versante è giusto non entrare. A distanza di 46 anni il continuo riemergere di misteri riporta una vicenda storicamente conclusa da decenni sulle prime pagine della cronaca, impedendo il consolidarsi di una discussione storiografica sulla sua importanza. Il che, alla lunga, rischia di tramutare in farsa una delle maggiore tragedie della nostra Storia.
L’associazione nazionale funzionari di polizia ha ritenuto doveroso inviare una lettera aperta alla professoressa Donatella di Cesare, docente di filosofia teoretica presso l’università di Roma La Sapienza, dopo le polemiche scatenate da un suo tweet di cordoglio per la morte della ex dirigente delle Brigate Rosse Barbara Balzerani, scomparsa domenica 3 marzo 2024. Nel suo breve messaggio la professoressa Di Cesare aveva scritto: «La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna».
Attacco al diritto di parola e di pensiero L’Anfp è un’associazione di natura sindacale nata per tutelare gli interessi dei quadri direttivi della polizia di Stato. Nella lettera aperta, che potete leggere qui per intero (www.anfp.it/lettera-alla-prof-ssa-di-filosofia-teoretica) si rimprovera alla docente di aver dimostrato mancanza di rispetto verso le vittime e i familiari delle vittime, tra cui si enumerano anche quelle della strage di Bologna che nulla c’entra con la storia politica della Balzerani, anzi si pone in frontale antitesi con il suo percorso, dimenticando troppo in fretta quei funzionari di polizia e dei servizi segreti coinvolti nei depistaggi della strage e per questo condannati, ed a cui – a quanto pare – i funzionari di polizia fanno sconti. La lettera mette in discussione il diritto di parola e la libertà di pensiero della Di Cesare, punta il dito persino contro la pietas davanti alla morte, contestandole di essere mancata al suo ruolo istituzionale, al rispetto del gioco delle regole: una prova di infedeltà che nelle parole dei dirigenti di polizia sembra mostrare nostalgia verso un modello di università che espelleva chi rifiutava di giurare fedeltà al regime.
Il nuovo ministero dell’etica Sorge immediatamente una domanda: quale è il ruolo e soprattutto il posto della polizia nel sistema politico-istituzionale italiano? Spetta a loro regolare il dibattito pubblico? Stabilire cosa e come si insegna all’interno delle Università, chi merita la cattedra o meno? Non sembrano questi i compiti che gli vengono attribuiti dalla costituzione, che pure dovrebbero rispettare alla lettera per mandato istituzionale. E’ davvero singolare pretendere di ricordare alla cittadina De Cesare che non può oltrepassare il suo ruolo istituzionale di docente, mentre una tale oltrepassamento viene largamente realizzato da parte dei funzionari di polizia con una simile lettera. Per altro la professoressa Di Cesare ha espresso il suo pensiero su un social non all’interno della sua facoltà. Ha parlato da cittadina, non da docente davanti ai suoi studenti. Attenta a non confondere i due luoghi. Se dei funzionari di polizia si sentono liberi di andare oltre le loro funzioni, di additare in pubblico una persona, esercitando il magistero del pensiero e della parola, l’accaduto assume la fisionomia di una chiara intimidazione. Un invito a tacere manette alla mano.
Il volantino degli studenti e la stella volutamente fraintesa
Sempre nella lettera si contesta un volantino di solidarietà alla professoressa affisso da alcuni studenti sulle mura della facoltà di filosofia di Villa Mirafiori, subito etichettati come «pericolosi anarchici» (sic!) e filobrigatisti perché avrebbero firmato il testo con la stella brigatista. Come tutti possono vedere dall’immagine qui accanto, non si tratta della stella asimmetrica con le due punte allungate ma di una normale stella, simbolo storico della sinistra italiana, emblema nel 1957 del Fronte democratico popolare con l’effigia del volto di Garibaldi incastonato all’interno di una stella, appunto. Stella presente nel simbolo di molti partiti storici della sinistra che solo l’ottusa ignoranza questurina può ricondurre immediatamente allo stemma brigatista. Ma il clima è questo, l’ignoranza più gretta sale in cattedra.
Cosa ha detto di tanto scandaloso la professoressa Di Cesare? Che le Brigate rosse sono nate in quel crogiolo di pensiero, ribellione e militanza che nel 1968-69 diede vita ad un nuovo spazio politico animato dalla sinistra rivoluzionaria. Nuova sinistra che contestava le forze storiche del movimento operaio concorrendo sul suo stesso terreno sociale: le fabbriche e le periferie delle grandi città. Già Rossana Rossanda, nel 1978, ebbe a dire qualcosa del genere, suscitando scandalo per aver iscritto le Brigate rosse nell’«album di famiglia» del comunismo storico. Parole suscitate da volontà polemica non solo contro la posizione del Pci, che pur sapendo della loro vera origine le definiva «sedicenti», accusandole di essere manipolate, eterodirette, agenti Nato eccetera; ma con le stesse Br, ritenute un residuato culturale del veterocomunismo degli anni 50, più che una delle tante anime della nuova sinistra. Biografie politiche e inchieste sociologiche hanno poi dimostrato che sbagliava e di molto anche se più avanti cercò di capirle e raccontarle meglio di ogni altro.
La violenza politica? Una risorsa condivisa In questo nuovo spazio politico il ricorso alla violenza politica era considerato una risorsa legittima. La violenza rivoluzionaria era innanzitutto «parlata», in un libro uscito alcuni anni fa per Deriveapprodi, La lotta è armata, Gabriele Donato spiega quanto fosse condivisa e discussa questa opzione in tutte le formazioni della nuova sinistra, quanto questo orizzonte fosse discusso, percepito come inevitabile: alcuni lo ritardavano ma non lo escludevano e nell’immediato tutti si dotavano di servizi d’ordine, livelli illegali, molti si armavano, facevano «espropri», rapine per finanziarsi, difendevano i cortei dalle forze di polizia e dalle aggressioni fasciste mentre tutt’intorno si susseguivano le stragi e gli attentati della destra e dei Servizi, nelle piazze, sui treni. Si agitavano ombre di golpe e altrove si ribaltavano con le dittature militari governi democraticamente eletti, tanto da spingere il maggiore partito di opposizione italiano a convincersi che non si potesse più salire al governo, divenendo maggioranza alle elezioni, senza prima allearsi con quello stesso partito di governo dagli albori della repubblica, da sempre avversario, dando vita una società senza più opposizione, priva di dialettica, senza conflitti, moderando salari e rivendicazioni e che gli specialisti chiamarono «consociativa». Una democrazia a sovranità limitata, sottoposta al dominio dei vincoli esterni della geopolitica. Si è così arrivati a sparare, ed i primi, ci ricorda la cronaca, non furono le Brigate rosse. Un qualunque studio serio su quegli anni si immerge in un clima del genere, anche se molti, sopravvissuti e scampati, ormai avanti nello loro carriere professionali, preferiscono dimenticare, non farsi riconoscere, mentire e nascondersi pavidamente. Che cosa avrebbe detto allora di non vero la professoressa Di Cesare? Che non ha mancato di sottolineare come quel comune sentire iniziale si sia poi diviso in percorsi diversi, in scelte politiche ed esistenziali separate?
La stigmatizzazione etica Nelle parole della Di Cesare non c’è traccia di stigmatizzazione etica, questo è il punto. Le si rimprovera la mancata riprovazione, la damnatio negata. Il regime della indignazione è l’unico possibile a cinquant’anni dai fatti: indignazione selettiva, per giunta, se è vero che uno come Franco Freda, ritenuto giudiziariamente e storicamente responsabile della strage di piazza Fontana, vive tranquillamente quello che gli resta della sua esistenza ignorato, dimenticato, senza che nessuno gli ricordi quello che è stato: uno stragista, una massacratore di umanità al servizio e per conto di alcuni apparati dello Stato italiano. Come ha scritto Adriano Sofri, si può uscire ad un certo punto dalla lotta armata, ma non si entra mai da un’altra parte. Quella storia è stata dichiarata conclusa dai militanti delle Brigate rosse, Balzerani compresa, con un atto politico quasi quarant’anni fa. Ma non è mai esistito un dopo. Le classi dirigenti e le loro sponde mediatiche non lo hanno voluto perché hanno ancora bisogno di quelle icone per rappresentarvi il male. Una comoda esportazione di ogni colpa e responsabilità per tutti. Per la destra che in questo modo può sbiancare le proprie origini e collusioni golpiste e stragiste; per la sinistra che può così eludere i propri errori politici e fallimenti culturali consolandosi con l’alibi del complotto attuato da forze oscure che le hanno impedito di salire al potere. Le Brigate rosse hanno incarnato in questo modo tutto il male del Novecento. Risultato paradossale davanti agli orrori del secolo breve, ma ancor di più del presente: ad una guerra russo-ucraina che ha fatto in due anni, stando alle stime del New York Times, 200 mila morti e circa 300 mila feriti, e agli oltre 30 mila morti di Gaza.
Una preda di sostituzione Barbara Balzerani se n’è andata in silenzio, con una mossa di judo si è sottratta alla morsa di chi aveva bisogno del suo corpo per eleggerla a moderna strega, come periodicamente accadeva. La società della «bava e del fiele», orfana della sua persona e del suo funerale che si è tenuto nel più assoluto riserbo, lontano dagli sguardi morbosi dei media, frustrata e livorosa ha cercato affannosamente un’altra preda da azzannare. Ha trovato sulla sua strada Donatella Di Cesare, oggetto transizionale della furia vendicativa. A lei la destra oggi al governo, l’entourage più stretto della Meloni, rimprovera di essere stata colta in fallo, smascherata, per aver squarciato il velo con cui tenta di coprire le sue idee radicate nel razzismo della «sostituzione etnica». Per questo deve pagare.
A partire dal 2010 alcune inchieste giornalistiche e libri pubblicati negli anni successivi, ripresi recentemente anche da una trasmissione televisiva della Rai, hanno diffuso una ricostruzione alternativa sulle ultime ore della vita di Moro, sulle circostanze della sua morte e del ritrovamento del suo corpo in via Caetani. L’analisi delle indagini condotte all’epoca, i documenti e le testimonianze dimostrano l’infondatezza di queste ricostruzioni dietrologiche
Paolo Morando e Paolo Persichetti, Domani 9 marzo 2024
Questa immagine fotografa la situazione di attesa: lo sportello posteriore destro della Ranault 4 è stato aperto, all’interno è stata verificata la presenza del corpo di Moro. Funzionari di polizia in borghese sono in attesa delle autorità. Davanti alla Renault la Fiat 500 del custode di palazzo Antici-Mattei, più avanti di traverso la Giulia bianca Alfa Romeo della Digos intervenuta per prima sul posto
Che cosa accadde davvero il 9 maggio del 1978 in via Caetani? Le dichiarazioni dell’ex vice segretario del Partito socialista Claudio Signorile a Report del 7 gennaio scorso, in un servizio su nuove presunte verità sulle Brigate rosse e il sequestro di Aldo Moro, hanno riacceso l’attenzione sulle modalità del ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana. Da diversi anni Signorile sostiene che Cossiga (con lui presente) venne informato quella mattina della morte di Moro in largo anticipo rispetto alla telefonata delle Brigate rosse. E lascia intendere intendere che a ucciderlo non furono i brigatisti, per il rifiuto di trattare da parte del governo e dei partiti schierati per la «fermezza», bensì forze straniere che condizionarono l’esito finale del sequestro: una volontà superiore a cui i brigatisti, semplici figuranti di un gioco più grande di loro, dovettero adattarsi. Forse addirittura cedendo l’ostaggio.
I ricordi tardivi Storici, giudici e poliziotti, abituati a valutare le testimonianze e lavorare con la memoria, sanno bene che i ricordi tardivi dei testimoni rappresentano uno degli aspetti più problematici nella ricostruzione dei fatti, perché troppo esposti al rischio di inquinamento da informazioni e narrazioni circolate nel frattempo. Nelle ore successive al ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani all’interno della Renault 4 color amaranto, digos e carabinieri condussero però serrate indagini sui testimoni passati fin dalle del prime ore del mattino in quella via o che lavoravano nei palazzi adiacenti. Queste testimonianze offrono un quadro esauriente per ricostruire quel che avvenne la mattina del 9 maggio 1978. La signora Carla Antonini affermò di aver visto alle 8,10, mentre a piedi si recava al suo posto di lavoro, la Renault 4 parcheggiata quasi davanti al portone di palazzo Antici-Mattei dove era impiegata nella discoteca di Stato. La testimonianza venne rafforzata da successive dichiarazioni dell’attrice Piera Degli Esposti, sentita dopo il 2013 nell’indagine aperta per verificare la veridicità delle affermazioni di uno degli artificieri che bonificarono la Renault 4 quel giorno, Vitantonio Raso, secondo cui il cadavere di Moro fu trovato molto prima della telefonata delle Br e Cossiga si sarebbe recato sul posto una prima volta intorno alle 11 del mattino e una seconda dopo la diffusione ufficiale della notizia. Degli Esposti smentì questa possibilità poiché quella mattina aveva atteso inutilmente, proprio nelle ore indicate da Raso, appoggiata inconsapevolmente sulla R4, il direttore del Dramma antico, i cui uffici si trovavano al terzo piano di palazzo Antici-Mattei. Anche altri testi sentiti hanno confermato questa ricostruzione: Annamaria Venturini della Biblioteca di storia contemporanea, Francesca Loverci e Giuseppe D’Ascenzo, entrambi dipendenti del Centro studi americani situato nello steso palazzo, e Francesco Donato che vi risiedeva come custode demaniale. Tutti e tre percorsero più volte via Caetani quella mattina senza mai scorgere presenza della polizia o assembramenti con personalità politiche.
L’arrivo della polizia dopo la telefonatadelle Br È D’Ascenzo a situare il momento in cui arriva sul posto la prima auto della polizia: era uscito dal lavoro alle 10,15 per rientrarvi alle 11 e uscire nuovamente un quarto d’ora dopo per rientrare alle 12,15 quando si accorgeva di una Alfa Giulia bianca in doppia fila accanto alla Renault 4, con a bordo persone in abiti civili che gli chiesero se ne conoscesse il proprietario. Era la pattuglia della Digos guidata dal commissario capo Federico Vito, che in una relazione di servizio scrive di essere stato avvisato dal brigadiere Mario Muscarà, addetto al servizio intercettazioni telefoniche, che era sopraggiunta una telefonata al professor Tritto in cui si annunciava che «il corpo di Moro si trovava in una Renault targata N…. parcheggiata in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure». Il brogliaccio redatto da Muscarà riferisce l’arrivo della telefonata alle 12,10 e la sua conclusione alle 12,13, oltre al tentativo fallito di individuare la cabina da dove la chiamata era partita. Il commissario Vito si recava immediatamente sul posto con il brigadiere Domenico D’Onofrio, l’appuntato Angelo Coppola e la guardia Nicola Marucci. «Poiché nel bagagliaio si notava una coperta che ricopriva qualcosa di voluminoso – scrive – ho fatto aprire forzatamente l’auto da un Sergente artificiere ed ho constatato che, sotto la suddetta coperta, si trovava il cadavere dell’On.le Aldo Moro». Altre testimonianze, e soprattutto le foto e le immagini esclusive riprese dalla troupe di Gbr, emittente romana, con il giornalista Franco Alfano che riuscì ad entrare nel palazzo Antici-Mattei e riprendere dall’alto quello che avvenne, mostrano che i tempi di apertura della R4 furono molto più lunghi e laboriosi.
Cucchiarelli e la versione dell’artificiere In una intervista con Paolo Cucchiarelli e Manlio Castronovo, dopo l’uscita nel 2013 del suo libro La bomba umana, l’artificiere Raso conferma indirettamente la sequenza dei fatti descritta dal commissario Vito. Sostiene, infatti, di essere stato prelevato dalla «volante 23» per essere portato in via Caetani. Non poteva quindi essere sul posto alle 11, se la digos era arrivata solo alle 12,15 e Vito aveva chiesto il suo intervento solo successivamente (accusato del reato di calunnia per queste affermazioni, Raso ha patteggiato la condanna in tribunale). Non solo: come dimostrano le immagini (e come riferisce il suo superiore Giovanni Chirchetta), Raso non tocca la Renault ma attende rinforzi. Mentre Chirchetta e il sergente Casertano giunsero sul posto dopo Raso. Nel frattempo, sono ormai le 13,35 circa, il custode di palazzo Antici-Mattei avverte gli impiegati delle voci sulla presenza di una bomba nella Renault, così tutti si precipitano all’uscita per spostare le auto. È ancora il teste D’Ascenzo a riferire con precisione quel che accade: sceso all’ingresso del palazzo nota «che un uomo in borghese, probabilmente un agente di polizia, ha aperto la macchina e dopo aver guardato all’interno è venuto verso di noi dicendo: “È Moro”».
Un funzionario di polizia apre lo sportello della Renault Chi era quel poliziotto? Tutte le immagini di quel giorno mostrano che lo sportello posteriore destro della R4 fu aperto molto prima che fosse forzato dagli artificieri con le cesoie il portellone posteriore. Un rapporto stilato dal commissario Vito consente di fissare con maggiore esattezza l’orario della prima apertura: si tratta del sequestro avvenuto alle ore 13,20 del borsello di pelle nera presente al suo interno e contenente effetti personali di Moro. In una audizione del 2 maggio 2017, davanti alla commissione Moro 2, sarà Elio Cioppa a sostenere di avere aperto lo sportello e aver verificato che nel bagagliaio posteriore, sotto la coperta, c’era il corpo di Moro. Cioppa disse di esser arrivato in via Caetani dopo il commissario Vito con una cinquantina di uomini per predisporre il controllo dell’ordine pubblico nella zona. E le foto scattate in via Caetani prima dell’apertura del portellone posteriore e dell’arrivo delle autorità mostrano accanto alla R4 diverse persone in giacca e cravatta, tra cui si riconosce il tristemente famoso Nicola Ciocia, alias dottor De Tormentis, funzionario dell’Ucigos esperto di waterboarding per sua stessa ammissione.
Scatta il piano Mike Le stesse immagini mostrano che all’arrivo di Cossiga, si può presumere dopo le 13,30, il portellone posteriore non era stato ancora forzato e che il ministro dell’Interno, insieme al capo della Digos Domenico Spinella e al capo della polizia Ferdinando Masone, si sporge sul vetro del lunotto per vedere il corpo di Moro. L’apertura avverrà solo in seguito, quando lo stesso Cossiga, stando agli artificieri, chiederà la bonifica del mezzo. Alle 13,45, come prevedeva il piano Mike, predisposto in precedenza dal ministero dell’Interno in caso di morte dell’ostaggio, venne avvertito il procuratore generale Pietro Pascalino, alle 13,56 il medico legale Silvio Merli e alle 14,02 il perito balistico Antonio Ugolini.
La Renault 4 fu sempre nella mani dei brigatisti Rubata da Bruno Seghetti il primo marzo del 1978 nella stessa zona dove vennero prese gran parte delle vetture impiegate in via Fani, venne affidata alla brigata universitaria che si occupò di cambiarne la targa, contraffare i documenti, lavarla (il proprietario lavorava nei cantieri edili e la Renault era molto sporca) e spostarla periodicamente. Utilizzato per l’azione contro la caserma Talamo dei carabinieri a Roma, il 19 aprile del 1978, fu richiesta da Seghetti pochi giorni prima del 9 maggio, quando le Brigate rosse avevano deciso di concludere il sequestro. La decisione di giustiziare l’ostaggio e le modalità della sua esecuzione vennero prese l’8 maggio in una drammatica riunione della direzione della colonna romana tenutasi nell’appartamento di via Chiabrera 74, dopo le mancate dichiarazioni di apertura promesse da Fanfani attraverso il suo portavoce Bartolomei. Il frontalino della Renault venne notato dalla signora Graziana Ciccotti, condomina della palazzina di via Montalcini 8, all’alba della mattina del 9 maggio quando scese nel garage dell’abitazione per andare al lavoro e incontrò sul posto Anna Laura Braghetti, proprietaria dell’appartamento nel quale Moro fu tenuto prigioniero durante i 55 giorni del sequestro. Dopo l’uccisione dello statista all’interno del box dove era parcheggiata la Renault, il mezzo fu portato da Mario Moretti e Germano Maccari in via Caetani. All’altezza di piazza Monte Savello, a ridosso del ghetto ebraico, furono “scortati” da Bruno Seghetti e Valerio Morucci, che all’interno di una Simca fecero da staffetta armata nella parte più delicata del tragitto fino a via Caetani, dove la sera prima lo stesso Seghetti aveva parcheggiato la sua Renault 6 verde per preservare il posto dove lasciare la Renault 4. Poco dopo il mezzo fu visto dalle testi Antonini e Degli Esposti. Negli ultimi giorni del sequestro i brigatisti non persero mai il controllo dell’ostaggio.
Nell’ultima stagione delle dietrologie sul sequestro Moro un ruolo importante è stato attribuito a nuove testimonianze, o meglio nuovi di ricordi di vecchi testimoni che improvvisamente hanno riacceso la loro memoria sopita per decenni. Ne abbiamo già scritto in una precedente puntata. Oggi affrontiamo la singolare storia del “caffè di Signorile” recentemente tornato alle cronache grazie ad una nota trasmissione televisiva.
«La persona informata sui fatti – ha scritto il giurista Glauco Giostra – non è una semplice res loquens». La rievocazione di un ricordo è inevitabilmente influenzato dal contesto in cui si produce. La memoria non è «una sorta di di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato del passato che il testimone deve soltanto ritrovare […] Il ricordo è materia viva, deteriorabile e plasmabile [..]». Ne abbiamo avuto l’ennesima prova nella puntata di Report del 7 gennaio scorso, dedicata alla scoperta di nuove presunte verità sulle Brigate rosse e il sequestro di Aldo Moro e dove l’ex segretario del partito socialista Claudio Signorile ha sostenuto che Cossiga fu avvisato della morte di Moro molto prima che giungesse la telefonata dei brigatisti. Dichiarazioni che hanno riacceso l’attenzione sui tempi e le modalità del ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana.
Ricordi ad orologeria Da circa un decennio a questa parte l’ex parlamentare socialista sostiene di avere assistito. la mattina del 9 maggio 1978, alla telefonata che avvisò Cossiga della morte di Moro in largo anticipo rispetto alla telefonata ufficiale fatta da Valerio Morucci al professor Tritto, lasciando intendere che a uccidere l’uomo politico non furono i brigatisti, alla fine del lungo sequestro e del rifiuto di trattare da parte del governo e delle forze politiche schierate per la «fermezza», ma forze straniere che ne condizionarono l’esito finale. Volontà superiore a cui i brigatisti dovettero adattarsi, se non addirittura cedere l’ostaggio perché ridotti a semplici figuranti di un gioco più grande di loro. Quelle di Signorile sono dichiarazioni molto tardive rispetto ai fatti e vanno ad arricchire, come abbiamo visto nella precedente puntata (leggi qui), la lista di quei «nuovi testimoni» che pretendono di cambiare con i loro ricordi ad orologeria quello che è stato il corso della storia. Se è vero che il 9 maggio si trovava nell’ufficio di Cossiga per perorare la causa della trattativa in favore della liberazione di Moro, per trent’anni l’orario dell’arrivo nel sua stanza, invitato a «prendere un caffè» dal ministro dell’Interno, e la circostanza della telefonata giunta in anticipo sulla notizia ufficiale, non destò mai il suo interesse tantomeno quello dei suoi interlocutori. Signorile non denunciò mai la strana circostanza, non approfondì la questione, non ne parlò con il suo segretario Bettino Craxi che, come lui, si era impegnato per la trattativa. Sull’Avanti, organo del partito socialista, come in parlamento, mai fu sollevata la questione. Un silenzio davvero singolare soprattutto se si considera la posizione in cui egli venne a trovarsi all’epoca. Signorile, Craxi e i socialisti in generale, si dovettero difendere dalle accuse mosse per aver tentato di aprire un canale di contatto con i rapitori tentando di favorire una soluzione politico-umanitaria del sequestro. Il dibattito pubblico – infatti – in quegli anni verteva attorno alla legittimità della «linea della trattativa», con il suo portato di sospetti e accuse di connivenze mosse dai sostenitori della fermezza che ritenevano quella posizione solo una strumentale manovra per rompere il patto Dc-Pci.
Sotto accusa Sospetti pesanti che Signorile dovette chiarire in più circostanze: davanti al magistrato che conduceva le prime indagini, poi il 13 novembre 1980 difronte alla prima commissione Moro, dove venne incalzato da personaggi del calibro di Violante, Pecchioli e Flamigni nel corso di una lunghissima seduta (38 pagine di verbale). In quella circostanza sotto la pressione delle domande, Signorile fu protagonista di un lapsus che lo portò a confondere l’ora dell’appuntamento con Cossiga, le 11, con quello della telefonata che avvertì il ministro dell’Interno della morte di Moro, cioè un’ora e dieci minuti prima della chiamata delle Br. Nemmeno in quella ghiotta circostanza i suoi accigliati e sospettosi esaminatori ebbero qualcosa da eccepire. E non lo fecero nemmeno negli anni a venire. E ancora qualche tempo dopo davanti alla corte d’assise, nel primo processo Moro, lungamente interrogato dal presidente Santiapichi e poi da agguerrite parti civili, che in realtà erano suoi avversari politici: gli avvocati del Pci Fausto Tarsitano e Giuseppe Zupo (responsabile giustizia Pci). Infine nel 1999, difronte alla commissione Pellegrino che lo obbligò a ritornare sulla vicenda della trattativa. In tutte queste deposizioni mai fu menzionato da Signorile o dai suoi interlocutori il problema dell’orario della telefonata giunta a Cossiga.
Il racconto della trattativa sceneggiato dalla rivista Metropoli
L’intervista ad Alessandro Forlani Signorile corresse l’errore dell’80 in una intervista telefonica (la trovate qui, la versione integrale qui) del 4 maggio 2013 rilasciata al giornalista Rai Alessandro Forlani, durante la presentazione del libro La zona franca, che per la prima volta introduceva sospetti e costruiva una nuovo teorema dietrologico sulla morte di Moro e le modalità della riconsegna del suo corpo. Signorile quel giorno fu molto chiaro: era andato da Cossiga alle 11, invitato per un caffè, la telefonata che avvertiva il ministro dell’Interno del ritrovamento del cadavere era giunta intorno a mezzogiorno. Ricordava tutto ciò grazie ad un riferimento mnemonico preciso: dovette avvertire Craxi che era in viaggio per Grosseto e riuscì a raggiungerlo al telefono quando questi si trovava all’altezza di Civitavecchia. Successivamente ha cambiato versione, l’ora del caffè preso al Viminale ha così cominciato lentamente a scivolare fino all’inizio della mattinata trascinando con sé la telefonata ricevuta da Cossiga. Cosa era successo?
La svolta Le polemiche sulla trattativa e il canale di contatto con i brigatisti si erano esaurite da qualche anno. Nel frattempo il quadro politico era profondamente mutato e i partiti che avevano animato i fronti contrapposti della fermezza e della trattativa erano scomparsi sotto le macerie del muro di Berlino e le inchieste contro la corruzione che misero fine alla prima repubblica. I sopravvissuti si erano rimescolati e ricompattati su una posizione comune: Moro non era morto perché abbandonato dai fautori della linea della fermezza o perché i sostenitori della trattativa si mossero troppo tardi e troppo timidamente, traditi per giunta dal presidente del Senato Fanfani che non fece le dichiarazioni di apertura promesse il 7 maggio attraverso il suo portavoce Bartolomei e ancora meno la mattina del 9, durante la riunione della direzione democristiana in piazza del Gesù, ma perché forze superiori e straniere interferirono sul sequestro. Nel 2014 sull’onda di alcuni scoop che poi si rivelarono delle clamorose fake news, una nuova commissione parlamentare d’inchiesta venne istituita per indagare sui presunti misteri ancora irrisolti, le cosiddette «verità indicibili». Il rinnovato tema del complotto funzionava come ultimo alibi per quel ceto politico residuale scampato a Tangentopoli e che ebbe un ruolo ai tempi del sequestro. E’ in quel preciso momento che Signorile inizia a cambiare versione, sollecitato da una inchiesta di Paolo Cucchiarelli e Manlio Castronuovo, anticipando di molto l’appuntamento con Cossiga e l’arrivo della telefonata che lo informò del ritrovamento del cadavere di Moro.
C’è una figura che da diversi anni a questa parte riaccende l’attenzione pubblica sui cosiddetti «misteri irrisolti» o sulle presunte «nuove verità» che periodicamente riemergono sul sequestro e l’uccisione del leader della Democrazia cristiana Aldo Moro, avvenuto nel lontano 1978. Si tratta di un particolare tipo di fonte che agita da tempo il dibattito storiografico: il testimone. Non c’è qui lo spazio per introdurre la necessaria distinzione tra colui che è stato attore del fatto e il semplice spettatore, il più delle volte di un singolo momento, di una semplice frazione di quella vicenda. Ci interessa ora solo rilevare l’inevitabile carica suggestiva che la parola del testimone contiene, la forza emotiva che il suo racconto trasferisce sui fatti accaduti, poiché il testimone si presume sia colui che ha vissuto il fatto e raccontandolo lo fa rivivere. Gli storici, ma anche i poliziotti come i giudici, sanno bene quanto si debba trattare questo tipo di fonte con estrema cautela, con gli strumenti più sperimentati del mestiere, tanto più se il nuovo testimone appare, come in questo caso, a decenni di distanza dai fatti o se autori di vecchie testimonianze modificano o arricchiscono di improvvisi – e soprattutto sollecitati – ricordi le loro lontane dichiarazioni. Chi lavora con la memoria sa bene che la sincerità del ricordo non è garanzia di veridicità.
Nuovi testimoni e vecchie bugie E’ questa una delle caratteristiche più recenti del «caso Moro». Durante i lavori della commissione parlamentare presieduta dal Giuseppe Fioroni si sono cercati in maniera spasmodica nuovi testimoni, in alcuni casi semplici replicanti di racconti fatti da persone nel frattempo scomparse. Un caso emblematico è rappresentato dalla vicenda delle palazzine di via dei Massimi 91, ritenute secondo alcune teorie complottiste un luogo dove fecero tappa i brigatisti con l’ostaggio (addirittura prima possibile prima prigione di Moro), avvalendosi di complicità di matrice atlantica che in quel condominio avrebbero trovato una loro postazione. In questo caso nuovi testimoni, i figli del portiere dell’immobile, Benedetto e Antonino Macerola, hanno riferito confidenze ricevute dal padre defunto che a sua volta le aveva riprese da un’altra persona, il generale del Genio Renato D’Ascia, condomino in una delle palazzine, anch’essa non più di questo mondo. Voci, tecnicamente dei de relato di secondo grado non verificabili, in quanto le fonti originarie sono scomparse, sufficienti secondo le relazioni della commissione Moro 2 e l’ex magistrato Guido Salvini, estensore di una relazione sul sequestro Moro per conto della commissione antimafia, sezione VII, nella scorsa legislatura, per sostenere che Moro non sarebbe stato condotto in via Montalcini e il commando brigatista non avrebbe raccontato la verità sui suoi reali movimenti dopo l’assalto di via Fani.
Altri neotestimoni, come l’attore Francesco Pannofino e i giornalisti Rai Diego Cimarra e Alessandro Bianchi, hanno provato a modificare la scena di via Fani, dove avvenne il rapimento del presidente della Dc e l’uccisione dei membri della sua scorta, sostenendo che il bar Olivetti, situato all’angolo della scena dell’agguato e dalla cui terrazza esterna partirono all’assalto i membri del commando brigatista, fosse aperto quella mattina. Per Pannofino era in attività ma chiuso quel giorno per riposo settimanale. Cimarra e Bianchi si sono abbandonati invece in dettagliatissime descrizioni dei baristi e clienti presenti all’interno del locale, tra cui uomini in divisa con l’immancabile accento tedesco nonostante l’esercizio commerciale fosse abbandonato da tempo perché fallito, avesse le serrande tirate giù, i dipendenti licenziati, i contratti della luce chiusi e i libri contabili depositati in tribunale di commercio, come hanno sempre dimostrato i rilievi documentali nonché le innumerevoli immagini riprese quella mattina.
Sostenere con tanta ostinazione che quel bar fosse aperto serviva a dimostrare che i brigatisti avevano per l’ennesima volta mentito, coperti da un patto di omertà con quelle autorità politiche e istituzionali anch’esse coinvolte nella eliminazione dello statista democristiano.
Altri ancora, come la signora Cristina Damiani e Luca Moschini, hanno arricchito le loro precedenti dichiarazioni aumentando il numero dei partecipanti all’agguato, aggiungendo nuovi sparatori e percorsi di fuga a piedi (cf. la relazione scritta dall’ex magistrato Guido Salvini per conto della commissione antimafia), che non trovano conferma nelle deposizioni dei numerosi altri testimoni presenti sulla scena. «La persona informata sui fatti – ha scritto recentemente il giurista Glauco Giostra – non è una semplice res loquens». La rievocazione di un ricordo è inevitabilmente influenzato dal contesto in cui si produce. La memoria non è una sorta di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato del passato e che il testimone deve soltanto ritrovare. «Il ricordo è materia viva, deteriorabile e plasmabile [..] Un falso ricordo – conclude Giostra – viene sovente indotto da certe ricostruzioni mediatiche».