Via Fani, «Azzolini parlava di Morucci non di Moroni», è secca la smentita dell’altro ex Br intercettato dalla procura di Torino

Antonio Savino è un ex operaio Fiat e vecchio compagno di militanza di Lauro Azzolini all’interno della colonna Walter Alasia delle Brigate rosse, arrestato anch’egli nella operazione del 1 ottobre 1978 che decapitò la colonna milanese. Quarantacinque anni dopo, la mattina del 17 marzo 2023, era presente in casa di Azzolini quando questi veniva sottoposto a intercettazione da parte della procura di Torino, nell’ambito della nuova inchiesta sulla sparatoria alla cascina Spiotta del 5 giugno 1975 e che ha portato all’apertura di un nuovo processo davanti la corte d’assise di Alessandria. Savino smentisce categoricamente che nel corso della conversazione captata Azzolini si sia mai riferito a persona diversa da Valerio Morucci.

L’intercettazione del 17 marzo 2023
Una informativa del Ros di Torino del 21 marzo 2023 riporta stralci delle conversazioni tra i due, intercettate tramite captatore inoculato nel telefonino di Azzolini. L’attività investigativa e l’intercettazione ambientale realizzata quella mattina è stata dichiarata illegittima dalla corte d’assise nell’ultima udienza dell’11 marzo scorso. I giudici hanno riconosciuto che tutte le sue conversazioni captate dal 14 febbraio al 15 maggio 2023 erano illegali perché avvenute quando ancora il gip non si era pronunciato sulla riapertura delle nuove indagini. Un riconoscimento limitato e tardivo dell’abuso, ma pur sempre significativo poiché ha aperto scorci inquietanti sulle forzature realizzate nel corso dell’indagine. L’intercettazione aveva attirato l’attenzione dei carabinieri perché nel corso del dialogo con Savino, Azzolini lasciava intendere di aver preso parte allo scontro a fuoco del 5 giugno 1975. Ma la ragione per cui l’informativa è stata ripresa su alcuni giornali è un’altra: secondo i carabinieri Azzolini rivelava la presenza in via Fani di un nome nuovo mai implicato nelle indagini sul sequestro Moro.

La crisi di coscienza di Bonisoli
Come scrivono gli stessi estensori dell’informativa, l’audio è pessimo. Le voci sono disturbate dal volume della televisione e spesso giungono deformate oltre al fatto che in alcuni momenti Azzolini sussurra le sue frasi e il suo racconto è infarcito di anacoluti. I due stanno rievocando alcuni episodi della loro passata militanza nella lotta armata. In particolare Azzolini evoca alcune rapine di autofinanziamento condotte dalle Brigate rosse dopo i fatti della Spiotta, in una delle quali ci fu un ferito tra i brigatisti e un’altra dove venne catturata Paola Besuschio, a causa di una incertezza commessa – si racconta sempre nell’audio – da «Franco». Franco sarebbe Franco Bonisoli di cui Azzolini sta accennando le ragioni del tormento interiore che hanno poi suscitato una sua successiva «crisi» di coscienza. Bonisoli si sarebbe recato a casa di Azzolini per confidarsi, siamo al minuto 1,33 dell’audio. Stiamo parlando – come si evince dalla logica del temporale del racconto – di un periodo successivo all’arresto di Besuschio, avvenuto ad Altopascio, una località della Toscana, il 30 settembre 1975, e dell’azione di via Fani, a cui lo stesso Bonisoli aveva partecipato. A tormentare Bonisoli è la morte dell’agente di polizia Raffaele Iozzino, con cui aveva avuto uno scambio a fuoco. Iozzino è l’unico poliziotto della scorta di Moro che è riuscito a rispondere al tiro dei brigatisti prima di essere ucciso.

Morucci, Gallinari e Fiore in via Fani
L’inciso pronunciato immediatamente dopo la frase; «poi dopo viene a casa… eh!», ovvero: «Matteo era così», riferito a Morucci, più volte citato nell’audio, che aveva come nome di battaglia «Matteo», è un’anticipazione di quel che Azzolini dirà poco dopo sul ruolo centrale avuto da Valerio Morucci nell’azione di via Fani. Linguisticamente parlando si tratta di una catafora. Al minuto 1,44 riporta invece le parole di Bonisoli: «dice “ma dopo mi ha tirato ho fatto cosi …(inc.)… quello che la stava scappando ho preso ma quando…”». Frase che fotografa un momento cruciale di quel che avvenne in via Fani: la reazione di Iozzino che esplose dei colpi in direzione di Bonisoli e la replica di quest’ultimo. Circostanza che per altro si dimostra una ulteriore smentita intrinseca delle teorie dietrologiche sul tiratore da destra. Il passaggio che ci interessa avviene al minuto 1,47, quando Azzolini sta ancora parlando del comportamento di Morucci. Il sonoro restituisce un nome, «è stato Moroni… a dire a …(inc.)…», nome che appare per la prima e unica volta in tutta l’intercettazione. La logica del discorso appena avviato e quanto verrà detto poco più avanti fanno intuire che la persona indicata per errore col nome di Moroni era, in realtà, Morucci. Intuibile è il riferimento alla sua testimonianza: «Va bene i compagni…… Gallo… e Fiore a un certo punto si inceppano… si inceppano… non c’avevano le pistole …(parole inc.) le pistole Dio can. Morucci cazzo… che era uno che sapeva usarlo… quando ha visto i compagni a terra ha cominciato a spazzolare anche dalle altre parti». «Gallo» era Prospero Gallinari, «Fiore», Raffaelle Fiore, membro della colonna torinese sceso per sostenere, insieme a Franco Bonisoli, i componenti romani della brigata della «Contro» che organizzarono il sequestro e presero parte all’assalto di via Fani. Azzolini, non c’era quel 16 marzo 1978, questo spiega alcune inesattezze presenti nel suo racconto: tutti i membri del commando avevano la loro pistola personale, sia Gallinari che Bonisoli la utilizzarono come hanno provato le stesse perizie balistiche.

La forzatura interpretativa
«Moroni» non corrisponde ad alcun nome presente nelle Brigate rosse. I carabinieri per risolvere l’enigma si sono abbandonati a una forzatura interpretativa decidendo di attribuirlo a Giorgio Moroni. Una scelta che ha una logica facilmente decifrabile e che nulla c’entra con via Fani. Con Giorgio Moroni i carabinieri di Dalla Chiesa, di cui i Ros sono l’attuale eredità info-investigativa, hanno avuto in passato un grosso contenzioso. Lo scrivono loro stessi in una nota a margine dell’informativa, dove spiegano che «Nel 1978, Moroni, allora militante di Autonomia Operaia, viene perquisito per il sequestro Moro e arrestato con l’accusa di partecipazione a banda armata poiché aveva in casa per la rivista che coordinava (“Nulla da perdere”) il comunicato di un gruppo armato che rivendicava un attentato dinamitardo alla Borsa valori […]». Assolto nel giugno del 1980, intraprende nel 1986 una controinchiesta che lo porta a rintracciare – prosegue la nota – la ragazza che aveva fatto i loro nomi e questa spiega di essere stata obbligata dai carabinieri ad accusarli. Moroni chiede «la revisione e la corte di appello di Genova la concede, il processo di revisione si svolge a Genova, tra il ’92 e il ’93. La revisione viene accolta e il 10 novembre 1994 Giorgio Moroni insieme agli altri viene risarcito per “errore giudiziario”».

Misnaming
L’errore commesso da Azzolini ha un nome preciso, gli studi di neuroscienze lo definiscono «misnaming». Ovvero confondere i nomi delle persone quando si parla. Si tratta di un fenomeno diffuso che non riguarda solo le persone anziane. Avviene soprattutto se c’è una similitudine fonetica o una medesima radice nelle parole, come «mor» nel caso di Morucci-Moroni. Le frasi troncate, a volte biascicate di Azzolini, necessitano di un particolare sforzo di comprensione logica e contestualizzazione storica che gli estensori dell’informativa hanno evitato. L’attore principale che agisce nel racconto è uno: Valerio Morucci. Giorgio Moroni, oltre a non essere mai stato un brigatista, è noto per aver sostenuto all’epoca tesi molto avverse alle Brigate rosse.

Le smentite
Abbiamo chiesto più volte ad Azzolini un chiarimento sulle sue parole. Allora, come oggi, preferisce non replicare pubblicamente e attenersi alla linea difensiva decisa dal suo avvocato, convinto che sia negativo commentare intercettazioni giudiziariamente illegali. Tuttavia se l’intercettazione non può essere utilizzata contro Azzolini nel processo, resta in piedi per i suoi interlocutori e le trascrizioni rimangono intatte nel fascicolo. Una finzione giuridica che non cambia la sostanza del problema e non impedisce di agire nella mente dei giudici. Situazione che vale ancor di più all’esterno dell’aula processuale: sui giornali e i social che l’hanno già ampiamente diffusa e commentata. E se una intercettazione oltre ad essere illegale possiede anche un contenuto infondato appare un crimine non confutarla. Forse è per questo che i gesti, la mimica e il tono della voce con cui Azzolini ci risponde, dicono lo stesso molte cose e si comprende chiaramente cosa pensi della strumentalizzazione che viene fatta delle sue parole. Ma se Azzolini è in qualche modo vincolato dalla sua posizione processuale, il suo interlocutore Antonio Savino smentisce categoricamente chi trova in quella intercettazione una rivelazione che non c’è. La conversazione su via Fani – spiega – è iniziata dopo aver commentato quanto era accaduto il giorno prima, quando: «un gruppo di giovani aveva organizzato eventi nelle campagne del Piemonte sul sequestro Moro, un centinaio di partecipanti che si erano divisi a metà tra guardie e ladri». Savino stigmatizza inoltre che «si voglia a tutti i costi tirare in ballo persone che (come hanno testimoniato anche i pentiti) nulla hanno a che fare con via Fani. Parlo di “Moroni” in guisa di “Morucci”. Purtroppo la scarsa professionalità, il protagonismo, rischiano di coinvolgere innocenti in procedimenti che come minimo risultano dispendiosi per il coinvolto ingiustamente».

Lo strascico giudiziario

La vicenda ha avuto anche un seguito giudiziario. Giorgio Moroni ha citato in giudizio l’autrice dell’articolo apparso sul Fatto quotidiano il 14 marzo del 2024, a giugno si aprirà il processo (qui gli sviluppi della vicenda). Chi si occupa di inchieste giudiziarie sa benissimo che le trascrizioni di intercettazioni vanno prese con molta cautela invece di limitarsi a ricalcare le veline ricevute da mano amica senza gli opportuni approfondimenti. Per altro se la stessa procura di Torino non ha inviato nulla a quella romana, qualche dubbio sulla fondatezza di quel nome deve esserci stato tra gli inquirenti. La presunta rivelazione è stata invece ripresa dall’avvocato Walter Biscotti che il 16 marzo scorso, in occasione del quarantasettesimo anniversario dal rapimento Moro, ha annunciato di voler chiedere alla procura di Roma di effettuare verifiche sul contenuto della intercettazione. L’avvocato Biscotti è stato estromesso dal nuovo processo di Alessandria perché l’associazione vittimaria da lui rappresentata non possedeva i titoli legali per potervi partecipare, poiché costituita solo dopo i fatti oggetto del giudizio. Messo fuori dalla porta principale sta cercando di rientrarvi cavalcando bufale mediatiche.

Rapimento Moro, il vicolo cieco del complottismo 2 parte/fine

Pubblichiamo la seconda parte della intervista concessa alla rivista Utopia21 (l’integrale potete leggerla qui) che dopo aver intervistato, lo scorso febbraio 2025, Dino Greco (qui), in passato segretario generale della Camera del lavoro di Brescia e direttore del quotidiano Liberazione, autore del libro Il bivio, dal golpismo di Stato alle Brigate rosse, come il caso Moro ha cambiato la storia d’Italia, Bordeaux edizioni, Roma 2024, ha deciso di proseguire la sua disamina del «caso Moro» su un altro versante storiografico che mette radicalmente in discussione l’ipostazione complottista proposta da Greco. Gian Marco Martignoni ha sentito Paolo Persichetti, autore del volume La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, apparso per DeriveApprodi nel 2022 e precedentemente con Marco Clementi ed Elisa Santalena di, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017. Chi volesse legegre la prima parte può trovarla qui.

Utopia21, marzo 2025
Intervista di Gian Marco Martignoni a Paolo Persichetti

Un capitolo a sé lo merita il lavoro dell’ex senatore Sergio Flamigni, membro delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, che tra i suoi libri ne ha dedicato uno in particolare a Mario Moretti dal titolo più che eloquente «La sfinge delle Brigate rosse». Nel libro sei molti critico, per usare un eufemismo, verso il suo lavoro: perché?
Flamigni era un grigio funzionario della sezione Affari dello Stato del Pci, il ministero dell’Interno di Botteghe oscure. Privo di qualunque latitudine politica è rimasto ottusamente legato alla vecchia propaganda complottista elaborata dal suo partito a metà degli anni 80 per trovare un alibi al fallimento completo della strategia politica messa in piedi nella seconda metà degli anni 70. Quando Ugo Pecchioli, responsabile di quella struttura, in una delle sue ultime prese di posizione, prima di morire, a metà degli anni 90, affermò che ormai era necessaria un’amnistia che chiudesse la pagina della lotta armata perché quel fenomeno aveva concluso il suo ciclo e non aveva più senso tenere in piedi l’apparato di contrasto ideologico-complottista, Flamigni – come accade spesso alle terze linee – non è stato in grado di riformattare il proprio pensiero e dare un senso più proficuo alla propria vita. Il vecchio apparatčik della disinformazione ha continuato il proprio lavoro di intossicazione elaborando, grazie al monopolio delle fonti all’epoca nelle mani solo degli apparati, della magistratura e delle commissioni d’inchiesta parlamentare con il loro circo Barnum di consulenti, un metodo narrativo che avrebbe fatto rabbrividire persino l’Ovra fascista: ignorare i documenti scomodi, manipolarne altri, inventare menzogne, diffondere calunnie. I suoi libri sono una compilazione di questa tecnica disinformativa che nel tempo rivela anche aspetti divertenti: come la riduzione a poche righe o la scomparsa delle pagine dedicate a ricostruzioni che successivamente si sono dimostrate false. Mai una riflessione autocritica o una presa d’atto delle clamorose bufale diffuse in precedenza. Cito alcuni esempi: Flamigni ignora il verbale del 1994 nel quale il teste Alessandro Marini, quello che racconta della moto Honda, spiegava che il parabrezza del suo motorino si era rotto cadendo a terra nei giorni precedenti il sedici marzo e quindi non era vero che fosse stato distrutto dagli spari dei due fantasmi in motocicletta. Mentre si ostina a cercare lo sparatore da destra, non vede le numerose foto del motorino di Marini, parcheggiato sul marciapiede sinistro di via Fani, col parabrezza tenuto da una vistosa striscia di nastro adesivo. Cita ripetutamente una frase di D’Ambrosio, generale amico del colonnello Guglielmi, per insinuare che questi avesse coordinato l’attacco in via Fani, omettendo l’integrità del verbale d’interrogatorio, acquisito finalmente dalla Commissione Moro 2, che smentisce completamente le sue affermazioni. Per anni confonde il ruolo di un notaio che aveva svolto solo la funzione di sindaco supplente, dunque nemmeno effettivo, nella società immobiliare Gradoli proprietaria di alcuni appartamenti, ma non di quello abitato dai brigatisti, con quello di amministratore della stessa società. Quando glielo hanno spiegato ha cambiato obiettivo prendendo di mira Domenico Catracchia, l’amministratore del civico 96, piccolo imprenditore immobiliare privo di scrupoli che affittava seminterrati a stranieri clandestini. Ossessionato dalla presenza di un quarto uomo in via Montalcini, informazione ricevuta durante i colloqui con due brigatisti dissociati, quando emergerà che la sua identità era quella del brigatista Germano Maccari, e non di un «misterioso» agente segreto, sosterrà che ve n’era per forza un quinto, non delle Br ovviamente. Passa al setaccio tutti i proprietari degli appartamenti situati nelle strade che hanno interessato il sequestro, per denunciare i loro nomi quando si tratta di persone ai suoi occhi sospette, ma dimentica di rivelare che accanto al civico 8 di via Montalcini abitava il senatore Giuseppe D’Alema, padre di Massimo. Calunnia Balzerani e Moretti, sostenendo che sono loro ad aver fatto il nome di Maccari, evitando di citare la confessione della Faranda. E mi fermo qui!

Qual è il Il tuo giudizio sul Memoriale Morucci-Faranda, detto che seppur la loro collaborazione mirava ad ottenere degli sconti di pena e una più agevole collocazione penitenziaria, al contempo «ripudiavano le letture dietrologiche degli eventi».
Parliamo di un Memoriale che raccoglie le deposizioni di Valerio Morucci e Adriana Faranda davanti alla magistratura e a cui i due dissociati, poi divenuti collaboratori, per ottenere l’accesso ai benefici penitenziari aggiunsero i nomi dei partecipanti all’azione di via Fani, prima indicati solo con dei numeri. Secondo Flamigni, poi ripreso dalla Commissione Moro 2, si tratterebbe di un testo che avrebbe suggellato un patto di omertà tra brigatisti e Democrazia cristiana per nascondere, «tombare» secondo l’espressione di Giuseppe Fioroni, la verità indicibile sul sequestro. Si tratta nella realtà di un resoconto che nella parte politica valorizza la loro dissidenza contro la dirigenza brigatista. Non si capisce quale interesse avrebbero avuto gli esponenti delle Br a fare proprio un testo a loro ostile. Non solo, oggi sappiamo che del Memoriale Morucci-Faranda vennero messi al corrente Pecchioli e Cossiga che sulla questione si consultarono. Se anche il Pci era della partita, perché il patto occulto riguarderebbe solo la Dc? Inoltre i fautori di questa tesi non sono in grado di fornire informazioni essenziali sui tempi e i luoghi dell’accordo, oltre che sull’oggetto dello scambio: Morucci e Faranda erano nel carcere per pentiti di Paliano, mentre Moretti e compagni si trovavano sparpagliati nelle prigioni speciali. Inesistenti i rapporti tra loro, segnati dalle precedenti rotture traumatiche (Morucci e Faranda rubarono armi e soldi della Colonna romana) e ostilità per le scelte dissociative e collaborative. Flamigni, consapevole di questo vulnus, si inventa che l’accordo si sarebbe materializzato nei giorni finali del sequestro, così la toppa è peggiore del buco. Il rifiuto della trattativa per liberare Moro si sarebbe materializzato nell’accordo per farlo sopprimere: come, dove, quando? E il vantaggio ricavato? I secoli di carcere ricevuti nelle sentenze? Un abisso logico senza risposta. In un altro volume ho ricostruito la dinamica del sequestro e della via di fuga avvalendomi delle testimonianze degli altri partecipanti che in alcuni punti hanno persino corretto dei dettagli, dovuti ad errori di memoria, presenti nella ricostruzione di Morucci.

Alberto Franceschini dopo la sua cattura, avvenuta a Pinerolo nel 1974, ha detto che successivamente le Br si sono macchiate di numerosi delitti, oltre ad aver giudicato Mario Moretti di essere inadeguato a far parte dell’esecutivo nazionale delle Br. Da dove nasce il dissidio tra Franceschini e Moretti?
La figura del rinnegato è un classico antropologico nella storia dell’umanità. La differenza che lo distingue da colui che ripensa in modo critico il proprio passato, fino anche a ripudiarlo, sta nella attribuzione delle responsabilità, nella collocazione del proprio io all’interno del bilancio esistenziale. Il rinnegato fa l’autocritica degli altri, esime se stesso da ogni colpa e trova nell’altrui comportamento tutte le responsabilità. Punti chiave nella vita di Franceschini sono il momento della sua cattura e le ripetute fallite evasioni. Viene arrestato per caso, non doveva stare con Curcio a Pinerolo dove il generale Dalla Chiesa aveva teso una trappola con l’esca Girotto, eppure attribuisce la responsabilità dell’accaduto a Moretti. Va detto che un ruolo centrale nella costruzione delle leggenda nera su Moretti la gioca Giorgio Semeria. Arrestato una prima volta nel maggio del 72, seguendo lui i carabinieri realizzano la retata contro l’intera colonna milanese. Riarrestato e quasi ucciso da un carabiniere nel marzo del 1976 alla stazione centrale di Milano, grazie all’attività di un confidente, Leonio Bozzato, operaio dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera arruolato nella colonna veneta, Semeria una volta in carcere sostiene che dietro il suo arresto e quelli precedenti di Franceschini e Curcio ci fosse sempre Moretti. Quella di Semeria, chiamato «Fiaschetta» dai suoi compagni, è una ossessione costante con cui martella gli altri prigionieri fino a convincerli, tanto da spingerli a chiedere all’esecutivo esterno di verificare la posizione di Moretti. C’è poco di politico e tanto male di vivere nella costruzione di questa diffidenza che si sfalderà poi nel tempo. Franceschini e Semeria si dissoceranno uscendo dal carcere, mentre Moretti è ancora in esecuzione pena dopo 44 anni di detenzione. Ma veniamo agli argomenti sollevati ex-post da Franceschini dopo essersi dissociato ed essere stato riaccolto a braccia aperte dal vecchio Pci emiliano, Rino Serri in testa, ex segretario della Fgci dalla quale egli stesso proveniva. E’ con questa nuova funzione che inizia la sua collaborazione con Flamigni. Nel corso del sequestro Sossi, dopo aver forzato un posto di blocco, spara colpi di mitra contro una macchina che seguiva, senza accorgersi che al suo interno c’era Mara Cagol. L’episodio dimostra come personalmente fosse già pronto al conflitto a fuoco e ipoteticamente a uccidere nonostante le Br all’epoca fossero ancora lontane da una scelta del genere. E’ tra i militanti che scelgono il passaggio alla clandestinità ed è presente quando nell’estate del 1974 si avvia la discussione interna per creare quella nuova struttura organizzativa che poi caratterizzerà il funzionamento delle Br negli anni successivi. Dal carcere si distinguerà per i continui inviti a elevare il livello di scontro all’esterno e chiedere di organizzare evasioni. Richieste che distoglieranno le colonne esterne dal lavoro politico nei posti di lavoro e nei territori. E quanto i tentativi di evasione falliranno, come quello messo in piedi dalla colonna romana dall’isola dell’Asinara, dopo averci lavorato una intera estate, imputerà il fallimento a una mancata volontà politica radicalizzando sempre più le sue posizioni fino a formulare, dopo un durissimo pestaggio subito a Nuoro, richieste di rappresaglia che mettevano in luce un suo squilibrio mentale, come affondare uno dei traghetti che collegavano la Sardegna al continente. Figura instabile e sempre più carica di risentimento, alla ricerca continua di capri espiatori fece del sospetto un rovello ossessivo fino a sfociare in un delirio paranoico durante la stagione delle torture e dei pestaggi praticati dalle forze di polizia sui militanti appena catturati. Con Semeria decretò la caccia ai «traditori», ovvero a quei militanti ai quali erano state estorte dichiarazioni con l’uso della forza. In un clima di caccia alle streghe, dove le divergenze d’opinione, una diversa linea politica, il mancato allineamento alle tesi del «Mega», soprannome con cui amava farsi chiamare con deferenza nelle carceri speciali, veniva immediatamente tacciata di «resa» al nemico, «tradimento» e «infamità», un piano inclinato che portò lo stesso Semeria a macchiarsi dell’omicidio di Giorgio Soldati. Flamigni non avrebbe potuto scegliersi miglior collaboratore.
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Infine, ha destato una certa sorpresa il giudizio assai tranciante di Dino Greco su Rossana Rossanda, accusata rispetto alla sua intervista a Mario Moretti con Carla Mosca di aver costruito un artefatto, rimanendo affascinata dalla figura tutt’altro che cristallina di Mario Moretti. Cosa pensi di questo perentorio giudizio?
Dino Greco contro Rossana Rossanda? Con tutto il rispetto per il mio ex direttore, abbandonerei qualunque idea di confronto tra i due. Capisco che a un «berlingueriano immaginario», come Greco, bruci il giudizio storico di una intellettuale comunista dello spessore di Rossanda. Dico berlingueriano immaginario perché quando lavoravo a Liberazione ne ho visti circolare diversi tipi: quelli che all’epoca erano ancora in fasce e Berlinguer lo hanno conosciuto attraverso l’iconografia postuma, e quelli che negli anni 70-80 erano su altre posizioni politiche ben più estreme, per non dire extraparlamentari. Si trattava dunque di una singolare fascinazione postuma, una reinvenzione del personaggio che si suddivideva in due categorie: i nostalgici del compromesso storico, raffigurati nel recente film di Segre, e quelli che assolutizzavano la svolta dell’alternativa democratica: il Berlinguer dei cancelli alla Fiat e della questione morale, per intenderci. Greco all’epoca era tra i secondi, ma oggi mi pare sia ritornato sui suoi passi. A differenza di lui, Rossanda non ha realizzato una compilazione selezionata di pubblicazioni dietrologiche ma, come si diceva una volta, ha fatto l’inchiesta. E’ andata ai processi, ha letto le carte, ha fatto verifiche, ha incontrato i mostruosi brigatisti, ci ha discusso, si è confrontata. Ha sentito tante voci, persone e studiosi che la realtà delle fabbriche del Nord o della periferia romana conoscevano davvero. Un percorso lungo, maturato nel tempo modificando i pregiudizi ideologici iniziali che ha poi messo da parte. Una conoscenza che le ha permesso di superare anche il giudizio che espresse nel famoso articolo sull’album di famiglia, dove pur riconoscendo la filiazione delle Brigate rosse con la storia del movimento comunista, le rappresentava erroneamente come epigoni dello zdanovismo cominformista e non parte della nuova sinistra post-68. Trascinata dalla polemica con le posizioni di Botteghe oscure rinfacciava al Pci una paternità che invece, sul piano sociologico, politico e culturale, era tutta dentro la storia di quel che era accaduto a cavallo dei decenni 60-70. Dubito che Greco abbia mai letto un documento primario, una carta processuale. Cita la terza relazione della Moro 2 che riassume i lavori del 2017 (la Moro 2 non ha mai prodotto una relazione conclusiva) ma non credo abbia mai letto le relazioni del Ris sul garage di via Montalcini, le analisi splatter sulle macchie di sangue o la perizia acustica. Avrebbe scoperto che i carabinieri riconoscono la compatibilità del luogo e della dinamica, fino ad aver ricostruito la fattezza originaria del box, oggi modificato e ristretto a seguito di alcuni lavori. Per non parlare della nuova perizia tridimensionale della polizia scientifica che tanto ha mandato fuori di testa Flamigni e i membri più dietrologi della commissione parlamentare. La ricerca e la riflessione storica sono altra cosa dalla difesa di una posizione politica, per giunta smentita dalla storia.

2/fine

Sequestro Moro, il vicolo cieco del complottismo /prima parte

Dopo aver intervistato, lo scorso febbraio 2025, Dino Greco (leggi qui), in passato segretario generale della Camera del lavoro di Brescia e successivamente direttore del quotidiano Liberazione e ora membro della redazione della rivista «Su La Testa», autore del libro Il bivio, dal golpismo di Stato alle Brigate rosse, come il caso Moro ha cambiato la storia d’Italia, Bordeaux edizioni, Roma 2024, la rivista Utopia21 ha deciso di proseguire la sua disamina del «caso Moro» su un altro versante storiografico che mette radicalmente in discussione l’ipostazione complottista proposta da Greco. Gian Marco Martignoni ha sentito Paolo Persichetti, autore del volume La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, apparso per DeriveApprodi nel 2022 e precedentemente con Marco Clementi ed Elisa Santalena di, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017. A causa della lunghezza del testo, pubblichiamo oggi solo la prima parte della intervista, il seguito nei prossimi giorni. Chi volesse già da ora leggerla integralmente può trovarla qui

Utopia21, marzo 2025
Intervista di Gian Marco Martignoni a Paolo Persichetti

Sul rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro esiste una letteratura assai ampia, anche recentemente sono usciti nuovi libri, si pensi a quelli di Stefania Limiti e Dino Greco. Il filone delle pubblicazioni sembra inesauribile.
Lo storico Francesco Maria Biscione, recentemente scomparso, ha curato una bibliografia sulla figura e la vicenda di Aldo Moro. Nell’ultima stesura del marzo 2023 aveva catalogato circa 1100 volumi, una cifra in difetto perché scorrendola mi sono accorto che mancava ancora qualcosa. Se poi a essi aggiungiamo le pellicole cinematografiche realizzate prima della morte dello statista democristiano, come Forza Italia di Roberto Faenza e Todo Modo di Elio Petri, entrambe cadute in disgrazia perché incompatibili con la narrazione costruita dopo il rapimento e la sua scomparsa, o le successive – con l’aggiunta delle serie televisive – come i film di Giuseppe Ferrara e Marco Bellocchio, per citarne solo alcuni, o ancora le rappresentazioni teatrali di Pesce, Timpano, Gifuni, senza soffermarsi sulla sterminata produzione giornalistica, oppure le canzoni autoriali che hanno fatto riferimento alla sua vicenda politica, da Rino Gaetano a Giorgio Gaber, quest’ultima subito censurata, ci rendiamo conto di quanto il rapimento Moro si sia costruito nel tempo come un «caso» a sé stante separato dalla vicenda storica della lotta armata e delle Brigate rosse. Un affaire che deve molto all’industria editoriale arrivata a farne un nuovo genere letterario di tipo spionistico con i suoi lettori appassionati e che produce fenomeni di costume tra i più diversi. Si va dai gruppi social dedicati che affrontano la vicenda come un gioco di società, ispezionando i luoghi e cercando le ex basi brigatiste per poi affannarsi in lambiccate ipotesi complottiste, fino a società di turismo che propongono a sprovveduti clienti tour-fiction con interpretazioni attoriali su luoghi che storicamente nulla c’entrano col sequestro. Qualcosa che ricorda lo sketch di Totò quando cercava di vendere a un ignaro turista la Fontana di Trevi. Il sequestro Moro è divenuto per certi versi un mercato per allocchi dove imperversano personaggi senza scrupoli, millantatori, mitomani e furbastri di ogni genere. Personaggi di una farsa surreale che hanno rimpiazzato i protagonisti tragici di quella storia.

Nel sottotitolo del tuo ultimo libro fai un esplicito riferimento all’affaire Moro.


Certo, la costruzione dell’«affaire», come lo definì Sciascia, è ormai un tema storico che vanta una lunga lista di specialisti e addetti. Un oggetto storiografico separato e rilevante soprattutto per la potenza distorsiva che contiene. Si tratta di un livello parallelo che poco c’entra con quanto è realmente accaduto. Se si omette l’insorgenza sociale degli anni 70, diventa difficile comprendere come sia stato possibile che la mattina del 16 marzo 1978 un gruppo di operai scesi dalle fabbriche del Nord si sia dato appuntamento in via Fani con dei giovani delle periferie romane per tentare di cambiare il corso della storia. La stratificazione delle narrazioni che si è succeduta nei quasi cinquant’anni che ci separano dal sequestro, l’attività delle commissioni parlamentari, soprattutto delle ultime due, la Stragi presieduta da Pellegrino e la Moro presieduta da Fioroni, hanno disseminato fake news opacizzando la comprensione dei fatti. Dal punto di vista delle pubblicazioni, i libri veramente incisivi arrivano a fatica a poche decine. Il filone predominante resta quello dietrologico-complottistico, tra cui si annoverano i due volumi che hai appena citato. Ruminamenti delle vecchie tesi complottiste, quel regno dei misteri che i gruppi parlamentari del Pci misero in forma nel lontano 1984, alla conclusione del primo processo Moro e della prima commissione d’inchiesta parlamentare, e che da allora si trascinano come un disco rigato, nonostante nel frattempo abbiano perso pezzi grazie alla desecretazione dei documenti e al difficile, ma ostinato, lavoro storiografico indipendente. Ignorare le smentite sopravvenute ripetendo goebbelsianamente le stesse menzogne è il segreto di questa tecnica di falsificazione del passato.

Perché nel 2022 hai dato alle stampe il libro «La Polizia della Storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro», che fin dal titolo si contraddistingue per essere decisamente controcorrente rispetto alla piega che il dibattito ha assunto ormai da molto tempo?
Perché nel giugno 2021 ho subìto una pesante incursione della polizia di prevenzione, su mandato della procura di Roma, che si è impossessata del mio archivio digitale, del mio materiale di ricerca storica raccolto in anni di lavoro negli archivi pubblici e nelle interviste ai testimoni. E’ stata la mia risposta a quell’attacco senza precedenti alla libertà di ricerca. Una inaccettabile rappresaglia contro la storiografia indipendente, estranea alle narrazioni di regime. Quando ho avuto in mano le prime carte dell’inchiesta e sono riuscito a decifrarne la logica ho deciso di raccontare tutto, di denunciare quanto accaduto, riprendendo anche il filo del lavoro di ricerca con gli ultimi aggiornamenti sulle nuove conoscenze intervenute sul sequestro Moro e fornendo un resoconto radicalmente critico dell’attività mistificatrice condotta dall’ultima commissione Moro, i cui lavori avevo seguito da vicino.

Prima di proseguire nell’intervista mi sembra opportuno chiederti a che punto è la tua vicenda processuale?
Dopo oltre tre anni di indagine la procura ha chiesto l’archiviazione del fascicolo perché non è riuscita ad individuare alcun reato e perché in ogni caso quelli ipotizzati, parliamo del 2015, erano ormai prescritti. In via teorica l’azione giudiziaria si attiva per individuare i responsabili di reati commessi, dopo una notizia criminis, ovvero quando un fatto-reato esiste, è accertato. A quel punto si va alla ricerca dei responsabili che lo avrebbero commesso. In questo caso c’è stata invece un’azione «preventiva», ci si è mossi per individuare reati non ancora accertati ma solo ipotizzati. Più che un’inchiesta si è trattato di un rastrellamento giudiziario: «vengo a casa tua, sequestro tutto, qualcosa di illecito sicuramente trovo perché tu con il lavoro storico che fai sei ai miei occhi un sospettato permanente». Il risultato è che non hanno trovato nulla che potessero usare penalmente! Hanno certamente aggiornato le loro informazioni, raccolto una quantità di notizie, appunti, arricchito un background di conoscenze. Che poi è il vero lavoro che sta dietro l’attività di qualunque polizia. Una specie di «vita degli altri». Significativo è il fatto che nei rapporti dell’inchiesta il lavoro di ricerca, l’attività storica da me realizzata veniva apparentata ad una sorta di nuova militanza, una specie di «banda armata storiografica…..».
La colpa che mi veniva imputata era quella di fare storia fuori dai canoni ritenuti legittimi. La domanda è: una società dove il ministero dell’Interno si erge ad arbitro del lavoro storico e pretende di decidere cosa si deve scrivere in un libro e chi ha il diritto di scriverlo, che società è? Da qui la polizia della storia.

A fronte di questa incredibile storia come hai fatto a comporre questo libro, stante che materialmente ti è stato impedito di proseguire «nei cantieri di ricerca aperti»?
Mi sono aiutato con il mio blog, Insorgenze.net, dove sono presenti oltre 1200 articoli frutto del mio lavoro di giornalista e di ricercatore. Un vero archivio che ho ripreso in mano aggiornando e incrementando gli interventi presenti anche grazie all’aiuto di amici e altri ricercatori che avevano copia di alcune parti della documentazione che mi era stata sottratta. Insomma ho chiesto aiuto e ho nuovamente recuperato quanto era possibile rintracciare dalle fonti aperte.

Quando analizzi l’arrivo delle Brigate rosse in via Fani il 16 marzo del 1978 ad un certo punto descrivi il posizionamento della 128 bianca, con due «irregolari» della Colonna romana a bordo. Quale era il confine tra militanti «regolari» e militanti «irregolari», e quando la clandestinità ha preso il sopravvento rispetto alle scelte organizzative delle Brigate rosse?
Contrariamente a quel che si crede, le Brigate rosse non nascono come una formazione clandestina. All’inizio operano con modalità semilegali: tutti i loro componenti vivono nelle loro case, hanno famiglia, figli, mogli o mariti, genitori. Vanno a lavorare regolarmente. Solo la loro azione politica di propaganda armata è «clandestina». Una clandestinità molto aleatoria che non garantisce a lungo la sicurezza del gruppo. Presto verranno individuati e pedinati e nel maggio del 1972 l’organizzazione, che all’epoca era prevalentemente incentrata su Milano, viene sgominata. Una retata fa cadere quasi tutte le basi e un bel pezzo della loro rete militante e di sostegno. I pochi scampati si ritrovano in un casolare del Lodigiano, gestito da Piero Bertolazzi, uno dei fondatori del gruppo, dove riflettendo sullo smacco subìto elaborano una innovativa teoria dell’organizzazione che prevedeva la «clandestinità strategica», così la chiamarono. Clandestini allo Stato e ai suoi apparati ma non alle masse, agli operai che erano il loro punto di riferimento, la loro base sociale, l’acqua dove nuotavano e da dove provenivano: le fabbriche. Ovviamente il nuovo modello organizzativo che prevedeva il passaggio alla vita clandestina dei quadri militanti presupponeva anche il rafforzamento della capacità logistiche: l’approvvigionamento di risorse economiche con le rapine di autofinanziamento, la creazione di una rete di basi sicure dove alloggiare i militanti clandestini e creare archivi, depositi e laboratori. La capacità di fornire loro copertura con la realizzazione di documenti contraffatti. Tutto in completa autonomia, senza ricorrere al mondo della malavita che era monitorato dalle forze di polizia e pieno di confidenti. Senza una forte logistica la lotta armata non sarebbe durata una settimana e la logistica è l’indicatore che da prova del radicamento sociale delle Brigate rosse. La logistica si avvale del grado di sviluppo delle forze produttive dell’epoca, del sapere operaio, delle sue elevate capacità tecnologiche e dell’esistenza di un radicato sostegno, appoggio, simpatia che si manifesta con modalità e intensità diverse. Quando si porrà il problema di produrre patenti di guida, per esempio, saranno degli operai delle aziende tessili del Biellese che forniranno la famosa tela rosa sulle quali erano stampate le patenti dell’epoca. Quindi vennero messe in piedi delle tipografie grazie alla presenza di militanti tipografi, così stamparono di tutto: riprodussero ogni tipo di timbro, carta di circolazione, bolli auto e contrassegni delle assicurazioni. Altri operai fornirono la plastica per fabbricare targhe, venne inventato un termoaspiratore che grazie ad un calco riproduceva le targhe. Tornitori e fabbri si occupavano di riparare armi e costruire silenziatori artigianali, altoparlanti…. Poi c’erano anche medici e infermieri degli ospedali che fornivano la necessaria assistenza. Dopo gli arresti del 1972 viene gradualmente elaborata una teoria dell’organizzazione assolutamente innovativa e senza precedenti rispetto alle altre esperienze guerrigliere passate e contemporanee. Un modello che si costruisce sperimentalmente sulla base dell’esperienza diretta e che troverà definitiva formalizzazione nel novembre 1975. Le forze «regolari» sono quadri dell’organizzazione che entrano in clandestinità, supportati dall’apparato logistico che ho descritto. Attenzione a non confondere i latitanti, ricercati dalle forze di polizia, con i regolari. Entrambi sono clandestini ma i primi per necessità, i secondi per scelta. In origine gran parte dei regolari non sono conosciuti dalle forze di polizia, quindi non sono latitanti. Lo diverranno col tempo, una volta identificati. Tra i latitanti vi possono essere anche degli «irregolari», ovvero militanti dell’organizzazione che conducevano vita legale, spesso nelle brigate territoriali o nei posti di lavoro. I due irregolari cui fai riferimento sono Alvaro Loiacono, che infatti indossa un «mephisto» con cui travisa il volto perché già fotosegnalato dalle forze di polizia, e Alessio Casimirri. Nella squadra che opera la mattina del 16 marzo c’è un regolare che all’epoca non era ancora completamente clandestino, Bruno Seghetti. Viveva in un monolocale dell’organizzazione situato in Borgo Vittorio. Per questa ragione dopo la retata di inizio aprile che le forze di polizia condurranno a Roma negli ambienti dell’autonomia, Seghetti che ufficialmente era domiciliato a casa dei genitori a Centocelle, dove la polizia andò a cercarlo, si presentò in commissariato per non destare sospetti. In questo modo dovendo dare spiegazioni sulla sua assenza bruciò la base di Borgo Vittorio che venne subito smantellata.

Nel tuo libro c’è un capitolo che riprende una intervista a Giuliano Ferrara, a quel tempo membro della segreteria torinese del Pci e responsabile delle fabbriche. Perché le parole di Ferrara sono così importanti?
Perché per la prima volta un importante dirigente del Pci racconta le tecniche che quel partito impiegò per contrastare le Brigate rosse, il loro «principale antagonista a sinistra», come disse Berlinguer in una intervista apparsa su Repubblica nell’aprile del 1978. Emerge così la catena di trasmissione che lega la procura sabauda e la federazione comunista torinese, con Caselli (il magistrato che ha arrestato più operai nella storia d’Italia), e con lo stesso Violante che nel 1978 era nell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia per creare le basi della svolta emergenzialista con l’introduzione dei principi di trattamento differenziato: carceri e legislazione speciale. I due magistrati tenevano riunioni in federazione, concertando le strategie di contrasto alla lotta armata con i dirigenti del partito comunista locale mentre il partito, quando emersero difficoltà nella composizione della giuria popolare, filtrò diversi giurati. Una interferenza politica nel processo non certo in linea con i dettami costituzionali, l’autonomia della magistratura e il codice di procedura penale. Una testimonianza, quella di Ferrara, assolutamente rilevante sul piano storico che non trovò spazio nel giornale dove lavoravo all’epoca. L’allora direttore Dino Greco si rifiutò di pubblicarla perché «non in linea con la verità politica» che a suo avviso Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, doveva preservare. Una verità politica, ovvero una menzogna storica, costruita negando quanto era avvenuto nella realtà. La stessa «verità politica» che senza battere ciglio Greco ripropone nel libro che ha dedicato alla ricostruzione della storia della Brigate rosse e del sequestro Moro.

Cosa vuoi dire quando evidenzi che «attorno alle parole di Moro si è combattuta e tuttora si combatte una battaglia importante, una battaglia politica»?
Nel corso della prigionia Moro fu descritto dall’ampio schieramento politico e giornalistico che sosteneva la linea della fermezza (Dc, Pci, Repubblica di Scalfari) come una vittima della sindrome di Stoccolma, un politico privo di senso dello Stato, autore di lettere che non erano moralmente e materialmente ascrivibili alla sua persona. In un precedente volume ho pubblicato ampi stralci dei verbali delle riunioni della Direzione del Pci, nei quali oltre a denunciare l’uso di violenza psichica e preparati chimici per far collaborare l’ostaggio, si esprimevano giudizi pesantissimi nei confronti del prigioniero. Oggi sappiamo che si trattava di una versione di comodo, elaborata in quei giorni nelle stanze del Viminale grazie all’opera del professor Franco Ferracuti e del suo assistente Francesco Bruno, che suggerì di ritenere pubblicamente Moro un ostaggio sotto influenza dei suoi rapitori per delegittimare le proposte di trattativa e scambio di prigionieri elaborate in via Montalcini. Si trattò di una cinica operazione di disinformazione, un’azione di controguerriglia psicologica che governo, forze politiche e grande stampa accolsero e utilizzarono. Fu un assassinio anticipato, prim’ancora del suo corpo vennero fucilati dalle forze dell’emergenza la sua coscienza e il suo pensiero politico. Non a caso Moro, perfettamente consapevole della scelta fatta dal suo partito e dal Pci, scrisse: «il mio sangue ricadrà su di voi». Soltanto nel 2017, trentanove anni dopo la morte, il memoriale difensivo e le lettere scritte in via Montalcini sono state inserite nell’opera omnia edita dalla Presidenza della Repubblica, riconoscendone appieno, seppur con un grave ritardo, l’autenticità e l’importanza storica, politica ed etica. Ormai nessuno ha il più il coraggio di mettere in discussione l’integrità morotea di quegli scritti. Un recente lavoro di analisi filologica condotto da Michele Di Sivo ha definitivamente sepolto ogni disputa, relegando nella pattumiera della storia tutti quelli che hanno provato ad argomentare sulla inautenticità. Ma per le forze politiche, gli intellettuali e i giornali che sostennero l’inautenticità delle parole di Moro restava il problema di trovare una via di uscita per giustificare la scelta fatta e liberarsi della responsabilità di aver trovato politicamente più conveniente la sua morte. E’ nata così la dietrologia, l’affannosa ricerca di responsabili di sostituzione, di una narrazione che capovolgesse la condotta tenuta nei 55 giorni del sequestro attribuendo ad altri la mancata liberazione dell’ostaggio e l’esito nefasto del sequestro.

1/continua

Sequestro Moro, dopo 47 anni continua ancora la caccia ai fantasmi

Pochi sanno che per il sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro e dei cinque uomini della scorta sono state condannate 27 persone. La martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato questo dato. Il sistema giudiziario ha concluso ben 5 inchieste e condotto a sentenza definitiva 4 processi. Oggi sappiamo, grazie alla critica storica, che solo 16 di queste 27 persone erano realmente coinvolte, a vario titolo, nel sequestro. Una fu assolta, perché all’epoca dei giudizi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma venne comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Tutte le altre, ben 11 persone, non hanno partecipato né sapevano del sequestro. Due di loro addirittura non hanno mai messo piede a Roma. Il grosso delle condanne giunse nel primo processo Moro che riuniva le inchieste «Moro uno e bis». In Corte d’assise, il 24 gennaio 1983, il presidente Severino Santiapichi tra i 32 ergastoli pronunciati comminò 23 condanne per il coinvolgimento diretto nel rapimento Moro. Sanzioni confermate dalla Cassazione il 14 novembre 1985. Il 12 ottobre 1988 si concluse il secondo maxiprocesso alla colonna romana, denominato «Moro ter», con 153 condanne complessive, per un totale di 26 ergastoli, 1800 anni di reclusione e 20 assoluzioni. Il giudizio riguardava le azioni realizzate dal 1977 al 1982. Fu in questa circostanza che venne inflitta la ventiquattresima condanna per la partecipazione al sequestro, pronunciata contro Alessio Casimirri: sanzione confermata in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 1993. Le ultime tre condanne furono attribuite nel «Moro quater» (dicembre 1994, confermata dalla Cassazione nel 1997), dove vennero affrontate alcune vicende minori stralciate dal «Moro ter» e la partecipazione di Alvaro Loiacono all’azione di via Fani, e nel «Moro quinques», il cui iter si concluse nel 1999 con la condanna di Germano Maccari, che aveva gestito la prigione di Moro, e Raimondo Etro che aveva partecipato alle verifiche iniziali sulle abitudini del leader democristiano.Tra i 15 condannati che ebbero un ruolo nella vicenda – accertato anche storicamente – c’erano i 4 membri dell’Esecutivo nazionale che aveva gestito politicamente l’intera operazione: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto; i primi due presenti in via Fani il 16 marzo. Furono poi condannati i membri dell’intero Esecutivo della colonna romana e la brigata che si occupava di colpire i settori della cosiddetta «controrivoluzione» (apparati dello Stato, obiettivi economici e politico-istituzionali): Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, tutti presenti in via Fani. Gallinari era anche nella base di via Montalcini. Adriana Faranda, che aveva preso parte alla fase organizzativa e il già citato Raimono Etro, che dopo un coinvolgimento iniziale venne estromesso. C’erano poi Raffaele Fiore, membro del Fronte logistico nazionale, sceso da Torino a dar man forte, Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono, due irregolari (non clandestini) che parteciparono all’azione con un ruolo di copertura e Anna Laura Braghetti, prestanome dell’appartamento di via Montalcini. Era presente anche Rita Algranati, la ragazza col mazzo di fiori che si allontanò appena avvistato il convoglio di Moro e sfuggì alla condanna per il ruolo defilato avuto nell’azione.Tra gli 11 che non parteciparono al sequestro, ma furono comunque condannati, c’erano i membri della brigata universitaria: Antonio Savasta, Caterina Piunti, Emilia Libèra, Massimo Cianfanelli e Teodoro Spadaccini. I cinque avevano partecipato alla prima «inchiesta perlustrativa» condotta all’interno dell’università dove Moro insegnava. Appena i dirigenti della colonna si resero conto che non era pensabile agire all’interno dell’ateneo, i membri della brigata furono estromessi dal seguito della vicenda. La preparazione del sequestro subì ulteriori passaggi prima di prendere forma e divenire esecutiva. In altri processi la partecipazione all‘attività informativa su potenziali obiettivi, quando non era direttamente collegata alla fase esecutiva, veniva ritenuta un’attività che comprovava responsabilità organizzative all’interno del reato associativo, nel processo Moro venne invece ritenuta un forma di complicità morale nel sequestro. Furono condannati anche Enrico Triaca, Gabriella Mariani e Antonio Marini, membri della brigata che si occupava della propaganda e che gestiva la tipografia di via Pio Foà e la base di via Palombini, dove era stata battuta a macchina e stampata la risoluzione strategica del febbraio 1978. Tutti e tre all’oscuro del progetto di sequestro. Furono condannati anche due membri della brigata logistica della capitale, Francesco Piccioni e Giulio Cacciotti: il primo aveva preso parte, nel mese di aprile 1978, a un’azione dimostrativa contro la caserma Talamo da dove era fuggito insieme agli altri tre suoi compagni, con la Renault 4 rosso amaranto che il 9 maggio venne ritrovata in via Caetani con il cadavere di Moro nel bagagliaio. Gli ultimi due condannati furono Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri della colonna torinese mai scesi a Roma ma coinvolti – secondo le sentenze – perché avevano funzioni apicali in strutture nazionali delle Br, come il Fronte delle controrivoluzione.
Tra i 27 condannati, 25 furono ritenuti colpevoli anche del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – da me ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini. Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura sono attualmente aperti nuovi filoni d’indagine, ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver condannato 11 persone estranee al sequestro, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

Anche le democrazie torturano

«In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo
nelle aule di giustizia e non negli stadi»

Sandro Pertini, Presidente della Repubblica 1982

Nel maggio 1978 la nazionale di calcio italiana era in Argentina dove stava completando la preparazione in vista del campionato del mondo che sarebbe cominciato il mese successivo, vinto alla fine dai padroni di casa. Due anni prima, nel marzo 1976, un golpe fascista aveva portato al potere una giunta militare ma nonostante ciò i mondiali di calcio si tennero lo stesso. Furono una bella vetrina per i golpisti mentre i militanti di sinistra sparivano, desaparecidos; prima torturati nelle caserme o nelle scuole militari, poi gettati dagli aerei nell’Oceano durante i viaggi della morte, attaccati a delle travi di ferro che li trascinavano giù negli abissi. Intanto i neonati delle militanti uccise erano rapiti e adottati dalle famiglie degli ufficiali del regime dittatoriale.
Nel resto dell’America Latina imperversava il piano Condor orchestrato dalla Cia per dare sostegno alle dittature militari che spuntavano un po’ ovunque nella parte di continente che gli Stati Uniti consideravano il cortile di casa. Cinque anni prima, l’11 settembre del 1973, era stata la volta del golpe fascio-liberale in Cile, dove gli stadi si erano trasformati in lager.
In Italia l’opposizione sfilava solo nelle strade. In parlamento da un paio di anni si era ridotta a frazioni centesimali di punto a causa di un fenomeno politico che gli studiosi avevano ribattezzato col termine «consociativismo»: ovvero la propensione a costruire larghe alleanze trasversali e trasformiste che annullano gli opposti e mettono in soffitta alternanze e alternative. Il 90% delle leggi erano approvate con voto unanime nelle commissioni senza passare per le aule parlamentari. Il consociativismo di quel periodo aveva un nome ben preciso: «compromesso storico». Necessità ineludibile, secondo il segretario del Pci dell’epoca Enrico Berlinguer, per scongiurare il rischio di derive golpiste anche in Italia. 
Dopo un primo «governo della non sfiducia», in carica tra il 1976-77, mentre la Cgil imprimeva con il congresso dell’Eur una svolta fortemente moderata favorevole politica dei sacrifici e il Pci, sempre con Berlinguer, assumeva l’austerità come nuovo orizzonte politico, improntata ad una visione monacale e moralista dell’impegno politico e del ruolo che le classi lavoratrici dovevano svolgere nella società per dare prova della loro vocazione a dirigere il Paese, nel marzo 1978, il giorno stesso del rapimento Moro, nasceva il «governo di solidarietà nazionale», col voto favorevole di maggioranza e opposizione. Oltre al calcio e alla folta schiera di oriundi cosa poteva mai avvicinare una strana democrazia senza alternanza, come quella italiana, ad una dittatura latinoamericana come quella argentina? La risposta sta in una parola sola: la tortura.
Anche la repubblica italiana torturava gli oppositori, definiti e trattati come terroristi. In quei giorni del maggio 1978 veniva arrestato e poi torturato Enrico Triaca, tipografo della colonna romana delle Brigate rosse. Non era la prima volta che accadeva e non sarebbe stata l’ultima. Nel film documentario realizzato da Stefano Pasetto, Il Tipografo, Enrico Triaca racconta la propria vicenda, un agente dei Nocs (Nucleo operativo centrale di sicurezza), Danilo Amore, testimonia l’esistenza di quelle sevizie, il dottor Massimo Germani spiega gli effetti devastanti che la tortura procura sulla psiche di chi la subisce, Paolo Persichetti ricostruisce il quadro storico all’interno del quale le istituzioni italiane diedero il via libera agli interrogatori «non ordossi» degli arrestati.

Per chi vuole approfondire:

«Comportamenti senza rilevanza penale», il pm Albamonte chiede l’archiviazione dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Persichetti

Millecentottantasei giorni dopo la lunga perquisizione (era I’8 giugno 2021) condotta nella mia abitazione e conclusasi con il sequestro integrale del mio archivio raccolto in anni di ricerca storica sugli anni 70 e le vicende della lotta armata, di tutti i miei strumenti di lavoro, dell’intera documentazione digitale presente in casa e negli storage online, computer e telefono nonché l’archivio familiare, con materiali di mia moglie e medico-scolastici dei miei figli, è arrivata dagli uffici della procura la richiesta di archiviazione firmata lo scorso 13 settembre dal sostituto procuratore della repubblica Eugenio Albamonte.

Comportamenti privi di rilevanza penale
Il pm che ha condotto l’indagine avviata dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione nel 2019, scrive che «non è possibile qualificare penalmente la condotta del Persichetti», in relazione al reato di violazione del segreto d’ufficio (326 cp) e che «tanto meno si può ritenere probabile» in base agli elementi raccolti «l’esito positivo di un eventuale giudizio».
Quanto invece all’ipotizzato favoreggiamento (378 cp), Albamonte lascia intendere che molto più semplicemente il reato non sussiste poiché «la natura delle informazioni» (alcune pagine della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 del dicembre 2015), che l’8 dicembre 2015 avevo inviato ad Alvaro Baragiola Loiacono, ex brigatista coinvolto nel sequestro Moro, riparato in Svizzera dove ha acquisito la cittadinanza e da questi trasferite a una altro ex, Alessio Casimirri, anch’egli da decenni riparato in Nicaragua, «non appare avere rilievo sulle rispettive responsabilità e non comporta ulteriori incriminazioni rispetto a quelle già comprovate». Detta in modo più chiaro, quelle informazioni erano neutre, prive di rilevanza penale, per altro rese pubbliche appena 48 ore dopo dalla stessa commissione.

Reati prescritti


Il pm conclude la sua richiesta sottolineando che «il reato ipotizzato [favoreggiamento], e altri eventualmente configurabili (violazione di segreto d’ufficio e ricettazione (648 cp) sarebbero stati commessi nel 2015 e quindi prescritti o prossimi alla prescrizione».
Nella richiesta di archiviazione non viene citata una quarta imputazione: l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp) che pure era stata utilizzata nel decreto di perquisizione dell’8 giugno 2021 e firmata dallo stesso sostituto Albamonte e dall’allora procuratore capo Prestipino (incarico poi dichiarato illegittimo dal Tar del Lazio e dal Consiglio di Stato – leggi qui). Capo d’imputazione passe-partout, strumento perfetto per implementare la scenografia investigativa e avvalersi di strumenti di indagine altamente invasivi. A dire il vero l’ipotesi d’accusa associativa non aveva retto alla prima verifica: bocciata dal tribunale del riesame già nel luglio 2021, perché priva delle necessarie condotte di reato, e successivamente lasciata cadere dallo stesso pm. La procura, infatti, si era limitata a enunciare le accuse senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero materializzate. Come se non bastasse, nella indagine aveva fatto capolino anche una quinta imputazione suggerita dallo stesso Tribunale del riesame che al posto del «favoreggiamento», aveva proposto – senza successo – la «rivelazione di notizia di cui sia stata vietata la divulgazione» (262 cp). Cinque capi d’imputazione per una inchiesta che alla fine si era trasformata in una caccia al tesoro alla affannata ricerca del reato che non c’era.

Le ragioni dell’inchiesta
Se il mio comportamento era privo di rilevanza penale, in sostanza non violava la legge, allora per quale ragione la polizia di prevenzione e la procura di Roma hanno portato avanti con tanta ostinazione una simile inchiesta ricorrendo a intercettazioni telematiche e telefoniche, rogatorie internazionali che hanno coinvolto addirittura l’Fbi americana, fino a perquisire la mia abitazione per una intera giornata e svaligiare il mio archivio, strumento fondamentale del mio lavoro di ricerca storica?

Bisognerà attendere il deposito integrale del fascicolo presso l’ufficio del gip per trovare qualche risposta in più. Per ora ci dobbiamo accontentare delle cinque pagine che compongono la richiesta di archiviazione nelle quali il pm Albamonte ricostruisce seppur sinteticamente i passaggi salienti dell’indagine arrampicandosi come può sugli specchi nel tentativo di giustificarne la legittimità. Scopriamo che tutto sarebbe iniziato dopo una rogatoria internazionale promossa dalla procura generale nei confronti di Alessio Casimirri che innesca una indagine del Federal Bureau of investigation degli Stati uniti. Nel marzo 2020 l’Fbi americana fa pervenire alla Direzione centrale della polizia di prevenzione la corrispondenza e-mail intercettata all’ex brigatista: «emergevano – scrive Albamonte – numerosi scambi tra Casimirri e Loiacono». L’attenzione dei funzionari di polizia si concentrava su una mail dell’8 dicembre 2015 che conteneva in allegato alcune fotografie in formato jpeg della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 che Loiacono inviava a Casimirri dopo averle ricevute da me. Bozza che due giorni dopo verrà resa pubblica, senza variazioni, dalla stessa commissione parlamentare.
Le e-mail avevano un contenuto inequivocabile, il contesto era molto chiaro: stavo interloquendo con una fonte orale testimone diretta dei fatti oggetto del mio studio nell’ambito dei lavori preparatori che poi sfociarono nel libro pubblicato nel 2017 con due altri autori, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi editore. Quelle poche pagine le avevo inviate anche ad altri testimoni diretti del sequestro Moro, sempre nell’ambito delle ricerche e dell’attività preparatoria del volume. Circostanza perfettamente nota ai funzionari della polizia di prevenzione che dall’Fbi avevano ricevuto altre mail nelle quali erano presenti alcune pagine delle bozze preparatorie di un capitolo del futuro volume dedicate alla ricostruzione dei fatti di via Fani.
Quando nel 2020 gli inquirenti leggono le mail attenzionate conoscono da ben tre anni il libro. Per questa ragione si dilungano nei loro rapporti depositati nel fascicolo in disquisizioni e raffronti tra il contenuto degli scambi telematici e quanto riportato in alcuni suoi capitoli. Ciò dimostra ulteriormente che gli inquirenti avevano ben chiaro testo e contesto di quei messaggi. Tuttavia l’iniziale e comprensibile attività di intelligence condotta per cercare di capire se in quegli scambi fossero contenute delle rivelazioni penalmente rilevanti che potevano aggiungere novità (la presenza di altre persone non ancora identificate), rispetto alla verità accertata giudiziariamente nella vicenda del sequestro Moro, muta improvvisamente. Una volta accertato che quegli scambi tra i due ex brigatisti, ritenuti «genuini» dagli stessi inquirenti, non cambiavano la verità acquisita nei processi, l’indirizzo dell’inchiesta muta improvvisamente rotta.

Cosa era successo?
L’ipotesi della violazione del segreto d’ufficio aveva perso ulteriore consistenza dopo la deposizione, nel gennaio 2021, dell’ex presidente della commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che aveva chiarito come la «riservatezza» delle bozze (per altro inesistente nel regolamento interno della commissione) era venuta meno al momento della sua pubblicazione, ovvero 48 ore dopo. In quel breve lasso di tempo nessuna «concreta offensività» era emersa – come sottolinea lo stesso Albamonte nella richiesta di archiviazione. Oltretutto lo stesso Fioroni aveva lamentato le continue violazioni della riservatezza e del segreto da parte dei membri della commissione, rilevando come: «elaborati dei consulenti fossero dati in lettura a singoli deputati prima di essere versati alla Commissione, cosa che il Presidente ha più volte stigmatizzato in sede di Ufficio di presidenza. Queste prassi non incidono tanto sul piano formale (perché prima del versamento i documenti, specie se sono elaborati dei consulenti, sono considerati alla stregua di bozze e dal punto di vista della Commissione sono inesistenti), quanto sul piano sostanziale, in quanto potrebbero alimentare flussi di informazioni indebite verso terzi».
Nei suoi tre anni di attività la commissione si era mostrata un vero colabrodo, in almeno sette circostanze erano emerse violazioni del segreto e della riservatezza degli atti, interrogatori e documenti da parte di suoi membri: commissari o consulenti (leggi qui). Circostanze che non hanno mai attirato l’interesse della procura a riprova che non era l’ipotizzata violazione del segreto d’ufficio il vero tema dell’indagine.

La velenosa insinuazione
Durante la sua deposizione Fioroni elabora un «movente» che armerà la polizia di prevenzione e la procura contro il mio lavoro e il mio archivio: secondo l’ex presidente della Moro 2 la commissione nel corso della sua attività avrebbe raggiunto verità indicibili, in particolare nella vicenda di via Licino Calvo e via dei Massimi (ipotesi dietrologiche, in realtà, già elaborate dai primi anni 80 in precedenti commissioni parlamentari e numerose pubblicazioni e che non hanno mai trovato conferme), per questo – a suo dire – ci sarebbe stata un’attività di intelligence per carpire in anticipo queste informazioni e allertare presunti colpevoli non ancora identificati. Si realizza così il cortocircuito tra tesi complottiste e azione investigativa. Con un intento alla volta conoscitivo e punitivo gli inquirenti prendono di mira il mio archivio convinti di potervi scovare quelle verità tenute nascoste che nella mia attività di ricerca avrei potuto raccogliere dalle confidenze degli ex brigatisti. Da qui l’accusa di favoreggiamento e l’iniziale contestazione dell’associazione sovversiva. Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti!

Il baratto della verità
Nella stessa deposizione Fioroni ammise di aver tentato «anche dei contatti informali con il Loiacono tramite alcuni componenti della Commissione». Durante la sua audizione l’allora ministro degli esteri Gentiloni aveva pronunciato una lunga serie di inesattezze sulla complessa posizione giuridica di Loiacono, processato e condannato in Svizzera per alcuni episodi di lotta armata avvenuti in Italia. Condanna scontata completamente ma che l’autorità giudiziaria italiana non ha mai voluto riconoscere in barba al ne bis in idem. Infastidito dalle parole del ministro, Loiacono aveva inviato una rettifica con tanto di documentazione allegata. Fioroni, convinto che dietro quel gesto vi fosse una inconscia volontà di testimoniare, iniziò un lungo corteggiamento per il tramite di un commissario che era in contatto con me. Nelle settimane che precedettero la discussione della relazione del 2015 mi trovai così al centro di un flusso di messaggi tra le parti. Ovviamente non se ne fece nulla a riprova del fatto che Fioroni era un pessimo psicologo.

Qualche tempo dopo io e un’altra persona venimmo convocati in una sede istituzionale per sentirci esporre un messaggio proveniente sempre dallo stesso presidente della commissione Moro 2: ovvero una proposta di baratto tra l’apertura dell’attività d’indagine parlamentare anche sulle torture praticate nel maggio 1978 contro Enrico Triaca e quelle successive dell’82 (il 21 gennaio 2016 era stata depositata in commissione una dettagliata richiesta di audizione di undici testimoni sul tema delle torture) in cambio dell’accettazione da parte di alcuni ex brigatisti, mai pentiti né dissociati coinvolti nel caso Moro, di farsi audire a san Macuto. L’intera vicenda – ci venne detto con tono austero – sarebbe stata monitorata dalla stessa presidenza della Repubblica. Rispondemmo che indagare sulle torture faceva parte delle competenze istituzionali della commissione non sottoponili ad alcuno scambio. Quanto alla convocazione degli ex brigatisti, Fioroni avrebbe potuto chiamarli direttamente o scrivere loro spiegando le sue intenzioni. Infine sul presunto interessamento del Quirinale, dichiarammo che avremmo certamente apprezzato un suo intervento pubblico sul tema.
La cosa allora sembrò finire lì ma quando mi portarono via l’archivio compresi che forse non era proprio andata così.

Un grave precedente
Il fallimento clamoroso di questa inchiesta non deve tuttavia distogliere dalla sua natura pretestuosa e dal rischioso precedente che rappresenta per la libertà della ricerca storica. Il sequestro dei materiali di studio di un ricercatore, l’attacco diretto alla ricerca storica, l’intromissione indebita del ministero dell’Interno e della magistratura nel lavoro storiografico, la pretesa di stabilire ciò che uno studioso può scrivere in un libro, il tentativo di recintare col filo spinato gli anni 70, un periodo ancora caldo nonostante il cinquantennio trascorso, rappresenta una inaccettabile invasione di campo.
Un episodio che è stato denunciato purtroppo solo da un gruppo di studiosi e addetti ai lavori (leggi qui) ma che ha visto la reazione pavida e indifferente del grosso dell’accademia, convinta forse che in fondo la questione restasse confinata solo alla mia persona per il mio passato militante che come tale cristallizza la vita intera, congela ogni percorso, toglie qualsiasi futuro.
Eppure tutti quelli che hanno girato la testa dovrebbero ricordare che chi sequestra il passato prende in ostaggio anche il futuro, ogni futuro persino il loro ammesso che ne abbiano mai immaginato uno.

La decisione finale spetta al Gip

Spetta ora al gip Valerio Savio pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione. Lo stesso gip che già in passato aveva anticipato l’esito dell’indagine sottolineando come mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria» e non si capisse quale fosse la condotta illecita contestata che – scriveva – «ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai». Il giudice dovrà decidere anche sulla sorte della copia forense di tutto il materiale digitale sequestrato e tuttora non si capisce bene se nelle mani della procura o della stessa polizia di prevenzione.

Bertulazzi era in carcere nel 1978 ma per estradarlo lo accusano di aver partecipato al sequestro Moro

Leonardo Bertulazzi, l’ex brigatista a cui nei giorni scorsi il governo argentino sotto la guida del nuovo presidente di estrema destra Javier Milei ha revocato l’asilo politico, concesso nel 2004 dalla commissione nazionale per i rifugiati, è stato accusato di aver avuto un ruolo nella «logistica del rapimento Moro» e di aver avuto una funzione di «alto rango all’interno dell’organizzazione», nonostante nel 1978 fosse in carcere da almeno un anno. E’ quanto ha scritto il ministero della sicurezza argentino nel suo comunicato ufficiale, imbeccato dai vertici della Direzione centrale della polizia di prevenzione e dagli altri uffici di polizia che hanno coordinato questa nuova operazione di fine estate. Una gigantesca bufala confezionata per impressionare l’opinione pubblica e la magistratura argentina e rafforzare l’inconsistenza giuridica della loro bravata, gonfiando a dismisura il ruolo e la biografia politica di Bertulazzi all’interno delle Brigate rosse di fine anni Settanta. 


Il falso sillogismo
E’ noto che la base di via Montalcini 8, a Roma, nella quale fu custodito Moro durante i 55 giorni del sequestro, venne acquistata da Laura Braghetti (e per questo condannata all’ergastolo) con una parte della somma del sequestro Costa. Ergo, siccome Bertulazzi è stato condannato a 15 anni di carcere per complicità – del tutto marginali – nel sequestro dell’armatore genovese, se ne deve concludere che lo stesso ha acquistato per conto delle Brigate rosse quella base e quindi ha avuto un ruolo nel sequestro. Più o meno è stato questo il falso sillogismo abilmente insinuato nei comunicati ufficiali che hanno portato la stampa e i vari siti d’informazione, ormai in mano a persone professionalmente disinformate, a replicare una simile castroneria. E’ bastata una velina per cancellare evidenze processuali e storiche stratificate da decenni.

La compagnia di giro Mollicone, Calabrò, Fioroni
Fake ripreso da tutti i giornali oltre che da una comica dichiarazione del responsabile cultura (e che cultura!) di Fratelli d’Italia, il parlamentare Federico Mollicone, citando un libro di Maria Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni (ex presidente della seconda commissione Moro), ha affermato che l’arresto di Bertulazzi può portare a «nuove evidenze nell’indagare sull’esatta ubicazione di Moro durante il sequestro». Per farla breve, secondo il Mollicone-Calabrò-Fioroni pensiero, Moro sarebbe stato trattenuto «in un box di Corso Vittorio 42, che era nelle disponibilità della residenza diplomatica dell’allora Ambasciatore del Cile presso la Santa Sede», per intenderci un diplomatico del dittatore Pinochet.
Le evidenze storiche, oltre che le sentenze sulla base delle quali sono stati comminati decine di ergastoli e secoli di carcere, ci dicono invece che i soldi del sequestro dell’armatore Costa furono redistribuiti equamente tra le varie colonne brigatiste. La colonna romana, che agli inizi del 1977 era in fase di costruzione, approfittò della sua quota per acquistare tre appartamenti: uno in via Paolombini, l’altro via Albornoz e l’ultimo in via Montalcini. L’abitazione di via Palombini cadde nel maggio 1978 dopo la cattura e le torture inferte a Enrico Triaca, che gestiva la tipografia di via Pio Foà; via Albornoz non venne mai utilizzata perché solo dopo l’acquisto si scoprì che nello stesso pianerottolo abitava un carabiniere, quindi fu rivenduta; via Montalcini fu ceduta dopo il sequestro Moro. A questo intricato giro di acquisizioni e vendite immobiliari Bertulazzi, ovviamente, era totalmente estraneo.

Nel 1978 era in carcere
Nulla c’entrava per due ragioni: la prima perché non faceva parte della colonna romana ma di quella genovese, all’interno della quale, da semplice irregolare, non ha mai rivestito ruoli di vertice o dirigenziali. Proveniente dal Lotta continua entrò a far parte delle Br genovesi nel 1976 per restarvi poco tempo perché – e qui veniamo alla seconda ragione – nell’estate del 1977 sugli scogli di Vesima, nell’estremo occidente genovese, rimase gravemente ustionato alle mani e al viso mentre armeggiava con del materiale incendiario. Dall’ospedale lo condussero direttamente in prigione dove restò per scontare una condanna di due anni. Durante il sequestro Moro, Bertulazzi era detenuto. Questa è la verità.

Duramente sanzionato nonostante il ruolo marginale
Scarcerato nel 1979 dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al disastro del settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire. Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente sanzionato dalla giustizia genovese perché era latitante. Una volta cumulate le condanne con la continuazione la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di reclusione. Una enormità per un irregolare che non ha mai sparato un colpo di pistola. Pena ampiamente estinta in un qualunque altro paese d’Europa ma in Italia è bastato un cavillo tecnico per inficiare il tempo trascorso e ripartire d’accapo con il conteggio. E così a quarantotto anni dopo arriva la nuova richiesta di estradizione già rifiutata nel 2002 per la contumacia, non contemplata nel sistema giudiziario argentino. Per questo raccontarla sempre più grossa, dopo cinquant’anni, resta l’unica risorsa che il governo e le autorità di polizia italiano hanno per riavere indietro questi esuli di un tempo che non c’è più.

Report e la Repubblica fondata sul complotto

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale l’Italia subì delle modificazioni rapide e profonde, da paese rurale si trasformò nel giro di pochi anni in una moderna società industriale. Crebbero i comparti della meccanica, del tessile e della chimica oltre all’edilizia, nacquero i primi assi autostradali e il panorama dei centri urbani mutò drasticamente. Si svilupparono le periferie sotto la spinta di flussi migratori continui provenienti del meridione. Diminuirono le partenze oltreoceano per dirigersi verso il Nord, prima la Svizzera, la Francia, il Belgio, la Germania, in cambio del carbone l’Italia cedeva minatori. Poi solo verso il settentrione, sorsero così le baraccopoli e il problema abitativo divenne uno dei primi temi di conflitto, che rimarrà cronico, oltre quelli legati al nuovo mondo del lavoro, la fabbrica dove i giovani meridionali sradicati dal loro mondo contadino incontravano la disciplina taylorista delle linee di produzione, i ritmi incalzanti, il frastuono, la nocività, un comando di fabbrica oppressivo e asfissiante.

Sviluppo e conflitto
Il boom demografico, la prospettiva di una società non più in guerra, l’avvento dei media di massa, radio e televisione, favoriscono nuovi fenomeni sociali e culturali: nasce il “mondo giovanile” anche sotto l’influenza della società americana. Lo stesso sistema produttivo se ne accorge creando la moda per i giovani, la musica, le vespe e le lambrette. L’istruzione deve aprirsi a questa massificazione rompendo vecchi tabù elitari e così anche «l’operaio può avere il figlio dottore», come recitavano i versi di una nota canzone degli anni della contestazione. Una crescita solo in apparenza lineare: da una parte è la stessa produzione capitalistica che richiede un maggiore livello di istruzione, dall’altra l’assorbimento scolastico e universitario è quasi una esigenza di sistema perché viene incontro al boom demografico creando delle aree di parcheggio giovanile anche se motore di tutto restano le rivendicazioni e dunque il conflitto generato dalle classi lavoratrici che aspirano ad una società più equa, evoluta, animata dalla giustizia sociale, dando vita a cicli di lotta sempre più intensi. Dai moti di Valdagno si arriva all’autunno caldo del 1969 fino all’occupazione della Fiat del 1973.

La fine dei «trenta gloriosi» e l’esplosione del Settantasette
Siamo all’apice dei cosiddetti «trenta gloriosi» quando iniziano a manifestarsi le prime crepe e gli scricchiolii che stanno minando la società fordista: un mondo strutturato all’interno di un compromesso sociale che vedeva il “Noi” operaio organizzato in grandi partiti di massa con potenti cinghie di trasmissione. Quella realtà irrigimentata tra “tute blu” e “colletti bianchi”, con mondi e morali avverse, dove lavoratori e padroni coabitavano a distanza, combattendosi senza confondersi, cominciava a dissolversi, trascinando via le vecchie gerarchie e autorità. A metà degli anni 70 assistiamo così a una crisi di modello sociale e delle sue forme di rappresentanza politiche da cui scaturiscono nuovi movimenti, spesso sconcertanti perché portatori di inedite forme di protagonismo, di partecipazione e richieste, percepite come incompatibili e esorbitanti dall’ordine economico e politico e di fronte ai quali un paese imbalsamato dai vincoli geopolitici e dai patti consociativi oppose il massimo di chiusura. 


Le lotte pagano
Nonostante ciò, quella grande spinta aveva consentito un avanzamento sociale senza precedenti, un rinnovamento culturale, delle mentalità e dei costumi, favorendo persino un adeguamento dei modelli di sviluppo ai nuovi standard del capitalismo consumistico. Sono anni in cui i pori della società si aprono, dando voce ai dimenticati e ai dannati. Spira un vento di libertà che s’insinua nelle crepe aperte dai cunei delle lotte operaie, proiettando sulla scena nuove figure e nuovi «soggetti» – come allora venivano chiamati, usciti dalla loro condizione di minorità civile e politica. Donne, matti, carcerati, omosessuali, giovani, soldati di leva, studenti, disoccupati, tutti vogliono essere protagonisti della propria emancipazione. Mai come in quel momento, gli umili e gli offesi, gli oppressi e i degradati, trovano occasioni e forza, dignità e rispetto, che solo una vita tornata finalmente nelle loro mani poteva dare. Il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, l’aborto – per fare degli esempi – mutano la qualità della vita degli italiani. Conquiste a decenni di distanza largamente assimilate anche da chi ne fu ferocemente ostile. E ancora la legge sugli gli asili nido pubblici, il riconoscimento della tutela delle donne nei posti di lavoro con i permessi di maternità e il divieto di licenziamento, l’inclusione di una quota di disabili nei posti di lavoro, l’obiezione di coscienza per il servizio militare, la legge Basaglia con la chiusura degli ospedali psichiatrici, le prime normative sulla nocività del lavoro, le discriminazioni e il super sfruttamento, lo statuto dei lavoratori, i consultori, la riforma penitenziaria (il 1975 è l’anno col minor numero di detenuti nella storia repubblicana), i contratti unici nazionali, l’elevazione della scuola dell’obbligo e l’università accessibile a tutti (con i corsi serali per studenti-lavoratori e il salario studentesco). Conquiste e garanzie andate oggi in buona parte perdute, soprattuto nel mondo del lavoro (con l’avvento della società del precariato e la deregolazione contrattuale) ma anche nelle università e nel carcere.

Il potere consociativo
Sul piano istituzionale, invece, il sistema politico rimase prigioniero delle sue alchimie. La distanza che si aprì tra le istituzioni e una parte della società divenne una sorta di terra di nessuno, attraversata e occupata da movimenti sociali che moltiplicano con una irruenza senza precedenti. Alla separatezza del politico si contrappose l’autonomia del sociale. Ogni ricerca di mediazione e volontà di recepire e integrare venne esclusa. Da una parte, il protagonismo dei movimenti fu avvertito come una minaccia intollerabile; dall’altra, qualsiasi attenzione era risentita come una intrusione che poteva insidiare l’autonomia. Le strategie di rottura guadagnarono terreno sulle semplici posizioni contestatrici e la lotta armata divenne una delle opzioni che conquistò settori di movimento andando riempire le fila dei gruppi combattenti.

La repubblica del complotto
Questo ventennio agitato che si dilunga dalla metà degli anni 60 alla metà degli anni 80 del Novecento italiano, ricco di veloci rivolgimenti, colpi di scena, conflitti durissimi, rapide mutazioni, grandi avanzamenti, repressioni feroci, non ha più una sua narrazione. Per questo può esser facilmente raccontato, meglio sarebbe dire reinventato, come continuum criminale traversato da trame e segreti, tentativi eversivi e assalti rivoluzionari eterodiretti, P2 e mafia, servizi traviati, tutti perfettamente intrecciati e sorretti da un’unica regia e un medesimo disegno: «impedire il compimento della democrazia», ovvero quell’alternativa o alternanza di governo (qui il lessico muta con le svolte politiche). E’ quanto ha fatto Report nella puntata andata in onda domenica 12 maggio nel servizio preparato da Paolo Mondani. Quanto avvenuto da piazza Fontana, dicembre 1969, alla morte di Falcone-Borsellino nell’estate 1992, avrebbe fatto parte di un unico disegno dove tutto si tiene: tentativi di golpe, stragi fasciste, lotta armata, rapimento Moro, attentati mafiosi, avvento del Berlusconismo. Una insalata mista.
Un discorso ormai rodato da alcuni decenni e nel quale i fatti sociali vengono sistematicamente ridotti a eventi delittuosi, l’analisi e la spiegazione che ne segue trasformata in un calco della trama giudiziaria.

La favola del doppio Stato o Deep state
La costituzione di Weimar, come lo statuto albertino, non furono mai aboliti dal nazismo e dal fascismo. Vennero disattivati grazie al potere di sospensione proprio dello stato d’eccezione e affiancati da una seconda struttura, che nel caso dell’esperienza nazista il costituzionalista Ernst Fraenkel definì, in un libro del 1942, «Stato duale». Nasce da qui, in modo azzardato, la formula del «doppio Stato», ripresa in un saggio del 1989 da Franco De Felice.
Questa categoria, che ha fornito una parvenza concettuale alla retorica del complotto, insieme ai continui riferimenti all’azione di «poteri invisibili» e «occulti» (Bobbio) o di uno «Stato parallelo» (Giannuli), e poco importa se la data d’origine debba risalire allo sbarco degli americani in Sicilia, al Gobbo del Quarticciolo, a Portella delle ginestre, al rumor di sciabole e alle Intentone degli anni 60 (la letteratura dietrologica propone infinite varianti), aiuta davvero a comprendere la storia del dopoguerra e del decennio 70 in particolare?
Come spiegare allora che un giovane sostituto procuratore di nome Luciano Violante, destinato ad una carriera d’esponente storico del primo Stato (quello che la vulgata dietrologica ritiene buono), interviene su informativa del ministro degli interni democristiano Paolo Emilio Taviani, medaglia d’oro della Resistenza bianca, fondatore di Gladio, dunque esponente del secondo Stato (quello deviato), per indagare contro Edgardo Sogno, membro a questo punto di un terzo Stato (stavolta traviato), che tramava un golpe gollista di ristrutturazione autoritaria della repubblica, nel mentre operava attraverso i carabinieri della divisione Pastrengo un quarto Stato (deviatissimo e traviatissimo) in combutta col Mar del neofascista Carlo Fumagalli, le bombe stragiste, le cellule nere del Triveneto, il tutto in presenza del «super Sid», scoperto dal giudice Guido Salvini, che forse era dunque un quinto Stato (ancora più che deviato o traviato, uno Stato invertito)?
Poi c’erano gli Stati negli Stati come la mafia, cioè lo Stato doppione e, infine, gli antistati, come le Br, che però certuni vorrebbero una diramazione di uno dei precedenti cinque Stati. Che vuol dire tutto questo? Forse che l’Italia era un paese eccessivamente statalista?

La dietrologia contro le trame di Stato che si fa dietrologia dello Stato contro la società
L’ idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che in luoghi dove si tessono e scontrano le relazioni sociali, economiche e politiche, prima che una squallida strumentalizzazione politica è il segno tragico di una malattia della conoscenza. Che la comprensione della società si risolva con una risalita verso l’alto, ricostruendo l’ordito della cospirazione, quell’apice dove dei burattinai dovrebbero tirare per forza dei fili, regolando i giochi, è divenuta semplificazione consolatoria. In passato era servita ad alcune forze politiche per trovare un alibi che giustificasse i propri fallimenti ma oggi che queste forze sono scomparse è diventato un nuovo instrumentum regni che favorisce una visione delle cose perfettamente congeniale alla perpetuazione dei poteri mai messi in discussione del capitalismo attuale. In questo modo attraverso le dietrologie si vuole sostenere che dietro ogni ribellione non c’è genuinità, sincerità, ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere.

Ancora una domenica bestiale su Rai tre, stavolta
 Report si inventa l’infiltrato della Cia nelle Brigate rosse. In azione il “metodo Mondani”: manipolare i testimoni per deformare la storia


Nella puntata di Report di oggi, domenica 12 maggio 2024, Paolo Mondani intervista lo storico Giovanni Mario Ceci che ha studiato tutti i documenti desecretati delle amministrazioni Usa degli anni 70 e dei primi 80: Dipartimento di Stato, Cia, Security Concil, rapporti dell’Ambasciata americana a Roma. Ricerca poi raccolta in un volume, La Cia e il terrorismo italiano, uscito per Carocci nel 2019.


Nei report desecretati si può leggere che «Nessuno è stato in grado di trovare nemmeno uno straccio di prova convincente del fatto che le Brigate rosse ricevevano ordini dall’estero». L’affermazione era giustificata dal fatto che solo la prova di una interferenza straniera che avesse messo a rischio la sicurezza e gli interessi statunitensi avrebbe legalmente giustificato l’intervento diretto della Cia negli affari interni italiani, più volte richiesto dal governo di Roma a cominciare dallo stesso Aldo Moro pochi mesi prima di essere rapito dalle Brigate rosse.
Nonostante il libro di Ceci, documenti alla mano, sostenga
nquesta tesi, Mondani riesce a censurare l’intero contenuto del volume, ben 162 pagine, capovolgendone il senso.

I documenti raccolti da Ceci dimostrano come la Cia intervenne per reprimere le Brigate rosse, non certo per sostenerle o manipolarle, alla fine del 1981 quando queste rapirono il generale americano James Lee Dozier. L’intervento degli uomini di Langley fu tale che il governo Spadolini non esitò ad autorizzare le forze dii polizia all’impiego sistematico della tortura durante le indagini.



Importanti testimonianze di esponenti delle sezioni speciali antiterrorismo dei carabinieri emersi recentemente hanno dimostrato (leggi qui) che a cercare di avvicinare le Brigate rosse non fu la Cia ma il Partito comunista italiano con l’accordo del generale Dalla Chiesa dopo il gennaio 1979. Si tratta della «Operazione Olocausto», un militante di Botteghe oscure (sede nazionale del Pci), nome in codice «Fontanone», ebbe un ruolo fondamentale nel permettere di agganciare alcuni dirigenti della colonna romana. Altri militanti del Pci fecero da «esche» nelle fabbriche del Nord Italia per permettere la cattura di esponenti brigatisti che cercavano di ricostruire la colonna torinese. L’unico infiltrato ad oggi conosciuto, che riuscì ad entrare nell’organico della colonna veneta delle Br per due anni, 1975-76, fu un operaio di Porto Marghera, Leonio Bozzato, nome in codice «Frillo», arruolato anni prima dal centro Sid di Padova, quando militava in un gruppo marxista-leninista, e successivamente inserito all’interno dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera. Difficilmente ascolterete queste cose nel corso della puntata di Report, se volete saperne di più, oltre al libro diu Ceci si consiglia la lettura di La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Deriveapprodi 2021.

Aldo Moro e l’ambasciatore Usa Richard Gardner

Quando Moro chiese aiuto alla Cia per contrastare le Brigate rosse

Aldo Moro era convinto che il terrorismo non avesse solo un carattere politico ma anche una dimensione internazionale. Pochi mesi prima del suo rapimento, in un incontro avvenuto nello studio di via Savoia con l’ambasciatore degli Stati Uniti Richard Gardner, affrontò la questione sostenendo che il fenomeno della lotta armata era «probabilmente sostenuto dall’Est, forse dalla Cecoslovacchia». Aggiunse che il terrorismo italiano e tedesco erano «profondamente legati» e mossi da un medesimo disegno: «minare le società democratiche sulla frontiere Est-Ovest». Contrariamente a quel che si ritiene oggi, Moro era convinto che lo sviluppo delle azioni dei gruppi armati avrebbe rafforzato gli obiettivi di governo del Pci: «un’escalation incontrollata dell’ordine pubblico» – affermava lo statista democristiano – avrebbe reso impossibile ogni opposizione alle richieste, che provenivano dalle «public demands», di «inclusione» e «partecipazione del Pci al governo per porre fine alla violenza» e «ristabilire l’ordine pubblico». Argomenti che spinsero Moro ad esortare gli Stati Uniti affinché assumessero «un ruolo attivo nel combattere il terrorismo», chiedendo a Gardner una «maggiore assistenza e cooperazione» da parte dell’intelligence statunitense con i servizi di sicurezza italiani» (1). A scriverlo è lo storico Giovanni Mario Ceci nel volume, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019. I report dell’agenzia di Langley, dell’ambasciata Usa a Roma e di altri attori dell’amministrazione statunitense, che l’autore cita nel libro, ribaltano l’attuale vulgata mainstream sugli scenari complottisti che avrebbero portato al rapimento del leader democristiano da parte delle Brigate rosse, sgretolando la convinzione stratificata da decenni di un sequestro sponsorizzato e supervisionato, addirittura con l’apporto diretto di forze esterne, in particolare atlantiche, al mondo brigatista, per impedire l’alleanza tra Dc e Pci e l’entrata di quest’ultimo nel governo. Nell’incontro del 4 novembre del 1977, lo statista democristiano fece capire agli americani che l’unico vero modo che avevano per arrestare la progressione elettorale del Pci e le sue ambizioni governative era intervenire su quelle che, a suo avviso, erano le matrici della sovversione interna italiana, ovvero la strategia di destabilizzazione della società che avrebbe trovato sostegno nelle interferenze sovietiche. Attività che, secondo Moro, non era finalizzata a sabotare l’avvicinamento del Pci all’area di governo ma semmai a favorirla rafforzando la sua immagine di unica forza politica in grado di salvare le istituzioni calmierando le spinte antisistema dei movimenti sociali ed esercitando la sua capacità di forza d’ordine. Questa personale convinzione di Moro, che per altro mutò drasticamente quando dalla prigione del popolo nella prima lettera a Cossiga scrisse di trovarsi «sotto un dominio pieno e incontrollato», era opinione diffusa negli ambienti politici moderati e conservatori italiani e trovava ispirazione in alcune precedenti veline dei Servizi italiani che chiamavano in causa l’operato dei Paesi dell’Est.
Anche il Pci riteneva, ma solo in sede riservata, che vi fosse una qualche interferenza oltre cortina, in particolare dei cecoslovacchi. Sono note le lamentele di Cacciapuoti e di Amendola nei confronti dei “fratelli cecoslovacchi” che sdegnosamente rigettavano l’accusa. I sospetti, dimostratisi infondati, dei dirigenti di Botteghe oscure erano dovuti all’ospitalità che nell’immediato dopoguerra Praga aveva fornito, su richiesta degli stessi comunistin italiani, a diversi esponenti delle milizie partigiane comuniste e dell’organizzazione Volante rossa che non avevano deposto le armi dopo la fine della guerra civile e per questo erano stati perseguiti dalla magistratura. Questo bacino di militanti, il più delle volte coinvolti in azioni di rappresaglia contro ex gerarchi ed esponenti fascisti, nonostante fosse stato esfiltrato dall’apparato riservato del Pci era maltollerato dalla nuova dirigenza di fede togliattiana. Un atteggiamento proiettivo che spinse la dirigenza di questo partito ad avviare una ossessiva campagna, divenuta vincente nei decenni successivi, che ribaltava lo schema complottista attribuendo ogni responsabilità del sequestro Moro all’azione dei Servizi segreti occidentali.

Terrorismo interno o internazinale?
L’amministrazione statunitense prese sul serio le richieste di Moro e G.M.Ceci ne ricostruisce attentamente tutti i passaggi: Gardner volato a Washington riferì la richiesta al segretario di Stato Vance ed al consigliere per la sicurezza Brzezinski, la questione venne introdotta in un memorandum inviato ai membri dell’European Working Group, che si riunì il 9 dicembre 1977, dove ci si chiedeva «che aiuto stiamo fornendo all’Italia in relazione al terrorismo (sia interno sia, se ve ne è, Internationally-inspired)? (2). Tuttavia emerse subito un grosso ostacolo dovuto alla presenza della nuova dottrina di «non interferenza non indifferenza» emanata dall’amministrazione Carter e alle limitazioni, introdotte dal Congresso statunitense a metà degli anni 70, che impedivano al governo Usa di intervenire nelle attività di polizia interna di altri paesi. Dopo le polemiche scatenate dai ripetuti interventi diretti della Cia, come fu per il colpo di Stato contro Allende in Cile, le azioni coperte dell’Agenzia d’intelligence furono sottoposte a restrizioni salvo nei casi in cui vi era un manifesto pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi interessi. Situazione che si prefigurava solo nel caso fosse stato dimostrato che quanto avveniva in Italia avesse una matrice internazionale. L’assenza di questa prova, più volte richiesta alle autorità italiane, impedì un intervento diretto e immediato della Cia, i cui analisti per altro in un report della Cia “centrale” ritenevano di non condividere «la tesi, alquanto popolare in Italia, che il terrorismo sia alimentato all’estero, né tantomeno il suo corollario, ossia che scomparirebbe se malvagi potenze straniere smettessero di immischiarsi», mentre un’analisi di Arthur Brunetti, capocentro della Cia a Roma, realizzata nei giorni precedenti il sequestro Moro ribadiva che le Br «sono un fenomeno nato e cresciuto interamente in Italia» e che «nulla indicava che l’Unione sovietica, i suoi satelliti nell’Europa dell’Est, la Cina o Cuba avessero avuto un ruolo diretto nella creazione o nella crescita delle Br». (3)
Nel bel mezzo di questo lavorìo diplomatico giunse come un lampo la notizia del rapimento del leader democristiano. Le prime analisi portarono Washington a temere che l’azione delle Br potesse estendersi anche ad obiettivi statunitensi, successivamente i numerosi report prodotti dall’intelligence Usa durante il sequestro focalizzarono l’attenzione verso le possibili ricadute sul quadro politico italiano. Gli analisti osservarono con molta finezza le mutazioni intervenute all’interno della Dc e il profondo cinismo che muoveva la rinnovata «rivalità» e le diverse manovre di riposizionamento dei leader democristiani che ambivano alla successione di Moro come capi del partito per «assumere il ruolo di front runner nelle elezioni presidenziali di dicembre». Secondo la Cia, il governo italiano nel corso del sequestro aveva «riportato una vittoria negativa rimanendo fermo», senza tuttavia essere riuscito a colpire militarmente le Br. Alla fine, concludevano gli analisti di Langley sbagliando completamente previsione, era il partito comunista la forza politica uscita rafforzata dall’esito del sequestro, poiché la linea della fermezza l’aveva collocata – a loro avviso – in una «posizione forte», che avrebbe reso impossibile la nascita di governi senza la sua partecipazione. Sul piano operativo, nonostante una richiesta di top priority da parte italiana, la Cia non andò oltre lo scambio di informazioni. Sotto la pressante insistenza di Roma il governo americano si limitò ad inviare un funzionario del Dipartimento di Stato (non un membro della Cia), Steven R. Pieczenik, psicologo esperto di guerra psicologica che giunse a Roma il 3 aprile 1978 (dopo il trezo comunicato brigatista nel quale si annunciava la collaborazione di Moro all’interrogatorio) e operò su mandato del ministro dell’Interno Cossiga all’interno di un “comitato di esperti”, dove erano presenti figure analoghe. La permanenza dell’esperto americano fu molto breve, convintosi della inutilità del suo contributo, rientrò negli Stati uniti il 16 aprile successivo, dopo appena 13 giorni.

Settembre 1978, la Cia si mobilità contro le Brigate rosse
Alla fine l’ostacolo venne superato con un espediente burocratico: riclassificare le Brigate rosse all’interno della categoria del “terrorismo internazionale”. L’8 maggio, il giorno prima della esecuzione di Moro, lo Special Coordinating Comitee del Consiglio nazionale della sicurezza, Nsc, diede finalmente semaforo verde, ritenendo che si potesse «offrire aiuto all’Italia per combattere il terrorismo internazionale», ma quando la decisione venne comunicata alle autorità italiane il corpo di Moro era già stato ritrovato in via Caetani. La circostanza tuttavia non arrestò i propositi statunitensi che nel settembre 1978 giunsero a Roma con l’obiettivo di svolgere un’attività unilaterale di intelligence contro le Br, attivando operazioni di infiltrazione all’interno questa organizzazione. L’ambasciatore Gardner si oppose, raccogliendo le resistenze italiane, sostenendo che questo tipo di attività sarebbe stata compito delle autorità di Roma. Alla fine si raggiunse un compromesso: l’ambasciata americana «avrebbe considerato caso per caso le proposte di reclutamento di persone da infiltrare nelle Br» con la possibilità di decidere autonomamente se «andare avanti da soli o dopo un accordo con gli italiani». Gardner ricorda nel suo libro di memorie che in effetti si registrò davvero «un caso di questo genere» e «la decisone fortunatamente fu di condurre l’operazione in accordo con il governo italiano». (4)

L’operazione Stark
L’unico tentativo conosciuto, per altro del tutto infruttuoso, è quello di Ronald Stark, un cittadino americano arrestato nel 1975 per traffico di stupefacenti e scarcerato nel 1979 con una motivazione redatta dal giudice Floridia in cui si riconosceva la sua collaborazione con la Cia. Il suo compito sarebbe stato quello di avvicinare all’interno delle carceri alcuni brigatisti detenuti. L’operazione non produsse risultati perché già dal 1977 i Br erano stati tutti trasferiti nel carceri speciali e Stark non finì mai in questo circuito. Se l’operazione di infiltrazione prese avvio alla fine del 1978 – come afferma Gardner – per Stark fu impossibile avvicinarli. Dalla documentazione della Direzione generale degli istituti di pena viene fuori che Stark fu rinchiuso nelle carceri di Modena, Pisa, Matera, Rimini e che nell’ultimo periodo della sua detenzione si trovava a Bologna. Prigioni estranee al circuito delle carceri speciali e che dopo il 1977 non accolsero più al loro interno brigatisti. Dalla stessa documentazione risulta che l’unico periodo in cui Stark, condannato per traffico internazionale di stupefacenti, si trovò ristretto nello stesso istituto di pena dove erano anche altri brigatisti fu il 1975 nel carcere di Pisa, poco dopo il suo arresto, tre anni prima che le Brigate rosse entrassero nel mirino dell’agenzia di Langley. Ammesso che fosse lui l’agente provocatore reclutato negli ultimi mesi del 1978, gli americani erano davvero in seria difficoltà se l’unica risorsa messa in campo per la loro strategia era riposta in un improbabile personaggio, un narco trafficante tenuto a debita distanza dai sospettosi brigatisti incarcerati che al massimo si trovarono a condividere, come riferisce Curcio nel suo libro, A viso aperto, il passeggio dell’aria con uno che cercava di attaccare bottone. Il racconto che Curcio fa dell’episodio (Stark gli propose durante il passeggio di organizzare una evasione dal carcere) lascia supporre che lo statunitense lavorasse già da confidente per il Ministero dell’Interno. In effetti Gardner afferma che l’operazione fu condotta di concerto con i Servizi italiani. Risulta, infatti, che funzionari del Ministero dell’Interno ebbero ripetuti incontri con lui nel carcere di Matera: tra questi spicca il nome di Nicola Ciocia, il famoso professor De Tormentis specialista del waterboarding, torturatore di diversi nappisti e brigatisti, tra cui Enrico Triaca, Ennio di Rocco, Stefano Petrella e di diversi componenti della colonna napoletana. I documenti ci dicono che l’unica persona caduta nella rete di questo agente provocatore fu Enrico Paghera, militante di Azione Rivoluzionaria che dopo la scarcerazione venne nuovamente arrestato e trovato in possesso di una cartina relativa ad un campo palestinese in Libano di cui era indicato il nome del responsabile e che risultò fornitagli dall’americano.

Note
1. Nella nota 26, p. 69, del suo volume, GM Ceci indica come fonte un report inviato dall’ambasciata Usa di Roma, Ambassador’s Meeting with Christian Democrat President, from Amembassy Rome to SecState, 7 November 1977, DN:1977ROME18056. Anche lo storico G. Formigoni, ricorda sempre GM Ceci, aveva riferito su questo incontro e sulla posizione di Moro in, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, 2016, pp.325-6.
2. GM. Ceci, p. 69, nota 27, Memorandum from Robert Hunter and Richard Vine to Members of European Working Group, Agenda for Meeting, December 9, 1977, in DDRS.
3. Giovanni Maria Ceci, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019, p. 84.
4. Richard N. Gardner, Mission: Italy. Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma.1977-1981, Mondadori, 2004, p. 234.

L’archivio Flamigni e l’uso pubblico della storia

Sabato 16 marzo introducendo un articolo di Marco Clementi sulla bruciante passione che arde nell’animo degli «storici da bar» ossessionati dal rapimento Moro mi soffermavo su una particolare categoria che arricchisce la folta schiera dei ciarlatani del caso Moro, ovvero i «burocrati della memoria».
A titolo di esempio riportavo un recentissimo episodio accaduto nel corso di una lezione tenuta in una università romana da una nota responsabile di un archivio che si occupa di «terrorismo e anni 70». Non facevo nome e cognome della persona e non citavo con precisione i luoghi dove questa lezione si era tenuta non certo per reticenza, «al fine di meglio manipolare quanto detto», come è stato scritto contro di me, ma per evitare una eccessiva personalizzazione perché quel che conta era il peccato e non il peccatore, come recita un vecchio adagio. Mi interessava attirare l’attenzione sulle parole dette (non sull’autrice di quelle parole) e sui dispositivi burocratici e politici che sono stati realizzati per diffondere una memoria istituzionale su quel periodo ricorrendo ai canoni e strumenti tipici dell’uso pubblico della storia.

Nel frattempo l’autrice di quelle parole ha fatto outing smentendo recisamente quanto da me scritto, ovvero che «in via Fani c’erano, la mattina del 16 marzo, non meno di 30 brigatisti, ovvero quasi tre volte i regolari della colonna romana in attività in quel periodo. Alla richiesta di spiegare come fossero fuggiti dal luogo, visto che le macchine descritte dai testimoni sono sempre e solo state tre e nessun pullman è mai stato avvistato nei paraggi, ha risposto che si erano dileguati a piedi per i prati. Di fronte alla stupefacente risposta (accanto a via Fani non ci sono prati…) qualcuno ha voluto sapere se fosse mai stata in via Fani: la risposta è stata no».

Stiamo parlando di alcune affermazioni fatte dalla signora Ilaria Moroni, direttrice dell’Archivio Flamigni, promotrice e curatrice della Rete degli archivi per non dimenticare (spero di non aver sbagliato nulla nel citare i titoli di merito), che «in collaborazione con la Regione Lazio e l’Università di Roma Tre, offre agli insegnanti delle scuole secondarie di secondo grado un corso di formazione gratuito Non solo “anni di piombo” – L’Italia degli anni Settanta, la politica, le riforme, i terrorismi». Corso che, se ho letto bene, sarebbe alla sua seconda edizione. La signora Moroni, nome che aleggia nella cronaca giudiziaria di questi giorni, sostiene che il corso non sarebbe finanziato dalla regione Lazio. Prendiamo atto per ora delle sue parole, se poi magari può spiegarci cosa significa «collaborazione» e cosa la distingue da un semplice patrocinio le saremmo grati, certo è che nel bilancio 2022 della Regione Lazio l’Archivio Flamigni ha ricevuto per le sue attività un obolo di 60 mila euro.
Ma veniamo al merito delle affermazioni fatte durante la lezione: dopo la smentita della signora Moroni la mia fonte che ha assistito al corso mi ha riconfermato ogni cosa («30 brigatisti in via Fani», «fuga per i prati», «presenza del colonnello Guglielmi», «prima prigione in via dei Massimi»), salvo un punto oggetto di malinteso tra noi due quando mi aveva riferito la prima volta l’accaduto, ovvero che la signora Moroni non aveva mai detto di non essere mai stata in via Fani. Recepito ciò, non ho alcun problema a correggere il mio piccolo errore, ed a scusarmi per questa imprecisione, per la semplice ragione che non mi chiamo Sergio Flamigni, campione dei pesci in barile. Sempre la mia fonte precisa che le affermazioni di cui sopra sono avvenute nella fase finale della lezione durante le domande e risposte provenienti dal pubblico, come per altro avevo già accennato.

A questo punto però davanti alla replica scritta della signora Ilaria Moroni quanto detto nel corso della lezione passa in secondo piano per la semplice ragione che la responsabile dell’archivio Flamigni ribadisce nero su bianco molte delle cose dette, con questo confermando il racconto della mia fonte e la veridicità di quanto avevo scritto. In particolare la signora Moroni conferma quello che secondo la sua personalissima ricostruzione dei fatti sarebbe il numero dei brigatisti coinvolti, circa 30: «nella gestione dell’intero sequestro, vie di fuga e covi compresi, il numero complessivo dovrebbe orientarsi intorno ai 30».

Ho già spiegato che si tratta di un numero abnorme, molto più del triplo dei regolari presenti nella colonna romana dell’epoca. Non c’è qui lo spazio per un adeguato approfondimento, ma è ampiamente noto che a condurre l’inchiesta e realizzare l’agguato fu sostanzialmente la Brigata della “Contro” della colonna romana (che era tutta in via Fani fatta eccezione per Etro e Faranda che ebbero altri ruoli), supportata da alcuni membri della direzione di colonna e della direzione nazionale. E se è vero che nel corso dei 4 processi portati a termine sono state condannate 27 persone, è storicamente accertato che solo 15 di queste hanno avuto un ruolo effettivo a vario titolo nella vicenda, più una sedicesima assolta perché all’epoca dei processi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Gli altri 12 non ebbero alcun ruolo: i 5 della brigata universitaria tirati in ballo perché custodirono la Renault 4; i tre – compreso Triaca torturato dopo l’arresto – legati alla tipografia di via Pio Foà e alla base di via Palombini; due membri del fronte logistico romano e altri due del fronte di massa nazionale totalmente fuori dalla vicenda.
Ventitre della ventisette persone vennero condannate alla fine del primo processo Moro, le altre quattro furono giudicate nei successivi processi grazie alle indicazioni fornite da Morucci e Faranda nel loro memoriale (e in altri verbali), della cui esistenza (il memoriale) sapevano oltre a Cossiga anche il dirigente del Pci Ugo Pecchioli. La signora Moroni dovrebbe saperlo e soprattutto scriverlo, visto che dirige un archivio. Il memoriale oltre a consentire alla giustizia di affibbiare altri tre ergastoli, permise ai suoi autori di ottenere ulteriori sconti di pena, in aggiunta a quelli introdotti dai decreti premiali speciali Cossiga alla fine degli anni 70. La legge sulla dissociazione del 1987 venne varata con l’apporto politico e il contenuto giuridico decisivo del Pci, insieme alle altre forze del fronte dell’emergenza. Corollario di quella legge fu la riforma Gozzini, Mario Gozzini era un indipendente di sinistra eletto nelle liste del Pci. Tutte cose che Ilaria Moroni immagino abbia spiegato durante i corsi di formazione da lei tenuti.

Dopo aver dato i numeri la responsabile dell’archivio Flamigni attribuisce a Mario Moretti cose mai dette, traendo così una conclusione priva di fondamento logico e fattuale: ovvero che a sparare in via Fani dovevano essere in sei. Nel libro con Rossanda, Moretti parla solo di quattro compagni che dovevano fare fuoco (i quattro con le divise dell’aviazione civile nascosti dietro le fioriere del bar Olivetti), due più di quanto normalmente necessario a causa dell’alto rischio di reazione della scorta: due per machina anziché uno. Come si possa arrivare a sei non si capisce. La balistica dice che hanno sparato in tutto 5 persone con sette armi: quattro pistole mitragliatrici e due pistole appartenenti ai 4 Br, più la pistola di un agente. Nessuna fonte di tiro da destra, salvo gli spari del poliziotto della scorta. Il fuoco incrociato evocato dalla Moroni esiste solo nei film dei supereroi. Una volta terminate le raffiche vi fu un aggiramento finale verso destra del brigatista più in alto che sparò con la sua arma personale. Leonardi fu colpito sul lato destro del corpo dopo la torsione del busto verso sinistra, proteso in difesa di Moro. Ma si tratta di cose già dette, ridette, ribadite all’infinito. Un disco rigato. Sinceramente roba noiosa che serve ad aggirare solo le vere domande politiche e storiche che quella vicenda solleva.

Ci sarebbe molto altro da dire: sapere perché per anni il senatore Flamigni ha tenuto nascosto il verbale di D’Ambrosio, citandone solo una brevissima parte che ne travisava il contenuto per rafforzare la sua tesi di un coinvolgimento del colonnello Guglielmi nell’azione di via Fani o rivelare come Flamigni acquisì dalle mani dei fascisti della rivista “Area” il materiale utilizzato per costruire le fake news su via Gradoli. O la figuraccia fatta con il teste Marini scoperto a dire bugie sul parabrezza del suo motorino e sulla moto Honda. Testimonianza di cui Flamigni è stato il più fervente sostenitore per anni. Non abbiamo mai letto una parola che riconoscesse l’errore, ammettesse l’abbaglio. Abbiamo visto soltalto ridursi con passare delle edizioni dei suoi libri il numero di righe e l’importanza dedicata alla vicenda che da centrale si è fatta nella sua narrazione via via più periferica. Per non parlare del quarto uomo di via Montalcini, di cui aveva saputo da una confidenza di due brigatisti dissociati, che lo avevano portato a ritenere si trattasse finalmente della prova della presenza di figure estranee alla Br nel sequestro.

Quando venne fuori l’identità di Germano Maccari, dopo l’iniziale disorientamento Flamigni sostenne che «allora doveva esserci un quinto uomo». Ammettere l’errore, recepire il fallimento di una ipotesi e correggere la propria versione, ripensando integralmente la propria posizione, non appartiene al suo orizzonte culturale, alla sua onestà intellettuale. Tante omissioni di verità e deformazioni dei fatti di cui Flamigni è stato grande maestro nei decenni trascorsi. Ma ci sarà modo e occasione per farlo in modo adeguato.

Concludo rilevando che la signora Moroni segnala ai suoi lettori come io mi sia recato una volta in archivio Flamigni in quel di Oriolo romano. Controllare i miei movimenti deve essere una sua particolare ossessione: ricordo la volta che su fb diede l’allarme perché mi aveva avvistato presso l’Archivio centrale dello Stato. Immagino che questo si spieghi col fatto che la signora Moroni mi consideri più un ricercato che un ricercatore.