Vecchi documenti desecretati presentati come nuovi. I trucchi disperati della destra per tenere aperta la pista palestinese sulla strage di Bologna

Paolo Morando e Paolo Persichetti, Domani 6 novembre 2024

Il segreto sta nello spostare la linea del traguardo sempre un po’ più in là. Oppure, detta diversamente, nell’indicare in un nuovo elemento prima mai ipotizzato la “colpa” dell’assenza di ciò che, invece, per anni era stato postulato come sicuramente presente. E in grado di svelare l’indicibile. È così che da anni si dà fiato alla cosiddetta “pista palestinese” per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980 (la più grave della storia repubblicana, 85 morti e oltre 200 feriti), soprattutto attraverso articoli di stampa e saggistica, oltre a puntuali rilanci politici da parte della destra.
E nonostante le risultanze storiche e giudiziarie l’abbiano di continuo affossata: dalle condanne definitive di Mambro e Fioravanti (1995) a quella di Ciavardini (2007), fino alle più recenti di Gilberto Cavallini dei Nar e Paolo Bellini di Avanguardia Nazionale in primo e secondo grado. Il risultato è che ora, in un manuale di studio per aspiranti giornalisti, la strage di Bologna è stata inserita in un paragrafo in cui si parla delle Brigate Rosse. E senza citarne la matrice neofascista.
Il tentativo più recente di rianimare la pista palestinese risale a qualche settimana fa. Ed è passato giustamente quasi inosservato. A rilanciare l’incessante lavorìo che muove da precisi profili social è stato suo malgrado il quotidiano il Giornale, attraverso un ampio servizio che – così nelle intenzioni – avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza di documenti dei servizi segreti (il Sismi, quello militare) in grado di avvalorare appunto la responsabilità palestinese per la bomba di Bologna.
Documenti, questa l’ipotesi espressa però in termini più che assiomatici, che sarebbero stati scientemente a lungo occultati perché rivelatori in qualche modo di una corresponsabilità dello stato, che attraverso il cosiddetto “lodo Moro” avrebbe consentito all’Olp e ai suoi epigoni di scorrazzare impuniti nel nostro paese, armi e bagagli al seguito, in cambio dell’intangibilità del territorio italiano da attentati.

Assioma mai dimostrato
Tale patto segreto, questo è l’assioma non dimostrato, sarebbe stato violato da parte italiana attraverso il casuale sequestro di due lanciamissili, nel novembre del 1979 a Ortona, destinati a raggiungere via mare il Medio Oriente e a essere utilizzati contro obiettivi israeliani. E dal contestuale arresto dei tre militanti dell’Autonomia romana che si erano prestati al trasporto, oltre a quello di un esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina di stanza a Bologna, che aveva chiesto la loro collaborazione. Di qui la conclusione, senza riscontri ma categorica nonostante la selva di condizionali, di un attentato alla stazione come rappresaglia.
È un’ipotesi che non ha fondamento giudiziario e ancor meno storico. Al di là dell’archiviazione nove anni fa della relativa inchiesta da parte della Procura di Bologna, dopo un buon decennio di indagini anche attraverso rogatorie internazionali, neppure i documenti del Sismi (relativi a comunicazioni con il proprio centro di Beirut) allora non disponibili e oggi invece desecretati hanno portato alcun elemento in tale direzione. Da tempo consultabili all’Archivio Centrale dello stato, sono stati analizzati per la prima volta da Domani ancora l’11 marzo del 2023 (e in altri approfondimenti pubblicati su questo blog: 1, 2, 3, 4, 5, 6). E dimostrano che la vicenda di Ortona nulla ha a che fare con la bomba alla stazione. Tanto che tre mesi più tardi, nel processo d’appello a Cavallini (udienza del 14 giugno 2023), anche la Procura generale ha avuto buon gioco nel demolire carte alla mano ogni ipotetico collegamento. Ed ecco così lo “spostamento” del traguardo di cui si diceva all’inizio: la lamentata assenza, cioè, di carte del Sismi nel periodo che va dal 2 luglio al 23 settembre 1980. Con la sottotesi-corollario: sono stati fatti sparire, perché raccontano appunto l’indicibile.
Si tratta di una tesi che, in un paese intossicato da decenni di dietrologie e cospirazionismi i più vari (e invece refrattario alla faticosa lettura di corpose sentenze), piace e fa presa. Soprattutto da destra gli sforzi si sono così concentrati sulla denuncia di questo presunto “buco” documentale, nonostante nel carteggio ve ne siano altri ancora più lunghi, sottolineando l’esistenza di “manine” e volontà (della politica o dell’intelligence, peggio ancora di entrambe) tutto fuorché trasparenti. Paradossalmente, però, l’articolo del Giornale di qualche settimana fa dimostra l’esatto contrario. Ma qui occorre andare con ordine. Partendo appunto dai documenti pubblicati dal quotidiano milanese.

Lo scambio
Si tratta di uno scambio di informative che avviene nell’agosto del 1980, con documenti in partenza da Roma (Seconda Divisione Sismi, terza sezione) sabato 9 con destinatario il capocentro del servizio a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone, che risponde giovedì 21. Si tratta di documenti in cui comunque sono presenti omissis, ma il cui senso è tutto sommato chiaro: il Sismi chiede al proprio agente di attivarsi con tutte le raccomandazioni del caso («agire estrema cautela») per avere informazioni relative alla presenza di estremisti di destra italiani in campi di addestramento del Partito falangista libanese.
Le risposte di Giovannone non offrono particolari elementi di chiarificazione, ma non è questo il punto: da tempo si sa infatti che la cosiddetta “pista libanese” è stata creata ad arte dallo stesso Sismi per sviare le indagini, costringendo la magistratura bolognese a defatiganti approfondimenti che finirono per non portare a nulla, ottenendo però lo scopo di paralizzare a lungo gli inquirenti, mettendoli di fronte a un vorticoso mix di elementi veri, verosimili e falsi, con l’effetto (classico dei depistaggi bene orchestrati) di far “rovinare” anche gli elementi fondati (il coinvolgimento di neofascisti italiani) assieme a tutto il resto. Un esempio di scuola è la celebre velina del Sid all’indomani di piazza Fontana in cui si citava sì la centrale eversiva di estrema destra Aginter Presse, qualificando però come anarchico il suo creatore, cioè il militare francese (e terrorista dell’Oas, oltre a mille altre cose) Yves Guérin-Sérac.
Torniamo però ai quattro documenti diffusi nelle scorse settimane. Per dire che si riferiscono non alla vicenda di Ortona, cavallo di battaglia degli anti palestinesi a prescindere, bensì alla pista libanese, cioè proprio al primo depistaggio internazionale. Si tratta di una vicenda che è stata sviscerata compiutamente nelle varie sentenze sulla strage di Bologna fin dalla prima d’assise del 1988, transitando poi in tutte le successive, comprese le più recenti riguardanti Cavallini e Bellini: il capitolo dei depistaggi è infatti da sempre tra i più esplorati dai magistrati bolognesi. E non c’è alcun mistero che riguardi quei documenti presentati come «carte di cui non si era mai saputo nulla» e ora finalmente «affiorate». Provengono infatti dalla desecretazione avviata dalla Direttiva Renzi. Si tratta in particolare, così fa sapere lo stesso Archivio centrale dello Stato, di una serie archivistica (“7: ‘Strage di Bologna – 2 agosto 1980’ (1980-1985) / 1: (1980)” versata ancora nel 2017 e subito messa in consultazione.

Domande mal poste
Da sette anni dunque quei quattro documenti dei Sismi, assieme a innumerevoli altri relativi alla strage di Bologna, sono lì all’Acs e nessuno se li era filati: d’altra parte il loro contenuto informativo era di nessun interesse, se non addirittura controproducente nell’ottica di dimostrare l’indimostrabile. Ora però qualcuno si è accorto che la loro datazione ricadeva nel “buco” documentale di cui si è detto e ha pensato bene di rispolverarli, segnalando tale circostanza al Giornale, ma incurante del fatto che nulla aggiungono alla vicenda, men che meno in chiave anti palestinese: certificano infatti, al massimo, che pochi giorni dopo l’attentato alla stazione anche il Sismi attivò i propri canali per cercare di assumere informazioni. E sarebbe stato sorprendente il contrario.
Perché infine quei quattro documenti sono stati tenuti separati dai 32 catalogati invece come “vicenda Giovannone-Olp” (il primo versamento del 2022) e dagli ulteriori 163 del versamento di aprile 2023? Chi lo ha fatto e perché? Posta così però di una domanda mal posta, se si considera che si tratta di carte desecretate addirittura in precedenza. E che, lo si ripete, con i lanciamissili di Ortona non c’entrano nulla. Ma tant’è: ciò che conta è continuare ad agitare le acque, puntando sulla credulità del lettore poco avvezzo a districarsi tra milioni di documenti. Anche usando carte consultabili da anni, “vendute” invece come strappate al segreto e ripescate chissà dove.

La strategia della tensione non c’entra nulla con la strage di Bologna, la sinistra fa male ad accontentarsi della solita narrazione consolatoria



Sentenze e gran parte della pubblicistica iscrivono la strage alla stazione centrale di Bologna del 2 agosto 1980, che fece 85 (forse 86) morti, e 200 feriti, come l’ultimo episodio della strategia della tensione. Addirittura nella sentenza di primo grado contro l’ex avanguardista Paolo Bellini, ritenuto uno dei responsabili della strage insieme a Fioravanti, Mambro e Cavallini, appartenuti ai Nar, si sostiene – sulla scorta di un’ampia pubblicistica complottista – che la strategia della tensione sia proseguita fino alla stragi di mafia del 1992-93. In realtà nessuna delle tante sentenze pronunciate sulla strage è mai riuscita a indicare chiaramente un movente certo e convincente, tanto che solo nelle ultime motivazioni dei verdetti pronunciati contro Cavallini e Bellini ci si addentra sull’argomento, identificando come mandante la P2 di Licio Gelli, nel frattempo defunto, che avrebbe agito per rafforzare la propria capacità ricattatoria all’interno di equilibri occulti di potere. Una ipotesi tra le tante che tuttavia non conferma la tesi della strategia della tensione enunciata in passato.

Nel 1980 la situazione internazionale stava rapidamente mutando: nel maggio dell’anno prima in Inghilterra era salita al governo la tory Margaret Teatcher, un anticipo della cosiddetta controrivoluzione neoliberale che si imporrà definitivamente con l’insediamento alla Casa Bianca del conservatore repubblicano Ronald Reagan. In Italia il clima politico e sociale era profondamente mutato rispetto ai primi anni 70. Si era avviata la stagione del riflusso, il compromesso storico era stato sconfitto, il Pci aveva avviato il suo declino elettorale, il movimento operaio e gli altri movimenti sociali erano sulla difensiva, in forte difficoltà sotto i colpi delle profonde ristrutturazioni del sistema produttivo. L’estrema sinistra in crisi. Non esisteva più il «pericolo comunista» che aveva ispirato la stagione stragista dei primi anni 70. Nella seconda metà del decennio il Pci aveva dato ampia prova di moderatismo, aveva sorretto le istituzioni di fronte all’offensiva della sinistra armata con molto più impegno di altre forze politiche. Non vi erano più ragioni per ricorrere ad una strage di tale portata, la più grande in Europa prima di quella di Madrid del 2004, provocata da Al Quaeda. Anche se sappiamo che gli attentatori non avevano previsto conseguenze così catastrofiche dovute alla presenza di un treno sul primo binario che respinse l’onda d’urto facendo crollare l’edificio dove era situata la sala d’attesa di seconda classe. Per questo motivo si è anche guardato a eventuali ragioni internazionali, come la vicenda di Ustica o il posizionamento dell’Italia nel Mediterraneo. L’aporia giudiziaria rappresentata dall’assenza di un movente valido ha facilitato l’offensiva giornalistica della destra che ha tirato in ballo la cosiddetta «pista palestinese». Ipotesi di comodo, smentita dalla recente desecretazione del carteggio Sismi-Olp, agitata dalla destra con l’intento di riscrivere il paradigma delle stragi e liberare i fascisti e i loro eredi politici dalle responsabilità avute nella precedente stagione delle bombe e dei massacri. Questo tentativo di strumentalizzazione tuttavia non esime dal porsi le giuste domande sul reale movente di quel massacro.

Cinquant’anni dopo la strage di Brescia le istituzioni si assolvono

Nel corso delle celebrazioni che si sono tenute per il cinquantesimo anniversario della strage in piazza della Loggia abbiamo assistito ad una reciproca assoluzione degli organi dello Stato. La presidente del consiglio Meloni a nome del governo, che non era presente, ha accuratamente evitato di ricordare e condannare la matrice neofascista della bomba esplosa durante il comizio del locale comitato antifascista, mentre il presidente della repubblica Mattarella ha scagionato lo Stato da ogni responsabilità, come ai tempi del regime democristiano di cui l’inquilino del Quirinale è degno erede

La strage di piazza della Loggia avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974 durante un comizio del Comitato antifascista locale (8 morti e 102 feriti) si distinse immediatamente dagli episodi stragisti degli anni precedenti (piazza Fontana, Peteano, Gioia Tauro, Questura di Milano) perché l’obiettivo colpito rivelava fin da subito la matrice politica neofascista degli esecutori. Dopo un lungo e travagliato iter giudiziario la Cassazione ha confermato la condanna finale di due ordinovisti: Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, quest’ultimo confidente del Sid di Padova col nome in codice «Tritone». Sono tuttora in corso altri due procedimenti contro gli ordinovisti veronesi Marco Toffaloni, all’epoca minorenne e che avrebbe materialmente deposto l’ordigno, e Roberto Zorzi. 

Nel novembre del 1973 il movimento politico Ordine nuovo era stato sciolto dal ministro dell’Interno Taviani sulla base della condanna emessa dal tribunale di Roma per ricostituzione del disciolto Partito nazionale fascista. A causa di questo fatto, nel luglio del 1976 Pierluigi Concutelli, capo militare della struttura clandestina di Ordine nuovo, uccise a Roma Vittorio Occorsio, il pubblico ministero che aveva sostenuto l’accusa contro i dirigenti del gruppo neofascista.
 L’attentato di Brescia come quello successivo sul treno Italicus, nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 all’interno del tunnel Valdisambro (18 morti e 48 feriti), rivendicato da «Ordine nero» in un volantino che parlava di vendetta per la morte di Giancarlo Esposti, un fascista sanbabilino ucciso dai carabinieri sugli altipiani reatini il 30 maggio precedente, erano una chiara rappresaglia contro la messa al bando di Ordine nuovo.
Creato nei primi mesi del 1974, Ordine nero aveva raccolto transfughi del disciolto Ordine nuovo, di Avanguardia nazionale e del Fronte nazionale rivoluzionario, struttura prevalentemente toscana. Fu protagonista dell’ultima stagione stragista caratterizzata da un’aperta dichiarazione di guerra contro lo Stato accusato di tradimento verso una esperienza politica, eversiva e golpista, che gli apparati avevano lungamente sostenuto, foraggiato, ispirato e manipolato. Strategia che si distingueva dai precedenti episodi che miravano ad attribuire alla sinistra la paternità degli eccidi con l’obiettivo di scatenare una risposta autoritaria dello Stato.

Le bombe del 1974

, la vendetta di Ordine Nero contro chi li aveva utilizzati e illusi con la strategia della tensione
Lungi dall’essere una ulteriore puntata della strategia della tensione questi due sanguinosi attentati, parte di una campagna più ampia avviata nel gennaio del 1974 a Silvi Marina, vicino a Pescara, dove una bomba fallì nel colpire l’ennesimo treno, appaiono piuttosto il segno sanguinoso della sua fine, la conseguenza dell’abbandono precipitoso e rovinoso da parte degli apparati statali che l’avevano utilizzata. Il 9 febbraio un altro ordigno venne ritrovato inesploso su un treno merci diretto da Taranto a Siracusa. A marzo un’esplosione fece saltare una rotaia nei pressi di Vaiano, vicino Prato, dove avrebbe dovuto passare il treno Palatino. La strage mancata fu rivendicata con un volantino di Ordine Nero ritrovato a Lucca. Ad aprile fu colpita la casa del popolo di Moiano, in provincia di Perugia. Nel complesso furono fatti esplodere tra Milano, la Toscana e Savona, oltre una decina di ordigni, culminati nell’attentato compiuto sulla linea ferroviaria di Terontola, il 6 gennaio 1975, a cui segui lo smantellamento del Fronte nazionale rivoluzionario di cui facevano parte Luciano Franci, Mario Tuti, Marco Affatigato, Andrea Brogi e Augusto Cauchi. Gruppo che ebbe contatti anche con Licio Gelli, al quale secondo testimonianze di alcuni pentiti, Cauchi aveva chiesto un finanziamento per la sua attività politica.


La magistratura indaga sui progetti di golpe

Tra il 1973 e il 1974 vengono a galla, grazie a diverse inchieste condotte dalla magistratura, una serie di progetti di golpe di segno politico diverso anche se tutti caratterizzati dalla tentativo di scongiurare il «pericolo comunista». Dall’indagine sulla «Rosa dei venti», portata avanti dal giudice istruttore Tamburino, e da cui emergeva traccia della presenza di strutture «parallele» interne agli apparati statali coinvolte nelle attività golpiste e stragiste. Testimone centrale nella ricostruzione di questa rete, siapur tra contraddizioni e reticenze, sarà il generale dell’esercito Amos Spiazzi. In anni più recenti la ricerca storica ha focalizzato meglio quanto avvenuto: accanto alla struttura Nato europea Stay behind, che in Italia aveva preso il nome di Gladio, apparato di difesa «non ortodosso» gerarchicamente dipendente dai comandi Nato, approntato per fare fronte ad una eventuale invasione militare delle truppe de patto di Varsavia e composto essenzialmente da membri della ex brigata Osoppo, partigiani bianchi antifascisti e anticomunisti, di cui si scoprì l’esistenza nella estate del 1990, dopo la vicenda del «piano Solo» venne messa in piedi una seconda struttura che dipendeva gerarchicamente dal ministero della Difesa. Si trattava dei Nuclei per la difesa dello Stato, apparato misto composto da membri selezionati degli uffici informativi dell’esercito, dei Servizi, dei carabinieri e di civili di dichiarata fede neofascista. Tra i membri di questa struttura disciolta nel 1973 vi erano molti ordinovisti. 

Un’altra inchiesta riguarda il Movimento armato rivoluzionario di Carlo Fumagalli e Gaetano Orlando. Fumagalli era un ex partigiano bianco legato ai Servizi inglesi. Ferocemente anticomunista organizzò una struttura clandestina armata con un forte insediamento in Valtellina, dove realizzò una serie di attentati dinamitardi contro tralicci dell’altra tensione che alimentavano le città e le industrie del Nord Italia. L’intenzione era quella di fronteggiare una eventuale offensiva di piazza o una vittoria elettorale dei comunisti. Nonostante il suo iniziale posizionamento antifascista, Fumagalli non disdegnò l’alleanza con i gruppi ordinovisti in vista di un colpo di stato.

L’esperienza più interessante appare tuttavia quella che venne definita il «golpe bianco», portato avanti da Edgardo Sogno, un altro ex partigiano della brigata Franchi, badogliana, liberale e anticomunista. Sogno aveva progettato in pieno agosto 1974 un «golpe liberale», un colpo di mano istituzionale di stampo presidenzialista, sul modello gollista della quinta repubblica francese che forte dell’appoggio dei vertici militari e istituzionali avrebbe dovuto sciogliere il parlamento, liberarsi del ventre molle democristiano ritenuto corrotto e irriformabile, creare un sindacato unico, internare le opposizioni di sinistra e di estrema destra, abolire l’immunità parlamentare e istituire un Tribunale speciale.

Balzerani, Di Cesare e la polizia del pensiero

di Paolo Presichetti

L’associazione nazionale funzionari di polizia ha ritenuto doveroso inviare una lettera aperta alla professoressa Donatella di Cesare, docente di filosofia teoretica presso l’università di Roma La Sapienza, dopo le polemiche scatenate da un suo tweet di cordoglio per la morte della ex dirigente delle Brigate Rosse Barbara Balzerani, scomparsa domenica 3 marzo 2024. Nel suo breve messaggio la professoressa Di Cesare aveva scritto: «La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna».

Attacco al diritto di parola e di pensiero
L’Anfp è un’associazione di natura sindacale nata per tutelare gli interessi dei quadri direttivi della polizia di Stato. Nella lettera aperta, che potete leggere qui per intero (www.anfp.it/lettera-alla-prof-ssa-di-filosofia-teoretica) si rimprovera alla docente di aver dimostrato mancanza di rispetto verso le vittime e i familiari delle vittime, tra cui si enumerano anche quelle della strage di Bologna che nulla c’entra con la storia politica della Balzerani, anzi si pone in frontale antitesi con il suo percorso, dimenticando troppo in fretta quei funzionari di polizia e dei servizi segreti coinvolti nei depistaggi della strage e per questo condannati, ed a cui – a quanto pare – i funzionari di polizia fanno sconti. 
La lettera mette in discussione il diritto di parola e la libertà di pensiero della Di Cesare, punta il dito persino contro la pietas davanti alla morte, contestandole di essere mancata al suo ruolo istituzionale, al rispetto del gioco delle regole: una prova di infedeltà che nelle parole dei dirigenti di polizia sembra mostrare nostalgia verso un modello di università che espelleva chi rifiutava di giurare fedeltà al regime.

Il nuovo ministero dell’etica

Sorge immediatamente una domanda: quale è il ruolo e soprattutto il posto della polizia nel sistema politico-istituzionale italiano? Spetta a loro regolare il dibattito pubblico? Stabilire cosa e come si insegna all’interno delle Università, chi merita la cattedra o meno? Non sembrano questi i compiti che gli vengono attribuiti dalla costituzione, che pure dovrebbero rispettare alla lettera per mandato istituzionale. E’ davvero singolare pretendere di ricordare alla cittadina De Cesare che non può oltrepassare il suo ruolo istituzionale di docente, mentre una tale oltrepassamento viene largamente realizzato da parte dei funzionari di polizia con una simile lettera.
Per altro la professoressa Di Cesare ha espresso il suo pensiero su un social non all’interno della sua facoltà. Ha parlato da cittadina, non da docente davanti ai suoi studenti. Attenta a non confondere i due luoghi. Se dei funzionari di polizia si sentono liberi di andare oltre le loro funzioni, di additare in pubblico una persona, esercitando il magistero del pensiero e della parola, l’accaduto assume la fisionomia di una chiara intimidazione. Un invito a tacere manette alla mano.

Il volantino degli studenti e la stella volutamente fraintesa

Sempre nella lettera si contesta un volantino di solidarietà alla professoressa affisso da alcuni studenti sulle mura della facoltà di filosofia di Villa Mirafiori, subito etichettati come «pericolosi anarchici» (sic!) e filobrigatisti perché avrebbero firmato il testo con la stella brigatista. Come tutti possono vedere dall’immagine qui accanto, non si tratta della stella asimmetrica con le due punte allungate ma di una normale stella, simbolo storico della sinistra italiana, emblema nel 1957 del Fronte democratico popolare con l’effigia del volto di Garibaldi incastonato all’interno di una stella, appunto. Stella presente nel simbolo di molti partiti storici della sinistra che solo l’ottusa ignoranza questurina può ricondurre immediatamente allo stemma brigatista. Ma il clima è questo, l’ignoranza più gretta sale in cattedra.

Cosa ha detto di tanto scandaloso la professoressa Di Cesare?
Che le Brigate rosse sono nate in quel crogiolo di pensiero, ribellione e militanza che nel 1968-69 diede vita ad un nuovo spazio politico animato dalla sinistra rivoluzionaria. Nuova sinistra che contestava le forze storiche del movimento operaio concorrendo sul suo stesso terreno sociale: le fabbriche e le periferie delle grandi città.
Già Rossana Rossanda, nel 1978, ebbe a dire qualcosa del genere, suscitando scandalo per aver iscritto le Brigate rosse nell’«album di famiglia» del comunismo storico. Parole suscitate da volontà polemica non solo contro la posizione del Pci, che pur sapendo della loro vera origine le definiva «sedicenti», accusandole di essere manipolate, eterodirette, agenti Nato eccetera; ma con le stesse Br, ritenute un residuato culturale del veterocomunismo degli anni 50, più che una delle tante anime della nuova sinistra. Biografie politiche e inchieste sociologiche hanno poi dimostrato che sbagliava e di molto anche se più avanti cercò di capirle e raccontarle meglio di ogni altro.

La violenza politica? Una risorsa condivisa
In questo nuovo spazio politico il ricorso alla violenza politica era considerato una risorsa legittima. La violenza rivoluzionaria era innanzitutto «parlata», in un libro uscito alcuni anni fa per Deriveapprodi, La lotta è armata, Gabriele Donato spiega quanto fosse condivisa e discussa questa opzione in tutte le formazioni della nuova sinistra, quanto questo orizzonte fosse discusso, percepito come inevitabile: alcuni lo ritardavano ma non lo escludevano e nell’immediato tutti si dotavano di servizi d’ordine, livelli illegali, molti si armavano, facevano «espropri», rapine per finanziarsi, difendevano i cortei dalle forze di polizia e dalle aggressioni fasciste mentre tutt’intorno si susseguivano le stragi e gli attentati della destra e dei Servizi, nelle piazze, sui treni. Si agitavano ombre di golpe e altrove si ribaltavano con le dittature militari governi democraticamente eletti, tanto da spingere il maggiore partito di opposizione italiano a convincersi che non si potesse più salire al governo, divenendo maggioranza alle elezioni, senza prima allearsi con quello stesso partito di governo dagli albori della repubblica, da sempre avversario, dando vita una società senza più opposizione, priva di dialettica, senza conflitti, moderando salari e rivendicazioni e che gli specialisti chiamarono «consociativa». Una democrazia a sovranità limitata, sottoposta al dominio dei vincoli esterni della geopolitica. Si è così arrivati a sparare, ed i primi, ci ricorda la cronaca, non furono le Brigate rosse.
Un qualunque studio serio su quegli anni si immerge in un clima del genere, anche se molti, sopravvissuti e scampati, ormai avanti nello loro carriere professionali, preferiscono dimenticare, non farsi riconoscere, mentire e nascondersi pavidamente.
Che cosa avrebbe detto allora di non vero la professoressa Di Cesare? Che non ha mancato di sottolineare come quel comune sentire iniziale si sia poi diviso in percorsi diversi, in scelte politiche ed esistenziali separate?

La stigmatizzazione etica
Nelle parole della Di Cesare non c’è traccia di stigmatizzazione etica, questo è il punto. Le si rimprovera la mancata riprovazione, la damnatio negata. Il regime della indignazione è l’unico possibile a cinquant’anni dai fatti: indignazione selettiva, per giunta, se è vero che uno come Franco Freda, ritenuto giudiziariamente e storicamente responsabile della strage di piazza Fontana, vive tranquillamente quello che gli resta della sua esistenza ignorato, dimenticato, senza che nessuno gli ricordi quello che è stato: uno stragista, una massacratore di umanità al servizio e per conto di alcuni apparati dello Stato italiano.
Come ha scritto Adriano Sofri, si può uscire ad un certo punto dalla lotta armata, ma non si entra mai da un’altra parte. Quella storia è stata dichiarata conclusa dai militanti delle Brigate rosse, Balzerani compresa, con un atto politico quasi quarant’anni fa. Ma non è mai esistito un dopo. Le classi dirigenti e le loro sponde mediatiche non lo hanno voluto perché hanno ancora bisogno di quelle icone per rappresentarvi il male. Una comoda esportazione di ogni colpa e responsabilità per tutti. Per la destra che in questo modo può sbiancare le proprie origini e collusioni golpiste e stragiste; per la sinistra che può così eludere i propri errori politici e fallimenti culturali consolandosi con l’alibi del complotto attuato da forze oscure che le hanno impedito di salire al potere.
Le Brigate rosse hanno incarnato in questo modo tutto il male del Novecento. Risultato paradossale davanti agli orrori del secolo breve, ma ancor di più del presente: ad una guerra russo-ucraina che ha fatto in due anni, stando alle stime del New York Times, 200 mila morti e circa 300 mila feriti, e agli oltre 30 mila morti di Gaza.

Una preda di sostituzione
Barbara Balzerani se n’è andata in silenzio, con una mossa di judo si è sottratta alla morsa di chi aveva bisogno del suo corpo per eleggerla a moderna strega, come periodicamente accadeva. La società della «bava e del fiele», orfana della sua persona e del suo funerale che si è tenuto nel più assoluto riserbo, lontano dagli sguardi morbosi dei media, frustrata e livorosa ha cercato affannosamente un’altra preda da azzannare. Ha trovato sulla sua strada Donatella Di Cesare, oggetto transizionale della furia vendicativa. A lei la destra oggi al governo, l’entourage più stretto della Meloni, rimprovera di essere stata colta in fallo, smascherata, per aver squarciato il velo con cui tenta di coprire le sue idee radicate nel razzismo della «sostituzione etnica». Per questo deve pagare.

Raisi, il lezzo dei falsari di parola e la querela archiviata contro Anna Di Vittorio

Lo scorso ottobre 2022 il giudice per le indagini preliminari Angela Gerardi ha archiviato la querela presentata dall’ex vice segretario dei giovani missini e poi parlamentare di Alleanza nazionale e variabili successive, Enzo Raisi, contro Anna Di Vittorio, sorella di Mauro Di Vittorio, il ventiquattrenne romano ucciso insieme ad altre 84 persone dalla bomba esplosa il 2 giugno 1980 nella stazione di Bologna.

La notizia nel libro di Paolo Morando
A darne notizia è Paolo Morando nel suo libro appena uscito per le edizioni Feltrinelli, La strage di Bologna, Bellini, i Nar, i Mandanti e un perdono tradito. Un volume che riassume con grande perizia gli ultimi due processi sulla strage, le oltre duemila pagine della sentenza Cavallini, la memoria della procura generale e le udienze del processo Bellini (la sentenza non è stata ancora depositata), ma soprattutto racconta una «piccola storia ignobile» poco nota al grande pubblico. La storia di un tradimento, la definisce Morando, la storia di una manipolazione si potrebbe aggiungere: quella che Francesca Mambro e Giuseppe Valerio Fioravanti realizzarono sulle spalle di Anna Di Vittorio e suo marito Giancarlo Calidori. Storia che permise a Francesca Mambro di accedere alla liberazione condizionale grazie al perdono richiesto ad Anna Di Vittorio, per poi pugnalarla alle spalle. I due infatti sposarono la tesi, promossa da Enzo Raisi e altri esponenti della destra, che indicava il fratello di Anna come il responsabile della strage rimasto accidentalmente ucciso nell’attentato.

Le nuove calunnie contro Mauro Di Vittorio
La querela di Raisi traeva origine proprio da questa vicenda. In occasione del quarantennale della strage di Bologna l’ex missino era tornato ad accusare Mauro Di Vittorio di essere stato il trasportatore della bomba esplosa nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione, il 2 agosto 1980. Una «ossessione» la sua al punto da aver ripetutamente chiesto negli anni precedenti al cadavere vilipeso di Di Vittorio di dimostrare la propria innocenza dopo avergli attribuito una identità politica di comodo, quella di «Autonomo», membro del collettivo del Policlinico, per poter sostenere i suoi legami con il palestinese Abu Saleh e la vicenda dei missili di Ortona; aver poi diffuso notizie non corrispondenti al vero sulle condizioni del suo corpo al momento del ritrovamento, affermando che fosse completamente carbonizzato. Con questa bugia voleva affermare che fosse vicinissimo alla bomba, per meglio dire che la tenesse con sé, così insinuando che la perizia giurata di ricognizione del cadavere presente negli atti giudiziari fosse falsa; sostenere, inoltre, che non avesse documenti d’identità ma che viaggiasse in incognito e che la carta d’identità ritrovata dai soccorritori fosse giunta intonsa all’obitorio dalle mani dell’anziana madre; così dicendo aveva dato del falso ideologico al verbale di riconsegna dei suoi effetti personali redatto dalla Polfer accusando di conseguenza la madre per la consegna della carta d’identità; aveva giurato che il diario di viaggio di Mauro fosse un clamoroso falso e che il biglietto della metropolitana parigina che aveva nella tasca dei pantaloni fosse la prova provata che egli non si sarebbe mai diretto a Londra ma avrebbe fatto tappa a Parigi per prendere in consegna da Carlos la valigia con l’esplosivo.
Affermazioni reiterate in un lunghissimo elenco di interviste, conferenze stampa, interventi sui social, interpellanze parlamentari, in un libro, Bomba o non bomba. Alla ricerca ossessiva delle verità, Minerva edizioni 2012. All’epoca non era stato il solo a sostenere cose del genere. Poi, davanti alle evidenze (chi prima, chi poi, chi in modo netto, chi in maniera subdola) nessun altro ebbe il coraggio di evocare il nome di Di Vittorio.
Una inchiesta a puntate pubblicata proprio su questo blog (leggi qui) aveva dimostrato, prove alla mano, la malafede di chi accusava Di Vittorio. Successivamente anche la procura di Bologna si era occupata del caso e nella archiviazione della indagine bis sulla strage aveva definito Di Vittorio «vittima oggettiva» della bomba. Nonostante ciò, nell’agosto del 2020 le calunnie di Raisi hanno trovato nuovo ascolto e sono state raccolte tra le dieci domande poste da un intergruppo di parlamentari del centrodestra , ‘La verità oltre il segreto’. Si tratta del quesito numero 9: «Perché sulla vittima Mauro Di Vittorio, legato ad ambienti dell’estrema sinistra romana che per tutti quel giorno doveva essere in Inghilterra, rimasto a lungo non identificato perché senza documenti e stranamente riconosciuto da madre e sorella che in teoria non sapevano della sua presenza a Bologna, non sono mai state fatte ricerche approfondite ma ci si è accontentati di una semplice dichiarazione della sorella che per altro ha dato diverse versioni su come sia arrivata a sapere della notizia della morte del fratello nella strage di Bologna?».

La risposta della sorella Anna
A quel punto Anna Di Vittorio ha preso carta e penna per qualificare su L’Alter-Ugo, il blog di Ugo Maria Tassinari, la condotta umana e civile di Raisi con parole che ne riassumevano, certamente per difetto, l’ostinato atteggiamento tenuto nei confronti del fratello: «mi appaiono in lui – oggettivamente – alcune difficoltà umane che lui, forse, non ha mai avuto il coraggio di affrontare e risolvere. Raisi è assolutamente incapace di saper leggere, saper scrivere, saper parlare in pubblico […] sono certa che Raisi sia – oggettivamente – “inconscio” a se stesso» e più avanti sottolineava la «sua impura malvagità».

Raisi l’offeso
L’ex parlamentare non gradì quelle parole e seguendo l’avventato suggerimento dell’avvocato Valerio Cutonilli, uno di quelli che avevano partecipato fin dall’inizio alla costruzione della pista Di Vittorio, e del deputato Federico Mollicone, definiti «primi soggetti percettori della portata offensiva della pubblicazione», e che pare avvertirono Raisi in una telefonata del primo agosto 2020, come indicato nel fascicolo, presentò querela negando, addirittura, di aver mai indicato Mauro Di Vittorio quale responsabile della strage. Il 2 gennaio del 2021, la procura ritenne infondata la denuncia e chiese l’archiviazione. A quel punto Raisi, reiterando la propria ossessione, impugnò la decisione. Il 19 ottobre 2022 il Gip ha chiuso la vicenda dando torto a Raisi.

Il lezzo della calunnia
Non sappiamo se Dante fosse un uomo di destra come ha sostenuto l’attuale ministro della cultura Sangiuliano, certo è che collocò i falsari di parola nell’ottavo cerchio dell’ultimo girone (canto XXX) condannati ad emanare dal più profondo dei pozzi un lezzo insopportabile.

Per chi volesse saperne di più qui l’intera storia
Strage di Bologna, il depistaggio di Raisi, Fioravanti, Pelizzaro & company contro Mauro Di Vittorio

L’ex parlamentare Enzo Raisi querela la sorella di Mauro Di Vittorio, vittima della strage di Bologna

ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Pare che si sia arrabbiato molto Enzo Raisi dopo aver letto la scorsa estate un paio di lettere in cui Anna Di Vittorio, sorella di Mauro Di Vittorio, il ventiquattrenne romano del quartiere di Torpignattara ucciso insieme ad altre 84 persone dalla bomba esplosa il 2 giugno 1980 nella stazione di Bologna, ne censurava con una qualificata espressione il comportamento. Le due lettere sono apparse il 1 agosto e il 13 ottobre su L’AlterUgo, lo spazio web di Ugo Maria Tassinari, grande esperto della destra italiana. Così alcuni giorni fa Anna Di Vittorio è stata convocata dai carabinieri per l’elezione di domicilio a seguito della denuncia querela per diffamazione aggravata presentata dall’ex esponente missino e poi ex parlamentare di Alleanza Nazionale e variabili successive, Enzo Raisi.
In occasione del quarantennale della strage di Bologna, l’ex membro della commissione Mitrokin era tornato ad accusare Mauro Di Vittorio di essere stato il trasportatore della bomba esplosa nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione, il 2 agosto 1980. Cosa non vera, ovviamente. Tempo addietro la procura di Bologna aveva archiviato l’indagine bis sulla strage definendo Di Vittorio «vittima oggettiva» della bomba (leggi qui). Negli anni precedenti Raisi aveva ripetutamente vilipeso il suo cadavere chiedendo che il morto dimostrasse la propria innocenza: gli aveva attribuito una identità politica di comodo, quella di «Autonomo», membro del collettivo del Policlinico, per poter sostenere i suoi legami con Abu Saleh e la vicenda dei missili di Ortona; aveva poi diffuso notizie non corrispondenti al vero sulle condizioni del suo corpo al momento del ritrovamento, affermando che fosse completamente carbonizzato. Con questa bugia voleva affermare che fosse vicinissimo alla bomba, per meglio dire che la tenesse con sé, così insinuando che la perizia giurata di ricognizione del cadavere presente negli atti giudiziari fosse falsa; ha sostenuto, inoltre, che non avesse documenti d’identità ma che viaggiasse in incognito (leggi qui) e che la carta d’identità ritrovata dai soccorritori fosse giunta intonsa all’obitorio dalle mani dell’anziana madre (leggi qui); così dicendo aveva dato del falso ideologico al verbale di riconsegna dei suoi effetti personali redatto dalla Polfer accusando di conseguenza la madre per la consegna della carta d’identità; aveva giurato che il diario di viaggio di Mauro fosse un clamoroso falso e che il biglietto della metropolitana parigina che aveva in tasca ai pantaloni (leggi qui) fosse la prova provata che egli non si sarebbe mai diretto a Londra ma avrebbe fatto tappa a Parigi per prendere in consegna da Carlos la valigia con l’esplosivo. Affermazioni reiterate in un lunghissimo elenco di interviste, conferenze stampa, interventi sui social, interpellanze parlamentari, in un libro, Bomba o non bomba. Alla ricerca ossessiva delle verità, Minerva edizioni 2012. All’epoca non era il solo a sostenere cose del genere. Poi, davanti alle evidenze, chi prima, chi tardi, chi in modo netto, chi in maniera subdola, nessun altro ha più osato evocare il nome di Di Vittorio. Raisi sembrava rimasto solo a ribadire le sue convinzioni. Questa estate, in occasione del quarantennale della strage, le calunnie di Raisi hanno trovato nuovo ascolto e sono state raccolte tra le dieci domande poste da un intergruppo di parlamentari, ‘La verità oltre il segreto’, alla vigilia del 2 agosto scorso (si tratta del quesito numero 9: «Perché sulla vittima Mauro Di Vittorio, legato ad ambienti dell’estrema sinistra romana che per tutti quel giorno doveva essere in Inghilterra, rimasto a lungo non identificato perché senza documenti e stranamente riconosciuto da madre e sorella che in teoria non sapevano della sua presenza a Bologna, non sono mai state fatte ricerche approfondite ma ci si è accontentati di una semplice dichiarazione della sorella che per altro ha dato diverse versioni su come sia arrivata a sapere della notizia della morte del fratello nella strage di Bologna?»).
E’ a quel punto che Anna Di Vittorio ha preso carta e penna ed ha qualificato la condotta umana e civile di Raisi con parole che ne riassumono certamente per difetto l’ostinato atteggiamento tenuto nei confronti di Mauro Di Vittorio, d’altronde Dante, non a caso, collocò i falsari di parola nell’ottavo cerchio dell’ultimo girone (canto XXX) condannati ad emanare dal più profondo dei pozzi un lezzo insopportabile.
Ora spetta alla procura valutare la sussistenza di elementi sufficienti per l’apertura di un contraddittorio processuale.

Dietrologie e complottismi sono la versione aggiornata del nuovo negazionismo storiografico

In un articolo apparso sul manifesto del 9 settembre 2020, Marco Rovelli, sostiene che vi sia una fondamentale differenza nella cultura del sospetto che anima gli attuali negazionismi complottisti sul covid, no vax ecc… e la cosiddetta «controinformazione applicata su piani spazio temporali specifici»: strategia della tensione, rapimento Moro, trattativa Stato-mafia (leggi qui).
In realtà esistono decisive affinità tra i due modelli di negazionismo: il primo scientifico, l’altro storiografico. Il dispositivo cognitivo è lo stesso e le tecniche narrative analoghe: false correlazioni, approssimazioni, de relato di pentiti spesso attribuiti a defunti, spregio della cronologia e molto altro condito da un approccio paranoico che rifugge ogni confutazione. La questione per altro è stata paradossalmente posta proprio al manifesto da un gruppo di storici e ricercatori per quanto era stato scritto sui rapporti tra Br-Sisde in via Gradoli su alcuni articoli apparsi il 2 agosto 2020 (leggi qui e qui) in occasione del quarantennale della strage di Bologna (La lettera degli storici e ricercatori contro fake news, dietrologie e complotti nella vicenda Moro)
In passato mi è capitato di sostenere che si tratta del confronto tra due paradigmi contrapposti: uno galileiano e l’altro orweliano. Dietro la pretesa di svolgere «controinformazione» c’è in realtà un processo cognitivo che ha introiettato una sorta di culto ossessivo dei poteri occulti, dei poteri invisibili. Si tratta di una degenerazione delle vecchie teorie delle élites, che almeno avevano un fondamento nelle matrici sociali ed economiche di società oligarchiche. L’idea che la realtà sia qualcosa su cui si deve gettare luce perché dominata dall’ombra e dall’invisibile, dal nascosto fino all’esoterico, piuttosto che tentare di andare alla radice, scavare, scarnificare, approfondire, scendere al fondo delle cose, fare l’anatomia della società, come scriveva Marx, non l’alchimia, è divenuto il nuovo modo di giustificare una sorta di contronarrazione che si pretende autonoma, libera e indipendente dai «poteri». Una visione che ricorda terribilmente le narrazioni reazionarie elaborate contro gli scossoni della modernità politica, e che vide nell’abbé Augustin Barruel un capostipite, con le sue «memorie per la storia del giacobinismo», ridotto ad una cospirazione della setta degli Illuminati di Baviera.
E’ sconcertante questa idea di un passato fatto di misteri e segreti anziché di processi, rotture, trasformazioni: uno schema cognitivo che riporta all’epoca dell’inquisizione, ai paradigmi interpretativi che i frati domenicani impiegavano individuando il disegno del maligno nei fenomeni incompresi o inaspettati che la società presentava.
L’ idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraversano le strade, i luoghi di lavoro, lì dove scorre la vita e si tessono e scontrano le relazioni sociali, economiche e politiche, è il segno tragico di una malattia della conoscenza. Che la comprensione della società, del mondo, della storia, si risolva con una risalita verso l’alto, ricostruendo l’ordito della cospirazione, quell’apice dove i burattinai tirano i fili, regolano i giochi, è divenuta una forma di pensiero povero, di semplificazione consolatoria. Un nuovo instrumentum regni che favorisce una visione delle cose perfettamente congeniale alla perpetuazione dei poteri mai rimessi in discussione, del capitalismo attuale che con le dietrologie vuole insegnarci che ribellarsi, non solo non è mai stato giusto, anzi è stato sempre sbagliato perché non è mai servito a nulla conducendo inevitabilmente alla sconfitta, ma che – in realtà – dietro ogni ribellione non c’è genuinità, sincerità, ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere.

Paolo Bolognesi, imprenditore della memoria della strage di Bologna, fa marcia indietro. Torna la foto di Maria Fresu

«Dopo aver balbettato bugie per due giorni cadendo in un groviglio inestricabile di contraddizioni prive di qualunque giustificazione, Paolo Bolognesi ha ripristinato la foto di Maria Fresu sul sito dell’associazione delle vittime della strage di Bologna». Lo scrive  Laura Fresu, cugina di Maria, la giovane mamma di 23 anni morta nella strage di Bologna con la figlioletta Angela, di appena 3 anni, e l’amica Verdiana Bivona, dopo che il nome della cugina era stato cancellato dall’elenco delle vittime del 2 agosto 1980 e dalla relativa galleria delle fotografie del sito dell’associazione dei familiari delle persone decedute dell’attentato presieduta da Paolo Bolognesi. Laura Fresu interviene dopo che proprio Bolognesi, replicando a una durissima lettera aperta nella quale la cugina di Maria denunciava il fatto, aveva spiegato all’Adnkronos di non aver «mai cancellato nulla»: «Cliccando sulla foto della bambina viene fuori anche il nome della madre – aveva detto il presidente dell’associazione – Il sito si sta ristrutturando e adesso, se ci daranno l’autorizzazione i familiari, metteremo anche la foto di Maria Fresu». Non basta, sostiene Laura Fresu, che chiede all’associazione di impegnarsi a fare di tutto per ritrovare i resti del corpo di Maria Fresu. Ecco il testo integrale della sua risposta a Paolo Bolgnesi

Dopo aver balbettato bugie per due giorni cadendo in un groviglio inestricabile di contraddizioni prive di qualunque giustificazione, Paolo Bolognesi ha ripristinato la foto di Maria Fresu sul sito dell’associazione delle vittime della strage di Bologna.
La veste grafica del sito dell’associazione era cambiata nel 2017. Prima vi appariva solo la lista delle 85 vittime tra cui c’era il nome di Maria. Le foto delle vittime erano poche e potevano essere viste cliccando solo su alcuni nomi, non quelli di Maria e della figlia Angela. Nel corso del 2017 è stato aggiunto il mosaico fotografico, così è apparsa la foto della figlia, Angela Fresu, ma non l’immagine di Maria di cui era scomparso anche il nome. Solo cliccando sulla foto della figlia si leggeva di lei: «si sono perse le tracce». Nulla di più. La sua memoria era evaporata insieme al suo corpo. Questa tardiva riparazione tuttavia non offre risposta alla domanda: perché Maria Fresu non c’era? Perché è stata necessaria una denuncia pubblica? Perché Bolognesi non ha mai sollecitato le autorità affinché si attivino per ritrovare le tracce di Maria, svolgendo i raffronti del Dna con i resti di tutte le altre vittime. Di cosa ha paura Bolognesi?
Maria non è scomparsa e la scienza forense spiega che non può essersi dissolta, tracce anche piccole restano e prima di poter affermare che i resti del suo corpo sono andati smarriti nei detriti della stazione bisogna adempiere tutti gli atti necessari. Perché Bolognesi non lo fa?
Il ripristino della foto sul sito dell’associazione colma un vuoto ma non risolve la questione: Bolognesi deve dirmi se vuole occuparsi del destino che ha avuto il corpo di mia cugina. L’associazione che presiede da 24 anni è interessata a sostenere questa iniziativa? Farà finalmente qualcosa per sapere dove si trovano i resti di Maria Fresu?

Laura Fresu, 9 settembre 2020

«Perché hai tolto il nome di Maria Fresu dalla lista delle vittime della strage?», Laura Fresu chiede spiegazioni a Paolo Bolognesi

L’imprenditore della memoria Paolo Bolognesi, presidente a vita – come nelle satrapie orientali – dell’«Associazione tra i familiari delle vittime della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980», ha tolto dalla lista delle vittime della strage riportata sul sito dell’associazione – https://www.stragi.it/vittime – il nome di Maria Fresu, la mamma della piccola Angela Fresu di 3 anni, morta insieme a lei nella esplosione della bomba che fece 85 morti accertati e 200 feriti. Le perizie realizzate sui resti da sempre attribuiti a Maria Fresu, condotte nel corso dell’ultimo processo sulla strage contro Gilberto Cavallini, hanno dimostrato che le tracce genetiche non appartenavano alla donna ma a due diversi dna femminili. Nel corso del processo, i legali della parte civile, che tutelavano gli interessi dell’Associazione presieduta da Bolognesi, ma non di Maria Fresu evidentemente, non hanno chiesto di verificare se i resti del corpo di Maria Fresu si trovassero confusi in altre sepolture e di confrontare i due dna emersi con quelli delle altre vittime femminili, per accertare senza ombra di dubbio a chi appartenessero e smontare ipotesi alternative. Era un loro imprenscindibile dovere a cui sono venuti meno, forse per non favorire le richieste della difesa finalizzate a dimostrare l’esistenza di un ottantaseiesima vittima coinvolta nella esplosione della bomba. Un atteggiamento, che se trovasse conferma, dimostrerebbe la miopia e il masochismo di Bolognesi e darebbe prova del suo cinismo, di un’etica a geometria variabile disposta a sacrificare la memoria di una vittima per dei calcoli di strategia processuale. Anche dopo la chiusura del processo, Bolognesi non ha fatto nulla perché si scoprisse dove fossero finiti i resti di Maria Fresu: si è limitato a cancellarla dalla memoria ufficiale dell’Associazione che presiede, che da quel momento è diventata l’associazione tra le vittime della strage, meno una. Che Maria Fresu fosse presente in stazione quella mattina lo stestimonia la presenza della sua bambina, e quella di due sue amiche, Verdiana Bivona, rimasta uccisa, e Silvana Ancillotti, ferita nello scoppio (qui una sua testimonianza Silvana Ancillotti ricorda l’esplosione nella sala d’apetto della stazione). Nella lettera, Laura Fresu non si accontenta di pretendere delle spiegazioni da Bolognesi per il suo gesto, ma chiede conto anche della sua gestione dell’Associazione, da cui ha ricavato una legislatura parlamentare, e delle sue scelte politiche, come quella di occuparsi della Commissione Moro 2 piuttosto che della vicende della strage di Bologna

di Laura Fresu

 

Sono Laura Fresu, cugina di Maria Fresu, vittima della «Strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980».
Nell’ottobre del 2019, durante il processo all’ex NAR Gilberto Cavallini, egli stesso chiese – attraverso i suoi legali – la riesumazione dei resti di Maria, allo scopo di effettuare il test del DNA. Una volta riesumati i «resti» ed effettuato il test, si scoprì l’incompatibilità con Maria. Cioè: non era lei.
Io non ho competenze specialistiche per entrare nel merito di quelle analisi né delle indagini. È per questo motivo che attendo, con paziente fiducia, la conclusione delle stesse. Tuttavia, ci sono due aspetti che mi indignano.

Il primo riguarda il fatto che i fascisti, ovviamente, abbiano già cominciato la propria canea contro Maria Fresu. Proponendo una tesi aberrante secondo la quale era proprio Maria a trasportare la bomba in una valigia! Da quali prove è stata mai suffragata questa teoria?
Per quanto da me letto in un libro scritto da un’antropologa forense, un corpo umano – anche se colpito da una bomba come quella della «Strage di Bologna» – non può essere mai disintegrato completamente.
Tralascio però – anche in quanto da sempre e per sempre antifascista –questo elemento, che proprio i fascisti strumentalmente introdussero.
Ma, proprio da quel maledetto ottobre, la tesi del mancato ritrovamento del corpo è stata usata dai legali di Cavallini sia per la difesa del loro assistito che per «lavare» le vesti di Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
I legali iniziarono a ipotizzare che quel lembo facciale appartenesse necessariamente alla donna che trasportava l’esplosivo.
E iniziarono a circolare volantini con la macabra immagine di quel lembo. Per fini strumentali, ripeto, e quindi a difesa di una verità di puro comodo. E in questo modo è quindi iniziata la «comoda» strumentalizzazione fascista di Maria Fresu.

Il secondo aspetto – che ancora oggi mi addolora assai – è relativo al comportamento di Paolo Bolognesi. Egli è Presidente (forse a vita?) della «Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980».
Con quella sua carica, Bolognesi è anche riuscito a fare carriera politica, facendosi eleggere – come indipendente – nelle liste del Partito Democratico.
Era lecito pensare che ci sarebbero state, proprio per questa sua presenza in quell’assise prestigiosa, maggiori possibilità che il Parlamento si occupasse di quella pagina nera della storia della Repubblica. E invece di quella vicenda Paolo Bolognesi non si è occupato. Mai.
Si è fatto però eleggere membro della «Commissione Moro», presieduta dall’on. Fioroni. Cosa ci facesse lì, Paolo Bolognesi, francamente lo ignoro.
Però, in questa sede, pongo il problema. Sia, dunque, Bolognesi stesso a renderci conto pubblicamente dei suoi «comportamenti politici» in Parlamento.
Intanto vi espongo alcune mie amare considerazioni sui comportamenti assunti da Bolognesi nei confronti di Maria Fresu.
Dopo il male che ha fatto a Maria io, e non solo io, considero Bolognesi non il Presidente dell’Associazione, ma il «Padrone» della stessa. Infatti, che Presidente è uno che abbandona al proprio destino – deciso da altri – una vittima di quella strage? Espunge il nome di Maria, pur mantenendo quello di sua figlia Angela, che all’epoca dei fatti aveva solo tre anni. Forse quel giorno la piccola Angela si trovava alla stazione di Bologna da sola, senza essere tenuta per mano dalla propria madre? Non è forse compito del Presidente dell’Associazione difendere ognuna delle vittime di quella strage?
Se Bolognesi ha tolto, nella sua pagina web, il nome e la foto di Maria Fresu dall’elenco delle vittime, non dovrebbe, per coerenza, recarsi alla stazione di Bologna per cancellare – munito di scalpello e martello – il nome di Maria Fresu anche dalle due lapidi, una esterna e l’altra interna alla stazione?
Non credo proprio lo farà. Ci vorrebbe, per una cosa del genere, del coraggio. Ma il coraggio non è prerogativa di chi, su questa vicenda, si comporta alla stregua di don Abbondio.
Maria è esistita, cari Paolo e Ugo. È stata una meravigliosa e semplice ragazza che lavorava per crescere la sua bambina, e, a prezzo di sacrifici, per portarla in vacanza. Per questo si trovavano entrambe lì!

Infine, voglio fare un’ultima considerazione: la strumentalizzazione di Maria è, ripeto, già in opera. I fascisti – ovviamente – fanno quello che hanno sempre fatto, lo sappiamo, per buttare fumo negli occhi e distogliere dalla verità su quella strage. Ora lo fanno «usando» Maria Fresu! Ma anche Bolognesi, col proprio comportamento, ha dimostrato di essere un cinico uomo di potere. Solo in questo modo, probabilmente, egli può sperare di mantenere la propria posizione – politica certo, nient’affatto umana – di «Padrone» dell’Associazione che dovrebbe soltanto presiedere nell’interesse comune e – possibilmente – non «a vita».
Nel nome di Maria Fresu – mia cugina – io sento il Dovere di difendere la sua Memoria. Lei non è più in grado di farlo da sola. È necessario che Maria torni a essere «vittima oggettiva» di quella strage. È necessario che il suo nome e la sua foto vengano rimessi al posto dove stavano, da decenni, nel sito web di Paolo Bolognesi.
Io questo posso e devo fare: nel suo ricordo, quel ricordo che mi ha portato, mi porta e mi porterà ad andare avanti, nella speranza –che spero un giorno possa diventare certezza – di ottenere per Maria la Giustizia e la Verità che merita.
Per come sono fatta, nel bene e nel male, sappiate che mi ritengo sufficientemente coraggiosa nel perseverare. Perché Maria non può – NÉ DEVE – essere uccisa due volte: la prima da viva, la seconda da morta. Io non lo consentirò!

Roma, domenica 6 settembre 2020

La lettera del giudice Guido Salvini a Insorgenze, «non credo al complotto nel rapimento Moro, ma non tutto è chiaro»

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Il dottor Guido Salvini, attualmente Gip presso il tribunale di Milano mi ha inviato questa lettera. Autore quando era giudice istruttore della nuova inchiesta sulla strage di Piazza Fontana (Milano 1969), che ha finalmente individuato gli autori dell’attentato, e un’altra indagine sulla strage di piazza della Loggia (Brescia 1974). Esperto di quel complesso mondo di relazioni e intrecci tra destra, ordinovista e avanguardista, e apparati dello Stato, ha condotto inchieste anche sul fronte opposto: l’omicidio del militante di estrema destra Sergio Ramelli, 1975, da parte del servizio d’ordine di Avanguardia operaia e sui fatti di via De Amicis a Milano nel 1977, che portarono all’uccisone dell’agente Antonio Custra.  Il dottor Salvini contesta il giudizio negativo da noi espresso nel corso di una intervista (leggi qui) sulla sua attività di consulente della seconda commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni. Pubblico il suo testo accompagnato da una mia replica ringraziando il giudice Salvini per l’attenzione mostrata

guido_salvini

Vi scrive Guido Salvini giudice del Tribunale di Milano. Ho letto la vostra intervista a Matteo Antonio Albanese autore del libro Tondini di ferro e bossoli di piombo. Ho trovato interessanti le riflessioni sui rapporti tormentati che vi furono tra il Pci e il mondo delle Brigate rosse ai suoi inizi e sull’intuizione da parte di queste ultime del fenomeno della globalizzazione. In una domanda posta dall’intervistatore mi sono però attribuite, anche in modo inutilmente sgarbato, opinioni sul sequestro Moro che non ho mai avuto e che non ho mai espresso e che al più possono essere proprie di qualche parlamentare componente della seconda Commissione Moro per la quale ho lavorato in completa autonomia come consulente. Infatti non ho mai pensato né scritto, come è facile verificare, che il sequestro Moro sia stato ispirato o diretto dalle stesse forze, i Servizi segreti, la C.I.A. la Nato o che altro che sono stati presenti nella strategia della tensione e nelle stragi degli anni ’60- ‘70 sulle quali ho condotto istruttorie. Né penso che ad esso abbiano partecipato la ‘ndrangheta o altre entità misteriose. Queste sono opinioni di altri che l’articolo non cita

Credo tuttavia che soprattutto negli ultimi giorni del sequestro vi siano state in entrambe le parti, lo Stato e le Brigate Rosse, incertezze e imbarazzi su come affrontare la possibile liberazione dell’ostaggio da un lato e come portare a termine l’operazione dall’altro e che questa situazione, in cui i due attori dovevano necessariamente compiere scelte di interesse e forse auspicate anche da realtà esterne al sequestro, abbia in entrambi provocato in alcuni passaggi un’amputazione della narrazione di quanto avvenuto. Mi riferisco, ad esempio, per quanto riguarda lo Stato, all’incertezza se fare di tutto perché Moro fosse recuperato vivo e alla contemporanea assillante ricerca dei memoriali dello statista giudicati pericolosi per gli equilibri dell’epoca. Per quanto concerne le Brigate Rosse mi riferisco alle non convincenti versioni in merito al luogo o ai luoghi ove l’ostaggio fu tenuto prigioniero e alle modalità con le quali, mentre erano ancora in corso contatti ed iniziative, ha trascorso le ultime ore e con le quali è stato ucciso. Su questi passaggi vi sono probabilmente ancora alcune verità e forse il ruolo di alcune persone da proteggere. Spero di essermi spiegato in queste poche righe e forse la lettura del libro potrà spingermi a tornare in modo più ampio sull’argomento sul mio sito guido.salvini.it

Vi ringrazio per l’attenzione.
cordialità
Guido Salvini

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Dott. Salvini,
Registro con favore il giudizio anticomplottista da lei espresso sul sequestro Moro, cito le sue parole: «il sequestro Moro non sia stato ispirato o diretto dalle stesse forze, i Servizi segreti, la C.I.A. la Nato o che altro che sono stati presenti nella strategia della tensione e nelle stragi degli anni ’60-‘70 sulle quali ho condotto istruttorie. Né penso che ad esso abbiano partecipato la ‘ndrangheta o altre entità misteriose».

La mia valutazione negativa del suo lavoro di consulente nella commissione Moro 2 era tuttavia fondata sull’analisi delle sue attività: escussioni di testimoni, indagini perlustrative, proposte di piste da indagare che manifestavano un consolidato pregiudizio dietrologico. Mi riferisco all’endorsement del libro di un personaggio imbarazzante come Paolo Cucchiarelli (20 giugno 2016, n. prot. 2060 e 682/1), nel quale si individuavano almeno 4 spunti di indagine da seguire, tra cui le dichiarazioni di un pentito della ‘ndrangheta Fonti, anche lui replicante di fake news, come la presenza di Moro nell’angusto monolocale di via Gradoli in una fase del sequestro (circostanza smentita dalle evidenze genetiche delle analisi sulla tracce di Dna, condotta dalla stessa commissione), oppure su un presunto ruolo di Giustino De Vuono in via Fani e nella esecuzione del presidente del consiglio nazionale della Dc. O ancora l’articolo fiction dello scrittore Pietro De Donato apparso nel novembre 1978 su Penthause, rivista glamour notoriamente specializzata sul tema. E ancora la richiesta di sentire, protocollo 519/1, il collaboratore di giustizia, sempre della ‘ndrangheta, Stefano Carmine Serpa che nulla mai aveva detto sulle Brigate rosse e il rapimento Moro, ma in una deposizione del 2010 aveva riferito dei rapporti tra il generale dei Cc Delfino e Antonio Nirta, altro affiliato alle cosche ‘ndranghestite. L’ulteriore sostegno ai testi (28 dic 2018, prot. 2497 – e 844/1) di Mario Josè Cerenghino, autore di libri in coppia con Giovanni Fasanella, la cui ossessione complottista non ha bisogno di presentazioni, o ancora di Rocco Turi, autore di una storia segreta del Pci, dai partigiani al caso Moro, sostenitore di una tesi dietrologica diametralmente opposta alla precedente, che intravede nelle Repubblica popolare cecoslovacca una funzione promotrice dell’attività delle Brigate rosse, fino fantasticare l’addestramento in campi dell’Europa orientale dei militanti Br. Potrei continuare, ma non serve.

Nella seconda parte della lettera, contradicendo quanto affermato all’inizio, solleva nuovi dubbi sugli ultimi momenti del sequestro. Convengo con lei che da parte dello Stato, ed in modo particolare delle due maggiori forze politiche protagoniste della linea della fermezza, Democrazia cristiana e Partito comunista, vi siano ancora moltissime cose da scoprire sulla decisione ostinata e sui comportamenti messi in campo per evitare, fino a sabotare, qualsiasi iniziativa di mediazione e negoziato in favore della liberazione dell’ostaggio. Mi riferisco, per esempio, all’impegno preso e non mantenuto dal senatore Fanfani di intervenire il 7 maggio 1978, con un messaggio di apertura all’interno di una dichiarazione pubblica. 
Ritengo che da parte brigatista i dubbi da lei espressi non trovino fondamento. Cosa c’è di poco chiaro e non trasparente nella telefonata del 30 aprile realizzata da Mario Moretti alla famiglia Moro? Consapevole della necessità di uscire dal vicolo cieco in cui si era infilata la vicenda, il responsabile dell’esecutivo brigatista tentò una mediazione finale che ridimensionava le precedenti rivendicazioni, la liberazione di uno o più prigionieri politici, e chiedeva un semplice segnale di apertura, che nella trattativa che sarebbe seguita dopo la sospensione della sentenza poteva vertere nel miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri. Perché questo aspetto continua ad essere evitato, sottovalutato e poco studiato, avvalorando contorte ipotesi di trattative parallele, somme di denaro o altro, rifiutate in principio dalle Br? Forse perché la responsabilità di chi si è sottratto a tutto ciò non è ancora politicamente sostenibile?
Ed ancora, sull’ipotesi dello spostamento dell’ostaggio, la invito a studiare tutti i sequestri, politici o a scopo di finanziamento, realizzati dalle Brigate rosse. Mi dica se c’è un solo caso dove l’ostaggio viene traslocato durante la prigionia? Approntare una base-prigione è cosa molto complessa e se non si comprende qual era il modo di approntare la logistica nelle Br si può cadere in facili giochi di fantasia.
Infine, tra i temi che la commissione ha rifiutato di affrontare c’è quello della tortura, verità indicibile di questo Paese. Un commissario aveva presentato un’articolata richiesta di approfondimento della vicenda di Enrico Triaca, il tipografo di via Pio Foà arrestato e torturato il 17 maggio 1978, una settimana dopo il ritrovamento del corpo di Moro, con una lista di testimoni da ascoltare, tra cui Nicola Ciocia, il funzionario dell’Ucigos soprannominato “dottor De Tormentis”, esperto in waterboarding. Sorprende che lei non se ne sia interessato sollecitando spunti d’inchiesta, audizioni o proponendo materiali e sentenze della magistratura presenti sulla questione? Dottor Salvini, ha perso davvero una grande occasione.
Cordialmente, Paolo Persichetti