Milei usa l’estradizione di Bertulazzi per riabilitare la dittatura

Leonardo Bertulazzi nell’atelier di liutaio dove lavorava prima di essere arrestato e sottoposto a procedura di estradizione

La mattina di lunedì 16 luglio è stato esaminato davanti la corte suprema federale di cassazione argentina il ricorso presentato dalla difesa di Bertulazzi contro il nuovo arresto eseguito dopo il parere favorevole alla estradizione concesso dalla corte suprema di giustizia. La corte si è riservata e la decisione finale verrà comunicata nei prossimi giorni.
In precedenza sempre la corte di cassazione aveva annullato la sua incarcerazione, concedendo la misura dei domiciliari, perché il ricorso presentato contro la revoca dello status di rifugiato politico, riconosciutogli nel 2024, sospendeva l’effetto della decisione unilaterale intrapresa del governo fascista di Javier Milei. L’avvocato di Bertulazi, Rodolfo Yanzón, ha ribadito che nonostante il parere favorevole concesso alla estradizione: «Bertulazzi continua ad avere lo status di rifugiato presso le Nazioni Unite, poiché è pendente un causa presso il tribunale amministrativo su questa questione». E la corte suprema è stata molto chiara sul punto: l’estradizione non può essere materializzata finché non verrà chiarita in modo definitivo la questione del rifugio. Milei ha introdotto una nuova legge su misura che impedisce di concedere protezione alle persone implicate in reati di terrorismo (anche se il sequestro dell’armatore Costa per cui è stato condannato Bwrtulazzi non lo è perché realizzato prima dell’introduzioni delle aggravanti speciali antiterrorismo). Norma antiBertulazzi che tuttavia non ha valore retroattivo e non può incidere su una decisone presa ventuno anni prima.

Estradare Bertulazzi per riabilitare la dittatura
Nei giorni scorsi, prima la ministra della sicurezza nazionale, Patricia Bullrich, e successivamente Maria Florencia Zicavo, capo gabinetto del ministero della Giustizia argentino e responsabile della Commissione nazionale per i rifugiati (Conare), oltre a rilanciare la menzogna sul ruolo «importante che Bertulazzi avrebbe avuto nell’operazione che portò al rapimento e al successivo omicidio di Aldo Moro», nonostante in quel momento si trovasse nelle carceri italiane da quasi un anno, fake agitato con forza nello spazio pubblico argentino per rafforzare il dossier fragile che sostiene le ragioni della estradizione, hanno proposto un ribaltamento del giudizio storico sul recente passato dittatoriale argentino.
L’estradizione di Bertulazzi fa parte di una più generale riscrittura e cancellazione della storia e dei crimini della dittatura, all’interno della quale i soli colpevoli e responsabili diventano gli oppositori, coloro che hanno combattuto la dittatura e da questa sono stati perseguitati: ex prigionieri politici, i militanti assassinati, le migliaia di desaparecidos, i minori rapiti e adottati dalle famiglie dei militari del regime. L’operazione Bertulazzi serve ad aprire una prima breccia, ribaltando la responsabilità della violenza e dei crimini attribuendola a chi provò ad opporsi alla dittatura o nemmeno fece in tempo a farlo. Un po’ come se oggi in Italia il governo Meloni iniziasse a dare la caccia ai superstiti ancora in vita della resistenza antifascista.

Il gioco delle tre carte
D fronte a questa operazione la sinistra italiana, il Pd, i «democratici», tacciono, fanno finta di non sentire o capire, per soddisfare la pretesa punitiva della giustizia dell’emergenza di cui sono stati i padrini. La procura genovese in mano a giudici di Md, si è portata garante davanti alla giustizia argentina sulla possibilità che una volta in Italia Bertulazzi possa essere riprocessato nuovamente, e giudicato stavolta correttamente, correggendo le pesanti e inique condanne ricevute all’epoca (leggere l’intervista di Mario Di Vito del manifesto). Una bella promessa che purtroppo non è una garanzia poiché la legge italiana dice altro, prevede solo 30 giorni per fare la richiesta di riapertura del processo, ma poi sarà la corte d’appello a decidere. E l’intera giurisprudenza passata ci dice che una cosa del genere non è mai avvenuta. Addirittura in alcuni casi analoghi i giudici hanno fatto partire il conteggio dei trenta giorni non dal momento della riconsegna all’Italia dell’estradato ma da quando questi avrebbe avuto notizia ufficiale delle condanne pendenti. Ovvero in questo caso oltre venti anni fa, quando la giustizia argentina decise di non estradarlo perché condannato in contumacia.
Il sistema giudiziario italiano non ha mai voluto rimettere in discussione i processi di quegli anni. E così la nuova destra argentina oggi al potere potrà sbiancare la storia della dittatura sulla pelle dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi con la complicità delle anime bella della sinistra italiana.

Pino Narducci – Rapimento Moro, le sentenze giudiziarie al vaglio della storia (parte seconda)

A mezzo secolo di distanza dalle istruttorie e i maxi processi condotti contro i militanti della lotta armata è ormai maturo il tempo si sottoporre le sentenze di giustizia al vaglio critico della storia. Il tempo trascorso, l’importante mole documentaria, le ulteriori testimonianze orali e gli studi storici più seri, ci consentono di potere valutare se «la verità giudiziaria resista, e in quale misura, alla straordinaria forza della verità storica». Su Questione giustizia di questo mese di giugno, rivista di Magistratura democratica curata da Nello Rossi, è apparso un importante studio in due puntate di Pino Narducci, presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia, che già in passato si è cimentato su vicende giudiziarie che hanno riguardato i movimenti sovversivi degli anni Settanta.
Il lavoro di Narducci smonta uno dei luoghi comuni più diffusi, agitato polemicamente dagli esponenti della dietrologia contri chi cerca di fare lavoro storico: ovvero che questi ultimi si trincererebbero dietro le sentenze perché «i processi hanno detto tutto quello che c’era da dire». Basti pensare alle divergenze tra le prime ricostruzioni processuali sulla dinamica dell’azione di via Fani e i successivi lavori storici che hanno precisato nel dettaglio la preparazione logistica, il numero dei singoli partecipanti, la dinamica dell’azione, Il percorso di di fuga.
Tre anni fa, nel volume La polizia della storia pp. 260-263, (https://insorgenze.net/2022/03/15/sequestro-moro-dopo-44-anni-continua-ancora-la-caccia-ai-fantasmi/), avevo analizzato le cinque istruttorie e i quattro processi che hanno contraddistinto l’attività della magistratura nella vicenda del sequestro Moro. In quello studio indicavo in ventisette il numero delle persone condannate per il sequestro, l’uccisione della scorta e l’omicidio finale del presidente del consiglio nazionale della Dc, fatti avvenuti tra la mattina del 16 marzo 1978 e l’alba del 9 maggio successivo. Una ventottesima persona era stata assolta perché all’epoca dei processi non erano emersi elementi di prova nei suoi confronti. In realtà, solo 16 di queste risultavano con certezza direttamente coinvolte nella vicenda, le altre undici non avevano partecipato né sapevano del sequestro.
Il lavoro di scavo e analisi realizzato da Pino Narducci ci dice che le persone sanzionate furono in realtà trentuno. Ventisette condannate sia per fatti di via Fani (uccisione della scorta, tentato omicidio di Alessandro Marini e sequestro di Aldo Moro) che per l’omicidio in via Montalcini, gli altri quattro riconosciuti responsabili solo per due dei quattro delitti principali. Se all’elenco dei condannati – scrive ancora Narducci – si aggiungono gli imputati prosciolti in istruttoria o assolti nei processi, «scopriamo che la magistratura ha complessivamente inquisito oltre 50 persone, forse anche più. Una cifra decisamente spropositata». 
Questo ci dice che l’attività inquisitoria della magistratura e delle forze di polizia fu imponente, seppur inizialmente imprecisa, anche se la martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato negli anni successivi questo dato significativo. Non ci fu affatto una inazione o distrazione, tantomeno episodi di clemenza pattuita sulla base di una rinuncia a verità scomode o indicibili. Gli unici sconti di pena concessi furono il risultato della legislazione premiale che venne introdotta e applicata a quegli imputati che collaborarono nei processi o si dissociarono con dichiarazioni di abiura che prendevano le distanze dalla loro militanza passata.
Il lavoro di Narducci dopo aver scandagliato per intero le sentenze di ogni grado dei cinque processi, coglie le numerose incongruenze presenti. I reati principali contestati nei giudizi riguardavano l’assalto in via Fani con l’omicidio plurimo degli agenti della scorta di Moro e i vari reati corollario, il sequestro vero e proprio dello statista democristiano e infine la sua uccisione. Per altro Narducci contesta il ricorso all’aggravante della premeditazione della uccisione dell’esponente Dc, che si dimostra storicamente infondata o comunque valida solo a partire da una determinata data: il 15 aprile con il comunicato numero 6 che annunciava la fine del processo del popolo e la sentenza di condanna? Comunicato smentito in realtà dalla ricerca continua di una interlocuzione politica e scambio di prigionieri (le lettere di Moro inviate dopo quella data e la telefonata di Moretti del 30 aprile), o ancora la riunione dell’esecutivo di colonna dell’8 maggio in via Chiabrera, che di fatto sancisce la decisone reale della uccisone di Moro, predisponendone la logistica.
Chi era direttamente coinvolto nella gestione quotidiana del sequestro non per forza era in via Fani, nonostante ciò nelle prime sentenze di condanna emesse negli anni 80, questa differenza non viene fatta. Si applicano «singolari principi del concorso di persone nel reato, i giudici ritennero che l’adesione al programma politico-militare della “campagna di primavera” fosse elemento sufficiente per condannare i due brigatisti per tutti i reati contestati ai veri protagonisti della operazione di via Fani […] In altri termini, sembra che il ragionamento dei giudici sia stato quello secondo cui la militanza nelle BR, cioè la condotta di partecipazione alla banda armata prevista dal Codice penale, permetteva di addebitare al brigatista qualsiasi delitto commesso da altri membri della organizzazione, anche quelli che ignorava sarebbero avvenuti e rispetto ai quali, in ogni caso, non aveva fornito alcun aiuto o supporto». 
Cosa che non avverrà nei processi compiuti nella seconda parte degli anni 90 quando le sentenze torneranno ad applicare i canoni della responsabilità personale distanziandosi da quella «responsabilità di posizione» condivisi nel decennio precedente, tanto che il reato di concorso e l’appartenenza alla banda armata verranno puniti con criteri meno estensivi e maggiormente conformi al dettato costituzionale. Diversi tra quei 27 condannati nei primi processi, Moro uno-bis e Moro ter, non avrebbero subito la stessa condanna o sarebbero stati prosciolti se giudicati nel decennio successivo.
Nel suo studio Narducci sottolinea la sconcertante condanna di 25 imputati ritenuti colpevoli del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini. Il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini.
Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura pendono nuovi filoni d’indagine (su alcuni di questi vi sarebbe la richiesta di archiviazione), ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa (uno dei primi grossolani errori commessi dalla prima sentenza del Moro uno-bis, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver inquisito 50 persone, condannato 11 persone totalmente estranee al sequestro e altre coinvolte solo in parte, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

Foto Roberto Kock  – Agenzia Contrasto, Aula Bunker Foro Italico, aprile 1982

Pubblicato su Questionegiustizia.it, 26 giugno 2025 col titolo «Il caso Moro. Per un’analisi delle sentenze (parte seconda)»
di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia

Nel maggio ’87, la Corte di Assise di Roma, nel cd. processo Metropoli, stabilì che Lanfranco Pace e Franco Piperno erano estranei a tutti i reati connessi alla vicenda Moro.  

Al termine del processo Moro ter di primo grado, nell’ottobre ’88, i giudici romani assolsero Rita Algranati, Marcello Capuano, Cecilia Massara, Luigi Novelli, Marina Petrella e Stefano Petrella e condannarono, invece, Alessio Casimirri per tutti i fatti di via Fani e via Montalcini. Giulio Baciocchi, Walter Di Cera, Giuseppe Palamà e Odorisio Perrotta, militanti della colonna romana, a differenza di Casimirri, furono condannati solo per il sequestro e l’omicidio del presidente della DC.

Nel processo Moro quater di primo grado, che si celebrò nel ‘94, Alvaro Lojacono venne ritenuto responsabile di tutti i fatti avvenuti tra il 16 marzo e il 9 maggio ‘78.

Infine, nel processo Moro quinquies, nel 1996, i giudici affermarono la responsabilità di Germano Maccari, il falso marito di Anna Laura Braghetti, e di Raimondo Etro che aveva collaborato ad alcune fasi della inchiesta su Moro prima del sequestro. Questa volta però, Maccari ed Etro, riconosciuti colpevoli della uccisione della scorta e del sequestro e della morte del presidente DC, per scelta fatta dalla Procura romana al momento del rinvio a giudizio, non furono processati anche per il tentato omicidio di Alessandro Marini. [17]

Nel corso della lunga vicenda processuale, Anna Laura Braghetti (v. interrogatorio sostenuto nel processo di primo grado Moro quater alla udienza del 24 novembre 1993) e Germano Maccari (v. la drammatica confessione resa nel processo Moro quinquies alla udienza del 19 giugno 1996) ammisero le proprie responsabilità e raccontarono cosa era accaduto nella primavera ‘78.

Anche altri protagonisti della vicenda (Mario Moretti, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Barbara Balzerani e Bruno Seghetti), a partire dagli anni ’90, in luoghi diversi dalle aule giudiziarie (la Balzerani rese tuttavia dichiarazioni alla udienza del 2 dicembre 1993 del cd. Moro quater), hanno raccontato la storia di cui ci stiamo occupando. [18]

Le versioni provenienti dagli imputati dissociati/collaboratori di giustizia e dagli imputati che fecero scelte processuali opposte alla dissociazione/collaborazione sono, per larga parte, coincidenti. Inoltre, recenti accertamenti di natura tecnica o scientifica – sulla dinamica della azione a via Fani, sulla base di via Gradoli e sulla uccisione di Moro in via Montalcini – hanno definitivamente smontato le teorie complottiste, accreditando come sostanzialmente veritiera la ricostruzione della vicenda fornita dai responsabili del sequestro e della uccisione di Aldo Moro. [19]

Esiste, quindi, oggi, un solido patrimonio di conoscenze da cui partire per valutare i fatti accertati dalle sentenze.

Sono chiare ed ampiamente provate le responsabilità dei componenti del Comitato esecutivo, della direzione della colonna romana e di coloro che presero parte, direttamente e in prima persona, alla operazione di via Fani e al sequestro protrattosi in via Montalcini.

Meno evidenti sono quelle di altri condannati nei processi Moro uno/bis e ter e, per alcuni di essi, gli elementi di prova presentano profili decisamente problematici.

Se quasi tutti ricordano i fatti salienti che avvennero la mattina del 16 marzo ’78, quasi nessuno ha memoria dell’episodio meno noto tra quelli che accaddero a via Fani: il tentato omicidio dell’ingegnere Alessandro Marini. 

Era veramente arduo riporre fiducia nella credibilità del teste Marini che, nella fase iniziale della indagine, dopo aver visto alcune fotografie ed aver fatto anche una ricognizione personale, sostenne di essere assolutamente sicuro che uno dei brigatisti da lui visti la mattina del 16 marzo era Corrado Alunni, che però nulla c’entrava con via Fani ed aveva abbandonato le BR già da molto tempo. [20] 

Ma questo scivolone non impedì a Marini di diventare il più importante testimone del caso Moro e di ripetere mille volte, cambiando però mille volte la sua versione, che, essendosi trovato casualmente all’angolo tra via Stresa e via Fani, aveva incrociato due brigatisti che viaggiavano su una moto Honda. Il passeggero della moto aveva sparato contro di lui una raffica di mitra che aveva mandato in frantumi il parabrezza in plastica del suo ciclomotore Boxer. Marini si era salvato solo perché si era istintivamente abbassato.

Il testimone, quindi, convinse inquirenti e giudici di essere stato vittima di un tentativo di omicidio, commesso da due brigatisti, che però non saranno mai identificati, a bordo di una moto Honda, un mezzo che, tuttavia, nessuna indagine o processo ha mai dimostrato essere stato utilizzato dalle BR la mattina del 16 marzo. 

A 25 persone è stata inflitta una pena definitiva anche per questo delitto. 

Poi, in anni più recenti, fu la versione del testimone ad andare in frantumi. 

In alcune fotografie scattate nella mattinata del 16 marzo ’78, si vede chiaramente un Boxer, parcheggiato su un marciapiede in via Fani, che ha il parabrezza in plastica tenuto insieme con una striscia di un vistoso scotch marrone, ma ancora tutto integro. Nessun colpo di arma da fuoco l’ha colpito. Quando venne convocato dalla Commissione di inchiesta sul caso Moro, Marini (che, in verità, lo aveva già detto al Pubblico Ministero nel ’94), per l’ennesima volta, fece marcia indietro e cambiò la sua versione dei fatti, cercando di adattarla alla nuova situazione: sì, era vero, il parabrezza si era rotto prima dei fatti di via Fani e lui, per tenerlo insieme, aveva applicato lo scotch. Solo dopo il 16 marzo, avendo notato un pezzo mancante, aveva creduto che il parabrezza fosse stato raggiunto da un proiettile. [21] 

Un altro colpo durissimo alla credibilità del testimone lo diedero due testimonianze particolarmente qualificate.

Il Procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, ricordò ai parlamentari che Marini aveva sostenuto di essere stato minacciato a causa delle sue dichiarazioni sull’agguato di via Fani e la Polizia aveva installato un apparecchio nella abitazione dell’ingegnere per registrare le telefonate che riceveva a casa. Quelle registrazioni, dimenticate per 36 anni, erano state recuperate e dimostravano che Marini era stato sì effettivamente minacciato, ma per vicende personali che nulla c’entravano con il caso Moro. [22]

Federico Boffi, dirigente del Servizio centrale della Polizia Scientifica (per incarico della Commissione parlamentare aveva analizzato la scena dell’agguato), spiegava che la versione del testimone non reggeva perché la analisi della dinamica della azione dimostrava che non erano stati esplosi colpi di arma da fuoco da un veicolo in movimento e che la traiettoria dei proiettili era opposta rispetto al luogo in cui Marini affermava di essersi trovato. [23]

Ha sostenuto lo storico Gianremo Armeni che «il tentato omicidio di Alessandro Marini non è un fatto acclarato dalla magistratura, è una circostanza scritta nella sentenza direttamente dal testimone» ed è difficile non condividere questa affermazione. 

Non è, quindi, avventato concludere oggi, trascorsi 47 anni da quel giorno del marzo ’78, che uno dei fatti per i quali sono state inflitte molte condanne definitive non si è mai verificato.

Restano, però, gli altri gravissimi reati.

I componenti della brigata Università della colonna romana (Antonio Savasta, Emilia Libéra, Massimo Cianfanelli, Caterina Piunti e Teodoro Spadaccini) ammisero le proprie responsabilità ed anzi Savasta e Libéra divennero due tra i principali collaboratori di giustizia nella storia delle BR. I cinque imputati sono stati condannati per tutti i delitti connessi alla vicenda Moro. 

Ma cosa fecero esattamente questi brigatisti che, ovviamente, non si trovavano a via Fani? 

Secondo i giudici, la brigata universitaria era corresponsabile della “operazione Fritz” per tre essenziali ragioni: 1) al pari di tutte altre brigate, anche questa, nella imminenza del 16 marzo, aveva rubato auto poi utilizzate a via Fani; 2) aveva spiato i movimenti di Moro all’interno della facoltà di Scienze politiche; 3) aveva ricevuto la Renault 4 colore amaranto poi usata per trasportare il corpo di Moro sino a via Caetani.

Gli elementi di prova sembrano corposi, ma, se ci addentriamo nelle pieghe delle centinaia di pagine dei faldoni del processo, questo quadro offre minori certezze.

Un paio di mesi prima del 16 marzo, Savasta ricevette da Bruno Seghetti, cioè dalla direzione della colonna romana, l’incarico di osservare i movimenti di Moro all’interno della facoltà di Scienze politiche. Le regole della compartimentazione imponevano a Seghetti di non spiegare a cosa servisse questa inchiesta preliminare. Nel corso del processo, Savasta dichiarava di aver comunicato questa decisione a Libéra e Spadaccini, senza tuttavia aver fatto cenno al colloquio avuto con Seghetti. Dunque, per qualche giorno, i membri della brigata avevano spiato Moro e la sua scorta all’interno della facoltà. Infine, Savasta aveva comunicato a Seghetti che, dal suo punto di vista, era impossibile portare a termine qualsiasi azione in quel luogo perché il presidente DC era costantemente sorvegliato dalla scorta che, sicuramente, avrebbe aperto il fuoco.

Ma il racconto di Savasta diverge non poco da quello degli altri due militanti della brigata Università. 

Spadaccini negava di aver spiato Moro e confessava solo di aver svolto una rapida inchiesta sul professore Franco Tritto perché volevano dar fuoco alla sua auto.  Quando il Presidente della Corte di Assise chiese ad Emilia Libéra se aveva partecipato alla inchiesta sul presidente della DC insieme a Savasta, la donna replicava di non averlo mai fatto né di averlo mai saputo (Presidente: «Ma lei non seppe nulla di questa inchiesta?» Libéra: «No». Presidente: «Savasta non ebbe mai a parlarle, anche in seguito, di una inchiesta che aveva fatto su Moro?» Libéra: «No». Presidente: «Mai gliene parlò?» Libéra: «L’ho saputo adesso». Presidente: «Prima non l’ha mai saputo?» Libera: «No»).

Un mese prima del sequestro tutte le brigate ricevettero una lista di veicoli da rubare. Seghetti, responsabile politico della brigata Università, consegnò la lista a Libéra dicendo che le auto sarebbero state usate per una imminente, grande operazione. La brigata rubò un solo veicolo, ha sostenuto Savasta nel processo. Invece, secondo la versione processuale della Libéra, la brigata non riuscì a rubare nulla. 

Circa dieci giorni prima del 9 maggio, Seghetti affidò a Savasta, Libéra e Spadaccini l’auto Renault 4 di colore amaranto per “gestirla”, cioè cambiare le targhe, eliminare qualsiasi contrassegno del veicolo e lavarla. I tre della brigata università svolsero questi compiti. Poi, qualche giorno dopo, Libéra e Spadaccini portarono il veicolo a Piazza Albania e lo riconsegnarono a Seghetti. Per i tre militanti della brigata si trattava di una operazione di ruotine, eguale a tante altre, e, solo dopo la conclusione della vicenda, Savasta comprese che sulla Renault 4 era stato trasportato il cadavere di Moro. 

In definitiva, l’inchiesta nella facoltà di Scienze politiche, quasi certamente, non venne, quindi, svolta dalla brigata Università, ma dal solo Savasta ed i brigatisti Libéra e Spadaccini non seppero che i compiti che svolgevano erano connessi alla vicenda Moro: né la ricerca di auto prima del 16 marzo, né la custodia della Renault 4 amaranto.

Inoltre, nel processo emerse che Teodoro Spadaccini era stato sospeso dalla organizzazione prima del sequestro ed era stato riammesso, “scongelato”, alla metà di aprile ’78, quando cioè la vicenda stava per avviarsi a conclusione. 

Tuttavia, il forzato allontanamento del brigatista dalla vita della organizzazione non suscitò nei giudici l’interrogativo che la sua partecipazione, quantomeno ai delitti avvenuti la mattina del 16 marzo, esattamente come per Emilia Libéra, non era dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio.

Caterina Piunti, reclutata nella brigata nell’autunno ’77, ammise di essere stata militante della colonna romana e di aver diffuso i comunicati delle BR durante il periodo del sequestro. Massimo Cianfanelli, alla udienza del 19 maggio ‘82, sostenne di essere entrato nella brigata solo dopo i fatti di via Fani, a fine aprile ’78, e di essersi limitato a fare volantinaggio.

Piunti e Cianfanelli non vennero mai coinvolti nelle attività degli altri membri della brigata e Savasta e Libéra non smentirono la versione dei due imputati. Per i giudici, tuttavia, anche l’attività di diffusione dei comunicati aveva contribuito a rafforzare la prosecuzione del sequestro, anche se è difficile comprendere, allora, perché Piunti e Cianfanelli, se avevano assolto ad alcuni compiti solo dopo che Moro era già stato portato a via Montalcini, vennero condannati anche per i fatti avvenuti la mattina del 16 marzo. In termini più chiari: come può una attività di propaganda fatta durante il sequestro aver contribuito a realizzare delitti avvenuti prima, cioè uccidere la scorta di Moro e tentare di uccidere il teste Marini?

Le sentenze del processo Moro uno/bis sancirono la colpevolezza anche di Luca Nicolotti, dirigente della colonna genovese, e Cristoforo Piancone, dirigente della colonna torinese. 

Secondo i giudici, che ricevettero questa informazione da Patrizio Peci, i due imputati, già prima del 16 marzo, erano componenti del fronte della lotta alla controrivoluzione insieme a Rocco Micaletto, Franco Bonisoli e Prospero Gallinari. Le sentenze, nel primo come nel secondo grado, non spesero molte parole per dimostrare la responsabilità dei due brigatisti: avevano sicuramente partecipato ai delitti connessi alla vicenda Moro perché rivestivano posizioni di vertice ed il fronte nazionale della contro aveva deciso il sequestro insieme al comitato esecutivo. 

I fatti storici appaiono, però, molto più complessi.

Se Peci aveva sostenuto che Nicolotti era inserito nel fronte della lotta alla controrivoluzione [24], Valerio Morucci e Adriana Faranda possedevano informazioni diverse. 

Quando i due ex brigatisti, alla fine degli anni ‘80, scrissero un corposo memoriale sul caso Moro, compilarono anche un foglio che conteneva il completo organigramma degli organismi dirigenti nazionali e locali delle BR durante il sequestro. Secondo Morucci (nel ’78 membro del fronte nazionale della logistica) e Faranda (nel ’78 membro della Direzione strategica), il fronte della lotta alla controrivoluzione era composto da Bonisoli e Brioschi per Milano, Micaletto per Torino e Genova, Gallinari per Roma e Piancone per Torino, mentre Luca Nicolotti era solo membro della direzione della colonna genovese. [25]

I giudici di secondo grado del processo Moro uno/bis scrissero nella sentenza che l’inserimento di Nicolotti nel fronte di lotta alla controrivoluzione era «comprovato dalle concordanti, precise dichiarazioni degli imputati Peci, Savasta e Fenzi i quali, fra l’altro, parteciparono insieme con il Nicolotti alla riunione della Direzione strategica dell’organizzazione svoltasi a Genova nel dicembre 1979». 

In realtà, Fenzi non era presente alla riunione che si tenne a Genova, in via Fracchia, nel dicembre ‘79 e, in ogni caso, la partecipazione di Nicolotti ad una riunione di un organismo dirigente, la Direzione strategica, a fine ’79, cioè trascorso oltre un anno dai fatti di via Fani, non dimostrava, ovviamente, che l’imputato fosse stato membro di uno dei fronti nazionali delle BR. [26]      

In definitiva, Nicolotti e Piancone furono condannati perché Adriana Faranda, durante il processo di secondo grado, aveva confermato che «le azioni delle colonne dovevano essere preventivamente decise dai responsabili dei fronti; tutto ciò per rispondere a quella centralizzazione del dibattito politico che precedeva sempre e concludeva poi la esecuzione di tutte le azioni delle BR che si muovevano unitariamente su tutto il territorio nazionale».

Ma la sintetica descrizione delle regole di funzionamento delle BR, contenuta nella sentenza, appare troppo schematica. 

In generale, il compito del fronte nazionale della lotta alla controrivoluzione era quello di elaborare la “campagna politico-militare” all’interno della quale collocare gli obiettivi da colpire (i magistrati, gli esponenti politici ecc.), obiettivi concreti che, tuttavia, venivano individuati dalla colonna ed affidati, per la pianificazione della azione, al settore della contro locale. 

Ma ciò che più importa è che la vicenda Moro, per la sua eccezionale importanza, rappresentò un unicum nella vita della organizzazione. Già a partire dalla fine del ’76, la scelta di colpire un esponente politico di altissimo livello della DC era attribuibile, per intero, al comitato esecutivo che, in quel periodo, peraltro, aveva due suoi componenti, Moretti e Bonisoli, impegnati proprio a Roma per costruire la colonna cittadina, operazione senza la quale non avrebbe potuto realizzarsi l’azione di attacco al cuore dello stato. Il compito della pianificazione dell’agguato, si è detto ampiamente nelle pagine precedenti, era affidato, in toto, alla direzione della colonna romana ed il fronte nazionale della controrivoluzione, di fatto, era stato esautorato. 

Ha sostenuto Franco Bonisoli, deponendo nel corso del processo Metropoli nell’aprile 87, che la decisione del sequestro fu presa dal comitato esecutivo e che neppure la Direzione strategica entrò mai nel merito della azione che era in programma, «ciò non soltanto per un problema di compartimentazione, perché nella DS c’erano militanti che non sapevano dell’azione Moro, cioè non sapevano che l’obiettivo dell’azione che avevano ratificato fosse Moro. L’azione era estremamente compartimentata. Nella Direzione strategica del febbraio ’78 non si discusse dell’obiettivo dell’azione che era in corso, non venne fatto il nome di Moro».

Se la direzione strategica non partecipò alla ideazione e pianificazione del sequestro, come è possibile, allora, che lo abbiano fatto i membri del fronte della lotta alla controrivoluzione, struttura di rango politico inferiore alla Direzione strategica, oltre che al Comitato esecutivo?

Peraltro, le Brigate Rosse non avevano alcuna necessità di infrangere le rigide regole della compartimentazione, coinvolgendo tutti i componenti del fronte della lotta alla controrivoluzione, visto che tre membri di questa struttura (Bonisoli, Micaletto e Gallinari) erano già attivamente impegnati nella pianificazione della operazione.  

La posizione di Cristoforo Piancone presenta poi alcuni aspetti di straordinaria singolarità. Il brigatista torinese, l’11 aprile ’78, a Torino, partecipò all’agguato mortale contro l’agente di custodia Lorenzo Cotugno. Piancone, ferito, venne arrestato. Il 25 aprile ’78, il suo nome comparve nel comunicato n. 8 con il quale le BR chiedevano la liberazione di 13 detenuti in cambio del rilascio di Moro. Nonostante fosse detenuto dall’11 aprile e nonostante Piancone fosse, oggettivamente, interessato, in quel momento, ad una conclusione positiva del sequestro e non certo alla soppressione del prigioniero, anche lui venne condannato quale corresponsabile della uccisione avvenuta in via Montalcini.  

Giulio Cacciotti e Francesco Piccioni non erano dirigenti della colonna romana, ma semplici militanti. Il primo era membro della brigata Torre Spaccata, il secondo integrava il fronte logistico. Entrambi parteciparono a diverse azioni armate, in particolare Piccioni all’assalto alla caserma Talamo del 19 aprile ’78, azione nella quale venne utilizzata l’auto Renault 4 amaranto.

Ma Cacciotti e Piccioni, come tutti i militanti della colonna romana, non seppero mai nulla della operazione del 16 marzo e non svolsero nessun compito concreto che contribuì a mantenere Moro in prigionia. 

Applicando singolari principi del concorso di persone nel reato, i giudici ritennero che l’adesione al programma politico-militare della “campagna di primavera” fosse elemento sufficiente per condannare i due brigatisti per tutti i reati contestati ai veri protagonisti della operazione di via Fani. 

In altri termini, sembra che il ragionamento dei giudici sia stato quello secondo cui la militanza nelle BR, cioè la condotta di partecipazione alla banda armata prevista dal Codice penale, permetteva di addebitare al brigatista qualsiasi delitto commesso da altri membri della organizzazione, anche quelli che ignorava sarebbero avvenuti e rispetto ai quali, in ogni caso, non aveva fornito alcun aiuto o supporto. 

Ancor più singolari appaiono le motivazioni che riguardano gli imputati Gabriella Mariani, Antonio Marini ed Enrico Triaca, individuati come militanti di rango elevato, organizzatori delle attività della colonna romana.

In realtà, nulla provava che i tre imputati avessero partecipato ad una qualsiasi fase della operazione del 16 marzo o della custodia del prigioniero a via Montalcini. Nemmeno gli intensi rapporti avuti con Mario Moretti e nemmeno il fatto che Gabriella Mariani aveva dattiloscritto la risoluzione della direzione strategica del febbraio ‘78 permettevano di giungere a questa conclusione. È indiscutibile che Moretti non abbia mai parlato con loro della “operazione Fritz” prima del 16 marzo né saltò fuori, durante il processo, che gli imputati erano stati sollecitati a svolgere attività particolari e diverse dopo i fatti di via Fani. Peraltro, i comunicati diffusi durante il sequestro non vennero realizzati o duplicati né a via Palombini né a via Foà. 

I giudici fecero ricorso all’assunto apodittico della doppia negazione: in sostanza, gli imputati “non potevano non sapere”.

Così, per Gabriella Mariani «deve ritenersi per certo che fosse a conoscenza delle attività e dei programmi della organizzazione a Roma dall’inizio a sino all’arresto del 18 maggio ’78 e che abbia dato quindi…un contributo efficace alle attività delle BR e alla commissione di delitti, tra cui certamente la strage di via Fani, il sequestro e l’omicidio Moro» e per Triaca che «non può non aver partecipato alla operazione Moro ed a tutta la campagna di primavera». [27]

Le decisioni dei giudici del Moro uno/bis vennero sostanzialmente condivise dai magistrati del Moro ter, ma questi ultimi non seguirono sino in fondo la linea tracciata dai colleghi del primo processo. Anzi, nella parte della sentenza illustrativa della metodologia che i giudici avrebbero seguito, esplicitarono chiaramente un punto significativo di discontinuità con i provvedimenti giudiziari precedenti scrivendo:  «…non possa estendersi automaticamente agli organizzatori della banda armata la responsabilità per i reati commessi da altri associati, quasi derivando dalla loro posizione ai vertici dell’organizzazione una generalizzata attribuibilità a titolo di concorso morale di tutte le attività dei compartecipi di grado subordinato. In altri termini, la sola appartenenza all’organizzazione, anche con ruolo dirigenziale, e la previsione del reato nel programma criminoso non sono da sole sufficienti per stabilire la responsabilità a titolo di compartecipazione del singolo associato rimasto estraneo alla ideazione ed all’esecuzione del reato-fine, occorrendo la prova di un consapevole apporto causale alla commissione del fatto sia pure nella forma dell’istigazione o dell’agevolazione».  

Se nel processo del 1982/’83 condotto dal Presidente Severino Santiapichi, l’essere stato mobilitato per rubare auto poi usate il 16 marzo costituiva elemento di prova molto importante, quasi decisivo, per concludere che il militante brigatista aveva fornito un contributo alla realizzazione di tutti i delitti di via Fani (il plurimo omicidio degli uomini della scorta e il sequestro), i giudici del Moro ter pervennero ad una conclusione parzialmente diversa.   

Giulio Baciocchi, Walter Di Cera e Odorisio Perrotta era stati militanti della brigata Centocelle ed anche questa aveva ricercato/procurato auto usate a via Fani. 

Giuseppe Palamà, romano di Ostia, era entrato nella colonna romana nel marzo ’78 e, come Perrotta, aveva diffuso i comunicati BR durante il sequestro.

I giudici scrissero che «Di Cera ed Arreni rubano una Fiat 128 mentre Baciocchi e Savasta si impossessano di una Diane rossa. Entrambe le auto verranno utilizzate nell’iter criminis della strage di via Fani, del sequestro e dell’omicidio dell’On. Moro…l’autovettura dell’on. Moro viene bloccata da una Fiato 128 chiara rubata il 23 febbraio 1978 a Bosco Giuliano in Via Monte Brianzo, nei pressi immediati di Piazza Nicosia, come riferisce il Di Cera».

Le informazioni contenute in questo passaggio della sentenza non sono, tuttavia, corrette.

Infatti, l’auto che bloccò la macchina su cui viaggiava Moro non è quella indicata nella sentenza perché Moretti guidava una Fiat 128 familiare di colore chiaro (sulla quale venne apposta la targa CD 19707) rubata a Nando Miconi, l’8 marzo 1978, davanti al suo negozio in Via degli Scipioni 48. Questo veicolo venne abbandonato in via Fani. Invece, la Fiat 128 di colore chiaro di cui parlano i giudici, cioè quella rubata a Giuliano Bosco nei pressi di Piazza Nicosia, venne usata da Lojacono e Casimirri e, subito abbandonata in Via Licinio Calvo, venne trovata dagli inquirenti il 17 marzo 1978. 

Quanto all’auto Citroën Dyane è vero che i brigatisti ne utilizzarono una, ma non può trattarsi di quella che i giudici sostengono, sulla base dell’accusa formulata da Walter Di Cera, essere stata rubata da Baciocchi e Savasta. 

La macchina, infatti, (come ha sostenuto, senza essere mai smentito sul punto, Valerio Morucci nel suo memoriale) venne rubata il 6 marzo, era di colore azzurro e non è mai stata individuata dalle forze di polizia. 

Quando terminò la fase dell’agguato a via Fani, il convoglio brigatista in fuga era composto dalla Fiat 132 guidata da Seghetti (con Moretti, Fiore e il sequestrato), da una Fiat 128 bianca condotta da Casimirri (con Gallinari e Lojacono) e da altra Fiat 128 blu guidata da Morucci (con Bonisoli e Balzerani). Dopo aver percorso piazza Monte Gaudio, via Trionfale sino a largo Cervinia, via Carlo Belli e via Casale De Bustis, il convoglio si immise in via dei Massimi. Superata via Bitossi, Seghetti lasciò la guida della Fiat 132 a Moretti, salì su una Citroën Dyane azzurra, lasciata in quel posto il giorno prima, e si mise al seguito della 132. In piazza Madonna del Cenacolo avvenne il trasbordo di Moro dalla 132 ad un furgone Fiat 850. Morucci salì sulla Dyane guidata da Seghetti che diventò la testa del convoglio. La Citroën Dyane seguì il furgoncino 850 (su cui si trovavano Moretti, Gallinari e Moro) sino a via Isacco Newton, al parcheggio coperto della Standa. Mentre la Dyane restò fuori, il furgoncino 850 entrò nel parcheggio e si accostò ad una Ami 8 Breck guidata da Germano Maccari. La cassa di legno con dentro Moro venne caricata nella Ami che partì con Moretti alla guida e Maccari accanto. Morucci si mise alla guida del furgoncino 850 e si allontanò insieme a Seghetti che conduceva la Dyane. Morucci e Seghetti arrivarono poi a piazza San Cosimato, luogo nel quale i due veicoli vennero abbandonati. [28]

I giudici del Moro ter condannarono Baciocchi e Di Cera perché «il rapporto di causalità materiale e psichica tra il furto delle auto ed il sequestro e l’omicidio dell’On. Moro è evidente», ma, contrariamente ai giudici del Moro uno/bis, l’affermazione della responsabilità non riguardò anche il plurimo omicidio degli uomini della scorta benché i fatti (eccidio della scorta e sequestro) fossero contestuali. 

Alla stessa conclusione i magistrati giunsero per i brigatisti Palamà e Perrotta, responsabili di aver distribuito comunicati BR durante il sequestro. Avendo realizzato un «inserimento nella gestione del sequestro», erano corresponsabili del sequestro stesso e del successivo assassinio del presidente DC. [29]

In definitiva, identiche condotte illecite vennero valutate e sanzionate in maniera differente.

Nel Moro uno/bis, gli imputati accusati di aver procurato auto oppure di avere diffuso i comunicati della organizzazione durante il sequestro furono condannati per tutti i delitti principali della vicenda. 

Invece, nel Moro ter, ai brigatisti accusati delle medesime condotte venne risparmiata la condanna per l’eccidio della scorta e il tentato omicidio Marini.  

La scelta di applicare principi di “attribuzione automatica” della responsabilità penale produsse una ulteriore torsione dei criteri di valutazione della prova. 

Gli imputati nella prima vicenda giudiziaria furono riconosciuti colpevoli, indistintamente, anche per tutti i delitti compiuti dalla colonna romana nella imminenza del sequestro e durante il suo protrarsi. Si trattava, in particolare, dell’omicidio del magistrato Riccardo Palma del 14 febbraio ’78, dell’incendio dell’auto del poliziotto Tinu del 7 aprile ’78, dell’attentato alla caserma Talamo dei carabinieri del 19 aprile ’78 e del ferimento del consigliere democristiano Girolamo Menchelli del 26 aprile ’78.

In realtà, durante il processo, Savasta e Libéra non avevano fornito molte informazioni su questi fatti, accusando Prospero Gallinari, per il delitto Palma, e Seghetti, Piccioni ed Arreni, per l’attentato alla caserma. 

Ma i giudici decisero che «ne sono responsabili tutti gli imputati attesa la evidente connessione» con il sequestro di Aldo Moro, anche se per molti di essi (in particolare, Braghetti, Mariani, Marini, Spadaccini, Triaca, Savasta, Libèra, Cacciotti e Piunti), peraltro non inseriti in alcuna struttura dirigenziale nazionale o romana, non emergevano prove di una partecipazione, materiale o morale, ai fatti.   

La torsione diventò ancor più stridente nel caso di Anna Laura Braghetti, la invisibile proprietaria della abitazione di via Montalcini che, sino al 9 maggio ’78, ovviamente, non poteva e non doveva avere alcun contatto con altri brigatisti, per non compromettere la sicurezza della prigione del popolo. La “invisibilità” della Braghetti (la vita della brigatista, durante il sequestro, era quotidianamente scandita dalla presenza sul luogo di lavoro e dall’immancabile rientro nella abitazione di via Montalcini) dimostrava che la donna ben difficilmente avrebbe potuto partecipare, anche solo come ideatrice, ad altre azioni armate. Eppure, anche la Braghetti venne condannata per gli altri delitti commessi dalla colonna romana tra il febbraio e il 9 maggio 1978. [30]

Germano Maccari, l’altro abitante di via Montalcini, aveva svolto un ruolo identico a quello della Braghetti. Ma, nel suo caso, i magistrati romani fecero scelte diverse da quelle compiute nei primi anni ’80. Si è già sottolineato che il brigatista non fu processato per il tentato omicidio di Alessandro Marini. Inoltre, nel Moro quinquies, Maccari fu giudicato solo per i reati strettamente connessi al sequestro ed alla uccisione di Moro e non per gli altri delitti compiuti dalla colonna romana nella “campagna di primavera”, quelli per i quali la Braghetti era stata condannata. Raimondo Etro, imputato nello stesso processo, fu giudicato e condannato per l’omicidio del magistrato Riccardo Palma perché aveva svolto un ruolo attivo nel delitto. [31]

La sentenza Maccari-Etro matura in un’epoca diversa, distante 18 anni dai fatti di via Fani e 12 anni dalla prima sentenza Moro. Sembra evidente che la magistratura, in una fase storica che progressivamente si allontana dalla cultura emergenziale che ha dominato la vita giudiziaria negli anni ’70 e ’80, muti il proprio atteggiamento e decida di applicare altri criteri di valutazione della prova ed altre regole in materia di concorso di persone nel reato. 

Se le prime sentenze si erano pericolosamente allontanate dai canoni della responsabilità personale per condividere quelli della “responsabilità di posizione”, l’indagine ed il processo Maccari-Etro seguirono una linea giudiziaria diversa aprendo la strada ad un orientamento che, oggi, ispira i giudici nell’affermare principi costituzionalmente orientati, ad esempio quelli secondo i quali «il ruolo di partecipe di una organizzazione criminale non è sufficiente a far presumere la sua automatica responsabilità per ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio…giacché dei reati-fine rispondono soltanto coloro che materialmente o moralmente hanno dato un effettivo contributo alla attuazione della singola condotta criminosa…essendo teoricamente esclusa dall’ordinamento vigente la configurazione di qualsiasi forma di anomala responsabilità di posizione o da riscontro di ambiente». [32] 

Note

[17] Nel processo Moro uno/bis, la sentenza di primo grado viene emessa dalla Corte di Assise di Roma (Pres. Santiapiachi) il 24 gennaio 1983. Quella di secondo grado (Pres. De Nictolis) è emessa il 14 marzo 1985 e quella della Corte di cassazione (Pres. Carnevale) interviene il 14 novembre 1985. Nel cd. processo Metropoli, la sentenza di primo grado viene emessa il 16 maggio 1987 e quella d’appello il 19 maggio 1988. Nel processo Moro ter, la sentenza di primo grado (Pres. Sorichilli) è del 12 ottobre 1988. La sentenza d’appello è del 6 marzo 1992 e quella della Corte di cassazione (Pres. Valente) viene emessa il 10 maggio 1993. La sentenza di primo grado del processo Moro quater è del 1° dicembre 1994, quella di secondo grado del 3 giugno 1996 e quella della Corte di cassazione del 14 maggio 1997. Infine, nel processo Moro quinquies, la sentenza di primo grado viene emessa il 16 luglio 1996, quella della Corte di Assise di Appello il 19 giugno 1997 e, dopo due annullamenti disposti dalla Corte di cassazione, le condanne diventano definitive nel 1999. Tutti i provvedimenti giudiziari sul caso Moro, con i relativi incartamenti, sono custoditi presso l’Archivio di Stato di Roma.   

[18] Per il racconto fornito da alcuni brigatisti che furono protagonisti della operazione Moro v. Mario Moretti (intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca), Brigate Rosse. Una storia italiana, Mondadori, 2017; Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, PGreco, 2014; Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, Il prigioniero, Feltrinelli, 2003; Aldo Grandi, L’ultimo brigatista, BUR, 2007; Barbara Balzerani, Compagna luna, DeriveApprodi, 2013.

[19] Per incarico della Commissione parlamentare di indagine sul caso Moro, il Reparto Investigazioni Scientifiche Carabinieri ha svolto accertamenti sulla vicenda Moro. Ha escluso che, nei reperti della base di via Gradoli, vi fossero tracce biologiche riconducibili ad Aldo Moro (dimostrando, in maniera inconfutabile, che Moro non è mai stato nell’appartamento) ed ha, invece, accertato la presenza di profili genetici riconducibili a 2 soggetti maschili ignoti e 2 soggetti femminili ignoti. Inoltre, il RIS accedeva, il 4 maggio 2017, in via Montalcini 8 per effettuare una sperimentazione all’interno del box auto che, nel ’78, apparteneva a Laura Braghetti. Secondo la relazione tecnica «si ritiene che non siano emersi elementi oggettivi tali da sconfessare un’azione di fuoco nel box in questione contro Aldo Moro…le prove reali e virtuali d’ingombro con la Renault4 consentono di non escludere che la vittima sia stata attinta nel bagagliaio mentre l’auto era parcheggiata a retromarcia nel box» (v. audizioni del Comandante RIS Roma, Luigi Ripani, nelle sedute del 30 settembre 2015, 23 febbraio 2017 e 2 marzo 2017 della Commissione Moro). Infine, gli accertamenti tecnici effettuati dalla Polizia Scientifica in via Fani-via Stresa (sul numero dei colpi esplosi, sulla traiettoria dei proiettili esplosi dalle armi usate dai brigatisti ecc.) smentivano sia la ipotesi di un “super sparatore” sia la tesi della presenza, in via Fani, durante l’azione, di persone diverse ed ulteriori rispetto a quelle che sono individuate e condannate dalla magistratura (v. audizione del Dirigente Servizio Centrale Polizia Scientifica nella seduta del 10 giugno 2015 della Commissione Moro).                  

[20] Sulla identificazione di Corrado Alunni da parte del teste Alessandro Marini v. l’audizione, del 25 marzo 2015, dell’ex giudice istruttore di Roma Ferdinando Imposimato davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro.

[21] Sulla tormentata testimonianza di Alessandro Marini e sul tema della moto Honda usata a via Fani v. Gianremo Armeni, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, cit.; inoltre, v. dell’autore l’articolo, Il secolo breve del testimone di via Fani, in http://www.questionegiustizia.it, 9 giugno 2023.

[22] L’audizione del Procuratore Generale di Roma Luigi Ciampoli si è svolta nella seduta del 12 novembre 2014 della Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro e può essere consultata accedendo al sito della Camera dei deputati alla voce Resoconti stenografici–audizioni.

[23] Il funzionario della Polizia di Stato Federico Boffi è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro nelle sedute del 10 giugno ed 8 luglio 2015.

[24] Peci sostenne che Nicolotti, Micaletto, Gallinari, Faranda, Piancone e Bonisoli erano membri del fronte della lotta alla controrivoluzione durante l’interrogatorio reso alla udienza del 17 giugno ’82 nel processo di primo grado Moro uno/bis. Nel corso del processo Moro ter svoltosi innanzi la 2° Corte di Assise di Roma, alla udienza del 7 maggio ‘97, Morucci dichiarò che Luca Nicolotti non era membro del fronte della lotta alla controrivoluzione.

[25] Il memoriale Morucci-Faranda, redatto nella seconda parte degli anni ’80, è divenuto pubblico nel 1990 ed è allegato agli atti del processo di appello del Moro ter.

[26] Alla riunione della Direzione strategica svoltasi in via Fracchia a Genova, nell’appartamento di Anna Maria Ludmann, parteciparono Mario Moretti, Barbara Balzerani, Vincenzo Guagliardo, Nadia Ponti, Riccardo Dura, Luca Nicolotti, Francesco Lo Bianco, Bruno Seghetti, Francesco Piccioni, Renato Arreni, Maurizio Iannelli, Antonio Savasta, Rocco Micaletto, Patrizio Peci e Lorenzo Betassa.

[27] Nel processo Moro uno/bis, Antonio Savasta rese interrogatorio nelle udienze del 28 e 29 aprile, 3, 4, 5, 10, 12 e 17 maggio ’82; Emilia Libéra durante le udienze del 12, 17, 18 e 19 maggio ’82; Patrizio Peci alle udienze del 14, 15, 16 e 17 giugno ’82; Teodoro Spadaccini alle udienze del 2 e 3 giugno ’82; Massimo Cianfanelli nel corso delle udienze del 17, 20 e 24 maggio ’82.

[28] Un interessante e documentato reportage fotografico di tutti i luoghi del sequestro e della fuga verso via Montalcini è stato realizzato dal fotografo Luca Dammico. Il reportage Geografia del caso Moro è consultabile nel sito www.lucadammico.it. Inoltre, una meticolosa ricostruzione del percorso di fuga dei brigatisti da via Fani alla base di via Montalcini è contenuta nel libro di Marco Clementi-Paolo Persichetti-Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, cit.

[29] Nel gruppo dei condannati con la sentenza di primo grado del Moro ter, solo Perrotta era stato rinviato a giudizio per tutti i fatti principali (uccisione della scorta, tentato omicidio Marini, sequestro ed uccisione di Aldo Moro). A Baciocchi, Di Cera e Palamà i delitti vennero contestati nel corso del processo, ad eccezione di quelli riguardanti l’uccisione della scorta e il tentato omicidio Marini. La sentenza sancì un trattamento uniforme e Perrotta vene assolto per questi ultimi reati. Nel processo di appello, svoltosi nel 1992, Baciocchi, Di Cera e Palamà si avvalsero del nuovo istituto introdotto dall’art. 599 nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore nell’ottobre 1989, e definirono la propria posizione in udienza camerale, senza affrontare il dibattimento.

[30] Nel processo d’appello del Moro uno/bis, Caterina Piunti venne assolta per l’omicidio Palma, avvenuto nel febbraio ’78, in quanto restava in dubbio che l’attività svolta dalla imputata nella brigata fosse «in nesso di causalità con la produzione della suddetta azione criminosa». La scelta, condivisibile, di assolvere la Piunti, perché non era dimostrato quale contributo avesse fornito alla consumazione del delitto Palma, non è però coerente con quella, di segno diametralmente opposto, seguita per gli altri imputati in riferimento ai delitti commessi a Roma dalle BR tra febbraio e maggio 1978. Sempre con riferimento all’omicidio del magistrato Riccardo Palma, i processi Moro quater e quinquies (sulla base delle dichiarazioni di Adriana Faranda, Valerio Morucci, Antonio Savasta, Emilia Libéra e Raimondo Etro) stabilirono che la uccisione di Palma, deliberata dal Comitato esecutivo e dalla Direzione della colonna romana, venne organizzata ed eseguita dai componenti del settore romano della lotta alla controrivoluzione: Faranda, Gallinari, Lojacono, Casimirri, Algranati ed Etro. È significativa l’ampia distanza che intercorre tra questo accertamento giudiziale e la decisione dei giudici del processo Moro uno/bis che, invece, condannarono per il delitto Palma anche militanti brigatisti che non integravano il settore della contro.           

[31] Raimondo Etro era stato incaricato di svolgere una prima inchiesta preliminare sui movimenti di Moro e della scorta ed aveva disegnato la planimetria della zona della chiesa situata in piazza dei Giochi Delfici. Etro sarà poi estromesso dall’azione di via Fani per manifesta incapacità. Durante le fasi preparatorie della operazione, nella zona di via Trionfale-angolo via Fani, avrebbe dovuto controllare gli orari di passaggio della scorta e avvisare gli altri brigatisti con un walkie-talkie, ma non riuscì a farlo perché sopraffatto dalla paura. Una situazione analoga avvenne anche in occasione della uccisione del magistrato Riccardo Palma perché Etro, che era incaricato di sparare al magistrato, non ebbe il coraggio di farlo. Fu Prospero Gallinari ad intervenire, prendendo il posto di Etro ed ammazzando Palma.       

[32] Il brano è tratto dalla sentenza emessa dalla VI Sezione Penale della Corte di cassazione, Pres. Ippolito, il 17 settembre 2014.

Pino Narducci – Rapimento Moro, le sentenze giudiziarie al vaglio della storia (parte prima)

A mezzo secolo di distanza dalle istruttorie e i maxi processi condotti contro i militanti della lotta armata è ormai maturo il tempo si sottoporre le sentenze di giustizia al vaglio critico della storia. Il tempo trascorso, l’importante mole documentaria, le ulteriori testimonianze orali e gli studi storici più seri, ci consentono di potere valutare se «la verità giudiziaria resista, e in quale misura, alla straordinaria forza della verità storica». Su Questione giustizia di questo mese di giugno, rivista di Magistratura democratica curata da Nello Rossi, è apparso un importante studio in due puntate di Pino Narducci, presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia, che già in passato si è cimentato su vicende giudiziarie che hanno riguardato i movimenti sovversivi degli anni Settanta.
Il lavoro di Narducci smonta uno dei luoghi comuni più diffusi, agitato polemicamente dagli esponenti della dietrologia contri chi cerca di fare lavoro storico: ovvero che questi ultimi si trincererebbero dietro le sentenze perché «i processi hanno detto tutto quello che c’era da dire». Basti pensare alle divergenze tra le prime ricostruzioni processuali sulla dinamica dell’azione di via Fani e i successivi lavori storici che hanno precisato nel dettaglio la preparazione logistica, il numero dei singoli partecipanti, la dinamica dell’azione, Il percorso di di fuga.
Tre anni fa, nel volume La polizia della storia pp. 260-263, (https://insorgenze.net/2022/03/15/sequestro-moro-dopo-44-anni-continua-ancora-la-caccia-ai-fantasmi/), avevo analizzato le cinque istruttorie e i quattro processi che hanno contraddistinto l’attività della magistratura nella vicenda del sequestro Moro. In quello studio indicavo in ventisette il numero delle persone condannate per il sequestro, l’uccisione della scorta e l’omicidio finale del presidente del consiglio nazionale della Dc, fatti avvenuti tra la mattina del 16 marzo 1978 e l’alba del 9 maggio successivo. Una ventottesima persona era stata assolta perché all’epoca dei processi non erano emersi elementi di prova nei suoi confronti. In realtà, solo 16 di queste risultavano con certezza direttamente coinvolte nella vicenda, le altre undici non avevano partecipato né sapevano del sequestro.
Il lavoro di scavo e analisi realizzato da Pino Narducci ci dice che le persone sanzionate furono in realtà trentuno. Ventisette condannate sia per fatti di via Fani (uccisione della scorta, tentato omicidio di Alessandro Marini e sequestro di Aldo Moro) che per l’omicidio in via Montalcini, gli altri quattro riconosciuti responsabili solo per due dei quattro delitti principali. Se all’elenco dei condannati – scrive ancora Narducci – si aggiungono gli imputati prosciolti in istruttoria o assolti nei processi, «scopriamo che la magistratura ha complessivamente inquisito oltre 50 persone, forse anche più. Una cifra decisamente spropositata». 
Questo ci dice che l’attività inquisitoria della magistratura e delle forze di polizia fu imponente, seppur inizialmente imprecisa, anche se la martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato negli anni successivi questo dato significativo. Non ci fu affatto una inazione o distrazione, tantomeno episodi di clemenza pattuita sulla base di una rinuncia a verità scomode o indicibili. Gli unici sconti di pena concessi furono il risultato della legislazione premiale che venne introdotta e applicata a quegli imputati che collaborarono nei processi o si dissociarono con dichiarazioni di abiura che prendevano le distanze dalla loro militanza passata.
Il lavoro di Narducci dopo aver scandagliato per intero le sentenze di ogni grado dei cinque processi, coglie le numerose incongruenze presenti. I reati principali contestati nei giudizi riguardavano l’assalto in via Fani con l’omicidio plurimo degli agenti della scorta di Moro e i vari reati corollario, il sequestro vero e proprio dello statista democristiano e infine la sua uccisione. Per altro Narducci contesta il ricorso all’aggravante della premeditazione della uccisione dell’esponente Dc, che si dimostra storicamente infondata o comunque valida solo a partire da una determinata data: il 15 aprile con il comunicato numero 6 che annunciava la fine del processo del popolo e la sentenza di condanna? Comunicato smentito in realtà dalla ricerca continua di una interlocuzione politica e scambio di prigionieri (le lettere di Moro inviate dopo quella data e la telefonata di Moretti del 30 aprile), o ancora la riunione dell’esecutivo di colonna dell’8 maggio in via Chiabrera, che di fatto sancisce la decisone reale della uccisone di Moro, predisponendone la logistica.
Chi era direttamente coinvolto nella gestione quotidiana del sequestro non per forza era in via Fani, nonostante ciò nelle prime sentenze di condanna emesse negli anni 80, questa differenza non viene fatta. Si applicano «singolari principi del concorso di persone nel reato, i giudici ritennero che l’adesione al programma politico-militare della “campagna di primavera” fosse elemento sufficiente per condannare i due brigatisti per tutti i reati contestati ai veri protagonisti della operazione di via Fani […] In altri termini, sembra che il ragionamento dei giudici sia stato quello secondo cui la militanza nelle BR, cioè la condotta di partecipazione alla banda armata prevista dal Codice penale, permetteva di addebitare al brigatista qualsiasi delitto commesso da altri membri della organizzazione, anche quelli che ignorava sarebbero avvenuti e rispetto ai quali, in ogni caso, non aveva fornito alcun aiuto o supporto». 
Cosa che non avverrà nei processi compiuti nella seconda parte degli anni 90 quando le sentenze torneranno ad applicare i canoni della responsabilità personale distanziandosi da quella «responsabilità di posizione» condivisi nel decennio precedente, tanto che il reato di concorso e l’appartenenza alla banda armata verranno puniti con criteri meno estensivi e maggiormente conformi al dettato costituzionale. Diversi tra quei 27 condannati nei primi processi, Moro uno-bis e Moro ter, non avrebbero subito la stessa condanna o sarebbero stati prosciolti se giudicati nel decennio successivo.
Nel suo studio Narducci sottolinea la sconcertante condanna di 25 imputati ritenuti colpevoli del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini. Il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini.
Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura pendono nuovi filoni d’indagine (su alcuni di questi vi sarebbe la richiesta di archiviazione), ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa (uno dei primi grossolani errori commessi dalla prima sentenza del Moro uno-bis, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver inquisito 50 persone, condannato 11 persone totalmente estranee al sequestro e altre coinvolte solo in parte, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

Schizzo di Mario Moretti

di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia
Pubblicato su Questionegiustizia.it, 25 giugno 2025 col titolo «Il caso Moro. Per un’analisi delle sentenze (parte prima)»

Le indagini che si avviarono nel marzo ‘78, secondo un giudizio storico ormai consolidato, si svolsero all’insegna della più assoluta impreparazione. Nella capitale, forze di polizia e magistratura non possedevano alcuna conoscenza della struttura brigatista, del suo gruppo dirigente e del suo insediamento nel territorio urbano. Pur avendo tra le proprie mani le registrazioni di diverse telefonate fatte dai brigatisti durante il sequestro (tutti hanno in mente quella fatta da Mario Moretti, il 30 aprile, alla famiglia del prigioniero e quella del 9 maggio con la quale il dottor Nicolai, cioè Valerio Morucci, comunicava al prof. Franco Tritto che il cadavere di Moro si trovava in via Caetani), per lunghissimo tempo gli inquirenti non riuscirono a stabilire a quale volto appartenessero quelle voci ed attribuirono quelle telefonate, di volta in volta, a persone che, in realtà, non c’entravano nulla con il sequestro Moro [1]

Non avendo alcuna idea sulla composizione del nucleo che aveva agito in via Fani, gli investigatori romani controllarono la possibile presenza a Roma, sia il 16 marzo che il 9 maggio, di decine di aderenti o simpatizzanti di formazioni della sinistra extraparlamentare di varie città italiane («sospettabili di vicinanza alle BR»), accertamento che, ovviamente, non poteva produrre alcun risultato. 

Quanto al luogo di prigionia di Moro, solo nel 1985 gli inquirenti stabilirono, in maniera definitiva, che il presidente della Democrazia cristiana era sempre stato, per l’intera durata del rapimento, in un appartamento situato al primo piano di un edificio che si trovava in via Montalcini 8 [2].

Patrizio Peci aveva iniziato a collaborare nell’aprile ’80 e, nel gennaio ’81, il giudice istruttore romano Ernesto Cudillo fece un primo bilancio delle indagini. Dispose il rinvio a giudizio di molte persone ritenute responsabili della vicenda Moro, ma dovette anche emettere una sentenza con la quale riconoscere che diverse altre – colpite da mandati di cattura che contestavano il reato di partecipazione alla banda armata Brigate Rosse e quello di partecipazione ai fatti del 16 marzo e 9 maggio ’78 – erano estranee a quei fatti. Cudillo prosciolse dalle accuse principali Corrado Alunni, Maria Fiore Pizzi Ardizzone, Enrico Bianco, Giovanni Lugnini, lo stesso Patrizio Peci, Franco Pinna, Oriana Marchionni, Susanna Ronconi, Giustino De Vuono e Antonio Negri [3]

Peci, tuttavia, non aveva partecipato alla azione di via Fani e, nel ’78, non era ancora diventato responsabile della colonna torinese. Le sue informazioni sulla operazione Moro erano scarne ed imprecise, per lo più frutto di alcune notizie fornite da Raffaele Fiore. Negli anni successivi si aggiunsero altre testimonianze, ben più importanti, provenienti da brigatisti appartenenti alla colonna romana, perché solo i romani potevano raccontare quello che era realmente accaduto. Le informazioni di Antonio Savasta ed Emilia Libéra, ma, soprattutto, quelle di Valerio Morucci e Adriana Faranda (ciascuno sempre tenacemente geloso della definizione, dai confini in verità assai labili, che riservava per sé: Morucci e Faranda imputati dissociati, Savasta e Libéra collaboratori di giustizia) saranno i pilastri su cui i giudici scriveranno le sentenze emesse dalla Corte di Assise di Roma, negli anni ’80 e 90, al termine di ben cinque processi: Moro uno/bis, Moro ter, Moro quater, Moro quinquies e cd. processo Metropoli. 

Se la ossessiva tentazione di rincorrere zone d’ombra per svelare i presunti misteri del caso Moro rischia di trasformare in farsa una delle maggiori tragedie della nostra storia, come sostiene lo storico Marco Clementi [4], appare allora molto più utile fermarsi a valutare i documenti di quei processi per comprendere se, ormai giunti a quasi 50 anni dal 16 marzo ‘78, la verità giudiziaria resista, ed in quale misura, alla straordinaria forza della verità storica. 

Dunque, valutare i fatti descritti nei provvedimenti giudiziari non per scovare vuoti narrativi da riempire con ipotesi alternative – come suggeriscono quelli che sostengono che ogni avvenimento di quella primavera è frutto di cospirazioni ordite da forze inafferrabili – ma per trovare soluzioni ad alcune domande in ordine alle quali le sentenze non sempre hanno fornito risposte convincenti.  

Quanti furono i brigatisti coinvolti, complessivamente, nella “operazione Fritz” [5]? Quanti sono stati individuati e processati? Manca ancora qualcuno all’appello? O, forse, il numero degli inquisiti e dei condannati, al contrario, è più che esaustivo ed anzi si rivela eccessivo rispetto alle reali forze messe in campo dalle Brigate Rosse nella primavera ‘78? 

Anzitutto, se aggiungiamo all’elenco dei condannati quello degli imputati prosciolti in istruttoria o assolti nei processi, scopriamo che la magistratura ha complessivamente inquisito oltre 50 persone, forse anche più. Una cifra decisamente spropositata. 

Le sentenze dedicate al caso Moro, accanto ad ampi ed innegabili punti fermi di verità, non sempre ci offrono una immagine nitida delle responsabilità personali benché, alla fine, il processo penale, anche quando si occupa di attività delittuose commesse da organizzazioni, abbia il compito di accertare e sanzionare le condotte degli individui. 

Così, leggendo, in particolare, i provvedimenti giudiziari dei processi Moro uno/bis e Moro ter, per alcuni imputati scorgiamo distintamente luci ed ombre mentre per altri l’immagine è così sfocata da rendere indistinguibili i contorni della responsabilità.      

I fatti storici, cioè gli accadimenti che nei processi diventarono i reati principali contestati a tutti gli imputati (fa eccezione, per un solo aspetto, il processo Moro quinquies), furono sempre quattro: il plurimo, premeditato omicidio degli uomini della scorta (il maresciallo Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci e i poliziotti Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino); il sequestro a scopo di estorsione del presidente della Democrazia Cristiana, dal giorno del rapimento al 9 maggio; il tentato omicidio di Alessandro Marini, un cittadino romano che si trovava casualmente all’angolo tra via Stresa e Via Fani la mattina del 16 marzo e contro il quale venne esplosa una raffica di mitra; l’uccisione premeditata di Aldo Moro avvenuta il 9 maggio nella base di via Montalcini 8 [6]

Se è ampiamente provato, sul piano storico e nei processi, che il piano (annientamento della scorta e rapimento in via Fani) venne messo a punto nel corso di circa due mesi e che i delitti del 16 marzo sono chiaramente premeditati, non è invece scontato definire il perimetro all’interno del quale collocare l’omicidio del 9 maggio, un confine temporale necessario per individuare le responsabilità per un delitto certamente premeditato che, però, non prese avvio il giorno del sequestro. 

Sappiamo che le Brigate Rosse non intendevano, sin dall’inizio, sopprimere la vita del presidente democristiano. 

«Non c’era nulla di programmato rispetto alla sorte di Moro, quindi neanche il tempo della sua detenzione. Si prevedeva che, avendo aperto una complessa campagna politico-militare di cui Moro era il perno politico, i tempi sarebbero stati necessariamente lunghi. C’era anche un altro tipo di operazione a pari livello nel mondo economico…a Milano era già pronto il sequestro di Leopoldo Pirelli», ha raccontato Lauro Azzolini, componente del comitato esecutivo delle BR nel ‘77’/’78 [7]

Infatti, l’azione di via Fani fu costruita per rapire e processare il presidente della Democrazia Cristiana e la possibilità di liberazione del sequestrato, tra marzo ed aprile, fu sempre una opzione concreta e possibile, almeno sino ad un certo momento, opzione chiaramente ricercata ed auspicata dalle BR. Se il prigioniero fosse stato rilasciato a fine aprile in cambio della liberazione anche di una sola persona della lista che conteneva 13 nomi di detenuti o, quantomeno, del riconoscimento politico da parte della Democrazia Cristiana che, in Italia, esistevano prigionieri politici, le BR avrebbero ottenuto un innegabile successo. 

Questa fu la soluzione ricercata insistentemente, soprattutto per iniziativa di Mario Moretti, sino ai primi giorni di maggio, ma senza alcun esito. 

D’altronde, i brigatisti presenti in via Montalcini hanno sempre ricordato che il prigioniero ebbe rapporti con due sole persone (Moretti e Gallinari), che avevano sempre il volto coperto, e che Aldo Moro non si rese mai conto che, nell’appartamento, vivevano Anna Laura Braghetti e Germano Maccari. Queste scrupolose precauzioni furono adottate, appunto, per evitare che il sequestrato, tornato in libertà, potesse fornire informazioni sulla prigione del popolo. 

Sempre Lauro Azzolini ha sostenuto che le BR avevano deciso che, anche se la prigione di via Montalcini fosse stata accerchiata dalle forze di polizia, il prigioniero non doveva essere ucciso ed i brigatisti avrebbero dovuto avviare una trattativa: ottenere garanzie per la propria incolumità in cambio della salvezza del presidente della DC. 

La decisione di uccidere il prigioniero venne, quindi, adottata dal comitato esecutivo delle BR nel periodo successivo alla diffusione del comunicato n. 7 del 20 aprile («il rilascio del prigioniero Moro può essere preso in considerazione solo in relazione alla liberazione di prigionieri comunisti») e del comunicato n. 8 del 25 aprile con il quale si chiedeva la liberazione di 13 detenuti esattamente individuati, richiesta che non ottenne aperture nel mondo politico ed istituzionale e che indusse poi la organizzazione – soprattutto non avendo colto alcun segnale di possibile dialogo dopo la telefonata di Mario Moretti del 30 aprile – ad annunciare, nel comunicato n. 9 del 6 maggio, che le BR si apprestavano ad eseguire la sentenza cui il presidente della DC era stato condannato. Il periodo in cui matura la decisione di uccidere Aldo Moro è dunque, all’incirca, quello che va dagli ultimi giorni di aprile al 9 maggio. Nelle pagine che seguono è possibile comprendere perché questa precisazione, opportuna dal punto di vista storico, è utile anche sul piano giuridico.

Le sentenze dei giudici romani, tutte definitive da moltissimi anni, hanno stabilito che 31 persone sono responsabili per i reati della vicenda Moro. Ma se 27 imputati sono stati condannati sia per fatti di via Fani (uccisione della scorta, tentato omicidio di Alessandro Marini e sequestro di Aldo Moro) che per l’omicidio in via Montalcini, quattro brigatisti sono stati riconosciuti responsabili solo per due dei quattro delitti principali.

In realtà, a contar bene, i condannati dovrebbero essere 32, ma si è determinata una situazione singolare perché la brigatista Rita Algranati, militante irregolare della colonna romana e componente del nucleo che portò a termine l’azione in via Fani, è stata assolta in via definitiva perché, quando venne processata, non era ancora emersa la sua presenza la mattina del 16 marzo né il ruolo che aveva svolto nella preparazione del sequestro.

Per valutare le sentenze non possiamo non partire dalla storia, quella che avviene ben prima che comincino i processi. Dobbiamo tornare al 1977.   

Hanno già studiato alcuni sui movimenti un anno prima, in una sorta di pre-inchiesta, ma, solo alla fine della estate ’77, le Brigate Rosse, scartate definitivamente le iniziali opzioni Giulio Andreotti e Amintore Fanfani, decidono di avviare la complessa operazione che, alcuni mesi dopo, conduce al sequestro di Aldo Moro. Mario Moretti, il membro più autorevole del Comitato esecutivo (formato anche da Rocco Micaletto, Franco Bonisoli e Lauro Azzolini), negli ultimi giorni di settembre/primi giorni di ottobre, incontra la Direzione della colonna romana (composta da Bruno Seghetti, Barbara Balzerani, Prospero Gallinari, Valerio Morucci e Adriana Faranda) in un villino a Velletri, da poco adibito a base del gruppo dirigente brigatista della capitale. Moretti comunica che l’attacco alla Democrazia cristiana avverrà al più alto livello politico possibile, mediante il sequestro del suo Presidente, ed affida alla dirigenza della colonna la elaborazione del piano: osservare i movimenti di Moro e della scorta, scegliere il luogo in cui sequestrarlo e studiare con scrupolo anche il non meno importante percorso al termine del quale il rapito dovrà arrivare nella prigione del popolo. L’unico compito che non viene affidato alla colonna romana è quello della individuazione della abitazione in cui il rapito sarà tenuto prigioniero, aspetto di cui si occuperà personalmente Mario Moretti. 

Le Brigate Rosse romane hanno assunto una completa fisionomia solo nel corso del ‘77, grazie all’iniziale dinamismo di Moretti e dei milanesi Bonisoli e Carla Brioschi, tutti giunti nella capitale, tra fine del ’75 e gli inizi del ’76, per creare una struttura della organizzazione nella città al di fuori della quale è impensabile portare l’attacco al cuore dello stato, cioè, nella visione delle BR, al partito-regime che con lo stato si identifica, la Democrazia Cristiana. Il reclutamento a Roma è stato notevole e nelle BR sono entrati molti giovani con esperienze di lavoro illegale e di azioni armate maturate in altre formazioni della multiforme galassia della sinistra estrema. 

L’obiettivo della azione che prende forma a Velletri è un esponente politico e, quindi, secondo le regole della organizzazione, lo studio del piano richiede il coinvolgimento dei brigatisti che integrano il settore romano della lotta alla controrivoluzione: con Gallinari e Faranda ne fanno parte anche i militanti irregolari Rita Algranati, Alvaro Lojacono, Alessio Casimirri e Raimondo Etro. 

Le BR devono reperire una abitazione sicura che sarà destinata a luogo di prigionia di Moro. Serve, quindi, un prestanome che non attiri sospetti e che non sia conosciuto dalle forze di polizia. Bruno Seghetti presenta a Moretti la sua compagna, Anna Laura Braghetti, che accetta la proposta del dirigente BR di acquistare un appartamento che – questo solo comunica Moretti alla Braghetti – sarà utilizzato per una importante azione delle BR. La donna deve trovarlo nella zona dei Colli Portuensi e, quindi, nel giugno ’77, acquista un appartamento situato al primo piano di un condominio di via Montalcini 8 per una somma di 45 milioni di lire in contanti, denaro proveniente dal sequestro Costa. L’edificio si trova in un quartiere di media borghesia e, ad agosto ’77, Braghetti inizia ad abitare l’appartamento ed a socializzare con gli altri condomini. Quello che presenta come marito, l’ingegnere Luigi Altobelli, è in realtà Germano Maccari, anche lui da poco reclutato nella colonna romana. Braghetti e Maccari non devono svolgere nessun compito particolare, se non quello di abitare la casa ove Moro sarà tenuto prigioniero. Se non è conosciuta dalle forze di polizia, nemmeno i brigatisti romani (con la eccezione di alcuni militanti dell’area Centocelle-Torre Spaccata) conoscono Anna Laura Braghetti e, certamente, non sanno che lei è la proprietaria dell’appartamento che sarà la prigione di Moro.

Pur consapevole che Braghetti è la prestanome scelta dalla organizzazione, anche Bruno Seghetti ignora dove si trovi la abitazione acquistata dalla sua compagna.   

Nella preparazione della “operazione Fritz” le Brigate Rosse mettono in pratica un doppio livello di compartimentazione. Anzitutto, nessun brigatista diverso da quelli che pianificano ed attueranno il piano militare deve sapere cosa avverrà il 16 marzo. Il secondo livello prevede che l’abitazione che diventerà prigione del popolo sia sconosciuta anche ai brigatisti che sequestreranno Moro, fatta eccezione per Moretti e Gallinari. 

Le BR hanno anche un piano di riserva pronto a scattare in caso di emergenza. Se, il giorno scelto per la operazione, le cose si metteranno male (ad esempio, con la uccisione o il ferimento di Moretti e Gallinari), Seghetti cercherà la Braghetti presso il luogo di lavoro della donna ed Aldo Moro, provvisoriamente collocato nella base di via Chiabrera 74, sarà poi subito trasportato a via Montalcini [8].      

Mentre la Braghetti cerca la casa ai Colli Portuensi, si dipanano altre due vicende che con la storia del sequestro, in realtà, non c’entrano nulla, ma che si intrecceranno a questa, a partire da maggio, nel corso delle indagini e del processo. 

Enrico Triaca, divenuto militante irregolare brigatista nel ’76, fitta un locale su indicazione di Mario Moretti e, nel marzo ’77, apre una tipografia in via Pio Foà 31 che servirà per la stampa del materiale della organizzazione [9]. In questo compito lo aiuta Antonio Marini, altro militante irregolare. 

La compagna di Marini, Gabriella Mariani, nel luglio ’77, sempre per incarico di Moretti, acquista, con i soldi del sequestro Costa, una abitazione in via Palombini 19 nella quale vive insieme al compagno. L’appartamento costituisce la base di quello che le BR immaginano possa diventare, nel tempo, un robusto settore della stampa e propaganda.           

I componenti della direzione di colonna studiano i movimenti di Moro e verificano che, spesso, la mattina, si ferma nella chiesa di Santa Chiara in piazza dei Giochi Delfici [10]. In quel momento, le BR ritengono ancora di poter realizzare il sequestro senza uccidere gli uomini della scorta, ma la scelta del rapimento all’interno della chiesa non solo comporta il rischio altissimo del conflitto a fuoco, ma anche quello del coinvolgimento di estranei perché nelle vicinanze esiste una scuola elementare. Circa due mesi prima del 16 marzo, Bruno Seghetti incarica Antonio Savasta, componente della brigata Università, di osservare i movimenti di Moro quando si reca nella facoltà di Scienze Politiche nella quale insegna «Istituzioni di diritto e procedura penale». Tuttavia, la facoltà non è un luogo adatto per una azione armata. Savasta comunica la sua valutazione negativa a Seghetti che, però, decide di compiere personalmente una ulteriore perlustrazione. Poi si arrende alla evidenza. Savasta ha ragione. 

Dopo ulteriori ricognizioni (le svolgono sul campo i dirigenti della colonna), si decide che il rapimento avverrà nella zona di Roma nord, lungo il percorso che Aldo Moro compie abitualmente partendo dalla sua abitazione di via Forte Trionfale. All’angolo tra via Fani e via Stresa, un’auto guidata da Moretti bloccherà la marcia dei due veicoli sui quali viaggiano Moro e gli uomini della scorta. Dopo aver ucciso i poliziotti e i carabinieri, il Presidente della DC sarà condotto a via Montalcini. 

Anche il piano di fuga viene meticolosamente studiato dalla colonna romana, in particolare da Morucci e Seghetti. I brigatisti devono sequestrare un Moro incolume e condurlo sino alla prigione del popolo per processarlo. Un percorso di circa 12 km., dalla Balduina a Roma sud-ovest. E’, quindi, necessario pianificare un tragitto che garantisca le migliori probabilità di successo. Per realizzare l’obiettivo, i brigatisti devono mimetizzarsi durante la fuga, evitando le arterie principali e scegliendo strade secondarie, anche private, per non incrociare auto delle forze di polizia che accorreranno in massa nella zona del sequestro. Inoltre, la mimetizzazione attuata attraverso il cambio dei veicoli, collocati in precedenza lungo il percorso di fuga, serve ad evitare che possibili testimoni possano segnalare il tragitto alle forze di polizia e condurle alla zona ove si trova la prigione del popolo. 

A febbraio, quando la Direzione strategica si riunisce nel villino di Velletri, il piano è stato definito ed è già stato deciso che l’azione avverrà a via Fani. Infatti, i membri della dirigenza nazionale, come ricorda Adriana Faranda che a quella riunione partecipa, discutono, in termini politici, della campagna di primavera ed approvano la risoluzione che sarà poi divulgata nel corso del sequestro. Ma, in quell’incontro, non si discute di ciò che avverrà solo un mese dopo [11].

Alla vigilia della operazione, le brigate della colonna romana (Torre Spaccata, Centocelle, Università, Servizi e Primavalle) ricevono l’indicazione di rubare alcuni modelli di macchine e furgoni. Saranno i mezzi da utilizzare nella azione di via Fani e lungo il percorso della fuga. Alla fine, la maggior parte dei veicoli viene rubata da Seghetti e da altri brigatisti in un megaparcheggio situato sul lungotevere, dietro il mausoleo di Augusto.

L’operazione politico-militare più importante nella storia delle Brigate Rosse sarà portata a termine da Mario Moretti e dai componenti della colonna romana ai quali si affiancheranno Raffaele Fiore, responsabile della colonna torinese, e il milanese Franco Bonisoli, membro del comitato esecutivo. A poche ore dalla operazione che sta per iniziare, il piano che conduce al sequestro di Aldo Moro è conosciuto solo dai componenti del comitato esecutivo e della direzione della colonna romana, dai tre militanti irregolari romani che si troveranno in via Fani, da Raffaele Fiore, dalla coppia Braghetti-Maccari che attende l’arrivo del prigioniero a via Montalcini e, probabilmente, da Raimondo Etro, che sosterrà, molti anni dopo, di aver saputo della operazione da Alessio Casimirri, il 14 marzo. 

In tutto, quindici/sedici persone. Nessun altro brigatista, membro delle strutture nazionali della organizzazione o componente delle brigate romane, conosce in anticipo quello che sta per accadere. 

La mattina del 16 marzo ’78, l’azione militare a via Fani viene portata a termine da 10 persone che svolgono compiti diversi: Rita Algranati, Mario Moretti, Bruno Seghetti, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Franco Bonisoli, Barbara Balzerani, Valerio Morucci, Alessio Casimirri ed Alvaro Lojacono. Uccisi gli uomini della scorta e caricato Moro sulla 132 guidata da Seghetti, il convoglio brigatista attraversa la città. Nel parcheggio sotterraneo della Standa in via Isacco Newton, la cassa in cui è nascosto il prigioniero viene presa in consegna da Moretti e Maccari che conducono, infine, il rapito nella abitazione ai Colli Portuensi, ove resterà sino alla mattina del 9 maggio. Solo Moretti, Maccari, Braghetti e Gallinari conoscono la prigione del popolo. 

Durante i giorni del sequestro, il compito di recapitare i comunicati e le lettere di Moro è affidato esclusivamente alla coppia Morucci-Faranda, che vive nella base di via Chiabrera 74 (i brigatisti romani che la conoscono la chiamano “l’ufficio”), e a Bruno Seghetti. 

Ricevono i documenti dalle mani di Mario Moretti che ha il compito di interrogare il sequestrato e di tenere i rapporti con gli altri membri del comitato esecutivo che incontra, in una prima fase, a Firenze e, poi, in un secondo momento, in una base a Rapallo. Morucci e Seghetti sono i brigatisti che, usando cabine pubbliche, telefonano alle redazioni dei giornali, alle radio libere e alle agenzie di stampa per far trovare i comunicati oppure comunicano con i familiari o con alcuni amici intimi del prigioniero. 

Il 1° marzo ’78, Bruno Seghetti ruba un’auto Renault 4 amaranto nella zona di Piazza Cavour. In quel momento, il veicolo è solo uno dei molti mezzi nella disponibilità della colonna romana, tanto da essere utilizzato, il 19 aprile, per compiere un attentato alla caserma Talamo che ospita l’VIII Battaglione Carabinieri in via Ponte Salaria e che, qualche volta, viene utilizzata come base di lavoro dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa quando si trova nella capitale.

Il 3 aprile ’78, una gigantesca “retata” rischia di cambiare il corso del sequestro. La Questura di Roma stila un lunghissimo elenco di perquisizioni da compiere nelle abitazioni di ex militanti di Potere operaio e di persone che gravitano nell’area della Autonomia. Alcuni nomi risultano da un vecchio controllo, che risale al ’75, di giovani presenti ad una riunione che si era svolta a via dei Volsci. I carabinieri della Compagnia San Pietro suonano al campanello della abitazione dei genitori di Alessio Casimirri a via Germanico 42 ed il padre, Luciano, li conduce nell’appartamento di via del Cenacolo 56 dove il figlio vive con Rita Algranati. La perquisizione non ha un esito positivo, ma l’organizzazione, per sicurezza, “congela” i due membri del fronte di lotta alla controrivoluzione. Nella stessa giornata, i poliziotti si presentano nella abitazione ove è residente Bruno Seghetti, nel quartiere Centocelle. Seghetti, militante regolare legale, vive, però, da un’altra parte, in un minuscolo appartamento della organizzazione situato a Borgo Pio, lo stesso dal quale, la mattina del 16 marzo, lui e Raffaele Fiore sono usciti per recarsi a via Fani. Se la polizia deciderà di continuare ad indagare sul suo conto, esiste il pericolo che gli inquirenti estendano le investigazioni alla compagna di Seghetti, Anna Laura Braghetti, ed arrivino a via Montalcini. Per questa ragione, il brigatista compie una mossa inaspettata e si presenta spontaneamente negli uffici della polizia poiché lui non ha nulla da nascondere e vuole sapere perché lo stanno cercando. La visita produce gli effetti sperati ed i poliziotti, a partire da quel momento, si disinteressano di Seghetti. Tuttavia, il brigatista è costretto a smantellare ed abbandonare la base di Borgo Vittorio 5 [12]

Il 18 aprile, nello stesso giorno nel quale viene diffuso il falso comunicato sul corpo di Moro che si trova nel lago della Duchessa, viene scoperta la base di via Gradoli 96, abitata da Barbara Balzerani e, solo saltuariamente durante il sequestro, da Mario Moretti. La individuazione della base (contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, l’appartamento non è mai stato «la centrale operativa del sequestro Moro»), tuttavia, non può imprimere una svolta alle indagini finalizzate a trovare la prigione del popolo.

Circa dieci giorni prima dell’epilogo della vicenda, Seghetti affida la Renault 4 ad Antonio Savasta che ha il compito di “gestirla”. Poi Seghetti chiede di avere indietro l’auto nel cui bagagliaio, la mattina del 9 maggio, all’interno del box di via Montalcini, Moro viene ucciso da Mario Moretti, che ha al suo fianco Germano Maccari. Moretti e Maccari partono dai Colli Portuensi e, a piazza Monte Savello, vengono agganciati da Seghetti e Morucci insieme ai quali si recano in via Caetani ove l’auto, con dentro il corpo di Moro, viene abbandonata. Valerio Morucci telefona a Franco Tritto, assistente del presidente DC nella facoltà universitaria, per comunicargli il posto esatto ove ritrovare il corpo del presidente della DC. 

Il 17 maggio ‘78, la Polizia scopre la tipografia di via Pio Foà. Dopo essere stato torturato, Enrico Triaca conduce i poliziotti alla base di via Palombini in cui vengono arrestati Antonio Marini e Gabriella Mariani [13]

Anche Teodoro Spadaccini, membro della brigata Università, viene catturato. 

Anna Laura Braghetti, che diventa militante regolare e passa alla clandestinità nell’estate/autunno del 1978, viene arrestata il 27 maggio 1980, ma trascorre ancora molto tempo prima che si scopra il ruolo ricoperto dalla donna nel sequestro. Ancor più tempo occorre per scoprire chi si nasconda dietro il nome Luigi Altobelli. Negli anni ’90, la identificazione di Germano Maccari e la sua confessione chiudono la lunga fase della indagine sui responsabili della vicenda Moro [14].

Quando inizia il processo di primo grado nel 1982, molti responsabili dei fatti di via Fani (Moretti, Seghetti, Gallinari, Fiore, Bonisoli, Azzolini, Micaletto) sono già stati arrestati. Solo alcuni, come Barbara Balzerani, sono in fuga. Su altri (Algranati, Casimirri, Lojacono, Maccari, Etro) non esiste ancora alcun sospetto.

Anche gli accusatori si trovano in carcere.

Morucci e Faranda, dopo aver abbandonato le BR ed aver portato via armi e denaro della organizzazione, sono stati arrestati a Roma il 29 maggio ’79.

Savasta e Libéra, divenuti militanti della nuova formazione Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente, vengono catturati a Padova, il 28 gennaio ’82, mentre, nella città veneta, è in corso il sequestro del generale statunitense James Lee Dozier. Torturati, con altri brigatisti, nelle stanze del reparto celere di Padova, decidono subito di collaborare [15]

Il patrimonio di conoscenze dei giudici del processo Moro uno/bis di primo grado, fondato essenzialmente sulle informazioni fornite da Peci, Savasta e Libéra, è ancora incompleto ed approssimativo e la sentenza ritiene che siano stati provati alcuni fatti, narrati dai collaboratori, che saranno, in seguito, seccamente smentiti da altre risultanze processuali ben più solide.

Ad esempio, illustrando la posizione di Lauro Azzolini, i magistrati scrivono che «Patrizio Peci e Antonio Savasta hanno inchiodato in maniera definitiva il prevenuto alle sue responsabilità sostenendo che costui…fu tra i componenti del commando che il 16 marzo 1978 portò a termine l’eccidio degli agenti di scorta ed il sequestro del parlamentare secondo un piano prefissato». Il processo di appello smentirà questa ricostruzione ed Azzolini, che non si trovava a via Fani, sarà condannato per la vicenda Moro solo in quanto membro del comitato esecutivo. 

Un’altra informazione completamente errata riguarda Faranda che «prese parte di persona alla tragica azione, seguendo i suoi complici sulla Fiat 128 con targa diplomatica che provocò il tamponamento con le vetture dell’On Aldo Moro e con l’Alfetta della Polizia» e Morucci che «secondo i pentiti, scese con Prospero Gallinari dalla Fiat 128 con targa diplomatica, si avvicinò all’autovettura del parlamentare e aprì il fuoco su Ricci Domenico e Oreste Leonardi». 

Saranno proprio i due protagonisti del racconto a chiarire che sulla Fiat 128 che si arrestò all’incrocio tra via Fani e via Stresa c’era solo Mario Moretti e che il brigatista non sparò durante l’azione; che Morucci, vestito da pilota Alitalia, non era sull’auto con Moretti, ma – con Gallinari, Bonisoli e Fiore – si trovava davanti al bar Olivetti e, soprattutto, che Adriana Faranda, la mattina del 16 marzo, si trovava nella base di via Chiabrera 74, in attesa della fine della operazione e del ritorno di Valerio Morucci.

Anche il professore Enrico Fenzi, dissociatosi dalle attività della colonna genovese, contribuì a creare un meccanismo di alterazione dei fatti storici perché, così testualmente si legge nella sentenza di primo grado, «ha attribuito al Nicolotti un ruolo ben più consistente, affermando senza mezzi termini, sulla base delle sue dirette cognizioni, che costui, unitamente a Riccardo Dura, fu inserito nel commando che il 16 marzo 1978 si parò in armi dinanzi alle autovetture su cui viaggiavano il presidente della Democrazia cristiana e gli uomini della scorta». In realtà, le “dirette cognizioni” di Fenzi non erano fondate sulla conoscenza degli avvenimenti perché, come riconoscerà lui stesso, si limitava a formulare delle ipotesi. Infatti, nessun militante della colonna genovese prese parte alla “operazione Fritz” ed i giudici del processo d’appello, dopo aver ascoltato il più credibile racconto di Morucci e Faranda, presero le distanze dai colleghi del primo grado condannando Nicolotti, ma non perché fosse presente a via Fani [16].

La sentenza di appello corresse, dunque, diverse informazioni errate, ma confermò le condanne inflitte in primo grado. Al termine dei tre gradi di giudizio, nel 1985, i brigatisti condannati in via definitiva furono 23: Mario Moretti, Prospero Gallinari, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Rocco Micaletto, Raffaele Fiore, Luca Nicolotti, Cristoforo Piancone, Anna Laura Braghetti, Bruno Seghetti, Barbara Balzerani, Adriana Faranda, Valerio Morucci, Gabriella Mariani, Antonio Marini, Teodoro Spadaccini, Enrico Triaca, Francesco Piccioni, Antonio Savasta, Giulio Cacciotti, Emilia Libéra, Caterina Piunti e Massimo Cianfanelli. 

I giudici ritennero che i delitti di via Fani e via Montalcini fossero addebitabili non solo ai componenti del Comitato Esecutivo e della direzione della colonna romana, ma anche ai membri dei fronti nazionali della organizzazione, in particolare il fronte della lotta alla controrivoluzione, nonché ai militanti della colonna romana che avevano svolto funzioni di organizzazione importanti per la vita e il funzionamento della colonna oppure erano stati impegnati nella attività di propaganda durante il sequestro. 

(continua)

Nella foto lo schizzo della azione di via Fani disegnato da Mario Moretti e consegnato dallo storico Marco Clementi alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro nella audizione del 17 giugno 2015  

Note

[1] Prima che saltasse fuori che la voce era di Mario Moretti, la magistratura ritenne che l’autore della telefonata del 30 aprile ’78 alla famiglia Moro fosse il professor Toni Negri. Addirittura, per quella del 9 maggio ’78 al professor Franco Tritto, fatta da Valerio Morucci, la responsabilità ricadde sul giornalista veneto Giuseppe Nicotri, arrestato nell’ambito della cd. indagine 7 aprile e poi scarcerato dalla magistratura romana il 7 luglio ’79 e scagionato dalle accuse.   

[2] Quando il ruolo di Anna Laura Braghetti nella vicenda Moro era stato già quasi ampiamente disvelato, il 17 giugno 1985, i giudici istruttori romani Rosario Priore e Ferdinando Imposimato, con la presenza degli ex brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, ispezionarono l’appartamento. Morucci fece notare che, sul pavimento in parquet, esisteva una lunga striscia di colore più scuro rispetto a quello del legno residuo. Morucci non era mai stato prima in questa abitazione, ma riteneva che potesse trattarsi del luogo in cui era stato custodito Moro perché in quella stanza poteva essere stata ricavata una prigione larga m. 1,15 circa e lunga m. 4 circa, senza finestre. Inoltre, sosteneva Morucci, la costruzione di questa prigione non avrebbe comportato la eliminazione di un vano, cosa che invece sarebbe accaduta nella stanza attigua.

[3] v. Sentenza-Ordinanza del giudice istruttore Ernesto Cudillo del 15 gennaio 1981.     

[4] v. l’articolo a firma Marco Clementi Il rapimento di Aldo Moro è l’ossessione degli storici da bar sul quotidiano domani del 15 marzo 2024.

[5] Il nome scelto dai brigatisti per definire l’operazione di via Fani, “operazione Fritz”, è frutto della storpiatura della parola “frezza” che stava ad indicare il ciuffo di capelli bianchi presente sulla testa di Aldo Moro

[6] Quando avvennero i fatti di via Fani, il 16 marzo 1978, il codice penale contemplava una sola norma applicabile alla vicenda concreta, cioè al rapimento di Aldo Moro: il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione previsto dall’art. 630 c.p., come modificato dalla legge 14 ottobre 1974 n. 497. La norma puniva il responsabile del reato con una pena massima di 25 anni di reclusione e, soprattutto, non prevedeva l’ipotesi che, durante il sequestro, avvenisse la morte del rapito, fatto questo che continuava ad essere punito dalla norma del codice penale sull’omicidio volontario (art. 575 c.p.). Pochi giorni i fatti di via Fani, il 21 marzo 1978, venne emanato il decreto-legge n. 59 (poi convertito, con modificazioni, nella L. 18 maggio 1978 n. 191) che modificava l’art. 630 Codice penale prevedendo, anzitutto, un aumento della pena sino a 30 anni di reclusione, e, soprattutto, l’ipotesi che, dal sequestro, derivasse la morte del rapito, quale conseguenza non voluta (anni 30 di reclusione) o voluta dal colpevole (ergastolo). Inoltre, con lo stesso decreto-legge, si introduceva nell’ordinamento il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289 bis Codice penale) punito con le stesse pene previste per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione. 

[7] Interrogatorio sostenuto da Lauro Azzolini, il 14 aprile 1987, innanzi alla Corte di Assise di Roma, Pres. Santiapichi, nel corso del cd. processo Metropoli.

[8] L’appartamento di via Chiabrera venne preso in fitto, nel settembre ’76, da Valerio Morucci che usava una falsa identità. Abitato in vari periodi, anche nel marzo ’78, da Morucci e Faranda, venne utilizzato come sede della direzione della colonna romana che, durante i giorni del sequestro Moro, vi svolse alcune riunioni. Nell’appartamento vennero ciclostilati tutti i comunicati diffusi durante il sequestro. La base di via Chiabrera venne abbandonata dopo la conclusione del sequestro Moro.    

[9] La prima tipografia delle BR a Roma era stata avviata da Stefano Ceriani Sebregondi e da Enrico Triaca, nel maggio ’76, in via Renato Fucini n. 2-4, all’interno di un locale preso in fitto da Sebregondi. In seguito, le BR decisero di trasferire la tipografia in un luogo, cioè via Pio Foà, più vicino alla base di via Palombini. Alcuni macchinari che esistevano in via Fucini (un bromografo e una stampatrice A.B. Dik) vennero rinvenuti e sequestrati nella tipografia gestita da Triaca e Marini.  

[10] Era stato Franco Bonisoli, nel ’76, quando abitava nella base di via Gradoli 96 (l’appartamento era stato preso in fitto, nel dicembre ’75, da Mario Moretti che usava il falso nome Mario Borghi), ad accorgersi, mentre rientrava a casa, che una scorta era posizionata davanti la chiesa. Si era avvicinato ed aveva visto che si trattava della scorta di Moro. 

[11] Secondo Bonisoli, che fornisce una ricostruzione dei fatti analoga a quelle della Faranda e di Azzolini, «Nella Direzione strategica del febbraio 1978 non si discusse dell’obiettivo della azione che era in corso, non venne fatto il nome di Moro. Si parlò dell’attacco che doveva avere al suo centro al Democrazia cristiana». La risoluzione della Direzione strategica del febbraio 78 venne diffusa durante il sequestro Moro insieme al comunicato n. 4 del 4 aprile ’78.

[12] La monocamera di Borgo Vittorio 5 era stata presa in fitto da Bruno Seghetti nel settembre ’77.

[13] Sulla vicenda giudiziaria di Enrico Triaca e sul processo di revisione della sentenza di condanna per il reato di calunnia v. dell’autore l’articolo I tormenti e la calunnia”, pubblicato in http://www.questionegiustizia.it il 12 luglio 2023.

[14] Nella sterminata “letteratura” sul caso Moro, si distinguono, sia per l’esplicito rigetto delle suggestioni dietrologiche che per il rigore metodologico nella indagine storica, alcune opere: Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Edizioni Odradek, 2007; Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, DeriveApprodi, 2017; Marco Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Rizzoli 2006; Vladimiro Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Rubettino, 20026; V. Satta, Odissea nel caso Moro, Edup, 2003; Nicola Lofoco, Il caso Moro. Misteri e segreti svelati, Gelsorosso, 2015; Nicola Lofoco, Le alterazioni del caso Moro, Les Flaneur Edizioni, 2017; Gianremo Armeni, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, Tra le righe libri, 2015.

[15] Sulle indagini avviate dopo il sequestro Dozier e sull’uso diffuso della tortura nei confronti dei sospettati e degli arrestati nel periodo 1982/1983, v. dell’autore gli articoli Dovevamo arrestarci l’un con l’altro. Il sequestro Dozier ed altre storie, pubblicato su http://www.questionegiustizia.it, 29 gennaio 2024, e I cani d’Albania, pubblicato su http://www.questionegiustizia.it, 23 luglio 2024. 

[16] Enrico Fenzi, nel febbraio ‘85, scrisse una lettera ai giudici del processo d’appello Moro uno/bis. Il professore genovese precisava, quanto a Micaletto, Nicolotti e Dura da lui accusati nel processo di primo grado, che questa indicazione non aveva «alcun valore oggettivo» in quanto lui non sapeva «nulla sul numero dei brigatisti presenti sulla scena della azione» e che, alla domanda che gli aveva rivolto il Presidente Santiapichi, lui aveva risposto che «tra coloro che avevo conosciuto a Genova, avrebbero potuto esserci, per quanto sapevo del loro ruolo e della loro determinazione ad operare, appunto Micaletto, Nicolotti e Dura». In sintesi, Fenzi non sapeva nulla della operazione Moro ed aveva solo ipotizzato la presenza di brigatisti genovesi a via Fani.

Processo Spiotta, la storia fa paura alla pubblica accusa e alle parti civili

Il colpo di scena provocato dalle dichiarazioni fatte da Lauro Azzolini lo scorso martedì 11 marzo nell’aula di corte d’assise di Alessandria, quel «C’ero io quel giorno di cinquant’anni fa alla Spiotta! […] io sono l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo», rappresenta un gesto di trasparenza che inevitabilmente capovolge il senso del processo. Liberatosi delle schermaglie procedurali, Azzolini si è riappropriato della verità. Spetta ora alla corte d’assise apprezzarla e soprattutto fare luce su tutti i momenti di quel tragico 5 giugno 1975 che si è chiuso con l’uccisione di Margherita Cagol e il ferimento di tre carabinieri, uno dei quali, l’appuntato Giovanni D’Alfonso, morirà nei giorni successivi.

Processo ribaltato
Il teorema accusatorio iniziale, messo in campo con dispendio enorme di energie e risorse pubbliche dalla procura, ha così iniziato a traballare. Anche la strategia delle parti civili adagiate comodamente sul presunto silenzio e sulla inazione degli imputati è stata scossa, suscitando iniziale sorpresa. La testimonianza di Azzolini, «l’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare…», ha rimesso al centro del processo le circostanze mai chiarite della sua morte. Per uscire dal disorientamento c’è stato chi ha provato a sostenere che l’imputato, ormai alle strette, avesse parlato solo perché non aveva altra scelta: «accerchiato da prove inesorabili». In realtà le parti civili quando nel novembre del 2021 chiesero la riapertura delle indagini avevano ben altri obiettivi: nell’esposto depositato in procura indicavano in Mario Moretti il sospetto fuggitivo. Lo stesso figlio dell’appuntato Giovanni D’Alfonso scrisse una prefazione a un libro di due giornalisti, uscito appena due giorni dopo la presentazione del suo esposto, nel quale si sosteneva la responsabilità di Moretti nella sparatoria e lo si accusava di aver abbandonato Margherita Cagol al suo destino, con l’obiettivo di sostituirla al vertice delle Brigate rosse. «Piano diabolico» che i due giornalisti romanzarono ulteriormente in un secondo volume, dove il Centro Sid di Padova veniva indicato come il vero regista dell’intera operazione per il tramite di un confidente, arruolato all’interno della Assemblea autonoma di Porto Marghera e da qui confluito successivamente nella nascente colonna veneta delle Brigate rosse, che nulla c’entrava con la colonna torinese organizzatrice del sequestro. Confidente che ascolato dai pm torinesi ha sostenuto per ben due volte che il brigatista fuggito fosse Alberto Franceschini, già in carcere al momento dei fatti. Almeno pubblicamente, non risulta che le parti private abbiano mai preso le distanze da questa rappresentazione spionistica della vicenda. Al contrario un suo attuale rappresentante, l’ex magistrato Guido Salvini, nel corso di un dibattito sul web del 22 settembre 2022 ha ribadito il suo convincimento sulle responsabilità di Moretti, dipinto come figura «ambigua» e «oscura».

La storia non deve entrare in aula
Forse è anche per questo che nella parte finale dell’udienza, quando si è discusso sull’ammissibilità delle prove e dei testi, dalla pubblica accusa e dalle parti civili è venuta una levata di scudi contro la presenza nel processo dello storico e docente universitario Marco Clementi, chiamato a deporre, in qualità di consulente storico, dall’avvocato Francesco Romeo che difende Mario Moretti: sulle modalità operative e sulla struttura organizzativa delle Brigate rosse nel 1975 e successivamente. La discussione che ne è seguita ha avuto aspetti surreali, a cominciare dall’avvocato della parte civile Sergio Favretto che si è opposto, giudicando Clementi, già audito nel giugno 2016 dalla Commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, seduta nella quale depositò importanti documenti: «inadeguato a fornire una consulenza all’interno di un processo penale». Sventolando un volume apparso nel 2017, il rappresentante della famiglia D’Alfonso ha accusato il professore di aver dedicato «appena mezza pagina alla Spiotta», senza citare nemmeno «Giovanni D’Alfonso che fu una vittima della Spiotta». L’avvocato Favretto avrebbe fatto migliore figura se avesse consultato con più modestia e maggiore accuratezza gli altri lavori pubblicati. Il suo collega, l’ex magistrato Guido Salvini, non potendo opporsi perché durante la sua passata attività di giudice istruttore e gip si è avvalso per decenni dell’ausilio di un consulente come Aldo Giannuli, esperto di Servizi segreti ma non di Brigate rosse, ha chiesto come «controprova» l’audizione dell’ex pm Armando Spataro. Richiesta singolare perché in primis la controprova sarebbe semmai quella presentata dalla difesa, la richiesta di Salvini è solo una prova ausiliare della pubblica accusa, poi perché un ex pm, che ha arrestato e fatto condannare tutti e tre gli imputati chiamati a giudizio, non sembra stare proprio nei panni della figura terza che fornisce consulenza alla corte. Deve essere davvero disperata la situazione tra i fautori della dietrologia, di cui l’ex giudice Salvini è uno dei più accesi sostenitori, se da quelle parti scarseggiano storici in grado di descrivere il funzionamento organizzativo delle Brigate rosse nel corso della loro storia. D’altronde se per decenni si è sostenuto che dietro le Br c’erano gli organigrammi di Langley, poi diventa difficile trovare esperti che sappiano dire qualcosa di diverso.

Un pm senza storia
Ma forse l’argomentazione più stupefacente è venuta dal pubblico ministero Emilio Gatti, il quale opponendosi fermamente all’audizione di Clementi, ha sostenuto di non amare il lavoro degli storici: «perché c’è sempre un qualcosa di soggettivo in questo rimettere insieme le fonti […] io – ha proseguito – non vi produco l’interpretazione, non è una prova l’interpretazione». Una rivendicazione sprezzante della superiorità dell’ontologia giudiziaria rispetto a quella storica che, senza scomodare Marc Bloch, il padre della storia moderna, inevitabilmente riporta alla mente il libro di Carlo Ginzburg sul giudice e lo storico, sui loro mestieri differenti nonostante entrambi cerchino di ricostruire dei fatti con strumentazioni spesso simili, anche se poi i primi si limitano a ricercare la responsabilità penale mentre i secondi, per loro fortuna, possono andare molto oltre, scavando e ricostruendo in ogni dove. Non sarà forse un caso se i migliori giudici sono quelli che sanno fare anche gli storici mentre i peggiori sono quelli che restano solo dei Torquemada.
Ora in un processo che si svolge cinquant’anni dopo i fatti e dove la pubblica accusa ha portato come fonti di prova sette libri e imputa a Curcio e Moretti quanto affermato nei loro libri-intervista, fondando l’accusa su una interpretazione discutibile delle loro parole, proprio perché non corredata dalla conoscenza storica sul funzionamento delle strutture organizzative delle Brigate rosse, questa ostilità verso il lavoro storico appare quantomeno sospetta. In questo caso, infatti, l’expertise storica aiuterebbe chi deve giudicare ad ancorare il processo alla realtà dei fatti. L’atteggiamento della pubblica accusa poco si concilia con l’affermazione di Luigi Ferrajoli, secondo cui «Il processo è per così dire il solo caso di “esperimento storiografico”». Sembra di rivedere l’ostinato atteggiamento del procuratore generale di Roma Antonio Marini quando rivendicava l’intangibilità del giudicato processuale davanti all’emergere di nuove conoscenze che la ricerca storica veniva producendo e che intaccavano le responsabilità penali sancite nelle sentenze del processo Moro. Venticinque imputati sono stati condannati per il tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, la mattina del 16 marzo in via Fani. Un fatto, oggi sappiamo, mai accaduto. Durante i lavori della seconda commissione Moro, lo stesso ingegner Marini ha ammesso che il parabrezza del suo motorino si era infranto nei giorni precedenti l’assalto brigatista, a causa di una caduta accidentale del mezzo dal cavalletto, e non in seguito a colpi di arma da fuoco esplosi contro di lui, circostanza per altro mai confermata dalle perizie balistiche. Sono trascorsi quasi dieci anni da quelle ammissioni, ancora di più dalla scoperta di un verbale del 1994, in cui lo stesso ingegnere rivelava per la prima volta come si era rotto il parabrezza, e del ritrovamento delle foto del motorino col parabrezza tenuto da nastro adesivo sul marciapiedi di via Fani, ma la «scienza giuridica» non è ancora corsa ai ripari per ristabilire la sua ontologica superiorità correggendo un clamoroso errore giudiziario.

Il consulente non verrà ascoltato
Alla fine la corte ha deciso di non dare la parola al professor Clementi. Se ne riparlerà più avanti, forse. Una decisione grave che ha privato la difesa dell’unico teste richiesto e che imbavaglia i suoi argomenti. Il messaggio è chiaro: questo processo deve tramandare la storia di un’organizzazione costruita in modo gerarchico, verticistico, piramidale, con a capo una cupola che dava ordini insindacabili al resto del gruppo. L’accusa ha bisogno di questa narrazione processuale perché si arrivi alle condanne. Si deve impedire che qualcuno venga a smentire tutto ciò, sollevi dubbi nei giudici ricordando che nelle Brigate rosse vigeva un principio d’autonomia delle decisioni, la circolazione orizzontale dei flussi informativi che determinavano le scelte politiche finali e che la decisione di ricorrere ai sequestri di autofinanziamento, ripresi dall’esperienza delle guerriglie sudamericane, fu collegiale, controversa e dibattuta e che le modalità operative furono demandate, come sempre, alla colonna che operava sul territorio. Tutta un’altra storia ma soprattutto una altro processo.

Sequestro Moro, il vicolo cieco del complottismo /prima parte

Dopo aver intervistato, lo scorso febbraio 2025, Dino Greco (leggi qui), in passato segretario generale della Camera del lavoro di Brescia e successivamente direttore del quotidiano Liberazione e ora membro della redazione della rivista «Su La Testa», autore del libro Il bivio, dal golpismo di Stato alle Brigate rosse, come il caso Moro ha cambiato la storia d’Italia, Bordeaux edizioni, Roma 2024, la rivista Utopia21 ha deciso di proseguire la sua disamina del «caso Moro» su un altro versante storiografico che mette radicalmente in discussione l’ipostazione complottista proposta da Greco. Gian Marco Martignoni ha sentito Paolo Persichetti, autore del volume La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, apparso per DeriveApprodi nel 2022 e precedentemente con Marco Clementi ed Elisa Santalena di, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017. A causa della lunghezza del testo, pubblichiamo oggi solo la prima parte della intervista, il seguito nei prossimi giorni. Chi volesse già da ora leggerla integralmente può trovarla qui

Utopia21, marzo 2025
Intervista di Gian Marco Martignoni a Paolo Persichetti

Sul rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro esiste una letteratura assai ampia, anche recentemente sono usciti nuovi libri, si pensi a quelli di Stefania Limiti e Dino Greco. Il filone delle pubblicazioni sembra inesauribile.
Lo storico Francesco Maria Biscione, recentemente scomparso, ha curato una bibliografia sulla figura e la vicenda di Aldo Moro. Nell’ultima stesura del marzo 2023 aveva catalogato circa 1100 volumi, una cifra in difetto perché scorrendola mi sono accorto che mancava ancora qualcosa. Se poi a essi aggiungiamo le pellicole cinematografiche realizzate prima della morte dello statista democristiano, come Forza Italia di Roberto Faenza e Todo Modo di Elio Petri, entrambe cadute in disgrazia perché incompatibili con la narrazione costruita dopo il rapimento e la sua scomparsa, o le successive – con l’aggiunta delle serie televisive – come i film di Giuseppe Ferrara e Marco Bellocchio, per citarne solo alcuni, o ancora le rappresentazioni teatrali di Pesce, Timpano, Gifuni, senza soffermarsi sulla sterminata produzione giornalistica, oppure le canzoni autoriali che hanno fatto riferimento alla sua vicenda politica, da Rino Gaetano a Giorgio Gaber, quest’ultima subito censurata, ci rendiamo conto di quanto il rapimento Moro si sia costruito nel tempo come un «caso» a sé stante separato dalla vicenda storica della lotta armata e delle Brigate rosse. Un affaire che deve molto all’industria editoriale arrivata a farne un nuovo genere letterario di tipo spionistico con i suoi lettori appassionati e che produce fenomeni di costume tra i più diversi. Si va dai gruppi social dedicati che affrontano la vicenda come un gioco di società, ispezionando i luoghi e cercando le ex basi brigatiste per poi affannarsi in lambiccate ipotesi complottiste, fino a società di turismo che propongono a sprovveduti clienti tour-fiction con interpretazioni attoriali su luoghi che storicamente nulla c’entrano col sequestro. Qualcosa che ricorda lo sketch di Totò quando cercava di vendere a un ignaro turista la Fontana di Trevi. Il sequestro Moro è divenuto per certi versi un mercato per allocchi dove imperversano personaggi senza scrupoli, millantatori, mitomani e furbastri di ogni genere. Personaggi di una farsa surreale che hanno rimpiazzato i protagonisti tragici di quella storia.

Nel sottotitolo del tuo ultimo libro fai un esplicito riferimento all’affaire Moro.


Certo, la costruzione dell’«affaire», come lo definì Sciascia, è ormai un tema storico che vanta una lunga lista di specialisti e addetti. Un oggetto storiografico separato e rilevante soprattutto per la potenza distorsiva che contiene. Si tratta di un livello parallelo che poco c’entra con quanto è realmente accaduto. Se si omette l’insorgenza sociale degli anni 70, diventa difficile comprendere come sia stato possibile che la mattina del 16 marzo 1978 un gruppo di operai scesi dalle fabbriche del Nord si sia dato appuntamento in via Fani con dei giovani delle periferie romane per tentare di cambiare il corso della storia. La stratificazione delle narrazioni che si è succeduta nei quasi cinquant’anni che ci separano dal sequestro, l’attività delle commissioni parlamentari, soprattutto delle ultime due, la Stragi presieduta da Pellegrino e la Moro presieduta da Fioroni, hanno disseminato fake news opacizzando la comprensione dei fatti. Dal punto di vista delle pubblicazioni, i libri veramente incisivi arrivano a fatica a poche decine. Il filone predominante resta quello dietrologico-complottistico, tra cui si annoverano i due volumi che hai appena citato. Ruminamenti delle vecchie tesi complottiste, quel regno dei misteri che i gruppi parlamentari del Pci misero in forma nel lontano 1984, alla conclusione del primo processo Moro e della prima commissione d’inchiesta parlamentare, e che da allora si trascinano come un disco rigato, nonostante nel frattempo abbiano perso pezzi grazie alla desecretazione dei documenti e al difficile, ma ostinato, lavoro storiografico indipendente. Ignorare le smentite sopravvenute ripetendo goebbelsianamente le stesse menzogne è il segreto di questa tecnica di falsificazione del passato.

Perché nel 2022 hai dato alle stampe il libro «La Polizia della Storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro», che fin dal titolo si contraddistingue per essere decisamente controcorrente rispetto alla piega che il dibattito ha assunto ormai da molto tempo?
Perché nel giugno 2021 ho subìto una pesante incursione della polizia di prevenzione, su mandato della procura di Roma, che si è impossessata del mio archivio digitale, del mio materiale di ricerca storica raccolto in anni di lavoro negli archivi pubblici e nelle interviste ai testimoni. E’ stata la mia risposta a quell’attacco senza precedenti alla libertà di ricerca. Una inaccettabile rappresaglia contro la storiografia indipendente, estranea alle narrazioni di regime. Quando ho avuto in mano le prime carte dell’inchiesta e sono riuscito a decifrarne la logica ho deciso di raccontare tutto, di denunciare quanto accaduto, riprendendo anche il filo del lavoro di ricerca con gli ultimi aggiornamenti sulle nuove conoscenze intervenute sul sequestro Moro e fornendo un resoconto radicalmente critico dell’attività mistificatrice condotta dall’ultima commissione Moro, i cui lavori avevo seguito da vicino.

Prima di proseguire nell’intervista mi sembra opportuno chiederti a che punto è la tua vicenda processuale?
Dopo oltre tre anni di indagine la procura ha chiesto l’archiviazione del fascicolo perché non è riuscita ad individuare alcun reato e perché in ogni caso quelli ipotizzati, parliamo del 2015, erano ormai prescritti. In via teorica l’azione giudiziaria si attiva per individuare i responsabili di reati commessi, dopo una notizia criminis, ovvero quando un fatto-reato esiste, è accertato. A quel punto si va alla ricerca dei responsabili che lo avrebbero commesso. In questo caso c’è stata invece un’azione «preventiva», ci si è mossi per individuare reati non ancora accertati ma solo ipotizzati. Più che un’inchiesta si è trattato di un rastrellamento giudiziario: «vengo a casa tua, sequestro tutto, qualcosa di illecito sicuramente trovo perché tu con il lavoro storico che fai sei ai miei occhi un sospettato permanente». Il risultato è che non hanno trovato nulla che potessero usare penalmente! Hanno certamente aggiornato le loro informazioni, raccolto una quantità di notizie, appunti, arricchito un background di conoscenze. Che poi è il vero lavoro che sta dietro l’attività di qualunque polizia. Una specie di «vita degli altri». Significativo è il fatto che nei rapporti dell’inchiesta il lavoro di ricerca, l’attività storica da me realizzata veniva apparentata ad una sorta di nuova militanza, una specie di «banda armata storiografica…..».
La colpa che mi veniva imputata era quella di fare storia fuori dai canoni ritenuti legittimi. La domanda è: una società dove il ministero dell’Interno si erge ad arbitro del lavoro storico e pretende di decidere cosa si deve scrivere in un libro e chi ha il diritto di scriverlo, che società è? Da qui la polizia della storia.

A fronte di questa incredibile storia come hai fatto a comporre questo libro, stante che materialmente ti è stato impedito di proseguire «nei cantieri di ricerca aperti»?
Mi sono aiutato con il mio blog, Insorgenze.net, dove sono presenti oltre 1200 articoli frutto del mio lavoro di giornalista e di ricercatore. Un vero archivio che ho ripreso in mano aggiornando e incrementando gli interventi presenti anche grazie all’aiuto di amici e altri ricercatori che avevano copia di alcune parti della documentazione che mi era stata sottratta. Insomma ho chiesto aiuto e ho nuovamente recuperato quanto era possibile rintracciare dalle fonti aperte.

Quando analizzi l’arrivo delle Brigate rosse in via Fani il 16 marzo del 1978 ad un certo punto descrivi il posizionamento della 128 bianca, con due «irregolari» della Colonna romana a bordo. Quale era il confine tra militanti «regolari» e militanti «irregolari», e quando la clandestinità ha preso il sopravvento rispetto alle scelte organizzative delle Brigate rosse?
Contrariamente a quel che si crede, le Brigate rosse non nascono come una formazione clandestina. All’inizio operano con modalità semilegali: tutti i loro componenti vivono nelle loro case, hanno famiglia, figli, mogli o mariti, genitori. Vanno a lavorare regolarmente. Solo la loro azione politica di propaganda armata è «clandestina». Una clandestinità molto aleatoria che non garantisce a lungo la sicurezza del gruppo. Presto verranno individuati e pedinati e nel maggio del 1972 l’organizzazione, che all’epoca era prevalentemente incentrata su Milano, viene sgominata. Una retata fa cadere quasi tutte le basi e un bel pezzo della loro rete militante e di sostegno. I pochi scampati si ritrovano in un casolare del Lodigiano, gestito da Piero Bertolazzi, uno dei fondatori del gruppo, dove riflettendo sullo smacco subìto elaborano una innovativa teoria dell’organizzazione che prevedeva la «clandestinità strategica», così la chiamarono. Clandestini allo Stato e ai suoi apparati ma non alle masse, agli operai che erano il loro punto di riferimento, la loro base sociale, l’acqua dove nuotavano e da dove provenivano: le fabbriche. Ovviamente il nuovo modello organizzativo che prevedeva il passaggio alla vita clandestina dei quadri militanti presupponeva anche il rafforzamento della capacità logistiche: l’approvvigionamento di risorse economiche con le rapine di autofinanziamento, la creazione di una rete di basi sicure dove alloggiare i militanti clandestini e creare archivi, depositi e laboratori. La capacità di fornire loro copertura con la realizzazione di documenti contraffatti. Tutto in completa autonomia, senza ricorrere al mondo della malavita che era monitorato dalle forze di polizia e pieno di confidenti. Senza una forte logistica la lotta armata non sarebbe durata una settimana e la logistica è l’indicatore che da prova del radicamento sociale delle Brigate rosse. La logistica si avvale del grado di sviluppo delle forze produttive dell’epoca, del sapere operaio, delle sue elevate capacità tecnologiche e dell’esistenza di un radicato sostegno, appoggio, simpatia che si manifesta con modalità e intensità diverse. Quando si porrà il problema di produrre patenti di guida, per esempio, saranno degli operai delle aziende tessili del Biellese che forniranno la famosa tela rosa sulle quali erano stampate le patenti dell’epoca. Quindi vennero messe in piedi delle tipografie grazie alla presenza di militanti tipografi, così stamparono di tutto: riprodussero ogni tipo di timbro, carta di circolazione, bolli auto e contrassegni delle assicurazioni. Altri operai fornirono la plastica per fabbricare targhe, venne inventato un termoaspiratore che grazie ad un calco riproduceva le targhe. Tornitori e fabbri si occupavano di riparare armi e costruire silenziatori artigianali, altoparlanti…. Poi c’erano anche medici e infermieri degli ospedali che fornivano la necessaria assistenza. Dopo gli arresti del 1972 viene gradualmente elaborata una teoria dell’organizzazione assolutamente innovativa e senza precedenti rispetto alle altre esperienze guerrigliere passate e contemporanee. Un modello che si costruisce sperimentalmente sulla base dell’esperienza diretta e che troverà definitiva formalizzazione nel novembre 1975. Le forze «regolari» sono quadri dell’organizzazione che entrano in clandestinità, supportati dall’apparato logistico che ho descritto. Attenzione a non confondere i latitanti, ricercati dalle forze di polizia, con i regolari. Entrambi sono clandestini ma i primi per necessità, i secondi per scelta. In origine gran parte dei regolari non sono conosciuti dalle forze di polizia, quindi non sono latitanti. Lo diverranno col tempo, una volta identificati. Tra i latitanti vi possono essere anche degli «irregolari», ovvero militanti dell’organizzazione che conducevano vita legale, spesso nelle brigate territoriali o nei posti di lavoro. I due irregolari cui fai riferimento sono Alvaro Loiacono, che infatti indossa un «mephisto» con cui travisa il volto perché già fotosegnalato dalle forze di polizia, e Alessio Casimirri. Nella squadra che opera la mattina del 16 marzo c’è un regolare che all’epoca non era ancora completamente clandestino, Bruno Seghetti. Viveva in un monolocale dell’organizzazione situato in Borgo Vittorio. Per questa ragione dopo la retata di inizio aprile che le forze di polizia condurranno a Roma negli ambienti dell’autonomia, Seghetti che ufficialmente era domiciliato a casa dei genitori a Centocelle, dove la polizia andò a cercarlo, si presentò in commissariato per non destare sospetti. In questo modo dovendo dare spiegazioni sulla sua assenza bruciò la base di Borgo Vittorio che venne subito smantellata.

Nel tuo libro c’è un capitolo che riprende una intervista a Giuliano Ferrara, a quel tempo membro della segreteria torinese del Pci e responsabile delle fabbriche. Perché le parole di Ferrara sono così importanti?
Perché per la prima volta un importante dirigente del Pci racconta le tecniche che quel partito impiegò per contrastare le Brigate rosse, il loro «principale antagonista a sinistra», come disse Berlinguer in una intervista apparsa su Repubblica nell’aprile del 1978. Emerge così la catena di trasmissione che lega la procura sabauda e la federazione comunista torinese, con Caselli (il magistrato che ha arrestato più operai nella storia d’Italia), e con lo stesso Violante che nel 1978 era nell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia per creare le basi della svolta emergenzialista con l’introduzione dei principi di trattamento differenziato: carceri e legislazione speciale. I due magistrati tenevano riunioni in federazione, concertando le strategie di contrasto alla lotta armata con i dirigenti del partito comunista locale mentre il partito, quando emersero difficoltà nella composizione della giuria popolare, filtrò diversi giurati. Una interferenza politica nel processo non certo in linea con i dettami costituzionali, l’autonomia della magistratura e il codice di procedura penale. Una testimonianza, quella di Ferrara, assolutamente rilevante sul piano storico che non trovò spazio nel giornale dove lavoravo all’epoca. L’allora direttore Dino Greco si rifiutò di pubblicarla perché «non in linea con la verità politica» che a suo avviso Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, doveva preservare. Una verità politica, ovvero una menzogna storica, costruita negando quanto era avvenuto nella realtà. La stessa «verità politica» che senza battere ciglio Greco ripropone nel libro che ha dedicato alla ricostruzione della storia della Brigate rosse e del sequestro Moro.

Cosa vuoi dire quando evidenzi che «attorno alle parole di Moro si è combattuta e tuttora si combatte una battaglia importante, una battaglia politica»?
Nel corso della prigionia Moro fu descritto dall’ampio schieramento politico e giornalistico che sosteneva la linea della fermezza (Dc, Pci, Repubblica di Scalfari) come una vittima della sindrome di Stoccolma, un politico privo di senso dello Stato, autore di lettere che non erano moralmente e materialmente ascrivibili alla sua persona. In un precedente volume ho pubblicato ampi stralci dei verbali delle riunioni della Direzione del Pci, nei quali oltre a denunciare l’uso di violenza psichica e preparati chimici per far collaborare l’ostaggio, si esprimevano giudizi pesantissimi nei confronti del prigioniero. Oggi sappiamo che si trattava di una versione di comodo, elaborata in quei giorni nelle stanze del Viminale grazie all’opera del professor Franco Ferracuti e del suo assistente Francesco Bruno, che suggerì di ritenere pubblicamente Moro un ostaggio sotto influenza dei suoi rapitori per delegittimare le proposte di trattativa e scambio di prigionieri elaborate in via Montalcini. Si trattò di una cinica operazione di disinformazione, un’azione di controguerriglia psicologica che governo, forze politiche e grande stampa accolsero e utilizzarono. Fu un assassinio anticipato, prim’ancora del suo corpo vennero fucilati dalle forze dell’emergenza la sua coscienza e il suo pensiero politico. Non a caso Moro, perfettamente consapevole della scelta fatta dal suo partito e dal Pci, scrisse: «il mio sangue ricadrà su di voi». Soltanto nel 2017, trentanove anni dopo la morte, il memoriale difensivo e le lettere scritte in via Montalcini sono state inserite nell’opera omnia edita dalla Presidenza della Repubblica, riconoscendone appieno, seppur con un grave ritardo, l’autenticità e l’importanza storica, politica ed etica. Ormai nessuno ha il più il coraggio di mettere in discussione l’integrità morotea di quegli scritti. Un recente lavoro di analisi filologica condotto da Michele Di Sivo ha definitivamente sepolto ogni disputa, relegando nella pattumiera della storia tutti quelli che hanno provato ad argomentare sulla inautenticità. Ma per le forze politiche, gli intellettuali e i giornali che sostennero l’inautenticità delle parole di Moro restava il problema di trovare una via di uscita per giustificare la scelta fatta e liberarsi della responsabilità di aver trovato politicamente più conveniente la sua morte. E’ nata così la dietrologia, l’affannosa ricerca di responsabili di sostituzione, di una narrazione che capovolgesse la condotta tenuta nei 55 giorni del sequestro attribuendo ad altri la mancata liberazione dell’ostaggio e l’esito nefasto del sequestro.

1/continua

L’ex Br Bertulazzi: «Sono in fuga dal 1980, ma non regalo mea culpa»

Oggi è un liutaio, per anni ha lavorato come grafico e traduttore, è stato un militante della colonna genovese delle Brigate rosse ai suoi esordi, nella pirma metà degli anni 70. Nel 1980 lascia l’Italia, quando viene processato vive già all’estero da tempo ma i giudici pensano sia un clandestino in attività così lo condannano ad una pena abnorme, 27 anni, nonostante fosse stato un irregolare, cioè mai clandestino, senza reati di sangue contestati. Dopo esser passato per la Grecia, approda in Salvador dove vive fino al 2002, quando entra in Argentina dove viene arrestato. La magistratura tuttavia nega l’estradizione perché condannato in contumacia. Poco dopo gli viene concesso l’asilo politico, procedura che interrompe il processo di estradizione annullando il rigetto già pronunciato. Nel 2013 la sua condanna va in prescrizione, la cassazione italiana conferma ma successivamente la procura di genova fa riaprire il procedimento ottenendo l’annullamento della decisione. Nell’estate 2024 la nuova giunta argentina del presidente Milei, un nostalgico delle dittature fasciste sud americane e del piano Condor, con una decisione arbitraria annulla la concessione dell’asilo politico. Il governo Meloni ne approfitta e rilancia l’estradizione avvalendosi della mancata conclusione della precedente procedura di estradizione, dove era stato espresso parere favorevole. I nuovi giudici, allineati col nuovo potere revanchista, concedono una estradizione col trucco accettando la promessa fatta dalla procura genovese che una volta in Italia Berrtulazzi sarà nuovamente processato: nonostante la legge e la giurisprudenza non lo prevedano.

Mario Di Vito, il manifesto 18 marzo 2025

Leonardo Bertulazzi, classe 1951, fino al 1980, anno in cui è cominciata la sua fuga, è stato un militante irregolare della colonna genovese delle Brigate rosse con il nome di battaglia di Stefano. Condannato in contumacia a 27 anni per il sequestro di Pietro Costa del 1977 e per banda armata, pur non avendo fatti di sangue a suo carico per l’Italia è uno dei maggiori ricercati internazionali: due settimane fa i giudici hanno detto sì alla sua estradizione dall’Argentina. Ad agosto gli era stato sospeso lo status di rifugiato politico ed è stato arrestato. Adesso è ai domiciliari con un bracciale elettronico e il suo destino è appeso all’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema di Buenos Aires, città in cui vive dal 2002.

«Quello è stato un anno terribilmente speciale per l’Argentina – dice al manifesto -. Terribile perché la bancarotta finanziaria provocò un impoverimento repentino di una porzione importante della società e speciale perché sviluppò un’immediata risposta in termini di auto-organizzazione e lotta: que se vayan todos era lo slogan».

E lei arriva lì.
Bettina, mia moglie, ed io arrivammo a Buenos Aires nel giugno del 2002 e iniziammo a conoscere i quartieri popolari e a frequentare le assemblee in cui i vicini discutevano l’organizzazione di mense e farmacie popolari, e altre forme di autogestione. Venivamo da molti anni vissuti in Salvador, dove avevamo lavorato in contesti simili. A novembre l’Interpol mi arrestò per una richiesta d’estradizione italiana. Le organizzazioni dei piqueteros e le assemblee di quartiere manifestarono una grande solidarietà nei miei confronti e ci fu una campagna in mio favore.

E poi?
Dopo sette mesi di detenzione, il giudice decise che l’estradizione di un condannato in contumacia non era ammessa e mi liberarono. L’anno seguente, con la presidenza Kirchner, mi venne riconosciuto lo status di rifugiato politico, perché le leggi speciali e le pratiche d’emergenza, il pentitismo, la tortura, i processi collettivi, le pene esorbitanti, i carceri speciali, il 41 bis e le condanne in contumacia non garantivano un funzionamento affidabile della giustizia.

Cosa ha fatto in Argentina in questi 23 anni?
Ho lavorato come disegnatore grafico e come traduttore fino al 2015, quando ho cominciato a frequentare una scuola municipale di liuteria. Si trattava di un grande magazzino in periferia dove, già in precedenza, operava una falegnameria con la sua attrezzatura. Abbiamo avviato un’impresa di produzione di strumenti musicali per le orchestre degli alunni delle scuole della periferia di Buenos Aires. Abbiamo chiamato quel grande magazzino Fabbricando Futuro, come le due effe sulla tavola armonica del violino, e questo è diventato il luogo d’incontro di alunni, studenti, genitori, professori, liutai e apprendisti liutai.

Da allora il paese è molto cambiato.
Lo spirito della mobilitazione sociale che abbiamo conosciuto al nostro arrivo si è affievolito a causa di delusioni, stanchezza, rassegnazione e repressione che, poco a poco, hanno tagliato le ali della speranza. Il governo Milei ha espulso dal mondo del lavoro centinaia di migliaia di lavoratori e ha represso con violenza ogni tentativo di resistenza. Oggi nella società argentina si percepisce la paura e insieme un senso di rabbia repressa che aspetta solo che la tortilla se de vuelta.

In Italia, intanto, c’erano già delle condanne che la riguardavano.
La legislazione speciale l’ha fatta da protagonista: la ricerca a tutti i costi della collaborazione del pentito, con la carota delle leggi premiali o, quando non bastava, con la tortura e poi le condanne a decine di anni che si basavano unicamente sulle dichiarazioni dei pentiti. Si tratta di un iter giudiziario che affonda le proprie radici nelle atrocità del fascismo e nella mancata epurazione della magistratura dopo la caduta del regime. Si tratta di una pesante eredità che è diventata un abito mentale, una mentalità radicata nel profondo. Non sorprende, quindi, che la legislazione speciale promulgata negli anni ’70, molto più forcaiola dello stesso Codice Rocco, non abbia provocato nessuna contraddizione in coloro che l’hanno applicata con tanta diligenza. 

Veniamo ai suoi processi.
Ho due condanne: 15 anni per il sequestro Costa e 19 per banda armata, poi unificate per una pena unica di 27 anni. I processi si sono svolti quando avevo già lasciato il paese da anni.

La procura di Genova scrive: «In conclusione, è ragionevole riconoscere che nessun elemento allo stato attuale può provare la conoscenza del processo in capo al condannato e delle accuse definitivamente formulate a suo carico e poi accertate in sua contumacia».
Lo stesso giudice argentino, che nel 2003, Kirchner presidente, aveva respinto la richiesta di estradizione, oggi, con Milei, ha accolto la richiesta, sostenendo che non c’è ragione di dubitare della parola della procura genovese che assicura che avrò diritto a un nuovo processo.

Ancora la procura di Genova: «L’ipotesi che la mancata presenza del Bertulazzi ai suoi processi per esercitare i suoi diritti possa essere stata involontaria, anziché frutto di una libera scelta, è da scartare CATEGORICAMENTE (sic, ndr)».
Speravano che la mia contumacia “volontaria” potesse giustificare l’estradizione. Ma non è andata così. Il giudice argentino ha respinto la richiesta di estradizione e sono stato riconosciuto come rifugiato politico. Ma ecco che nel 2024 cambiano i rapporti fra i governi, e Milei e Meloni si abbracciano. Mi viene revocato lo status di rifugiato e la procura di Genova presenta la stessa richiesta d’estradizione di 22 anni prima. Ma con quale giustificazione? Nessuna. Basta avere la faccia tosta di dire che non sapevo di essere sotto processo e che, una volta estradato in Italia, avrò diritto a un nuovo processo. 

Sugli anni della lotta armata, in una delle risposte al questionario per ottenere lo status di rifugiato politico in Argentina, lei scriveva: «Nel 1968 è apparso un movimento sociale, sorprendente nelle sue dimensioni, che per più di 10 anni ha messo in discussione le relazioni sociali e politiche del Paese e ha determinato il destino di molte persone, me compreso. Il movimento stava conquistando sempre più spazio nella società, generava speranze di cambiamento e stava già producendo cambiamenti di mentalità. Per me e per molti della mia generazione era una festa, la festa della speranza, in cui si incontravano studenti e lavoratori di tutte le categorie, donne e uomini, vecchi combattenti antifascisti e nuovi».
Il percorso ascendente della parabola ha resistito per anni, e poi? Poi c’è l’oggi, fatto di lavoro precario, disoccupazione, sanità che risponde al motto “più ricco, più sano”, un Mar Mediterraneo che accoglie i cadaveri degli emigranti, povera gente che muore perché cerca una vita degna di essere vissuta, mentre si incita al riarmo, si abitua la gente all’idea della guerra e dilaga il fascismo. Io ho lottato per un presente diverso. Nel giudicare il passato, non si può prescindere da questo presente, che è quello a cui hanno condotto coloro che ci hanno sconfitto. Non regalerò un mea culpa ai guerrafondai, a quelli che hanno provocato il rigurgito fascista.

Lei non è il primo caso di ricercato per fatti di mezzo secolo fa. Ricordiamo, per ultimi, i dieci di Ombre rosse in Francia. Non crede che i fatti di quel periodo storico siano una ferita ancora aperta per l’Italia?
Bisogna rileggere le parole dei giudici francesi: “I fatti sono molto vecchi. Senza trascurarne l’eccezionale gravità, in un contesto di estrema e ripetuta violenza che non può essere legittimata da esigenze politiche, si deve ritenere che il turbamento dell’ordine pubblico causato si sia esaurito”. Questa considerazione esprime lo spirito della prescrizione. Nella società italiana, il tempo della ferita aperta è scaduto. Ho letto di inchieste sugli “anni di piombo” che rivelano che tantissimi non sanno nemmeno di cosa si stia parlando.

Perché allora c’è ancora tanta attenzione su quei fatti?
Penso che un perché vada ricercato in quell’eredità di cui parlavo. Nel 2016, un avvocato ha fatto richiesta di prescrizione delle mie condanne. Il 12 giugno 2017 la Corte d’Appello di Genova dichiara l’estinzione delle pene. Il 23 febbraio 2018 la sentenza va in Cassazione e diventa definitiva. Intanto, però,la Suprema Corte aveva assunto un nuovo orientamento secondo cui anche l’arresto a seguito della richiesta d’estradizione interrompe la prescrizione. La procura di Genova se n’è accorta in ritardo, quando la sentenza che riconosceva la prescrizione delle mie pene era diventata definitiva. Ma la procura chiede che si riapra il processo, adducendo come giustificazione un fatto nuovo che non era stato preso in considerazione. 

Quale sarebbe il fatto nuovo?
Il mio arresto del 3 novembre 2002 a Buenos Aires.

La Cassazione aveva annullato la prescrizione.
Ironia della persecuzione: la mia richiesta di prescrizione delle pene, iniziata nel 2016 e conclusasi nel 2018 con il no alla prescrizione, è il pretesto usato da Milei per cessare il mio rifugio, perché avrei tentato di avvalermi volontariamente della protezione del paese di appartenenza. C’è poi tutto un dispositivo composto da politici e comunicatori che per rendere digeribile ai più la persecuzione attuata dallo Stato, si incaricano di descrivere il perseguitato come un diavolo. Quando nel 2017 mi è stata riconosciuta la prescrizione, si gridò allo scandalo. In realtà, stavano chiedendo di ribaltare la sentenza, cosa che è avvenuta poco dopo.

Lei è in fuga dal 1980. Ha rimpianti?
Ci sono cose che importano e che però non ho potuto fare. Ricordo un articolo di qualche anno fa su un giornale. Parlava dei fuoriusciti degli anni ’70 che si erano rifugiati in America Latina, facendo un’allusione particolare ai genovesi. L’articolo ne descriveva la bella vita ai Caraibi, fra amache, palme e mojito. Mi chiedevo come fosse possibile che una persona potesse immaginare un esiliato in quel modo, come fosse possibile che un giornalista, senza nessuna conoscenza diretta delle persone di cui parlava, scrivesse un articolo del genere. Ma ho pensato anche che, nella sua ignoranza, ci aveva azzeccato: è vero che ho vissuto bene, ma di un bene che non ha niente a che vedere con la sua immaginazione. Ho conosciuto tante persone, molte delle quali in situazioni esistenziali complesse. Le loro storie e la loro memoria sono il libro più bello che abbia mai letto e costituiscono la mia ricchezza.

Sequestro Moro, dopo 47 anni continua ancora la caccia ai fantasmi

Pochi sanno che per il sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro e dei cinque uomini della scorta sono state condannate 27 persone. La martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato questo dato. Il sistema giudiziario ha concluso ben 5 inchieste e condotto a sentenza definitiva 4 processi. Oggi sappiamo, grazie alla critica storica, che solo 16 di queste 27 persone erano realmente coinvolte, a vario titolo, nel sequestro. Una fu assolta, perché all’epoca dei giudizi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma venne comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Tutte le altre, ben 11 persone, non hanno partecipato né sapevano del sequestro. Due di loro addirittura non hanno mai messo piede a Roma. Il grosso delle condanne giunse nel primo processo Moro che riuniva le inchieste «Moro uno e bis». In Corte d’assise, il 24 gennaio 1983, il presidente Severino Santiapichi tra i 32 ergastoli pronunciati comminò 23 condanne per il coinvolgimento diretto nel rapimento Moro. Sanzioni confermate dalla Cassazione il 14 novembre 1985. Il 12 ottobre 1988 si concluse il secondo maxiprocesso alla colonna romana, denominato «Moro ter», con 153 condanne complessive, per un totale di 26 ergastoli, 1800 anni di reclusione e 20 assoluzioni. Il giudizio riguardava le azioni realizzate dal 1977 al 1982. Fu in questa circostanza che venne inflitta la ventiquattresima condanna per la partecipazione al sequestro, pronunciata contro Alessio Casimirri: sanzione confermata in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 1993. Le ultime tre condanne furono attribuite nel «Moro quater» (dicembre 1994, confermata dalla Cassazione nel 1997), dove vennero affrontate alcune vicende minori stralciate dal «Moro ter» e la partecipazione di Alvaro Loiacono all’azione di via Fani, e nel «Moro quinques», il cui iter si concluse nel 1999 con la condanna di Germano Maccari, che aveva gestito la prigione di Moro, e Raimondo Etro che aveva partecipato alle verifiche iniziali sulle abitudini del leader democristiano.Tra i 15 condannati che ebbero un ruolo nella vicenda – accertato anche storicamente – c’erano i 4 membri dell’Esecutivo nazionale che aveva gestito politicamente l’intera operazione: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto; i primi due presenti in via Fani il 16 marzo. Furono poi condannati i membri dell’intero Esecutivo della colonna romana e la brigata che si occupava di colpire i settori della cosiddetta «controrivoluzione» (apparati dello Stato, obiettivi economici e politico-istituzionali): Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, tutti presenti in via Fani. Gallinari era anche nella base di via Montalcini. Adriana Faranda, che aveva preso parte alla fase organizzativa e il già citato Raimono Etro, che dopo un coinvolgimento iniziale venne estromesso. C’erano poi Raffaele Fiore, membro del Fronte logistico nazionale, sceso da Torino a dar man forte, Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono, due irregolari (non clandestini) che parteciparono all’azione con un ruolo di copertura e Anna Laura Braghetti, prestanome dell’appartamento di via Montalcini. Era presente anche Rita Algranati, la ragazza col mazzo di fiori che si allontanò appena avvistato il convoglio di Moro e sfuggì alla condanna per il ruolo defilato avuto nell’azione.Tra gli 11 che non parteciparono al sequestro, ma furono comunque condannati, c’erano i membri della brigata universitaria: Antonio Savasta, Caterina Piunti, Emilia Libèra, Massimo Cianfanelli e Teodoro Spadaccini. I cinque avevano partecipato alla prima «inchiesta perlustrativa» condotta all’interno dell’università dove Moro insegnava. Appena i dirigenti della colonna si resero conto che non era pensabile agire all’interno dell’ateneo, i membri della brigata furono estromessi dal seguito della vicenda. La preparazione del sequestro subì ulteriori passaggi prima di prendere forma e divenire esecutiva. In altri processi la partecipazione all‘attività informativa su potenziali obiettivi, quando non era direttamente collegata alla fase esecutiva, veniva ritenuta un’attività che comprovava responsabilità organizzative all’interno del reato associativo, nel processo Moro venne invece ritenuta un forma di complicità morale nel sequestro. Furono condannati anche Enrico Triaca, Gabriella Mariani e Antonio Marini, membri della brigata che si occupava della propaganda e che gestiva la tipografia di via Pio Foà e la base di via Palombini, dove era stata battuta a macchina e stampata la risoluzione strategica del febbraio 1978. Tutti e tre all’oscuro del progetto di sequestro. Furono condannati anche due membri della brigata logistica della capitale, Francesco Piccioni e Giulio Cacciotti: il primo aveva preso parte, nel mese di aprile 1978, a un’azione dimostrativa contro la caserma Talamo da dove era fuggito insieme agli altri tre suoi compagni, con la Renault 4 rosso amaranto che il 9 maggio venne ritrovata in via Caetani con il cadavere di Moro nel bagagliaio. Gli ultimi due condannati furono Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri della colonna torinese mai scesi a Roma ma coinvolti – secondo le sentenze – perché avevano funzioni apicali in strutture nazionali delle Br, come il Fronte delle controrivoluzione.
Tra i 27 condannati, 25 furono ritenuti colpevoli anche del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – da me ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini. Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura sono attualmente aperti nuovi filoni d’indagine, ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver condannato 11 persone estranee al sequestro, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

«Sì all’estradizione di Bertulazzi in cambio di un nuovo processo in Italia», i giudici argentini accolgono la promessa fatta dalla procura di Genova che non verrà mantenuta

Si fonda su una bugia l’avviso favorevole concesso dalla magistratura argentina alla estradizione dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi, riparato negli anni 80 in America Latina, prima in Salvador e poi dal 2002 in Argentina, dove vent’anni fa gli era stato riconosciuto l’asilo politico, ritirato con una decisione arbitraria dopo l’arrivo al potere del governo fascio-revanchista Milei. La procura generale di Genova ha fatto sapere ai giudici di Buoneos Aires che una volta in Italia Bertulazzi avrà sicuramente diritto ad un nuovo processo, tanto è bastato per concede l’ammissibilità alla estradizione.
Sono state pubblicate ieri, 7 marzo, le motivazioni giuridiche che hanno portato a questa decisione sancita nella udienza del 27 febbraio scorso. I giudici argentini sono tornati sui loro passi, smentendo l’avviso contrario espresso 21 anni fa, il 5 giugno del 2003, quando rifiutarono l’estradizione perché l’Italia non forniva sufficienti garanzie sullo svolgimento di un nuovo processo contro Leonardo Bertulazzi. Va detto che l’ordinamento penale argentino non prevede la contumacia. Purtroppo l’iter decisionale dei giudici argentini non venne completato perché nel frattempo giunse il riconoscimento dello status di rifugiato, che secondo la legislazione argentina, e la convenzione sui diritti dei rifugiati, impedisce la consegna e persino il processo di estradizione quando lo status di rifugiato è in vigore. Situazione che portò la corte suprema a revocare quella prima decisione e non dichiarare irricevibile la domanda di estradizione. Così al governo Milei è bastato ritirare con un pretesto lo status di rifugiato per riaprire la partita.
Bertulazzi era stato condannato nel 1985 in due diversi processi – quando già da diverso tempo aveva lasciato l’Italia – a 15 anni di reclusione per complicità nel sequestro Costa del 1977 e 19 anni per il reato associativo, condanne che una volta cumulate, nel 1997, hanno portato a una pena definitiva di 27 anni. Una enormità considerando la breve militanza all’interno della colonna genovese, interrotta anche da un periodo di detenzione, e il fatto che fosse un «irregolare» a cui non sono stati mai contestati reati di sangue.
Secondo i giudici, in questa nuova procedura sarebbe intervenuto un fatto nuovo che avrebbe cambiato le carte in tavola: ovvero le garanzie fornite dal procuratore generale della Repubblica di Genova, in una nota del 9 settembre 2024, in merito alla possibilità per Bertulazzi di ottenere un nuovo processo una volta riconsegnato all’Italia.
Le garanzie della procura genovese tuttavia contrastano con l’ordinamento italiano, art. 175 comma 2 cpp, che non prevede automatismi in caso di condanne in contumacia ma soltanto la possibilità per il condannato estradato, entro 30 giorni dalla consegna, di poter chiedere la riapertura del processo a certe condizioni.
Dominus della decisione resta la corte di appello non la procura generale. Corte che non si è ancora pronunciata e non ha inviato alcuna rassicurazione ai giudici argentini. Sul punto poi esiste una costante giurisprudenza di cassazione che scoraggia le richieste di riapertura. Il principio di intangibilità della cosa giudicata resta fortemente radicato nel sistema giudiziario italiano e nella cultura giurisprundenziale, un muro invalicabile, un tabù intoccabile.
A favore di Bertulazzi tuttavia postrebbero giocare altri passaggi presenti nell’ordinanza dei giudici argentini, lì dove si afferma esplicitamente che «per la Repubblica Argentina, dal punto di vista dell’estradizione, [Bertulazzi} è un accusato, tenendo conto che queste condanne devono essere riaperte nella Repubblica Italiana». Altro passaggio da sottolineare è quello dove i giudici ricordano che, «la persona condannata in contumacia deve essere considerata un imputato e godere di garanzie sufficienti per esercitare il suo diritto alla difesa una volta arrivata nel suo paese».
Insomma per i giudici argentini Bertulazzi, poiché condannato in contumacia, non va considerato e non può essere estradato in qualità di condannato ma solo di persona imputata, ovvero in attesa di giudizio.
Il concetto è molto chiaro, meno chiara è l’interpretazione che ne sarà data in Italia se la corte suprema federale dovesse confermare l’estradizione e il Conare rigettasse il ricorso contro l’abolizione del status di rifugiato politico.
Cosa farà allora la magistratura italiana che sciopera in questi giorni contro il progetto di separazione delle carriere voluto con forza dal governo Meloni? Cosa diranno l’opposizione, l’avvocatura, i giuristi?

Anche le democrazie torturano

«In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo
nelle aule di giustizia e non negli stadi»

Sandro Pertini, Presidente della Repubblica 1982

Nel maggio 1978 la nazionale di calcio italiana era in Argentina dove stava completando la preparazione in vista del campionato del mondo che sarebbe cominciato il mese successivo, vinto alla fine dai padroni di casa. Due anni prima, nel marzo 1976, un golpe fascista aveva portato al potere una giunta militare ma nonostante ciò i mondiali di calcio si tennero lo stesso. Furono una bella vetrina per i golpisti mentre i militanti di sinistra sparivano, desaparecidos; prima torturati nelle caserme o nelle scuole militari, poi gettati dagli aerei nell’Oceano durante i viaggi della morte, attaccati a delle travi di ferro che li trascinavano giù negli abissi. Intanto i neonati delle militanti uccise erano rapiti e adottati dalle famiglie degli ufficiali del regime dittatoriale.
Nel resto dell’America Latina imperversava il piano Condor orchestrato dalla Cia per dare sostegno alle dittature militari che spuntavano un po’ ovunque nella parte di continente che gli Stati Uniti consideravano il cortile di casa. Cinque anni prima, l’11 settembre del 1973, era stata la volta del golpe fascio-liberale in Cile, dove gli stadi si erano trasformati in lager.
In Italia l’opposizione sfilava solo nelle strade. In parlamento da un paio di anni si era ridotta a frazioni centesimali di punto a causa di un fenomeno politico che gli studiosi avevano ribattezzato col termine «consociativismo»: ovvero la propensione a costruire larghe alleanze trasversali e trasformiste che annullano gli opposti e mettono in soffitta alternanze e alternative. Il 90% delle leggi erano approvate con voto unanime nelle commissioni senza passare per le aule parlamentari. Il consociativismo di quel periodo aveva un nome ben preciso: «compromesso storico». Necessità ineludibile, secondo il segretario del Pci dell’epoca Enrico Berlinguer, per scongiurare il rischio di derive golpiste anche in Italia. 
Dopo un primo «governo della non sfiducia», in carica tra il 1976-77, mentre la Cgil imprimeva con il congresso dell’Eur una svolta fortemente moderata favorevole politica dei sacrifici e il Pci, sempre con Berlinguer, assumeva l’austerità come nuovo orizzonte politico, improntata ad una visione monacale e moralista dell’impegno politico e del ruolo che le classi lavoratrici dovevano svolgere nella società per dare prova della loro vocazione a dirigere il Paese, nel marzo 1978, il giorno stesso del rapimento Moro, nasceva il «governo di solidarietà nazionale», col voto favorevole di maggioranza e opposizione. Oltre al calcio e alla folta schiera di oriundi cosa poteva mai avvicinare una strana democrazia senza alternanza, come quella italiana, ad una dittatura latinoamericana come quella argentina? La risposta sta in una parola sola: la tortura.
Anche la repubblica italiana torturava gli oppositori, definiti e trattati come terroristi. In quei giorni del maggio 1978 veniva arrestato e poi torturato Enrico Triaca, tipografo della colonna romana delle Brigate rosse. Non era la prima volta che accadeva e non sarebbe stata l’ultima. Nel film documentario realizzato da Stefano Pasetto, Il Tipografo, Enrico Triaca racconta la propria vicenda, un agente dei Nocs (Nucleo operativo centrale di sicurezza), Danilo Amore, testimonia l’esistenza di quelle sevizie, il dottor Massimo Germani spiega gli effetti devastanti che la tortura procura sulla psiche di chi la subisce, Paolo Persichetti ricostruisce il quadro storico all’interno del quale le istituzioni italiane diedero il via libera agli interrogatori «non ordossi» degli arrestati.

Per chi vuole approfondire:

L’inconfessabile scambio di favori tra Meloni e Milei dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi

Dietro l’arresto dell’ex brigatista, oggi settantaduenne, Leonardo Bertulazzi ci sarebbe un patto tra Meloni e MIlei per salvare dalla giustizia argentina un prete italo-argentino coinvolto nei crimini della dittatura sudamericana degli anni 70. Il suo nome è Franco Reverberi, ultraottantenne emigrato giovanissimo in Argentina dove la sua famiglia si trasferì nel secondo dopoguerra in cerca di fortuna.

Il sacerdote assassino che benediva le torture

Nel nuovo continente il giovane Reverberi finì in seminario per poi prendere i voti e diventare parroco di Salto de Las Rosas, una piccola località sotto le Ande. Nel 1976, mentre il ventiquattrenne Bertulazzi lasciava Lotta continua, una formazione della estrema sinistra ormai in crisi per entrare nella nascente colonna genovese della Brigate rosse, don Reverberi, allora trentanovenne, sulla scia del golpe militare guidato dal generale Jorge Videla diventava cappellano militare, ausiliare dell’VIII squadra di esplorazione alpina di San Rafael.
Nel 1980 – recitano le accuse della giustizia argentina – iniziò a frequentare il centro di detenzione clandestina “La Departamental”, una delle strutture utilizzate dal regime dittatoriale nell’ambito del “Piano Condor”. Un progetto di sterminio delle opposizioni politiche contro le dittature, portato avanti a colpi di arresti, sparizioni, torture di massa e omicidi dei militanti della sinistra rivoluzionaria, peronisti e radicali (almeno duemila le persone uccise e trentamila quelle scomparse, i cosiddetti desaparecidos). L’operazione concordata tra le dittature fasciste del Sud America (Cile, Argentina, Brasile, Bolivia, Paraguay e Perù) aveva la supervisione della Cia. Reverberi è stato accusato di aver partecipato nel 1976 al sequestro, seguito da torture e omicidio, di un giovane peronista, Josè Guillermo Beron. Secondo le testimonianze rilasciate da diversi sopravvissuti ai centri di detenzione della dittatura, il sacerdote era solito frequentare le stanze delle torture per assistere agli interrogatori leggendo passi della bibbia e invitando i seviziati a collaborare con i propri torturatori, perché questo sarebbe stato il volere di Dio. Finita la dittatura Reverberi riuscì a farsi dimenticare continuando a dire messa. Soltanto nel 2010 emersero le sue prime responsabilità, ma il prete fece in tempo a riparare in Italia per tornare a dire messa nella sua parrocchia natale, Sorbolo, un paesino in provincia di Parma, ospite di don Giuseppe Montali

Due pesi e due misure
Raggiunto da una prima richiesta di estradizione, nel 2013 la magistratura italiana respingeva la domanda poiché non emergevano con nitidezza responsabilità dirette del sacerdote. Nell’ottobre 2023 tuttavia la cassazione confermava l’avviso favorevole a una nuova richiesta di estradizione, formulato in precedenza dalla corte d’appello di Bologna, che stavolta conteneva prove nuove sul suo coinvolgimento nella morte del giovane Beron e le torture inferte a nove detenuti. Secondo la cassazione i reati commessi da Reverberi si inserivano in «un sistema seriale di torture, catalogabili come crimini contro l’umanità, posti in essere nei confronti di dissidenti politici del regime militare allora al potere in Argentina, effettuate all’interno di una struttura penitenziaria adibita allo scopo e all’interno della quale vi era l’odierno estradando che svolgeva le funzioni di cappellano militare e che si assume avesse favorito l’operato dei militari».
Ancora una volta però Reverberi riusciva a cavarsela: nel novembre dello stesso anno, infatti, sale alla presidenza della repubblica argentina l’esponente dell’ultradestra Javier Milei. Così nel gennaio 2024, il ministro della giustizia del governo Meloni, Carlo Nordio, a cui spettava la decisione finale, non concedeva l’estradizione del prete torturatore, a causa dell’età avanzata (86 anni) e del suo precario stato di salute. Una decisione solo in apparenza garantista, per altro in netto contrasto con l’attività persecutoria promossa dal governo italiano nei confronti di Leonardo Bertulazzi, condannato (leggi qui) – a differenza di Reverberi – solo per reati associativi e per il sequestro dell’armatore Pietro Costa, sulla base dei de relato di due pentiti che non avevano partecipato al fatto, anzi uno dei due non era ancora entrato nelle Brigate rosse quando avvenne.

Il patto dei Bravi
I fatti appena elencati mostrano come la decisione di Nordio sia stata frutto di un accordo politico sancito dal caloroso tête-à-tête che Meloni e Milei hanno offerto ai fotografi durante le giornate del G7, tenutesi in Puglia lo scorso giugno 2024. Concessa l’immunità al torturatore Reverberi, come auspicato da Milei, la premier Meloni ha ricevuto in dono la cattura di Leonardo Bertulazzi in aperta violazione del ne bis in idem. La magistratura argentina, infatti, aveva già respinto la domanda di estradizione inviata nel 2002 perché incompatibile con il proprio ordinamento giudiziario, all’interno del quale non si prevede la possibilità di comminare condanne definitive in contumacia. Dopo questa decisione Bertulazzi aveva ottenuto nel 2004 lo status di rifugiato politico. Asilo improvvisamente revocato il giorno del suo nuovo arresto, il 24 agosto 2024, con un atto di puro arbitrio privo di qualsiasi fondamento giuridico. In questi giorni sulla stampa argentina sono emersi i primi retroscena di questa decisione. Secondo Tiempo argentino Luciana Litterio, fresca di nomina alla testa della commissione nazionale per i rifugiati (Conare), su designazione del ministro dell’Interno del governo Milei, avrebbe «ricevuto una chiamata che l’ha messa tra l’incudine e il martello. Il presidente della Repubblica, Javier Milei, gli ha chiesto, o forse gli ha ordinato, di revocare immediatamente lo status di rifugiato a Leonardo Bertulazzi». La nuova responsabile del Conare si sarebbe ritrovata con le spalle al muro – prosegue sempre il quotidiano argentino: «Litterio aveva due opzioni: ignorare la richiesta, rispettando così i patti internazionali firmati dal Paese e onorando il suo passato di accademica specializzata in rifugiati e migrazioni internazionali, con una carriera di 16 anni come responsabile degli affari internazionali presso la Direzione nazionale delle migrazioni. – carica per la quale fu nominata durante il primo mandato di Cristina Fernández e confermata da tutti i governi successivi –, o rispettare l’ordine presidenziale, gettando a mare la sua carriera e il suo prevedibile passaggio a un posto dirigenziale presso l’Unhcr o a un posto diplomatico nelle Nazioni unite».

Una nuova caccia mondiale ai comunisti
La mancata estradizione di don Reverberi e il riarresto di Bertulazzi, nonostante l’asilo politico concesso, mostrano che nelle due vicende sono stati applicati registri diversi, privi di qualunque standard giuridico, ispirati solo da un feroce revanscismo anticomunista e dalla volontà di proteggere feroci criminali delle dittature sudamericane. A riprova di questo fatto ci sono le dichiarazioni rilasciate al Sussidiario.net dall’attuale capo di gabinetto del ministero della Sicurezza che ha coordinato l’arresto di Bertulazzi nella sua abitazione argentina, pochi minuti dopo la revoca dell’asilo politico. Secondo Carlos Manfroni, «il ministero della Sicurezza, che ha a capo Patricia Bullrich, ha preso la decisione di non proteggere più gli ex terroristi [comunisti rivoluzionari degli anni 70 ndr] dall’estradizione. Rispetto invece ai terroristi argentini [gli oppositori antifascisti della dittatura ndr], che hanno commesso crimini aberranti nella decade degli anni 70», Manfroni si rammarica del fatto che «sfortunatamente la Corte [argentina ndr] in quegli anni decise che le loro azioni criminali erano cadute in prescrizione e che non si trattava di delitti ascrivibili alla lesa umanità. Un criterio sul quale non sono d’accordo ma che al momento impedisce di incarcerarli».

I crimini del potere e quelli degli insorti
Manfroni cita la giurisprudenza che la magistratura argentina ha prodotto negli anni della transizione postdittatura, secondo la quale i reati commessi dagli oppositori alla dittatura militare sono di fatto prescritti, a causa dei decenni trascorsi, mentre i crimini del potere dittatoriale (omicidi, torture e sparizioni), la cosiddetta «guerra sucia», commessi da membri del regime militare, restano tuttora perseguibili perché ritenuti crimini contro l’umanità, per questo imprescrittibili. Una giurisprudenza avanzatissima che, riprendendo i principi del diritto di resistenza, distingue tra violenza frutto della oppressione del potere statale e violenza dal basso commessa dagli insorti. 
A conclusione della sua intervista, Carlos Manfroni rivela anche la strategia concordata tra Milei e Meloni per giungere alla estradizione di Bertulazzi: «nel 2004 – spiega – l’ex Br non venne estradato perché in Italia era stato condannato in sua assenza. Ma secondo il trattato di estradizione tra Argentina e Italia, se l’Italia è pronta ad offrire un nuovo processo invece di usare la vecchia sentenza, Bertulazzi si può estradare e credo che questo, alla fine, sarà lo strumento che verrà usato». Tuttavia in Italia non esiste nessuna norma che preveda un nuovo processo dopo che è stata emessa una sentenza definitiva.

L’esperienza francese

Un precedente recente e significativo che si è scontrato contro questo limite insormontabile riguarda il rifiuto della magistratura francese di estradare dieci ex militanti della sinistra armata italiana degli anni 70. Le corti francesi hanno preso atto della impossibilità da parte italiana di garantire un nuovo processo per chi è stato condannato in contumacia e per questo hanno negato le estradizioni richiamando il mancato rispetto della regola del giusto processo, indicato nell’art. 6 della convenzione europea dei diritti umani. A cui hanno aggiunto anche l’esigenza di tutelare i diritti acquisiti (art. 8) nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese (ovvero le innumerevoli decisioni giudiziarie, politiche e amministrative pronunciate nel tempo dalla autorità francesi). Precedente giuridico che i giudici argentini chiamati a giudicare il caso Bertulazzi non potranno certo ignorare.

Sullo stesso argomento