Ancora una domenica bestiale su Rai tre, stavolta
 Report si inventa l’infiltrato della Cia nelle Brigate rosse. In azione il “metodo Mondani”: manipolare i testimoni per deformare la storia


Nella puntata di Report di oggi, domenica 12 maggio 2024, Paolo Mondani intervista lo storico Giovanni Mario Ceci che ha studiato tutti i documenti desecretati delle amministrazioni Usa degli anni 70 e dei primi 80: Dipartimento di Stato, Cia, Security Concil, rapporti dell’Ambasciata americana a Roma. Ricerca poi raccolta in un volume, La Cia e il terrorismo italiano, uscito per Carocci nel 2019.


Nei report desecretati si può leggere che «Nessuno è stato in grado di trovare nemmeno uno straccio di prova convincente del fatto che le Brigate rosse ricevevano ordini dall’estero». L’affermazione era giustificata dal fatto che solo la prova di una interferenza straniera che avesse messo a rischio la sicurezza e gli interessi statunitensi avrebbe legalmente giustificato l’intervento diretto della Cia negli affari interni italiani, più volte richiesto dal governo di Roma a cominciare dallo stesso Aldo Moro pochi mesi prima di essere rapito dalle Brigate rosse.
Nonostante il libro di Ceci, documenti alla mano, sostenga
nquesta tesi, Mondani riesce a censurare l’intero contenuto del volume, ben 162 pagine, capovolgendone il senso.

I documenti raccolti da Ceci dimostrano come la Cia intervenne per reprimere le Brigate rosse, non certo per sostenerle o manipolarle, alla fine del 1981 quando queste rapirono il generale americano James Lee Dozier. L’intervento degli uomini di Langley fu tale che il governo Spadolini non esitò ad autorizzare le forze dii polizia all’impiego sistematico della tortura durante le indagini.



Importanti testimonianze di esponenti delle sezioni speciali antiterrorismo dei carabinieri emersi recentemente hanno dimostrato (leggi qui) che a cercare di avvicinare le Brigate rosse non fu la Cia ma il Partito comunista italiano con l’accordo del generale Dalla Chiesa dopo il gennaio 1979. Si tratta della «Operazione Olocausto», un militante di Botteghe oscure (sede nazionale del Pci), nome in codice «Fontanone», ebbe un ruolo fondamentale nel permettere di agganciare alcuni dirigenti della colonna romana. Altri militanti del Pci fecero da «esche» nelle fabbriche del Nord Italia per permettere la cattura di esponenti brigatisti che cercavano di ricostruire la colonna torinese. L’unico infiltrato ad oggi conosciuto, che riuscì ad entrare nell’organico della colonna veneta delle Br per due anni, 1975-76, fu un operaio di Porto Marghera, Leonio Bozzato, nome in codice «Frillo», arruolato anni prima dal centro Sid di Padova, quando militava in un gruppo marxista-leninista, e successivamente inserito all’interno dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera. Difficilmente ascolterete queste cose nel corso della puntata di Report, se volete saperne di più, oltre al libro diu Ceci si consiglia la lettura di La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Deriveapprodi 2021.

Aldo Moro e l’ambasciatore Usa Richard Gardner

Quando Moro chiese aiuto alla Cia per contrastare le Brigate rosse

Aldo Moro era convinto che il terrorismo non avesse solo un carattere politico ma anche una dimensione internazionale. Pochi mesi prima del suo rapimento, in un incontro avvenuto nello studio di via Savoia con l’ambasciatore degli Stati Uniti Richard Gardner, affrontò la questione sostenendo che il fenomeno della lotta armata era «probabilmente sostenuto dall’Est, forse dalla Cecoslovacchia». Aggiunse che il terrorismo italiano e tedesco erano «profondamente legati» e mossi da un medesimo disegno: «minare le società democratiche sulla frontiere Est-Ovest». Contrariamente a quel che si ritiene oggi, Moro era convinto che lo sviluppo delle azioni dei gruppi armati avrebbe rafforzato gli obiettivi di governo del Pci: «un’escalation incontrollata dell’ordine pubblico» – affermava lo statista democristiano – avrebbe reso impossibile ogni opposizione alle richieste, che provenivano dalle «public demands», di «inclusione» e «partecipazione del Pci al governo per porre fine alla violenza» e «ristabilire l’ordine pubblico». Argomenti che spinsero Moro ad esortare gli Stati Uniti affinché assumessero «un ruolo attivo nel combattere il terrorismo», chiedendo a Gardner una «maggiore assistenza e cooperazione» da parte dell’intelligence statunitense con i servizi di sicurezza italiani» (1). A scriverlo è lo storico Giovanni Mario Ceci nel volume, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019. I report dell’agenzia di Langley, dell’ambasciata Usa a Roma e di altri attori dell’amministrazione statunitense, che l’autore cita nel libro, ribaltano l’attuale vulgata mainstream sugli scenari complottisti che avrebbero portato al rapimento del leader democristiano da parte delle Brigate rosse, sgretolando la convinzione stratificata da decenni di un sequestro sponsorizzato e supervisionato, addirittura con l’apporto diretto di forze esterne, in particolare atlantiche, al mondo brigatista, per impedire l’alleanza tra Dc e Pci e l’entrata di quest’ultimo nel governo. Nell’incontro del 4 novembre del 1977, lo statista democristiano fece capire agli americani che l’unico vero modo che avevano per arrestare la progressione elettorale del Pci e le sue ambizioni governative era intervenire su quelle che, a suo avviso, erano le matrici della sovversione interna italiana, ovvero la strategia di destabilizzazione della società che avrebbe trovato sostegno nelle interferenze sovietiche. Attività che, secondo Moro, non era finalizzata a sabotare l’avvicinamento del Pci all’area di governo ma semmai a favorirla rafforzando la sua immagine di unica forza politica in grado di salvare le istituzioni calmierando le spinte antisistema dei movimenti sociali ed esercitando la sua capacità di forza d’ordine. Questa personale convinzione di Moro, che per altro mutò drasticamente quando dalla prigione del popolo nella prima lettera a Cossiga scrisse di trovarsi «sotto un dominio pieno e incontrollato», era opinione diffusa negli ambienti politici moderati e conservatori italiani e trovava ispirazione in alcune precedenti veline dei Servizi italiani che chiamavano in causa l’operato dei Paesi dell’Est.
Anche il Pci riteneva, ma solo in sede riservata, che vi fosse una qualche interferenza oltre cortina, in particolare dei cecoslovacchi. Sono note le lamentele di Cacciapuoti e di Amendola nei confronti dei “fratelli cecoslovacchi” che sdegnosamente rigettavano l’accusa. I sospetti, dimostratisi infondati, dei dirigenti di Botteghe oscure erano dovuti all’ospitalità che nell’immediato dopoguerra Praga aveva fornito, su richiesta degli stessi comunistin italiani, a diversi esponenti delle milizie partigiane comuniste e dell’organizzazione Volante rossa che non avevano deposto le armi dopo la fine della guerra civile e per questo erano stati perseguiti dalla magistratura. Questo bacino di militanti, il più delle volte coinvolti in azioni di rappresaglia contro ex gerarchi ed esponenti fascisti, nonostante fosse stato esfiltrato dall’apparato riservato del Pci era maltollerato dalla nuova dirigenza di fede togliattiana. Un atteggiamento proiettivo che spinse la dirigenza di questo partito ad avviare una ossessiva campagna, divenuta vincente nei decenni successivi, che ribaltava lo schema complottista attribuendo ogni responsabilità del sequestro Moro all’azione dei Servizi segreti occidentali.

Terrorismo interno o internazinale?
L’amministrazione statunitense prese sul serio le richieste di Moro e G.M.Ceci ne ricostruisce attentamente tutti i passaggi: Gardner volato a Washington riferì la richiesta al segretario di Stato Vance ed al consigliere per la sicurezza Brzezinski, la questione venne introdotta in un memorandum inviato ai membri dell’European Working Group, che si riunì il 9 dicembre 1977, dove ci si chiedeva «che aiuto stiamo fornendo all’Italia in relazione al terrorismo (sia interno sia, se ve ne è, Internationally-inspired)? (2). Tuttavia emerse subito un grosso ostacolo dovuto alla presenza della nuova dottrina di «non interferenza non indifferenza» emanata dall’amministrazione Carter e alle limitazioni, introdotte dal Congresso statunitense a metà degli anni 70, che impedivano al governo Usa di intervenire nelle attività di polizia interna di altri paesi. Dopo le polemiche scatenate dai ripetuti interventi diretti della Cia, come fu per il colpo di Stato contro Allende in Cile, le azioni coperte dell’Agenzia d’intelligence furono sottoposte a restrizioni salvo nei casi in cui vi era un manifesto pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi interessi. Situazione che si prefigurava solo nel caso fosse stato dimostrato che quanto avveniva in Italia avesse una matrice internazionale. L’assenza di questa prova, più volte richiesta alle autorità italiane, impedì un intervento diretto e immediato della Cia, i cui analisti per altro in un report della Cia “centrale” ritenevano di non condividere «la tesi, alquanto popolare in Italia, che il terrorismo sia alimentato all’estero, né tantomeno il suo corollario, ossia che scomparirebbe se malvagi potenze straniere smettessero di immischiarsi», mentre un’analisi di Arthur Brunetti, capocentro della Cia a Roma, realizzata nei giorni precedenti il sequestro Moro ribadiva che le Br «sono un fenomeno nato e cresciuto interamente in Italia» e che «nulla indicava che l’Unione sovietica, i suoi satelliti nell’Europa dell’Est, la Cina o Cuba avessero avuto un ruolo diretto nella creazione o nella crescita delle Br». (3)
Nel bel mezzo di questo lavorìo diplomatico giunse come un lampo la notizia del rapimento del leader democristiano. Le prime analisi portarono Washington a temere che l’azione delle Br potesse estendersi anche ad obiettivi statunitensi, successivamente i numerosi report prodotti dall’intelligence Usa durante il sequestro focalizzarono l’attenzione verso le possibili ricadute sul quadro politico italiano. Gli analisti osservarono con molta finezza le mutazioni intervenute all’interno della Dc e il profondo cinismo che muoveva la rinnovata «rivalità» e le diverse manovre di riposizionamento dei leader democristiani che ambivano alla successione di Moro come capi del partito per «assumere il ruolo di front runner nelle elezioni presidenziali di dicembre». Secondo la Cia, il governo italiano nel corso del sequestro aveva «riportato una vittoria negativa rimanendo fermo», senza tuttavia essere riuscito a colpire militarmente le Br. Alla fine, concludevano gli analisti di Langley sbagliando completamente previsione, era il partito comunista la forza politica uscita rafforzata dall’esito del sequestro, poiché la linea della fermezza l’aveva collocata – a loro avviso – in una «posizione forte», che avrebbe reso impossibile la nascita di governi senza la sua partecipazione. Sul piano operativo, nonostante una richiesta di top priority da parte italiana, la Cia non andò oltre lo scambio di informazioni. Sotto la pressante insistenza di Roma il governo americano si limitò ad inviare un funzionario del Dipartimento di Stato (non un membro della Cia), Steven R. Pieczenik, psicologo esperto di guerra psicologica che giunse a Roma il 3 aprile 1978 (dopo il trezo comunicato brigatista nel quale si annunciava la collaborazione di Moro all’interrogatorio) e operò su mandato del ministro dell’Interno Cossiga all’interno di un “comitato di esperti”, dove erano presenti figure analoghe. La permanenza dell’esperto americano fu molto breve, convintosi della inutilità del suo contributo, rientrò negli Stati uniti il 16 aprile successivo, dopo appena 13 giorni.

Settembre 1978, la Cia si mobilità contro le Brigate rosse
Alla fine l’ostacolo venne superato con un espediente burocratico: riclassificare le Brigate rosse all’interno della categoria del “terrorismo internazionale”. L’8 maggio, il giorno prima della esecuzione di Moro, lo Special Coordinating Comitee del Consiglio nazionale della sicurezza, Nsc, diede finalmente semaforo verde, ritenendo che si potesse «offrire aiuto all’Italia per combattere il terrorismo internazionale», ma quando la decisione venne comunicata alle autorità italiane il corpo di Moro era già stato ritrovato in via Caetani. La circostanza tuttavia non arrestò i propositi statunitensi che nel settembre 1978 giunsero a Roma con l’obiettivo di svolgere un’attività unilaterale di intelligence contro le Br, attivando operazioni di infiltrazione all’interno questa organizzazione. L’ambasciatore Gardner si oppose, raccogliendo le resistenze italiane, sostenendo che questo tipo di attività sarebbe stata compito delle autorità di Roma. Alla fine si raggiunse un compromesso: l’ambasciata americana «avrebbe considerato caso per caso le proposte di reclutamento di persone da infiltrare nelle Br» con la possibilità di decidere autonomamente se «andare avanti da soli o dopo un accordo con gli italiani». Gardner ricorda nel suo libro di memorie che in effetti si registrò davvero «un caso di questo genere» e «la decisone fortunatamente fu di condurre l’operazione in accordo con il governo italiano». (4)

L’operazione Stark
L’unico tentativo conosciuto, per altro del tutto infruttuoso, è quello di Ronald Stark, un cittadino americano arrestato nel 1975 per traffico di stupefacenti e scarcerato nel 1979 con una motivazione redatta dal giudice Floridia in cui si riconosceva la sua collaborazione con la Cia. Il suo compito sarebbe stato quello di avvicinare all’interno delle carceri alcuni brigatisti detenuti. L’operazione non produsse risultati perché già dal 1977 i Br erano stati tutti trasferiti nel carceri speciali e Stark non finì mai in questo circuito. Se l’operazione di infiltrazione prese avvio alla fine del 1978 – come afferma Gardner – per Stark fu impossibile avvicinarli. Dalla documentazione della Direzione generale degli istituti di pena viene fuori che Stark fu rinchiuso nelle carceri di Modena, Pisa, Matera, Rimini e che nell’ultimo periodo della sua detenzione si trovava a Bologna. Prigioni estranee al circuito delle carceri speciali e che dopo il 1977 non accolsero più al loro interno brigatisti. Dalla stessa documentazione risulta che l’unico periodo in cui Stark, condannato per traffico internazionale di stupefacenti, si trovò ristretto nello stesso istituto di pena dove erano anche altri brigatisti fu il 1975 nel carcere di Pisa, poco dopo il suo arresto, tre anni prima che le Brigate rosse entrassero nel mirino dell’agenzia di Langley. Ammesso che fosse lui l’agente provocatore reclutato negli ultimi mesi del 1978, gli americani erano davvero in seria difficoltà se l’unica risorsa messa in campo per la loro strategia era riposta in un improbabile personaggio, un narco trafficante tenuto a debita distanza dai sospettosi brigatisti incarcerati che al massimo si trovarono a condividere, come riferisce Curcio nel suo libro, A viso aperto, il passeggio dell’aria con uno che cercava di attaccare bottone. Il racconto che Curcio fa dell’episodio (Stark gli propose durante il passeggio di organizzare una evasione dal carcere) lascia supporre che lo statunitense lavorasse già da confidente per il Ministero dell’Interno. In effetti Gardner afferma che l’operazione fu condotta di concerto con i Servizi italiani. Risulta, infatti, che funzionari del Ministero dell’Interno ebbero ripetuti incontri con lui nel carcere di Matera: tra questi spicca il nome di Nicola Ciocia, il famoso professor De Tormentis specialista del waterboarding, torturatore di diversi nappisti e brigatisti, tra cui Enrico Triaca, Ennio di Rocco, Stefano Petrella e di diversi componenti della colonna napoletana. I documenti ci dicono che l’unica persona caduta nella rete di questo agente provocatore fu Enrico Paghera, militante di Azione Rivoluzionaria che dopo la scarcerazione venne nuovamente arrestato e trovato in possesso di una cartina relativa ad un campo palestinese in Libano di cui era indicato il nome del responsabile e che risultò fornitagli dall’americano.

Note
1. Nella nota 26, p. 69, del suo volume, GM Ceci indica come fonte un report inviato dall’ambasciata Usa di Roma, Ambassador’s Meeting with Christian Democrat President, from Amembassy Rome to SecState, 7 November 1977, DN:1977ROME18056. Anche lo storico G. Formigoni, ricorda sempre GM Ceci, aveva riferito su questo incontro e sulla posizione di Moro in, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, 2016, pp.325-6.
2. GM. Ceci, p. 69, nota 27, Memorandum from Robert Hunter and Richard Vine to Members of European Working Group, Agenda for Meeting, December 9, 1977, in DDRS.
3. Giovanni Maria Ceci, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019, p. 84.
4. Richard N. Gardner, Mission: Italy. Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma.1977-1981, Mondadori, 2004, p. 234.

La commissione d’inchiesta “privata” del giudice Salvini sul sequestro Moro

E’ stata diffusa ieri la relazione della commissione antimafia sul sequestro Moro. Consulente il giudice Guido Salvini. Un’orgia di dietrologia

E’ stata resa pubblica la relazione prodotta nella scorsa legislatura dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, «sulla eventuale presenza di terze forze, riferibili ad organizzazioni criminali, nel compimento dell’eccidio di via Fani». A conclusione della legislatura la relazione non era ancora pronta, anche se alcune indiscrezioni erano filtrate verso giornalisti amici che ne avevano subito diffuso una velina il 6 maggio 2022 e le bozze preparatorie erano state sintetizzate nel settembre successivo (senza turbare minimamente la magistratura), sempre su The post internationale.

Una commissione omnibus
Presieduta dal 5stelle Nicola Morra, la commissione aveva suddiviso le sue attività d’inchiesta in 24 sezioni che si sono occupate degli argomenti più disparati, molti dei quali distanti anni luce dalle vicende mafiose o di criminalità organizzata: la morte del ciclista Marco Pantani, il massacro di due minori a Ponticelli nel 1983, l’omicidio di Simonetta Cesaroni in via Poma a Roma, i delitti del mostro di Firenze, la morte di Pasolini. Fatti di cronaca nera in parte rimasti irrisolti. Sulle attività mafiose invece si è lavorato sulla strage di via dei Georgofili, le infiltrazioni negli enti locali, massoneria, usura, strage di Alcamo marina, presenza e cultura mafiosa nelle università e nell’informazione. Infine, ciliegina sulla torta, non poteva mancare – come si è visto – via Fani e il rapimento Moro. Insomma una commissione omnibus, aperta a tutte le vicende giudiziarie e non, una sorta di supplemento politico dell’attività investigativa delle forze di polizia e della magistratura. Non solo, ma con ampio utilizzo discrezionale, quasi personale, dello strumento d’inchiesta, che sembra essere sfuggito al mandato e al controllo parlamentare.

Una indagine doppione
Nel caso della relazione sui fatti di via Fani appare evidente l’entrata a gamba tesa sulle inchieste in corso condotte della Procura della repubblica e dalla Procura generale di Roma che hanno ereditato dalla precedente Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, alcuni filoni d’indagine sulla vicenda Moro. Un doppione d’indagine che sembra quasi voler imporre la “giusta linea politica” all’inchiesta condotta dalla magistratura capitolina. Non solo, emergono ulteriori criticità sulla competenza territoriale: basti pensare al coinvolgimento come consulente del magistrato Guido Salvini, già collaboratore della precedente commissione Moro 2. Insoddisfatto del lavoro svolto nella precedente commissione – senza successo è bene sottolineare – Salvini si è ritrovato tra le mani una commissione tutta per sé, dando sfogo alla propria irrisolta libidine complottista che tormenta la sua esistenza. Questo magistrato, che svolge le proprie funzioni giudiziarie come Gip al settimo piano del tribunale di Milano, in questo modo è riuscito a dotarsi di una competenza sull’intero territorio nazionale per svolgere indagini, interrogatori e altro, senza possedere le dovute conoscenze e competenze sulla materia, e si vede dal risultato dei lavori. Un vero aggiramento politico delle norme e delle procedure giustificato da una sorta di stato d’eccezione complottista perseguito con fanatica voracità.

Il supermercato dei testimomi
A suscitare imbarazzo sono anche i metodi di indagine e le risorse impiegate: per esempio il tentativo di pilotare il ricordo di alcuni testimoni, trascelti perché ritenuti più comodi: tra questi Cristina Damiani che crede di vedere sei persone armate sulla scena, oltre all’agente Iozzino sceso dall’Alfetta di scorta, o ancora il ripescaggio dell’eterno ingegner Marini, uno che è riuscito a raccontare più bugie di Saviano, ricordatevi la storia del parabrezza del suo motorino. O ancora Luca Moschini che parla di una motocicletta vista prima dell’agguato cavalcata da uno dei quattro brigatisti in divisa da stewart dell’Alitalia, in contrasto con le dichiarazioni di tutti gli altri testimoni e con la moto descritta ad azione conclusa da altri due testi, Marini e Intrevado. Insomma la regola è quella del supermercato: mi scelgo i testi che meglio aggradano la mia teoria e ignoro quelli che la smentiscono e così diventa più facile far spuntare la presenza di un quinto sparatore in abiti civili, fuggito a piedi e in direzione opposta agli altri, nonostante sulla scena manchino i bossoli della sua arma, che poi sono l’unico dato obiettivo, e la sua fuga con un’arma lunga in mano (una canna di almeno 30 cm) non sia stata intercettata da nessun altro testimone che era sullo stesso lato del marciapiede nella parte alta di via Fani. E come si sarebbe allontanato dal luogo questo individuo, se non era salito in nessuna delle tre macchine del commando brigatista? Attendendo un mezzo pubblico ad una fermata dell’autobus di via Trionfale con un mitra in mano mentre vetture della polizia confluivano sul posto e l’intero quartiere si riversava in strada? Infine ci sono i soliti Pecorelli, De Vuono, Nirta, i calabresi, l’anello, persino lo stragista fascista Vinciguerra, uno dei cocchi adorati del giudice Salvini che non esita a metterlo dappertutto come il prezzemolo. Una specie di festival canoro di vecchie glorie del complottismo. Mentre chi c’era, i brigatisti, sono sempre dei bugiardi buoni a prendersi solo raffiche di ergastoli.

Il club dei dietrologi digitali
Ancora più problematico appare il ricorso ad alcune «consulenze esterne» del tutto prive di valenza scientifica: amichetti del quartierino complottista, dietrologi digitali, giornaliste da velina, amici della domenica che si dilettano del caso Moro come fosse un gioco di società. Insomma un circo Barnum, roba da avanspettacolo, un vero specchio del livello infimo della politica e delle istituzioni parlamentari attuali.

Se non sei complottista sei ancora un brigatista
Scorrendo le pagine della relazione ho scoperto persino di esser citato, il che devo dire mi suscita solo vergogna. A pagina 37 si richiama il mio ultimo libro, La polizia della storia, La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro (Deriveaprodi 2021). Nel testo mi si attribuisce l’appartenenza alle Brigate rosse che rapirono Moro, di cui parlerei come un conoscitore interno, «facendo mostra di un’adesione ancora attuale al pensiero brigatista». Il 16 marzo 1978 non avevo ancora compiuto 16 anni, ero un ginnasiale e mi trovavo nel mio liceo “sgarrupato” di via Bonaventura Cerretti, quartiere Aurelio di Roma. Era un magazzino di un palazzo sotto il livello stradale, buio, alcune aule piene di scritte del ’77 e dei bagni da dove uscivano i topi. Non c’era altro. Mancavano laboratori, aula magna, palestra. Non era una scuola ma un cesso di periferia. L’avevamo occupato e facevamo autogestione. Eravamo a due passi da Valle Aurelia e il convoglio che portava Moro verso la prigione di via Montalcini al Portuense transitò a due passi da lì, in via Baldo degli Ubaldi. Per parlare della mia esperienza in una delle ultime branche che si separarono da quel che restava delle Brigate rosse, a loro volta figlie della scissione in tre tronconi dei primi anni 80, bisogna attendere ancora otto anni. Altri tempi, altre storie.

Il secondo furgone e le parole ignorate di Moretti
Gli estensori mi citano per la presenza il giorno del sequestro di un secondo furgone, un Fiat 238 di colore chiaro, tenuto di riserva e parcheggiato lungo la via di fuga nella zona di Valle Aurelia. Mezzo da impiegare per un eventuale secondo trasbordo dell’ostaggio ma poi inutilizzato e spostato da uno dei brigatisti che parteciparono all’azione di via Fani. Di questa circostanza parlammo già nel libro uscito nel 2017, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera (Deriveapprodi). Ne La Polizia della storia ho solo aggiunto il nome di chi realizzò quello spostamento. Aggiungono gli autori della relazione che «la circostanza della suo mancato utilizzo proviene solo, e anche in forma impersonale, dal racconto dei brigatisti in contatto con Persichetti», ciò – proseguono ancora gli esponenti della commissione – «E’ esempio, come in altri casi, di una logica di verità a rate».
A questo punto sarebbe il caso di sottolineare che a rate c’è solo il cervello a fette dei dietrologi, perché del secondo mezzo aveva parlato Mario Moretti nel libro con Rossanda e Mosca nel lontano 1994, «Oltrepassiamo senza fermarci il luogo dove avevamo messo una macchina per un cambio di emergenza qualora non fosse riuscita la prima operazione di trasbordo: è pericolosissima l’eventualità che sia stato notato il furgone col quale ci avviciniamo alla base, perché una segnalazione anche a distanza di giorni consentirebbe di circoscrivere la zona in cui ci troviamo. Ma non è necessario cambiare macchina», (Mario Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, Anabasi 1994, p. 131).
Punto.

Quando su richiesta del generale Dalla Chiesa il Pci infiltrò un proprio militante nelle Brigate rosse

Estratto dal libro La polizia della storia (pp. 173-176).
La vicenda venne raccontata per la prima volta nel giugno del 2017 dall’ex responsabile della sezione speciale antiterrorismo dei carabinieri di Roma, Domenico Di Petrillo, durante la sua audizione davanti alla seconda Commissione parlamentare che indagava sul sequestro Moro e poi riportata nel libro, scritto sempre dall’ex colonnello, Il lungo assedio al terrorismo nel diario operativo della Sezione speciale anticrimine Carabinieri di Roma, Melampo 2018. Fatto singolare la Commissione presieduta da Giuseppe Fioroni, impegnatissima nella ricerca di infiltrati, spie, agenti d’influenza dentro e attorno alle Brigate rosse durante il sequestro Moro, ignorò completamente le rivelazioni. Nessun approfondimento venne disposto: i suoi solerti consulenti, i magistrati Donadio e Salvini, l’ufficiale dei Cc Giraudo, impegnatissimi a sfornare piste, creare e inventare nessi con Servizi di mezzo mondo, mafie e ‘ndranghete varie, snobbarono l’informazione troppo imbarazzante. Eppure sarebbe stato utile accertare modalità, tempi e modi di questa interazione tra Antiterrorismo dei carabinieri e vertici del Partito comunista dell’epoca, conoscere come si svolse questa operazione di intelligence. Niente di tutto ciò. L’unica versione dei fatti ad oggi conosciuta è quella fornitaci dall’ex carabiniere che dice fino ad un certo punto, omette, confonde per tutelare la sua fonte. Fonte, nome in codice «Fontanone», che, a distanza di oltre quarant’anni, si guarda bene dal farsi avanti e raccontare al Paese quella esperienza di cui probabilmente deve provare vergogna se preferisce rimanere celato nelle pieghe del passato. Questa vicenda è raccontata anche nella docuserie che sta andando in onda su Sky in queste settimane Roma di piombo, diario di una lotta.
Nel volume la Polizia della storia potete trovare invece un capitolo interamente dedicato al lavoro di contrasto svolto dalle forze di polizia contro le Brigate rosse, dal titolo «L’uso di esche, infiltrati e rami verdi nell’azione di contrasto alle Brigate rosse» nel quale per la prima volta, documenti alla mano, si ricostruiscono i pochi casi in cui le forze di polizia riuscirono ad impiegare delatori e provocatori. Non emergono casi di infiltrazione di membri dei Servizi o delle Forze dell’ordine, frequente invece è l’uso di esche, in particolare dopo la discesa in campo diretta del Pci che fornì propri militanti, mentre il nome più noto è quello di Girotto. Risultano arruolati due delatori: uno storico proveniente dalla Brigata Ferretto in Veneto, che fu all’origine di numerosi arresti, il secondo di Curcio, della Mantovani, di Semeria; l’altro a Milano che provocò l’arresto di Fenzi e Moretti. Infine c’è la storia di «Fontanone» che permise di agganciare nei primi mesi del 1980, dopo due anni di indagini a vuoto, la colonna romana.

L’operazione Olocausto, il Pci infiltra un proprio militante
Dopo la morte di Guido Rossa il Pci decise di cambiare la propria strategia di contrasto alla lotta armata. Il sindacalista della Cgil era stato ucciso dalla colonna genovese delle Brigate rosse che gli contestava il lavoro informativo svolto all’interno dell’Italsider di Cornigliano per conto del Partito comunista italiano (1). I vertici del Pci non ritennero più sufficiente la semplice attività informativa e il controllo dei luoghi di lavoro più caldi, delle scuole e del territorio, condotta dal proprio apparato di sorveglianza: una struttura riservata coordinata a livello centrale dalla Sezione Affari dello Stato che si appoggiava sulle singole Federazioni. Attività che ormai, come era accaduto per Rossa, esponeva a rischi eccessivi i propri militanti. Una volta individuato Francesco Berardi, operaio dell’Italsider che distribuiva opuscoli e volantini delle Br all’interno della fabbrica, Rossa non esitò a denunciarlo ai carabinieri presso gli uffici della sorveglianza nonostante l’esitazione del Consiglio di fabbrica, dove alcuni non erano convinti di quel gesto e avrebbero voluto affrontare in modo diverso il problema. Nella cultura politica del mondo operaio era piuttosto innaturale un atto del genere, in «The Making of the English Working Class», Edward P. Thompson evoca il concetto di «opacità operaia» per descrivere la tendenza della comunità proletaria a opporre una coltre di riservatezza per tutelare quel che avveniva al proprio interno: forme di illegalità, sabotaggio ma anche divergenze che non venivano risolte chiedendo aiuto all’esterno (2). Rossa aveva infranto questo tradizionale scudo, ma lo aveva fatto seguendo alla lettera le indicazioni del suo partito. Un recente lavoro di Sergio Luzzato ci offre un suo ritratto che aiuta a comprendere meglio le ragioni di quel comportamento: un aspetto caratteriale intransigente, un passato giovanile votato all’alpinismo agonistico animato da ideali nicciani e superomisti. Rossa era stato paracadutista nella brigata Folgore e per una di quelle strane coincidenze della storia uno dei suoi addestratori era stato il “guastatore” Oreste Leonardi, il maresciallo divenuto fedele guardia del corpo di Aldo Moro, morto in via Fani. Anni dopo, la tragica morte del figlioletto muta profondamente il suo sguardo sulla vita, Rossa si avvicina all’impegno sociale, abbandona la precedente visione individualistica e competitiva del mondo anche se, probabilmente, non riuscì a liberarsi della vecchia traccia normativa (3).
La svolta arriva nel settembre 1979 – racconta Domenico Di Petrillo, per molti anni a capo della Sezione speciale anticrimine dei carabinieri di Roma – quando Ugo Pecchioli, il responsabile della sezione Affari dello Stato del Pci (una sorta di Ministero dell’Interno ombra del Partito comunista) comunica a Dalla Chiesa la disponibilità a infiltrare un militante del partito all’interno delle Brigate rosse con l’intento di destabilizzarle. L’unica condizione posta dai vertici di Botteghe Oscure – riferisce sempre Di Petrillo – «era che il militante da infiltrare fosse gestito da un ufficiale del Nord Italia per renderne il più possibile difficile l’individuazione». L’incarico venne affidato al Comandante della Sezione speciale anticrimine di Milano, Umberto Bonaventura, che incontrò per la prima volta la spia del Pci nei pressi della fontana del Gianicolo, circostanza che portò ad attribuirgli il nome in codice «Fontanone». In realtà, stando al racconto della vicenda – fatto sempre da Di Petrillo, prima nel corso della sua audizione del 19 giugno 2017 davanti alla Commissione Fioroni e successivamente in un volume pubblicato l’anno successivo che ripercorre l’attività della Sezione antiterrorismo di Roma, gli incontri con il candidato all’infiltrazione, «si concretizzano in una ricerca di come riuscire ad essere sicuri di approcciare le Brigate rosse. Facemmo vari tentativi che non andarono a buon fine, fino a che arrivammo ad individuare Piccioni, Ricciardi e da lì iniziò l’attività […] Però fu una ricerca, non fu una partenza con l’indicazione: “Andate lì”» (4). Di Petrillo fa capire che la spia non entrò mai nelle Br, ma si limitò a svolgere un lavoro di conoscenza e prossimità che consentì di individuare gli ambienti, i collettivi e i comitati politici romani che facevano da bacino di provenienza delle colonna romana: «Il nostro rapporto durò pochissimi mesi», scrive nel libro: «precisamente, sino a quando riuscimmo a individuare un’area dell’antagonismo romano, nella zona Sud della Capitale, caratterizzata dalla presenza di numerosi collettivi: le Br stavano cercando di indirizzare l’attività e di selezionare al loro interno militanti da arruolare nell’organizzazione» (5). Di Petrillo protegge ancora la fonte, è parco di informazioni e stende un po’ di cortina fumogena, ma è chiaro che l’infiltrazione nell’organico brigatista non ci fu, ma piuttosto un lavoro di perlustrazione ambientale, di individuazione dei riferimenti periferici dell’organizzazione, che conducessero a semplici «contatti» o «irregolari» da fotografare, agganciare e poi pedinare, cercando di ricostruire, appuntamento dopo appuntamento, la rete del gruppo. Di «Fontanone» si sa che era un insegnante, che riuscì a incontrare alcune persone ritenute vicine alle Brigate rosse, che questi incontri vennero fotografati e i volti dei suoi interlocutori immortalati fino a quando il pentito Patrizio Peci riconobbe l’immagine di uno di loro, fornendo l’input decisivo per indirizzare l’indagine verso la persona giusta: Francesco Piccioni, figura di peso della colonna romana, membro del fronte logistico nazionale che aveva partecipato nel dicembre 1979 alla riunione della Direzione strategica convocata in tutta fretta nella base genovese di via Fracchia. Dopo una intensa attività durata mesi Piccioni (Michele) fu catturato il 19 maggio 1980 nella base di via Silvani 7 a Roma, sede del «logistico» della colonna romana. Interessante è un ulteriore episodio: i carabinieri avevano in mano foto di diversi brigatisti immortalati durante queste attività di osservazione e pedinamento. Si trattava sicuramente di militanti che avevano una storia, erano conosciuti nei loro quartieri. «Mi rivolsi – ha spiegato Di Petrillo davanti alla Commissione Fioroni – «al Partito comunista, all’avvocato Tarsitano perché mi aiutasse a identificare queste persone. Ritagliai la foto di uno di questi che stava in via dei Fori Imperiali e dopo qualche giorno mi dette un appuntamento, andai alla Pigna [piazza Venezia, in prossimità dell’inizio di via delle Botteghe Oscure dove si trovava la sede nazionale del Pci] a incontrare Antonio Marini, un uomo del Pci, gli consegnai quel frammento di foto; dopo qualche giorno mi richiamò e mi diede il nome: Marcello Basili» (6). Si trattava di un militante vicino alla brigata di Torrespaccata che una volta arrestato iniziò a collaborare facendo catturare diversi suoi compagni.
Fu sistematica in quegli anni l’attività informativa del Pci a favore delle forze di polizia, «Dalla Chiesa – ha riferito il generale Bozzo – mi aveva incaricato di tenere i rapporti con il Pci. Dal Pci abbiamo avuto tutta la collaborazione possibile e immaginabile. Su questo non può esserci nemmeno un’ombra di dubbio. Io avevo rapporti con Lovrano Bisso, allora Segretario provinciale del Pci: ci aiutò in ogni modo» (7). Alcune testimonianze portano a ritenere che il flusso informativo avvenisse anche in direzione opposta, seppur in misura molto minore. Salvatore Ricciardi, dirigente della colonna romana scomparso il 9 aprile 2020, con una ricca storia politica nel movimento operaio romano, prima nel Psiup (1965), poi tra i fondatori del Cub ferrovieri di Roma, per poi aderire all Brigate rosse nel 1977, mi ha più volte raccontato che dall’interno del Pci romano, qualcuno che non gradiva affatto la scelta della «delazione politica di massa» condotta dai vertici del partito, fece pervenire copia dei nomi di attivisti ritenuti sospetti che erano stati passati alla Questura.

Note

  1. Testimonianza di Loriano Bisso, segretario provinciale del Pci genovese, in Giovanni Fasanella e Sabina Rossa, Guido Rossa mio padre, Bur, pp. 158-159: «[…] Quell’esperienza – si rivelò utile anche di fronte alla minaccia brigatista. Fu un lavoro particolarmente difficile e pericoloso. Per diverse ragioni. Innanzitutto le Brigate rosse avevano una struttura fortemente centralizzata e compartimentata, con una base di sostegno non particolarmente ampia. Quindi non erano facilmente penetrabili. Inoltre, i loro gruppi di fuoco, che applicavano la tattica del “mordi e fuggi”, erano assai efficaci; mentre le forze dell’ordine, pur disponendo di personale di livello, per tutta una fase diedero l’impressione di brancolare nel buio. Tutto questo rendeva assai spregiudicata l’azione delle Br. Per la natura delle difficoltà, quindi decidemmo di concentrare l’attenzione piuttosto su ciò che stava dietro alla produzione del materiale di propaganda brigatista. Vale a dire: chi scriveva volantini e documenti, dove si stampavano, chi li trasportava, come entravano in fabbrica, chi li distribuiva. E poi, su un piano più strettamente politico, dovevamo capire quale grado di consenso quei documenti fossero in grado di suscitare fra i lavoratori. Posso dire questo, che il lavoro di Guido Rossa ci portò assai vicino all’individuazione di gran parte della catena di produzione della propaganda brigatista. Il contributo di tuo padre fu davvero eccellente. Mi aveva parlato di Berardi già alcuni mesi prima di quel 25 ottobre 1978. Lo aveva già individuato e lo teneva d’occhio».
  2. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1968.
  3. S. Luzzato, Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa, Einaudi 2021.
  4. D. Di Petrillo, audizione davanti alla Commissione Moro 2, 19 giugno 2017.
  5. D. Di Petrillo, Il lungo assedio. La lotta al terrorismo nel diario operativo della sezione speciale anticrimine dei carabinieri di Roma, Melampo, Milano 2018, p. 115-116.
  6. D. Di Petrillo, CM2, 19 giugno 2017.
  7. G. Fasanella, S. Rossa, Guido Rossa mio padre, Bur, Milano p. 141.

Aldo Moro e le Brigate rosse, in un libro i retroscena dell’inchiesta che vuole sequestrare la storia

La recensione di Davide Steccanella

Confesso che dopo 13 anni in cui credevo di avere letto di tutto e di più sulle BR e su quello che viene definito nel sottotitolo «l’affaire Moro» (citando un libro di Sciascia), avevo poca voglia di imbarcarmi in un ennesimo volume di smentita alle miriadi di «fake news» (altra definizione del sottotitolo) che da sempre circolano intorno all’azione armata più famosa degli anni ’70.
Tanto più che sono anni che l’autore dedica al tema scritti e controscritti, ivi compreso un imponente volume scritto a tre mani (con Marco Clementi e Elisa Santalena) e pubblicato qualche anno fa dalla medesima casa editrice.
E invece, sorpresa, proprio quest’ultimo lavoro di Paolo Persichetti, che neppure cita la parola Br nel titolo – che invece richiama la kafkiana vicenda giudiziaria che lo ha visto (e lo vede tuttora) vittima di quella che in prefazione Donatella Di Cesare definisce «polizia di prevenzione» – è probabilmente il miglior libro mai scritto sulla più importante organizzazione armata italiana, e che meglio di ogni altro potrebbe far capire a chi ai tempi manco era nato come fu possibile che in un paese occidentale a capitalismo avanzato migliaia di militanti abbiano potuto “resistere” per oltre 10 anni in clandestinità agendo in pieno giorno in città urbanizzate e non nascosti sui monti della Sierra Nevada.

Lo schema del libro non è semplice perché travolgendo ogni regola saggistica salta da un argomento all’altro partendo dall’oggi per tornare a ritroso – ma anche qui senza seguire alcun ordine cronologico – a quel periodo storico che «la polizia della storia», questo il titolo, imputa all’autore di voler ricostruire secondo verità e non secondo quanto imposto in questi anni dalla vulgata dei “vincitori”.
In estrema sintesi, la trama del libro potrebbe essere descritta così: un bel mattino un Pm di Roma decide di sequestrare l’intero archivio di uno storico che da anni si occupa del sequestro Moro seguendo una metodologia antitetica a quella delle varie commissioni parlamentari che tutti noi cittadini ritualmente paghiamo per non approdare mai a nulla di rilevante, e poiché ogni tentativo da parte dell’indagato (neppure si capisce per cosa) di ottenere giustizia si scontra con l’ottusità di una magistratura distratta e poco incline a ostacolare le iniziative della Procura, lui decide di scrivere esattamente quel libro che gli si voleva impedire di scrivere, partendo dal racconto in prima persona della vicenda che lo ha visto coinvolto.
Una vicenda che mi procura disagio perché all’inizio aveva visto coinvolta anche la mia persona, come si riferisce nel paragrafo «La Digos clona il telefono dell’avvocato», quando ero del tutto ignaro che in Italia fosse consentita «l’intercettazione dell’attività difensiva» (titola un successivo paragrafo).
E’ per questa ragione che Paolo mi ha scritto sulla dedica «una volta tanto non avvocato ma ‘complice‘» prima di aggiungere «con affetto e stima», gli stessi sentimenti che io provo per lui e nello stesso ordine, perché per prima cosa è un amico e poi è uno degli storici più scrupolosi che esistano.
Paolo, a differenza mia, è un professore che si occupa di quella Storia da studioso, anche se la vulgata preferisce altre definizioni di comodo che nulla c’entrano con quanto scrive (e basterebbe leggerlo per rendersene conto), ma credo che abbiamo in comune un medesimo approccio di partenza.
Quello, cioè, di volere apprendere i fatti passati attraverso lo studio delle fonti e la diretta testimonianza dei protagonisti prima di scrivere stronzate, e questo fatto appare così tanto poco comprensibile all’esterno da richiedere necessarie catalogazioni “ad usum delphini”, per cui lui è per forza e per «l’ex brigatista» (anche se per pochi mesi nell’arco di una vita intera piena di mille altre cose) e io «l’avvocato dei terroristi», e va da se che se per ipotesi ci incontriamo un pomeriggio a Milano (lui diretto a Parigi) per parlare dei cazzi nostri, per la Digos stiamo cospirando insurrezioni armate organizzando «soccorsi rossi» internazionali per abbattere lo Stato capitalista nel bel mezzo del terzo millennio (sic!).
Però Paolo è uno bravo e li ha fregati, perché in questo libro c’è tutto quello che si dovrebbe sapere su quello che è successo in Italia oltre 40 anni fa, e tutti dovrebbero leggerlo dalla prima all’ultima riga prima di dire anche solo un’ulteriore parola su quella storia oggetto delle attenzioni della nostrana Polizia.
Invece di farsi attrarre dai tanti libri strenna che hanno in copertina la stella a cinque punte o la faccia sofferente di Moro, alla cui figura politica (e anche umana) – per inciso – questo libro è uno dei pochi a restituire quella giusta dignità che la diffusa “dietrologia” scandalistica gli ha sempre tolto.

Quando il passato non è mai quello degli altri

Recensioni – alcuni mesi nella lotta armata e oggi ricercatore indipendente, ha appena pubblicato un nuovo libro sul caso Moro che entra a piedi uniti in un dibattito che negli ultimi tempi si è segnalato soprattutto per il riemergere di letture complottiste. A Paolo Persichetti il passato continua a chiedere il conto

Paolo Morando, Domani 24 maggio 2022

Oltre trent’anni fa, nel 1991, è stato condannato in via definitiva a 22 anni e mezzo di carcere per partecipazione a banda armata (le Brigate rosse – Unione dei comunisti combattenti) e concorso morale in omicidio (il generale dell’aeronautica Licio Giorgieri, ucciso in un agguato a Roma il 20 marzo 1987).
Nel frattempo, dopo che in primo grado era stato assolto, era riparato in Francia, come tanti altri ex militanti delle formazioni armate. E a Parigi si era ricostruito una vita come studioso, laureandosi e conseguendo un dottorato in Scienze politiche, fino a insegnare come docente a contratto all’università. A Paolo Persichetti il passato è tornato però a chiedere il conto la sera del 24 agosto 2002, quando la polizia francese lo ha fermato per poi consegnarlo a notte fonda ai colleghi italiani, in un rendez-vous degno dei migliori film di spionaggio: sotto il traforo del Monte Bianco.
Era stato arrestato una prima volta nel 1993, opponendosi però all’estradizione con successo, grazie a un pronunciamento dell’allora presidente francese François Mitterrand, che ha confermato la validità della propria “dottrina”. Persichetti ha terminato di pagare il conto alla giustizia italiana nel 2014, quando è stato scarcerato definitivamente. Ma già dal 2008 era in semilibertà e aveva iniziato a collaborare prima con Liberazione, l’allora quotidiano di Rifondazione comunista, poi con il Manifesto, Il Garantista, Il Rifomista e il Dubbio.

Il lavoro da storico
Si può dire che oggi Persichetti è uno storico di riconosciuto valore? Si dovrebbe poterlo fare, non fosse altro per la sua curatela di una importante Storia delle Brigate rosse in tre volumi (finora è apparso solo il primo). Si può dubitare della sua impostazione di studioso, per forza di cose caratterizzata dalla precedente militanza? Anche questo è possibile, ma senza dimenticare che la ricerca storiografica vive di contrapposizioni, di revisionismi e contro revisionismi (nel senso nobile del termine, sia chiaro), di confronto tra idee. Ma sempre sulla base di documenti. E Persichetti, da questo punto di vista, è un formidabile cane da tartufo: il suo lavoro di studioso lo dimostra.
Il suo ultimo libro “La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro”, pubblicato in questi giorni da Derive Approdi entra tra l’altro a piedi uniti in un dibattito, quello su via Fani e i 55 giorni dello statista nella “prigione del popolo”, che negli ultimi tempi si è segnalato soprattutto per il riemergere di letture complottiste che da sempre covano sotto la cenere.
E d’altra parte la pubblicistica in materia è sterminata. Il libro di Persichetti è un ottimo strumento per orientarsi con un minimo di cognizione di causa in un quello che è diventato un autentico ginepraio, sulla base di una vulgata sfornita di prove che ormai sembra essersi fatta inespugnabile. Al punto che in una sentenza importante come quella che, tre anni fa, ha condannato all’ergastolo l’ex Nar Gilberto Cavallini per la strage di Bologna, si parla scorrettamente del covo di via Gradoli come della prigione di Aldo Moro. Un mero lapsus dell’estensore, certo, in una sentenza di oltre 2mila pagine altrimenti formidabile, ma è un lapsus che la dice lunga su quanto in questi anni è avvenuto e continua ad avvenire.

Il passato che ritorna
Lo stile di Persichetti, autore di una memorabile inchiesta giornalistica sempre su Bologna (l’incredibile tentativo da destra di addossare la colpa dell’attentato a un giovane di sinistra vittima della bomba, Mauro Di Vittorio, tesi che l’ex brigatista ha contribuito a confutare), è spesso arrembante. E infatti qualche grana gliel’ha procurata. Ad esempio una querela da parte di Roberto Saviano, a cui però il giudice ha dato torto.
Ma il peggio doveva ancora venire. Ed è venuto dal passato, se così si può dire. Come il postino del celebre film, infatti, la giustizia per Persichetti ha suonato due volte: ormai un anno fa, la procura di Roma gli ha sequestrato l’intero archivio, il telefonino, il pc e ogni altro apparecchio elettronico (e pure il “cloud”), nell’ambito di un’inchiesta che lo vedrebbe come “favoreggiatore” di latitanti coinvolti nel sequestro Moro. Ma inizialmente lo si accusava anche di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (e il capo di imputazione è stato modificato addirittura cinque volte). Appunto: il passato che non passa.
La vicenda è ampiamente ripercorsa nel suo libro appena uscito, che sfida il mainstream fin dalla prefazione, firmata dalla filosofa Donatella Di Cesare (incorreggibile Persichetti!). E il sequestro citato, guarda caso, ha a che fare con il sequestro Moro. O meglio: con l’ultima (e contestatissima) commissione parlamentare d’inchiesta, ai cui materiali riservati – così la procura – Persichetti avrebbe attinto. La partita giudiziaria è ancora in corso, con lo studioso che da tempo chiede senza successo di poter tornare in possesso di quel materiale: anche perché, al di là della contestazione delle accuse specifiche, la procura si è portata via anche l’intera documentazione sanitaria relativa a suo figlio disabile. E davvero non si capisce che cosa questo possa avere a che fare con un’inchiesta per terrorismo.

L’ultima beffa
Nei giorni scorsi c’è stata una novità, ed è significativo che sia arrivata proprio nei giorni in cui il nuovo lavoro di Persichetti è approdato in libreria: giustizia a orologeria, verrebbe a dire, ma una volta tanto a favore dell’accusato. Sul blog Insorgenze, animato dallo stesso Persichetti, si dava infatti conto (capirete presto il perché del tempo imperfetto) della relazione tecnica richiesta dal gip sul materiale sequestrato.
E si apprendeva che non c’era nulla di riservato, ovvero di materiale dolosamente trafugato e poi diffuso: l’elenco di pdf, immagini, video e quant’altro è certosino e tutto ciò che proveniva in origine dalla commissione Moro Persichetti se lo è procurato utilizzando fonti aperte, soprattutto il sito dell’ex membro della stessa commissione Gero Grassi, per giunta dopo la chiusura dei lavori dell’organismo. E visto che Persichetti sa come va svolto il lavoro di storico, ecco che la relazione glielo riconosceva, attestando come altra grande parte del materiale arrivi dal Fondo Moro depositato all’Archivio centrale dello stato nell’ambito della direttiva Prodi. Che Persichetti ha dunque diligentemente consultato. Visto però che non c’è due senza tre, ecco l’ultima beffa: cioè il gip che in sostanza decide di non dare seguito all’esito della perizia e, invece di disporre la restituzione almeno parziale del materiale sequestrato, rimanda l’intero fascicolo alla procura, azzerando di fatto mesi di battaglia giudiziaria mossa da Persichetti.
Il quale sabato scorso, via Facebook, ha risposto così: “A seguito degli ultimi sviluppi giudiziari legati al sequestro del mio archivio sono venuti meno anche i residuali spazi di agibilità che mi erano rimasti. Allo stato attuale non esiste più lo spazio minimo per svolgere anche il più ridotto lavoro di tipo storiografico e di ricerca. Non esistono più le condizioni obiettive e la serenità che un ricercatore deve sempre avere per condurre con serietà e misura il proprio lavoro. Pertanto sono sospese tutte le presentazioni del libro La polizia della storia che nonostante la situazione e con grande sforzo ero riuscito a portare a termine. Sono sospesi tutti i miei account social e non risulterà più accessibile al pubblico il blog insorgenze.net”.

Uno stratagemma del potere
Tornando al libro, non aspettatevi benzina sul fuoco delle complotterie. Al contrario. Sul caso Moro, ad esempio, Persichetti smonta una diceria di lunga data: la presenza di una moto Honda di grossa cilindrata in via Fani, da sempre smentita da tutti i brigatisti che presero parte al rapimento, presenza invece dimostrata – così si è sempre detto – dal fatto che dai due motociclisti in sella alla Honda partirono raffiche di spari contro il parabrezza di un motorino.
Ebbene, in un verbale del 1994 il possessore di quel motorino raccontò diversamente la dinamica della rottura del proprio parabrezza, che già era tenuto assieme con del nastro adesivo: avvenne per la caduta del mezzo dal cavalletto (che era parcheggiato all’incrocio tra via Fani e via Stresa: lo attesta una foto scovata in rete dallo stesso autore nel 2014) dopo l’agguato brigatista. “Questa foto – scrive Persichetti – metteva definitivamente a tacere la versione dei colpi sparati dalla Honda contro Marini e che avrebbero distrutto il parabrezza, facendo anche crollare la versione della moto con i brigatisti a bordo che avrebbe partecipato al rapimento e di cui il parabrezza infranto sarebbe stata la prova inconfutabile”.
La vis polemica è evidentemente connaturata a Persichetti, visto che si toglie anche lo sfizio di documentare diverse “violazioni” del segreto compiute proprio da componenti della Commissione Moro. Ma il cuore del suo lavoro sta tutto in queste parole: “L’idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraversano le strade e i luoghi di lavoro è il segno di una malattia della conoscenza. Attraverso la dietrologia si vuole veicolare l’idea che dietro ogni ribellione non c’è l’agire sociale e politico di gruppi umani ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere”.

Analisi del complottismo intorno al «caso Moro»


Percorsi. «La polizia della storia» di Paolo Persichetti, per DeriveApprodi. Dal 5 maggio nelle librerie. Il volume è diviso in due parti: la prima ripercorre le varie tappe dell’inchiesta contro l’autore; la seconda raccoglie una serie di articoli riguardanti alcune delle molteplici “visioni” che accompagnano da più di quarant’anni il racconto delle vicende legate al rapimento e all’uccisione del presidente della Dc e della sua scorta

Marco Grispigni, il manifesto 3 maggio 2022

L’uscita in questi giorni del libro di Paolo Persichetti, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro (DeriveApprodi, pp. 277, euro 20), ci offre lo spunto per ritornare sulla vicenda giudiziaria di cui ci siamo già occupati sul manifesto. Il volume è diviso in due parti: la prima ripercorre le varie tappe dell’inchiesta contro Persichetti; la seconda raccoglie una serie di articoli pubblicati su giornali, riviste e siti web che smontano, con documenti e testimonianze, alcune delle molteplici fandonie che accompagnano da più di quarant’anni il racconto delle vicende legate al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta.

UN BREVE ACCENNO alla vicenda giudiziaria, ancora aperta dopo quasi un anno, è necessario. Il sequestro dell’archivio di studio e delle carte private di Paolo Persichetti viene giustificato con una accusa surreale: appartenenza a un’associazione sovversiva con finalità di terrorismo, formata nel 2015, di cui non si faceva il nome, non si conoscevano gli altri appartenenti, né tantomeno gli obiettivi. La roboante accusa si rivela solo un utile grimaldello per ottenere l’autorizzazione al sequestro dell’archivio e ben presto scompare, sostituita da quella di divulgazione di documenti riservati e di favoreggiamento.
Nel vero e proprio teatro dell’assurdo rappresentato da queste vicende emerge una novità inquietante per la quale si passa da Kafka a Orwell: l’esistenza di quella che Persichetti definisce come la «polizia della storia». Si scopre infatti che fra le tante attività di controllo del territorio degli apparati di sicurezza c’è anche quella di occuparsi delle interpretazioni storiografiche sui cosiddetti anni di piombo che si distinguono dalle versioni «ufficiali».
Nella Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza per il 2019, infatti, nella parte che riguarda i «pericoli» interni si segnala che il Comparto intelligence ha rilevato «il proseguire dell’impegno divulgativo, specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili”, volto a tramandare la memoria degli anni di piombo» rivolto soprattutto a «un uditorio giovanile della composita area dell’antagonismo di sinistra». Non c’è che dire, una impeccabile interpretazione della ripetuta richiesta di una «storia condivisa». Versioni contrastanti si possono tollerare solo all’interno dell’accademia, siamo un Paese democratico; fuori solo «storia condivisa».

LE PAGINE SU DIFFERENTI aspetti della vicenda Moro vanno nella stessa direzione di quelle di altri studiosi, come Marco Clementi o Vladimiro Satta, a smontare l’incredibile mole di falsità che alimentano i cosiddetti «misteri» del caso Moro. Le interpretazioni complottistiche sulla drammatica vicenda Moro nascono già durante i 55 giorni del sequestro e poi divengono la lettura egemone di quegli avvenimenti. Dai libri di Flamigni fino ai lavori di Gotor una serie enorme di misteri si susseguono, puntualmente smentiti dalle carte processuali e dalle testimonianze, ma capaci di affermarsi ugualmente come un disperato rifiuto di accettare che un avvenimento enorme, il rapimento e l’uccisione del più importante uomo politico di quegli anni, possa essere spiegato esclusivamente all’interno delle vicende della lotta armata.
Negli ultimi anni la possibilità di accedere a numerosi documenti «desecretati» con le direttive Prodi e Renzi ha offerto nuovi e importanti fonti agli studiosi. Da questi archivi emergono documenti inquietanti sulle «frequentazioni» tra personaggi tristemente noti dell’eversione fascista, come Delle Chiaie o Zorzi, con i servizi e in particolare con l’Ufficio affari riservati guidato da Umberto D’Amato. Sempre a proposito dell’Uar ora sappiamo che fin dalla sera del 12 dicembre 1969 i suoi uomini presero nella Questura di Milano la guida delle indagini per la strage di piazza Fontana. C’erano loro in Questura anche la notte che Giuseppe Pinelli volò dalla finestra.

IN QUESTI STESSI ARCHIVI invece non emerge niente che possa sostenere i misteri del caso Moro, una direzione esterna delle Br, la presenza nell’organizzazione di infiltrati. Nonostante questo, la lettura complottistica del caso Moro persiste e continua a occupare le prime pagine dei giornali (ora con l’incredibile teoria dell’anagramma nelle lettere di Moro che avrebbe indicato l’indirizzo della sua prigione), mentre le notizie sulle stragi e l’uso dei fascisti restano confinate nei libri di storia «riservati» agli studiosi. Forse anche questa è l’idea di «storia condivisa».

Quando l’Italia dava asilo agli attentatori De Gaulle

Agli smemorati che si indignano per la decisione della cassazione di Parigi di chiudere definitivamente il contenzioso con l’Italia sulle richieste di estradizione dei dieci ex militanti di gruppi armati di sinistra degli anni 70, riparati in Francia da diversi decenni, vale la pena ricordare che anche l’Italia negli anni 60 offrì protezione e rifiutò di estradare gli esponenti dell’Oas che attentarono contro il presidente francese De Gaulle oppure sul fronte opposto gli esponenti del Fronte di liberazione nazionale algerino

Esattamente un anno fa, nella serata di lunedì 28 marzo 2022 la rete televisiva pubblica francese France 2 ha trasmesso una inchiesta giornalistica all’interno di un format mensile di approfondimento, Affaires sensibles, dal titolo: «Brigate rosse, la fine dell’esilio?». Per circa 70 minuti gli spettatori d’Oltralpe hanno visto scorrere immagini che provavano a riassumere oltre 40 anni di politica d’asilo informale offerta ai rifugiati italiani degli anni 70, nota come «dottrina Mitterrand», anche se non si è mai trattato di una dottrina codificata ma di una politica di fatto, perseguita con alcune rilevanti eccezioni da ben quattro presidenti della Repubblica: Mitterrand, Chirac, Sarkozy e Hollande. Un dibattito tra l’avvocato e presidente onorario della Ligue des droits de l’homme, Henri Leclerc, e il giornalista della Stampa Paolo Levi, chiudeva la trasmissione. Il primo chiamato a difendere le ragioni giuridiche, politiche e umane di questa politica d’accoglienza, il secondo a dare voce un po’ sguaiata alle ragioni avverse dello Stato italiano. Nel tentativo di trovare argomenti suggestivi in favore della estradizione degli ex militanti italiani, ormai integrati da decenni nella società francese, il giornalista Paolo Levi ha paragonato le azioni mirate dei gruppi armati della sinistra dell’epoca, rivolte contro obiettivi selezionati delle gerarchie economiche, politiche e statuali italiane, a quelle indiscriminate dei jihadisti che dagli anni 90 in poi hanno insanguinato le città francesi, fino al massacro del Bataclan, molto più simili per la loro natura stragista alle bombe che in Italia fascisti e apparati dello Stato hanno disseminato nelle piazze e stazioni nei primi anni 70, provocando centinaia di morti e feriti. Preso dalla foga, l’inviato de la Stampa ha provocatoriamente chiesto cosa mai avrebbe pensato l’opinione pubblica francese se gli autori del massacro del Bataclan avessero trovato ospitalità in Francia. Levi avrebbe fatto bene a leggere qualche libro in più prima di lanciarsi in simili incauti paragoni, perché qualcosa di simile è già accaduto in passato. Durante la guerra d’Algeria, in Italia trovarono ospitalità e sostegno esponenti importanti dell’Oas, una organizzazione clandestina della destra francese messa in piedi da membri dell’Esercito e dei Servizi segreti contrari all’indipendenza dell’Algeria. La loro presenza in Italia era sottoposta alla stretta sorveglianza dell’Ufficio affari riservati, recenti studi hanno dimostrato che si avvalevano anche del sostegno del Sifar. Quando le autorità italiane non poterono fare a meno di arrestarli per le loro attività cospirative contro il presidente francese De Gaulle e persino contro Enrico Mattei, odiato per il sostegno che attraverso l’Eni forniva alle forze nazionali algerine, evitarono di estradarli favorendo la loro partenza verso Paesi amici o neutri. Uno di loro, Jean-Jacques Susini, beneficiò di una notevole impunità sul territorio italiano anche quando le autorità furono informate del suo coinvolgimento nel fallito attentato contro De Gaulle presso il monumento commemorativo del Monte Faron, a Tolone. Azione concepita in territorio italiano (1). Susini rimase quattro anni in Italia sotto la benevola protezione dalla polizia nonostante le condanne del Tribunale per la sicurezza dello Stato francese.
Al suo arrivo all’Eliseo, nel 1981, François Mitterrand ripagò l’Italia con la stessa moneta, con la differenza che i fuoriusciti italiani non hanno utilizzato il territorio francese come retroterra per fare incursioni in Italia. Di fronte al flusso di rifugiati politici che traversavano le Alpi, fece del suolo francese una sorta di camera di decompressione del conflitto che dilagava in Italia, rifiutando le estradizioni nell’attesa di un’amnistia. «Al di la della risposta giudiziaria – ha spiegato una volta consigliere giuridico dell’Eliseo Louis Joinet, vero architetto di questa politica d’asilo – si trattava di facilitare il cammino di chi tentava di uscire dalla lotta armata per andare verso una soluzione politica. L’importante era non marginalizzare quelli che avevano una riflessione politica».

1 Pauline Picco, Liaisons dangereuses, Les extrême droites en France et en Italie, 1960-1984I, Presses universitaires de Rennes, Rennes, coll. « Histoire », 2016.