Morte violenta di Stefano Cucchi: due nuovi testimoni accusano i carabinieri

Due nuovi testi chiamano in causa l’arma dei carabinieri tenuta fino ad ora fuori dall’inchiesta

Cinzia Gubbini
il manifesto
18 dicembre 2009

Lo hanno visto scendere dalla macchina nel piazzale del Tribunale, la mattina del 16 ottobre intorno alle 8,30, e non si reggeva in piedi. Poi sono stati messi nella stessa cella di sicurezza, in attesa della convalida. «Che ti è successo?», gli hanno chiesto. «Mi hanno picchiato i carabinieri questa notte», «E perché non lo dici?», «Perché sennò mi fanno le carte per dieci anni». Cioè: se lo dico si inventano qualcosa per tenermi in carcere a lungo. A svelare questi nuovi particolari sul caso di Stefano Cucchi – il ragazzo morto il 22 ottobre scorso nel reparto carcerario del Pertini – sono due cittadini albanesi, fermati anch’essi dalla compagnia Casilina la sera del 15 ottobre. E compagni di cella di Stefano in tribunale. Ieri mattina i due albanesi, assistiti dall’avvocato Simonetta Galantucci, sono stati sentiti dai procuratori Vincenzo Barba e Francesca Loi. Una deposizione circostanziata, che tira in ballo le responsabilità dei carabinieri, già raccolta nelle scorse settimane dagli avvocati di parte civile Dario Piccioni e Fabio Anselmo. Ora il loro racconto è agli atti della Procura, che dovrà valutarlo alla luce di quanto finora emerso.
La sera del 15 ottobre i due cittadini albanesi vengono fermati con l’accusa di tentato furto. Stefano, invece, viene fermato con l’accusa di spaccio perché ha in tasca 20 grammi di marijuana. Tutti e tre vengono portati nella caserma di via del Calice, ma non si incontrano. La stazione Appia è una delle sei di competenza della compagnia Casilina. Una caserma piccola, che in genere chiude alle dieci di sera e che solitamente non viene usata per ospitare le persone arrestate. Qui si svolge l’interrogatorio di Stefano e quello dei due albanesi. Poi le strade si dividono: i due vengono portati in un’altra caserma per passare la notte, Cucchi viene prima portato a casa dei genitori per una perquisizione. E’ l’una di notte, sua madre lo vede e sta bene, tanto da venire tranquillizzata sia da Stefano che dai militari: «domani sarà a casa». Quindi il ragazzo ripassa a via del Calice, e poi viene trasferito nelle celle di sicurezza della stazione di Tor Sapienza. Di ciò che accade in questa stazione si sa pochissimo, se non che intorno alle 5 Stefano accusa un malore e per questo viene chiamata un’ambulanza. E iniziano le prime stranezze. A partire da quanto viene annotato nella scheda del 118 («schizofrenia», forse solo un errore materiale) fino al fatto che i due infermieri non riescono a visitare Stefano: il ragazzo è a letto, avvolto nelle coperte. Notano soltanto degli arrossamenti sotto le palpebre. Ma vista la scarsa collaborazione del ragazzo se ne vanno dopo mezz’ora. Stefano era stato picchiato? E’ quanto sostengono i due testimoni albanesi, che incontrano il ragazzo la mattina dopo, giorno della convalida in tribunale. Tutti e tre sono scortati da carabinieri della compagnia Casilina, ma sono su due macchine diverse: Stefano viaggia su quella dietro la loro. Quando arrivano nel piazzale del tribunale, vedono Stefano scendere dalla macchina e notano che «non si regge in piedi». E’ dolorante e fa fatica a camminare. Ne rimangono impressionati, fumano insieme una sigaretta ma non si parlano: davanti a loro ci sono i carabinieri. Poco dopo vengono messi nella stessa cella. Stefano sta talmente male, raccontano i due testi, che devono aiutarlo a sedersi. Finalmente gli chiedono che cosa è accaduto: «Mi hanno picchiato i carabinieri, ma non questi qua», dice il ragazzo riferendosi alla sua scorta. La convalida dei due albanesi si svolge prima di quella di Stefano. A loro va bene: non viene convalidato il fermo. Per Stefano, invece, l’incubo prosegue. Non solo gli vengono negati gli arresti domiciliari (e agli atti viene scritto che è un «senza fissa dimora»), ma secondo quanto riferito da due testimoni ascoltati in incidente probatorio Stefano subisce un pestaggio anche nei sotterranei del tribunale. Per questo sono stati indagati tre agenti della polizia penitenziaria con l’accusa di omicidio preterintenzionale. Stefano, di certo, esce dal Tribunale con delle lesioni. Per questo finirà nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini, sulla cui negligenza la Procura sembra non avere dubbi visto che nel registro degli indagati sono finiti altri tre medici (oltre ai tre già indagati insieme agli agenti penitenziari) con l’accusa di omicidio colposo. Finora nessuna ombra è emersa sul comportamento dei carabinieri. Ma la testimonianza di ieri cambia le carte in tavola.

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Caso Cucchi: Carlo Giovanardi, lo spacciatore di odio

Il cattolico feroce

Francesco Merlo
Repubblica 10 novembre 2009

Suscita rabbia e pena, una pena grande, il sottosegretario Carlo Giovanardi, cattolico imbruttito dal rancore, che ieri mattina ha pronunziato alla radio parole feroci contro Stefano Cucchi. Secondo Giovanardi, Stefano se l’è cercata quella fine perché “era uno spacciatore abituale”, “un anoressico che era stato pure in una comunità”, “ed era persino sieropositivo”. Giovanardi dice che i tossicodipendenti sono tutti uguali: “diventano larve”, “diventano zombie”. E conclude: “È la droga che l’ha ridotto così”.
Giovanardi, al quale è stata affidata dal governo “la lotta alle tossicodipendenze” e la “tutela della famiglia”, ovviamente sa bene che tanti italiani – ormai i primi in Europa secondo le statistiche – fanno uso di droga. E sa che tra loro ci sono molti imprenditori, molti politici, e anche alcuni illustri compagni di partito di Giovanardi. E, ancora, sa che molte persone “per bene”, danarose e ben difese dagli avvocati e dai giornali, hanno cercato e cercano nei cocktail di droghe di vario genere, non solo cocaina ed eroina ma anche oppio, anfetamine, crack, ecstasy…, una risposta alla propria pazzia personale, al proprio smarrimento individuale. E alcuni, benché trovati in antri sordidi, sono stati protetti dal pudore collettivo, e la loro sofferenza è stata trattata con tutti quei riguardi che sono stati negati a Stefano Cucchi. Come se per loro la droga fosse la parte nascosta della gioia, la faccia triste della fortuna mentre per Stefano Cucchi era il delitto, era il crimine. A quelli malinconia e solidarietà, a Stefano botte e disprezzo.
Ci sono, tra i drogati d’Italia, “i viziati e i capricciosi”, e ci sono ovviamente i disadattati come era Stefano, “ragazzi che non ce la fanno” e che per questo meritano più aiuto degli altri, più assistenza, più amore dicono i cattolici che non “spacciano”, come fa abitualmente Giovanardi, demagogia politica. E non ammiccano e non occhieggiano come lui alla violenza contro “gli scarti della società”, alla voglia matta di sterminare i poveracci; non scambiano l’umanità dolente, della quale siamo tutti impastati e che fa male solo a se stessa, con l’arroganza dei banditi e dei malfattori, dei mafiosi e dei teppisti veri che insanguinano l’Italia. Ecco: con le sue orribili parole di ieri mattina Giovanardi si fa complice, politico e morale, di chi ha negato a Stefano un avvocato, un medico misericordioso, un poliziotto vero e che adesso vorrebbe pure evitare il processo a chi lo ha massacrato, a chi ha violato il suo diritto alla vita.
Anche Cucchi avrebbe meritato di incontrare, il giorno del suo arresto, un vero poliziotto piuttosto che la sua caricatura, uno dei tanti poliziotti italiani che provano compassione per i ragazzi dotati di una luce particolare, per questi adolescenti del disastro, uno dei tantissimi nostri poliziotti che si lasciano guidare dalla comprensione intuitiva, e certo lo avrebbe arrestato, perché così voleva la legge, ma molto civilmente avrebbe subito pensato a come risarcirlo, a come garantirgli una difesa legale e un conforto civile, a come evitargli di finire nella trappola di disumanità dalla quale non è più uscito. Perché la verità, caro Giovanardi, è che gli zombie e le larve non sono i drogati, ma i poliziotti che non l’hanno protetto, i medici che non l’hanno curato, e ora i politici come lei che sputano sulla sua memoria. I veri poliziotti sono pagati sì per arrestare anche quelli come Stefano, ma hanno imparato che ci vuole pazienza e comprensione nell’esercizio di un mestiere duro e al tempo stesso delicato. È da zombie non vedere nei poveracci come Cucchi la terribile versione moderna dei “ladri di biciclette”. Davvero essere di destra significa non capire l’infinito di umiliazione che schiaccia un giovane drogato arrestato e maltrattato? Lei, onorevole (si fa per dire) Giovanardi, non usa categorie politiche, ma “sniffa” astio. Come lei erano gli “sciacalli” che in passato venivano passati alla forca per essersi avventati sulle rovine dei terremoti, dei cataclismi sociali o naturali.
Giovanardi infatti, che è un governante impotente dinanzi al flagello della droga ed è frustrato perché non governa la crescita esponenziale di questa emergenza sociale, adesso si rifà con la memoria di Cucchi e si “strafà” di ideologia politica, fa il duro a spese della vittima, commette vilipendio di cadavere.
Certo: bisogna arrestare, controllare, ritirare patenti, impedire per prevenire e prevenire per impedire. Alla demagogia di Giovanardi noi non contrapponiamo la demagogia sociologica che nega i delitti, quando ci sono. Ma cosa c’entrano le botte e la violazione dei diritti? E davvero le oltranze giovanili si reprimono negando all’arrestato un avvocato e le cure mediche? E forse per essere rigorosi bisogna profanare i morti e dare alimento all’intolleranza dei giovani, svegliare la loro parte più selvaggia?
Ma questo non è lo stesso Giovanardi che straparlava dell’aborto e del peccato di omosessualità? Non è quello che difendeva la vita dell’embrione? È proprio diverso il Dio di Giovanardi dal Cristo addolorato di cui si professa devoto. Con la mano sul mento, il gomito sul ginocchio e due occhi rassegnati, il Cristo degli italiani è ben più turbato dai Giovanardi che dai Cucchi.

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Per Carlo Giovannardi Stefano Cucchi sarebbe morto di freddo. La risposta di Erri De Luca

Pianosa, l’isola-carcere dei pestaggi, luogo di sadismo contro i detenuti

Prima di brigatisti e mafiosi, ospitò l’anarchico Passannante e il socialista Sandro Pertini. In settimana si decide se ridestinarla nuovamente a prigione

Paolo Persichetti
Liberazione 8 novembre 2009

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Anche se l’intenzione di riaprire il super carcere di Pianosa sembra per il momento rientrata, di fronte alla ferma opposizione della ministra dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, la proposta avanzata dal guardasigilli Angelino Alfano suona come un sinistro presagio. Il governo ha brutte intenzioni se è vero che con grande disinvoltura tenta di rimettere in funzione una delle più brutali carceri speciali che l’Italia abbia conosciuto. Roba da far impallidire persino Guantanamo e Abu Ghraib. Da circa un decennio, l’isola è diventata un parco ambientale di alto valore naturalistico. Nel 1997 è stato trasferito l’ultimo detenuto rinchiuso nel reparto 41 bis, e dall’anno successivo a presidiare la vecchia struttura sono rimasti solo una sparuta pattuglia di agenti di polizia penitenziaria e alcuni detenuti semiliberi, provenienti dalla vicina casa di reclusione di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, che si occupano dei terreni agricoli. Aperta nel 1858 dal Granducato di Toscana, fu solo nei primi anni del Regno unificato d’Italia che la colonia penale agricola della Pianosa assunse la struttura attuale. Nello stesso periodo vennero create delle succursali nelle isole limitrofe dell’arcipelago toscano, alla Gorgona e sull’isola di Montecristo. Quest’ultimo insediamento fu però abbandonato nel 1880. Negli anni successivi e fino al 1965, l’isola divenne un reclusorio per detenuti ammalati di tubercolosi. Ma la casa penale della Pianosa si è guadagnata anche la fama di carcere per detenuti politici. Nelle sue famigerate celle sono passati l’anarchico Giovanni Passannante, che nel 1878 tentò di accoltellare Umberto I, e durante il fascismo il socialista Sandro Pertini. Ma fu nel maggio 1977 che, insieme alla sezione “Fornelli” dell’Asinara, la diramazione “Agrippa” della Pianosa conquistò un posto centrale nel circuito delle carceri di “massima sicurezza”, ideato dal generale dei carabinieri Carlo Albero Dalla Chiesa. Nel giro di due giorni, grazie anche all’utilizzo di grandi elicotteri bimotori da trasporto truppe Chinook, i reparti dell’Arma trasferirono 600 prigionieri. Un decreto interministeriale, oltre ad attribuire poteri eccezionali a Dalla Chiesa, sospendeva le norme vigenti in materia di appalti e concessioni edilizie (qualcosa di simile è stato chiesto dall’attuale capo del Dap, Franco Ionta). Furono edificate sezioni di massima sicurezza, oltre alle già citate sezioni Fornelli e Agrippa, anche sull’isola di Favignana e nelle carceri di Cuneo, Fossombrone, Trani, Novara, Termini Imerese, Nuoro, Palmi, Messina. Un enorme giro di miliardi da cui scaturirono anni dopo inchieste giudiziarie sulle famose “carceri d’oro”. In un documento fatto pervenire all’esterno, i primi prigionieri politici rinchiusi a Pianosa descrivevano così il luogo: «si tratta di un’isola-carcere, nel senso che la totalità del suo territorio – circa 12 km quadrati – è adibito a istituto di pena. L’isola consta di 4 diramazioni indipendenti. 4 carceri nel carcere. La più grande di esse, chiamata “Agrippa”, dopo aver subito una completa ristrutturazione è divenuta un vero monumento al sadismo repressivo dello Stato borghese». Pianta a forma di quadrilatero, doppio muro di cinta sormontato da filo spinato e un numero sproporzionato di fari. All’interno, celle molto piccole con arredo cementato al pavimento e alle pareti, «mura dipinte con colori speciali che provocano menomazioni visive e disturbi psichici; aria ridotta a mezz’ora la mattina e mezz’ora il pomeriggio, in piccoli cortili. Non più di sei per volta». All’arrivo – scrivono sempre i detenuti – si viene «sottoposti a un brutale pestaggio, dimostrazione del potere assoluto della direzione carceraria». Testimonianze del genere si moltiplicarono negli anni successivi. Il 31 marzo 1981, all’interno della sezione Agrippa avvenne uno delle più brutali violenze della storia carceraria. In una dichiarazione resa pubblica dai familiari, tenuti lontani dall’isola per 15 giorni, si informava che 70 detenuti della sezione speciale erano stati rinchiusi in isolamento dopo essere stati denudati e bastonati e i loro effetti personali distrutti. Ancora nel 1992, quando sull’onda della nuova emergenza antimafia il braccio di massima sicurezza accolse detenuti accusati di appartenere alla criminalità organizzata, i racconti non si discostavano da quanto accaduto negli anni precedenti. «Un litro d’acqua da bere al giorno, 200 grammi di vitto con dentro cicche di sigarette e pezzettini di vetro. La domenica è il giorno più sicuro per consumare la cena, all’apparenza si presenta senza scorie, diversamente dal pranzo dove si trova sia nella pasta che nel secondo un po’ di tutto, tra sputi, cicche, carta, plastica, vetro, preservativi e spaghi» (cf. Il Carcere speciale, sensibili alle foglie 2006). Nel 1993 un rapporto di Amnesty International raccolse le testimonianze denunciando le brutalità subite dai reclusi della sezione Agrippa.

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Stefano Cucchi, le ultime foto da vivo mostrano i segni del pestaggio. Le immaigini prese dalla matricola del carcere di Regina Coeli

Stefani Cucchi venne pestato a sangue prima di entrare in carcere. Lo provano le foto prese dal personale penitenziario della matricola del carcere di Regina Coeli

Le immagini scattate 20 ore dopo l’arresto. Sul volto di Stefano Cucchi sono visibili le tracce delle percosse. Era il 16 pomeriggio, a nemmeno venti ore dal suo fermo avvenuto alle 23,30 del giorno prima. I colori sul viso di Cucchi sono quelli dei lividi. Non si può guardare, quel ritratto, l’unico scattato dopo il suo arresto, senza pensare che sei giorni dopo quell’uomo di 31 anni con lo sguardo spaventato, finito in carcere per  una dose da 20 euro di hascisc, sarebbe morto. Morte  avvenuta il 22 ottobre, alle 6,20 del mattino, nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini.

Che divise indossano quelli che hanno ridotto così Stefano Cucchi?

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Segni evidenti del pestaggio sul collo, la mascella e lo zigomo di Stefano Cucchi ritratti dalla foto segnaletica presa al momento dell'ingresso in carcere

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Nonostante la luce pessima appaiono evidenti le tumefazioni e gli ematomi attorno agli occhi di Stefano Cucchi nella foto presa dalla matricola del carcere al momento del suo ingresso

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Stefano Cucchi: le foto delle torture inferte. Rispondi La Russa
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Caso Stefano Cucchi: «Il potere sui corpi è qualcosa di osceno»

Colloquio con Gianrico Carofiglio senatore Pd, magistrato e scrittore, autore de Il paradosso del poliziotto, edizioni nottetempo 2009: «Senza le regole non c’è nessuna differenza fra guardia e ladro, tutto si riduce a una pura questione di rapporti di forza»

Paolo Persichetti
Liberazione 1 novembre 2009

9788874521791 «Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico ministero, si colloca su una linea di confine. Da un lato ci sono delle regole, non necessariamente giuridiche, che spesso, in modo consapevole o inconsapevole, vengono violate. Ma senza le regole non c’è nessuna differenza fra guardia e ladro, tutto si riduce a una pura questione di rapporti di forza». Si tratta di uno dei passi finali del Paradosso del poliziotto, dialogo tra un giovane scrittore e un vecchio poliziotto, scritto da Gianrico Carofiglio, oggi senatore del Pd, magistrato in aspettativa e per molti anni pubblico ministero, ma soprattutto autore riconosciuto. Per Sellerio ha pubblicato I casi dell’avvocato Guerrieri, Testimone inconsapevole e L’Arte del dubbio, che potremmo definire un vero manuale sulla tecnica dell’interrogatorio. Forse in questo momento è una delle persone più adatte per aiutarci a capire cosa è successo a Stefano Cucchi, e soprattutto perché. Chi meglio di lui può sapere quel che può accadere nelle pieghe delle indagini, nel chiuso di un posto di polizia durante i momenti che seguono il fermo di un indiziato? Nel Paradosso del poliziotto fa raccontare al vecchio sbirro una scena che marca l’inizio della sua carriera, il pestaggio di un giovane appena arrestato: «quando entrai il ragazzo stava gridando, o forse piangeva. Attorno c’erano sei o sette colleghi, un paio in divisa delle volanti e tutti gli altri della mobile. Quello era seduto, ammanettato dietro la schiena. Gli davano schiaffi e pugni a turno e gli gridavano in faccia e nelle orecchie».

A Stefano Cucchi è accaduta una cosa del genere?
Questo lo dovranno appurare i titolari dell’inchiesta. Piuttosto sono rimasto molto colpito dalle dichiarazioni fatte da un ufficiale dell’Arma, secondo cui l’unica cosa certa in questa storia è che i carabinieri quella notte si sono comportati correttamente. Un dato certo in realtà è che qualcuno ha prodotto quelle terribili lesioni sul corpo del ragazzo. Se quell’ufficiale garantisce che i carabinieri non hanno nulla di cui rimproverarsi, vuol dire che sa anche chi ha provocato quelle lesioni sul giovane. La conseguenza successiva è che lo deve dire, se vuole essere credibile e non dare l’idea di una difesa d’ufficio di comportamenti inaccettabili.

Nelle indagini uno dei maggiori momenti di criticità è la fase iniziale, quella dove le forze di polizia, in presenza di un fermo, possono agire d’impeto prima dell’intervento della magistratura.
E’ normale che un soggetto tratto in arresto possa essere informalmente interrogato per acquisire notizie utili all’immediato proseguimento dell’indagine. Queste dichiarazioni però non sono utilizzabili e nemmeno verbalizzabili. Un soggetto in stato di arresto non può essere formalmente interrogato dalla polizia giudiziaria.

Però nel suo libro il vecchio poliziotto non aspetta il magistrato. Dialoga col rapinatore, gli toglie le manette, gli offre una sigaretta e quello parla?
Nell’ultimo capitolo del mio prossimo romanzo, c’è un dialogo tra un avvocato e un poliziotto. Ad un certo punto i due parlano delle loro regole nella vita. Il poliziotto dice: «faccio lo sbirro. La prima regola per uno sbirro è non umiliare chi ha di fronte». Dice questo perché il potere sulle altre persone è qualcosa di osceno, perché è l’impossessamento di un corpo e l’unico modo per renderlo tollerabile è il rispetto. Evitare di passare da una funzione tecnica d’investigatore o giudice, a una funzione di giustiziere morale. Rispettare l’altro indipendentemente da chi è, da cosa ha fatto o si suppone abbia fatto. Si tratta della regola più importante ma anche di quella più facile da violare.

Il corpo di Stefano Cucchi non ha avuto questo rispetto. Negli ultimi tempi le cronache hanno registrato anomalie, o per utilizzare il linguaggio dei suoi personaggi, hanno umiliato gli indiziati. Basti pensare a una vicenda come quella della Caffarella, o alla morte di Stefano Brunetti nel 2008, deceduto in carcere per traumi subiti nella fase dell’arresto.
Io non parlerei di una recrudescenza. Il fenomeno è più strutturale e si colloca in quella zona grigia che caratterizza le prime fasi concitate delle indagini. In genere, in queste circostanze, c’è il rischio che si manifestino due tipi di violenza, entrambe illegittime, ovviamente. La prima legata alla fase operativa, quando intervengono modalità movimentate di un arresto o di un fermo. La seconda, molto più grave, è quella praticata negli uffici, a volte come inaccettabile punizione preventiva, a volte come altrettanto inaccettabile tecnica investigativa finalizzata ad acquisire prove. Si tratta di una dimensione difficilmente governabile che si colloca nella fase successiva all’arresto, all’apprensione fisica del soggetto interessato all’attività investigativa. Credo che l’unica soluzione – oltre alla repressione rigorosa degli episodi provati – sia lavorare sulla cultura dei dirigenti e degli operatori, mostrando una tolleranza zero verso forme ingiustificabili di puro sadismo. La capacità di parlare con le persone – indagati e testimoni – è in realtà molto più efficace e positiva nelle prospettiva di un’indagine dagli esiti attendibili.

Ci sono analisi sociologiche che descrivono una sorta di hooliganizzazione della polizia. «L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino». La frase è di un esponente delle forze di polizia, e si trova nel libro di Carlo Bonini, Acab. Qualcosa vorrà pur dire, se un agente si esprime in questo modo?
Non si può generalizzare l’atteggiamento di un balordo, o di qualcuno che agisce sotto stress. Non dobbiamo commettere l’errore di dire che la polizia, o i carabinieri, siano questo. Ed è altresì un errore confondere l’uso della violenza che a volte si verifica all’interno dell’attività investigativa con le modalità più o meno brutali di gestione dell’ordine pubblico. Si tratta di due fenomeni distinti. Il primo lo si ritrova, in misura minore o maggiore, nelle polizie di tutto il mondo ed è inversamente proporzionale al grado di civilizzazione e cultura del Paese e delle sue forze di polizia. Altra questione, più legata anche a sollecitazioni politiche, dirette o indirette, quella sull’uso eccessivo della forza in situazioni d’ordine pubblico. Certo si può sempre osservare che in una situazione di barbarie collettiva, di violenza verbale, di perdita di freni inibitori, è più facile che la violenza, in generale, si incrementi.

Può anticipare il contenuto dell’interpellanza parlamentare che depositerà la prossima settimana?
Tra le altre cose, ho chiesto chiarimenti sul fatto che l’autopsia sul corpo di Stefano Cucchi è stata disposta nell’ambito di un fascicolo che nel gergo si chiama modello 45, cioè il fascicolo in cui si inseriscono gli atti non costituenti notizia di reato. Quando l’autorità giudiziaria dispone un’autopsia, la premessa concettuale e giuridica è che ci sia un’ipotesi di reato, anche remota, benché in questo caso remota non lo fosse affatto. Si tratta di una strana anomalia che dovrà essere spiegata. 

Di anomalie in questa storia ce ne sono tante. Sembra che Chucchi in caserma avesse indicato un proprio legale di fiducia, che però non risulta mai essere stato avvertito. Quando è comparso in tribunale è stato assistito, per così dire, da un legale d’ufficio.
Se la cosa dovesse trovare conferma sarebbe una circostanza di inaudita gravità e probabilmente un indicatore del fatto che si voleva evitare l’intervento del legale di fiducia e la sua funzione di controllo.

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Violenza di Stato non suona nuova

 

Violenza di Stato…non suona nuova

Violenza di Stato? Non è una novità. Stefano è l’ultima vittima


Paolo Persichetti
Liberazione, 31 ottobre 2009

La schiena di Stefano Cucchi

La schiena di Stefano Cucchi

Stiamo assistendo ad una recrudescenza della violenza statale?
La domanda è d’obbligo dopo l’ultima vicenda che ha portato alla morte di Stefano Cucchi. In realtà il ricorso a pratiche violente da parte degli apparati statali non è una novità. Una semplice disamina di lungo periodo del fenomeno porta a concludere che il ricorso ad un uso brutale, non proporzionato e fuorilegge della forza, è “prassi ordinaria” dei corpi dello Stato. Per i più giovani la memoria arriva alla «macelleria messicana» di Bolzaneto e della Diaz. I più anziani ricordano cosa fossero i commissariati e le carceri del dopoguerra, e cosa accadde nel calderone degli anni 70 con la legge Reale. Dal 1 gennaio 1976 al 30 giugno 1989 vennero uccise dalle «forze dell’ordine» 237 persone, mentre altre 352 rimasero ferite (dati censiti dal Centro Luca Rossi e fondazione Calamandrei). Senza dimenticare le torture contro i militanti della lotta armata praticate nel biennio 1981-1983, dopo il via libera venuto dal Cis, il comitato interministeriale per la sicurezza.
Una squadretta dei Nocs imperversò per l’Italia praticando sevizie apprese dai manuali utilizzati dagli aguzzini delle dittature militari dell’America latina. Manuali redatti dai generali francesi che ne avevano aggiornato le tecniche durante la guerra d’Indocina e poi in Algeria, ed esportate in seguito nella famigerata Scuola delle Americhe . Eppure c’è la sensazione che negli ultimi tempi qualcosa sia cambiato. Analisi sociologiche ci spiegano che le forze di polizia si sono hooliganizzate , basta leggere il libro di Carlo Bonini, Acab, (Einaudi 2009) per farsene un’idea. Sorta di calco del mondo imbastardito delle curve. La sensazione d’impunità, la forza dell’omertà-ambiente che copre questi comportamenti, hanno attenuato i meccanismi di autocontrollo. Il populismo penale, l’importazione dei modelli di “tolleranza zero”, hanno portato alla costruzione di un nuovo “nemico interno” identificato nella piccola devianza, nei migranti. Una gestione dell’ordine pubblico militarizzata, sommata alla legislazione proibizionista e all’internamento carcerario come soluzione dei problemi, hanno generato un mostro sicuritario che produce un fisiologico esercizio della coercizione che dilaga in violenza aperta, tra fermi, celle di sicurezza, tribunali, prigioni.
Negli ultimi anni la cronaca è fitta di episodi del genere:
Marcello Lonzi, morto nel 2003 all’interno del carcere di Livorno. Sul suo corpo numerosi segni di vergate e colpi di bastone. Dopo anni di denunce la procura ha recentemente riaperto l’inchiesta. Due agenti penitenziari sono indagati.
Federico Aldovrandi, pestato a morte il 25 settembre 2005 in piena strada dai poliziotti di una volante.
Aldo Bianzino, deceduto il 14 ottobre 2007 nel carcere di Perugia. Sul suo corpo vengono riscontrate «lesioni massive al cervello e alle viscere», provocate prima dell’ingresso nel penitenziario. Un’inchiesta per omicidio volontario è in corso contro ignoti.
Stefano Brunetti, arrestato ad Anzio l’8 settembre 2008, muore in ospedale il giorno successivo a causa delle percosse subite. Dall’autopsia emerge un decesso provocato da «emorragia interna dovuta ad un grave danno alla milza. Risultano anche fratture a due costole».
Mohammed, marocchino di ventisei anni suicidatosi il 6 marzo 2009 nel carcere di santa Maria Maggiore a Venezia, dopo una lunga permanenza in cella liscia. Sei poliziotti della penitenziaria finiscono nel registro degli indagati per «abuso di autorità contro persone arrestate o detenute».
Francesco Mastrogiovanni, morto in un letto di contenzione il 4 agosto scorso dopo un Tso abusivo. Per le molteplici morti violente avvenute in carcere e nelle questure, l’Italia è sotto accusa da parte di alcuni organismi internazionali e dalla commissione europea per la prevenzione della tortura.

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Caso Stefano Cucchi, “il potere sui corpi è qualcosa di osceno”
Stefano Cucchi, quella morte misteriosa di un detenuto in ospedale
Stefano Cucchi morto nel Padiglione penitenziario del Pertini, due vertebre rotte e il viso sfigurato
Caso Stefano Cucch, “il potere sui corpi è qualcosa di osceno”
Violenza di Stato non suona nuova

 

Stefano Cucchi morto nel padiglione penitenziario del Pertini. Due vertebre rotte e il viso sfigurato: perché non volle restare in ospedale?

Parlano i familiari: «Stefano voleva andare in comunità. Strano si dica che rifiutasse le cure»

Checchino Antonini
Liberazione 28 ottobre 2009

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Stefano Cucchi in galera non ci voleva andare. Si voleva curare. Voleva tornare in comunità. Ma l’hanno sbattuto in carcere quando già stava male. Ed è morto sei da solo giorni dopo.
Il geometra romano trentunenne, arrestato alle 23 circa del 15 ottobre ai bordi di un parco di Cinecittà, assieme ad un amico, avrebbe chiesto di entrare in comunità nell’udienza per direttissima la mattina dopo l’arresto. Secondo i genitori, all’udienza di convalida, per direttissima, Cucchi era già arrivato malconcio. Gli occhi gonfi ma camminava con le sue gambe. Tutta da verificare la voce che sia stato visitato già a Piazzale Clodio dov’era stato portato perché trovato in possesso di «poca roba», fa sapere il legale d’ufficio: un po’ d’hashish, qualche pasticca, pochissima cocaina. Tanto che gli stessi carabinieri che lo avevano arrestato avevano anche provato a rassicurare sua madre. Per tutta quella droga si finisce ai domiciliari. Ma il giudice monocratico non l’ha spedito né a casa, né in comunità. L’ha mandato in galera. A Regina Coeli. Lì, secondo la direzione del carcere, sarebbe arrivato già con la schiena rotta. Dunque l’avrebbero spedito immediatamente al pronto soccorso più vicino. Dall’altra parte del Tevere, all’Isola Tiberina. E’ lì che gli trovano due vertebre rotte. La prognosi gli consentirebbe di starsene in ospedale 25 giorni ma Stefano firma per tornare in prigione. E’ quasi mezzanotte di venerdì 16. Ma perché una persona che vorrebbe disintossicarsi in comunità rifiuterebbe le cure? Anche il suo avvocato, quella mattina lo aveva trovato con «la faccia strana, molto agitato». 
Veniva, Stefano, dalla stazione di Tor Sapienza dove aveva passato poche ore in guardina prima dell’udienza. Chi l’aveva arrestato appartiene alla Stazione Appia di Capannelle. Verso l’una erano passati a casa di Stefano, avevano perquisito senza risultati la sua cameretta poi erano andati a Tor Sapienza. Stefano, ricordano i suoi, aveva la faccia pulita. Ormai s’erano fatte le quattro. Viale Romania, il comando dei cc, fa sapere che Stefano aveva patologie, all’ingresso in stazione avrebbe avrebbe dichiarato di soffrire d’epilessia – e forse le famose pasticche sarebbero i suoi farmaci salvavita – il piantone lo avrebbe udito lamentarsi prima dell’alba e avrebbe chiamato un’ambulanza su cui Stefano non sarebbe voluto salire. Ma lui non lo potrà mai confermare. E, se a Regina Coeli dicono che dal tribunale sarebbe arrivato con la schiena rotta, «ai carabinieri non risultano fasi accese di questa vicenda», assicurano al Comando generale rinviando alle «conseguenze successive». 
Fabio Anselmo è stato il legale della famiglia Aldrovandi, il ragazzo ferrarese ucciso in un imprudente colluttazione da quattro agenti condannati in primo grado. Quando Ilaria Cucchi ha visto suo fratello dietro il vetro divisorio dell’obitorio, ha cercato su internet il suo indirizzo. «Ho avuto davanti agli occhi il volto di Federico». Anselmo ha accettato l’incarico. Ieri ha potuto scorrerre le prime «terribili» foto effettuate dagli addetti alle pompe funebri. Vede «gli occhi di una maschera», lo stesso volto tumefatto «come bruciato» che aveva visto Ilaria. Ferite ce ne sono anche sulle gambe, sangue alla schiena vicino alle vertebre spezzate. Il giorno prima il sacerdote aveva detto nell’omelia funebre che Stefano ha condiviso con Gesù una morte violenta. Sulla morte violenta pare a questo che non abbia dubbi nessuno. Al più si cerca di tirarsi fuori dalla vicenda. Ma, dal pm Barba in poi, tutti hanno bocche cucite anche davanti alle prime interpellanze di Antigone, dei radicali, di Luigi Manconi, del garante dei detenuti del Lazio. «Se si fosse trattato di una rissa fra detenuti dovrebbero esserci degli arrestati e degli indagati – spiega Anselmo – noi non diciamo che siano state le guardie carcerarie, mi risulta che il direttore del carcere abbia detto che il ragazzo stava già male quando è entrato. Noi ci chiediamo perchè un ragazzo di 31 anni entri in buona salute e ne esca morto e perchè ai familiari è stato impedito di sapere e di vederlo in punto di morte». Stefano forse lo sentiva tanto che aveva chiesto una bibbia. Aver impedito ai genitori di far visita al figlio è reato, secondo il garante laziale dei diritti dei detenuti. Comunque l’autorizzazione del pm è arrivata troppo tardi. Stefano morirà almeno sette ore prima dell’orario di visita. Era tornato il sabato all’Isola Tiberina ma da lì sarebbe stato trasferito, per scarsità di agenti di custodia, al padiglione penitenziario del Pertini. Dove sarebbe morto senza più vedere i suoi. «Chi l’ha lasciato senza cibo e cure da solo sotto un lenzuolo?
Sua madre mi ha detto che in vita pesava 43 chili. Alla morte 37. Un’enormità per una corporatura così esile – si chiede Patrizia Aldrovandi, la mamma di Federico – troppe domande senza risposta. Solo una certezza: stava bene prima che lo arrestassero. Pochi giorni ed è morto».

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Manconi: “sulla morte di Stefano Cucchi due zone d’ombra”
Cronache carcerarie
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Anni 70
Il Nemico inconfessabile, sovversione e lotta armata nell’Italia degli anni 70
Il nemico inconfessabile, anni 70 – Persichetti, Scalzone


Link sulle torture contro i militanti della lotta armata

1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati
Il giornalista Buffa arrestato per aver raccontato le torture affiorate
Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture

Stupro della Caffarella, Loyos picchiato dalla polizia per confessare il falso

Confessione forzata, scrivono i giudici: «Loyos (il “biondino”) non si era inventato le percosse. Tracce sul suo corpo. La smentita delle forze di polizia non ha alcun valore probatorio

Anita Cenci
Liberazione 30 aprile 2009

Ora lo riconoscono anche i giudici. Per fargli confessare ciò che non aveva fatto, cioè lo stupro della Caffarella, Alexandru Izstoika Loyos è stato sottoposto a percosse. È questo il succo delle motivazioni dell’ordinanza con la quale il 27 marzo scorso il tribunale del riesame di Roma l’aveva scarcerato, ritenendo infondata l’accusa di calunnia e autocalunnia. La notizia è stata 9AE9B3534FA3179945A8233C4A435Aaccolta nell’indifferenza generale, appena poche righe nella cronaca locale. Loyos era quello che i giornali hanno etichettato come il “biondino”. Spersonalizzato e mostrificato insieme a Karl Racs, anche lui subito soprannominato “faccia da pugile”. I due, secondo la questura e la procura, avevano aggredito una coppia di fidanzatini minorenni nel parco della Caffarella, stuprando brutalmente la fanciulla. In realtà i responsabili di quello scempio erano altri, a loro volta cittadini romeni che nei giorni precedenti avevano commesso diverse aggressioni contro coppiette nella stessa zona, seminando una quantità incredibile d’indizi. Un’indagine più accorta avrebbe trovato subito quelle tracce e scoperto agevolmente i veri colpevoli. Invece le cose sono andate diversamente. La politica ha interferito pesantemente nell’inchiesta. Un ennesimo decreto sicurezza è stato varato dopo una violenta campagna allarmistica. Servivano subito due colpevoli. Loyos e Racs erano stati fotosegnalati dalla polizia dopo un altro stupro, avvenuto il 21 gennaio precedente, in un luogo poco distante dal loro accampamento di fortuna. Insomma erano i capri espiatori perfetti. L’adolescente aggredita non mise molto a indicare il viso del biondino. Seguendo una classica tecnica a imbuto gli erano state mostrate un numero limitato di foto. Nonostante ciò aveva designato un’altra persona. Solo in seconda battuta “riconosce” Loyos. La polizia lo trova subito. Erano le 18 circa del 17 febbraio. 8 ore dopo (alle 2 di notte) confessa davanti al pm: «L’abbiamo violentata per sfregio…». Chiama in causa anche l’amico Racs. Pochi giorni dopo ritratta, spiegando di aver subito violente percosse. Nessuno lo ascolta. In questura sono occupati a smaltire la sbornia della conferenza stampa trionfale dei giorni precedenti. I giornali dipingono agiografici ritratti. Il questore non sta nella pelle: «Un lavoro di pura investigazione, d’intuito e senza l’aiuto di supporti tecnici. Da veri poliziotti». Gli fa eco il capo della Mobile Vittorio Rizzi: «Finalmente non sarò più il nipote di Vincenzo Parisi» (capo della polizia dal 1987 al 1994).
Ma a rovinare la festa, e le carriere, arrivano i test del dna. Le tracce dello stupro non appartengono ai due. In questura fanno muro, «bastava quello che ci aveva riferito Isztoika per sbatterlo in galera», risponde con arroganza il questore. Ma il punto è proprio questo, Loyos aveva riferito solo dettagli ripresi dalla prima versione dei fatti fornita dalla minorenne. Una ricostruzione modificata pochi giorni dopo dal fidanzato. Insomma era stato “indottrinato”.
Ma perché l’aveva fatto? La risposta viene oggi dalle 12 pagine redatte del tribunale della libertà. Secondo i giudici Loyos «ha illustrato in modo sufficientemente articolato le specifiche modalità con le quali sarebbe stato sottoposto a “pressione” dagli inquirenti romeni per ottenere la sua confessione», mentre «nessuna valenza probatoria può attribuirsi alle assicurazioni provenienti da entrambe le polizie, circa il mancato ricorso a mezzi di coercizione fisica e/o psicologica durante l’interrogatorio». Sul giovane – scrivono i giudici – è stata riscontrata «qualche “traccia” corporea, seppur lieve (“un rossore cutaneo sotto l’ascella”, sul referto medico d’ingresso al carcere si è evidenziata una “lieve escoriazione all’orecchio sinistro”)». Quel che è accaduto nelle stanze della questura nella tarda serata del 17 febbraio assomiglia molto alla situazione raccontata da Gianrico Carofiglio in un piccolo libricino d’appena 40 pagine, Il paradosso del poliziotto: «Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico ministero, si colloca su una linea di confiine. Da un lato ci sono delle regole, non necessariamente giuridiche, che spesso, in modo consapevole o inconsapevvole, vengono violate. Ma senza regole non c’è nessuna differenza fra guardia e ladro, tutto si riduce a una pura questione di rapporti di forza. Dall’altro lato c’è la tendenza, che abbiamo tutti, a dare giudizi morali sul comportamento altrui. Questa tendenza è ancora peggiore di quella a violare le regole. I peggiori investigatori – quelli che fanno gli errori più gravi e devastanti – si trovano nella categoria dei moralisti[…] la tendenza a formulare giudizi morali offusca l’intuito investigativo e la comprensione del crimine. E a volte maschera aspetti inconfessabili della personalità di chi li formula, per esempio un’attrazione torbida e non controllabile verso alcune delle cose orribili di cui dobbiamo occuparci».

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Il capo della mobile querela Liberazione
Caffarella: l’uso politico dello stupratore
L’uso politico dello stupratore
La fabbrica dei mostri
Racs innocente e senza lavoro

Cosa si nasconde dietro la confessione di Loyos?
Stupro del Quartaccio, scarcerato Racs

Stupro della Caffarella
Negativi i test del Dna fatti in Romania
Racs non c’entra
Non sono colpevoli ma restano in carcere
Parlano i conoscenti di Racs
La difesa di Racs denuncia maltrattamenti
L’accanimento giudiziario
Non esiste il cromosoma romeno
Tante botte per trovare prove che non ci sono
Quando il teorema vince sulle prove
L’inchiesta sprofonda
È razzismo parlare di Dna romeno
Quartaccio-Caffarella, l’uso politico dello stupro

Le torture nell’Italia 1982: l’arresto del giornalista Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia

Materiali tratti da “Le Torture Affiorate”, Sensibili alle foglie 1998
Fonte: baruda.net/della-tortura/

Pier Vittorio Buffa: “Il rullo confessore” in L’Espresso 28 febbraio 1982

Dalla perizia del medico legale Mario Marigo, 3 febbraio 1982 Padova. Tracce di tortura compiuta con elettrodi sui genitali di Cesare Di Lenardo, militante dell Brigate rosse in carcere da 29 anni. “Qualcuno prese in mano il mio pene dalla parte anteriore e vi avvicinò qualcosa, forse un filo, attraverso il quale ricevetti una scarica elettrica. La stessa cosa fu ripetuta ai testicoli e all'inguine”.


“All’ora di pranzo scendevano in piccoli gruppi, si sistemavano ai tavoli del ristorante Ca’ Rossa, proprio davanti al distretto di polizia di Mestre, e prima di pagare il conto chiedevano al proprietario dei pacchi di sale, tanti. Poi pagavano, e con la singolare ’spesa’ rientravano al distretto per salire all’ultimo piano, dove c’era l’archivio. In quei giorni, subito dopo la liberazione del generale Dozier, le stanze di quel piano erano off limits: vi potevano entrare solo pochi poliziotti, non più di tre o quattro per volta, insieme agli arrestati, ai terroristi. Lì dentro, dopo il trattamento, un brigatista è stato costretto a rimanere sdraiato cinque giorni senza avere più la forza di alzarsi, da lì uscivano poliziotti scambiandosi frasi del tipo “L’ho fatto pisciare addosso”. “Così abbiamo finalmente vendicato Albanese” [Il funzionario ucciso dalle B.R.].
Quest’ultimo piano era infatti diventato -secondo alcune accuse e deposizioni di cui parleremo- il passaggio obbligato per i circa venti terroristi arrestati nella zona.
Non hanno subìto tutti lo stesso trattamento, ma per alcuni di loro l’archivio del distretto di polizia di Mestre ha significato acqua e sale fatta bere in grande quantità, pugni e calci per ore, per notti intere. Sono fatti, questi, dei quali si sta cominciando a discutere anche all’interno del sindacato di polizia. La voglia di picchiare aveva infatti totalmente contagiato gli agenti di quel distretto ( molti erano venuti per l’occasione anche da fuori, da Massa Carrara, da Roma) che quando il 2 febbraio è stato fermato un ragazzo sospettato di un furto in un appartamento (non quindi di terrorismo) lo hanno picchiato per un paio d’ore per poi lasciarlo andare via quando si sono accorti che era innocente. Secondo le denunce, la violenza della polizia contro le persone arrestate per terrorismo si sta poco a poco estendendo, come un contagio.
Molte sono ormai le testimonianze raccolte dai magistrati sui trattamenti riservati agli arrestati da polizia e carabinieri. Molte e circostanziate. Il ministro dell’Interno Virginio Rognoni ha già smentito tutto in Parlamento.
Ma dalla lettura dei verbali emerge l’esistenza di un sistema di pestaggio, con i suoi passaggi prestabiliti, i suoi locali appositamente allestiti, i suoi esperti. Cerchiamo di illustrarlo basandoci su sei denunce presentate in diverse città: Roma, Viterbo, Verona. Quelle di Ennio di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai, Nazareno Mantovani e Gianfranco Fornoni, tutti accusati di terrorismo.
Il primo passo è l’isolamento totale in locali che il detenuto non può identificare e senza che nessuno ne sappia niente. Il 12 gennaio scorso una voce anonima ha telefonato allo studio di un avvocato romano: “La persona arrestata in via Barberini si chiama Massimiliano Corsi, è di Centocelle; avvertite la madre, date la notizia attraverso le radio private, lo stanno massacrando di botte.” Solo dopo due o tre giorni si seppe ufficialmente che Corsi era stato arrestato. Il totale isolamento, il cappuccio sempre calato sul viso, le mani strettamente legate dietro la schiena sono la prima violenza psicologica. Poi le

Il Ministro degli Interni Rognoni

Il Ministro degli Interni Rognoni

minacce di morte (”Ti possiamo uccidere, tanto siamo in una situazione di illegalità” avrebbero detto a Stefano Petrella) la pistola puntata alla tempia e il grilletto che scatta a vuoto come in una macabra roulette russa (Nazareno Mantovani).
Per arrivare alle violenze fisiche il passo è breve: tutti dichiarano di aver preso calci e pugni subito dopo l’arresto, ma poi si arriva alla descrizione di sevizie vere e proprie, di torture. Sigarette spente sulle braccia (Di Rocco). Acqua salatissima fatta ingerire a litri, sempre con lo stesso sistema: legati a pancia in su sopra un tavolo, con mezzo busto fuori e quindi con la testa che penzola all’indietro ( Di Rocco, Petrella e Mantovani). Calci ai testicoli (racconta Fornoni: ‘Con certe pinze a scatto hanno effettuato diverse compressioni sui testicoli, minacciando di evirarmi’). Tentativi di asfissia con vari sistemi. Misteriose punture: il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica ha constatato la presenza di “un segno di arrossamento con escoriazione centrale” sul braccio destro di Di Rocco.
Dopo giorni e giorni di trattamento di questo tipo gli arrestati vengono condotti davanti al magistrato e alcuni verbali sono ricchi di dettagliate descrizioni, fatte dai giudici, dello stato fisico dei detenuti: Di Rocco aveva il polso destro sanguinante per via della manetta troppo stretta, cicatrici fresche in varie parti del corpo.
Lino Vai si è tolto una scarpa davanti al giudice mostrandogli le “spesse croste ematomiche” presenti sul dorso dei piedi. Due istruttorie per accertare la verità sono già iniziate; una a Viterbo, dopo la denuncia di Fornoni, e una a Roma, iniziata dopo le deposizioni di Petrella e di Di Rocco dal sostituto procuratore Niccolò Amato che ha disposto le perizie. In attesa che queste indagini si concludano, c’è chi ha già chiesto al ministro Rognoni di avviare un’indagine amministrativa e chi sostiene che lo stato democratico non può fare della violenza fisica e psicologica uno strumento di lotta. […]

NOTA INFORMATIVA: A seguito della pubblicazione dell’articolo sopra riportato, Pier Vittorio Buffa, il 9 marzo 1982, viene arrestato su ordinanza emessa dalla Procura della Repubblica di Venezia, con l’imputazione “del reato p. e p. dell’art. 372 C.P. perché deponendo innanzi al procuratore della Repubblica di Venezia, Cesare Albanello, taceva in parte ciò che sapeva intorno alla fonte da cui apprese le notizie riportate nell’articolo ‘Il rullo confessore’ apparso sul settimanale L’Espresso del 28 febbraio 1982 e del quale egli era autore” [N. 520/82 del Reg. Gen. del Procuratore della Repubblica di Venezia]

SIULP di Venezia, Comunicato, 10 marzo 1982
“Il Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia di Venezia esprime profondo stupore e rammarico per l’arresto del
giornalista de L’Espresso Pier Vittorio Buffa, rifiutatosi di rivelare la fonte di alcune notizie da lui riportate nell’articolo comparso sul numero del 28/02/82 del settimanale suddetto. In proposito si fa rilevare che le voci di maltrattamenti durante siulp_logo_colori_copygli interrogatori di persone arrestate nell’ambito delle indagini sul terrorismo sono giunte al sindacato. Il sindacato dei lavoratori della polizia, pur condividendo il convincimento di quanti ritengono ingiustificabili tali pratiche, esprime la propria preoccupazione per l’orientamento delle inchieste in corso che tendono alla individuazione di responsabilità di singoli appartenenti alle forze dell’ordine, non tenendo conto del clima che ha suscitato tali episodi, e di cui molti devono sentirsi direttamente o indirettamente responsabili.
Non v’è dubbio infatti che tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese, impedendone il pacifico sviluppo. Il sindacato auspica che le indagini siano indirizzate a rompere il clima di timore venutosi a determinare fra gli appartenenti alle forze dell’ordine più direttamente impegnate nelle difficili indagini e che potrebbero risultare coinvolti in tali episodi. Si auspica inoltre che si punti a far sì che tali pratiche restino un caso isolato determinato da una particolare contingenza.
Allo scopo di dare un contributo per fare la necessaria chiarezza in tale direzione, il sindacato di Venezia, in sintonia con la segreteria nazionale, ha inviato un telegramma al magistrato dott. Albanello per un incontro urgente.

NOTA INFORMATIVA. L’11 marzo 1982, una delegazione del Sindacato di Polizia Siulp di Venezia, deponendo davanti al PM, libera il giornalista Pier Vittorio Buffa dal vincolo del segreto professionale, e pertanto egli, in sede di interrogatorio, indica nel capitano Riccardo Ambrosini e nell’agente Giovanni Trifirò le due persone che gli hanno dato le informazioni relative all’articolo. Riportiamo di seguito il dispositivo della sentenza che lo assolve: “Visti gli art. 479 c.c.p. e 376 c.p., assolve l’imputato perchè il fatto non costituisce reato perché non punibile per avvenuta ritrattazione. Ne ordina l’immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa.”

Dopo questo comunicato una riunione con il questore e tutti i dirigenti della questura di Venezia stila un comunicato in cui si chiede che i poliziotti che hanno scagionato il giornalista de L’Espresso siano trasferiti perchè ‘la loro presenza provocherebbe uno stato di tensione e amarezza in tutto il personale’.
Qui sotto alcune dichiarazioni del capitano Filiberto Rossi, uno dei quadri dirigenti del Saplogo-sap (il Sindacato Autonomo di Polizia): ” Non ci sono state torture ai terroristi arrestati. Se qualche episodio di violenza fosse avvenuto, sarebbe un fatto isolato. I responsabili, una volta accertata la loro colpa, dovrebbero essere puniti secondo la legge. Nella polizia non ci sono aguzzini o squadre speciali, ma solo persone normali e padri di famiglia. […]
La lotta al terrorismo da parte della polizia è sempre stata condotta nei limiti della legalità. Non bisogna dimenticare che su 1300 terroristi in carcere, soltanto alcuni hanno denunciato di aver subìto violenze. E queste denunce possono essere strumentali, posso essere state fatte per giustificarsi con i loro complici.
I poliziotti non ammettono che si possa ricorrere alle torture, ma non si possono certo trattare i terroristi con i guanti bianchi. Noi siamo convinti della necessità di esercitare pressioni psicologiche
.”

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1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati
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