Signor Presidente, E’ grazie alla volontà di un presidente della Repubblica, François Mitterrand, che dei militanti dell’estrema sinistra italiana coinvolti nella violenza politica degli anni 70 sono stati accolti nel nostro Paese sotto l’espressa condizione di abbandonare ogni attività illegale. E’ probabile che Lei non avrebbe mai preso questa decisione. Ma il contesto era molto diverso da quello attuale, la «strategia della tensione» ancora presente, i giuristi francesi sovente perplessi di fronte alle «leggi speciali» che ispiravano le procedure italiane. E quale che sia oggi l’opinione su questa eredità, lei converrà che non si può risalire il corso del tempo né cambiare gli avvenimenti del passato. Ormai da quarant’anni diverse decine di persone sono uscite dalla clandestinità, hanno deposto le armi, hanno visto i loro fascicoli esaminati dalle più alte autorità dei Servizi segreti, della polizia e della giustizia francese: la loro permanenza in Francia è stata accettata, in seguito ufficializzata attraverso il riconoscimento di permessi di soggiorno. Alcuni si sono sposati creando anche coppia binazionali, molti hanno avuto dei figli che sono oggi cittadini francesi, a volte anche dei nipoti, anche loro francesi. Hanno contribuito alla ricchezza nazionale attraverso il loro lavoro nel corso di diversi decenni, alcuni sono stati persino impiegati nel servizio pubblico. Tutti hanno rispettato il loro impegno di rinuncia alla violenza. Ora che queste persone hanno un’età che oscilla tra i 65 e gli 80 anni, hanno problemi con l‘età, di salute, di dipendenza e invecchiamento, c’è qualcuno in Italia che vuole utilizzarli come dei comodi spaventa passeri per fini di politica interna che non ci appartengono. La loro campagna consiste nell’accusare decine di nostri funzionari dei li uffici pubblici, della polizia, dell’amministrazione della Repubblica francese, di avere per quarant’anni protetto degli assassini.
Una forma di relativismo storico Comportandosi come se il tempo fosse rimasto fermo a cinquant’anni fa, alcuni fingono di credere che queste persone siano rimaste ferme in un eterno presente, allorché la Francia e l’esperienza dolorosa dell’esilio lontano dal Paese natale ha permesso loro, al contrario, di avanzare sulla strada della vita, di diventare altre persone. Per la Francia ha voluto dire dare fiducia all’essere umano, alle sue capacità di trasformazione e di progresso, e questa fiducia è stata onorata. Nell’agosto 2019, su istigazione di Salvini l’Italia ha ratificato la convenzione europea relativa all’estradizione tra Stati membri dell’Unione europea, atto che l’Italia non aveva voluto portare a termine fin dal 1996. Questa iniziativa aveva come unico obiettivo quello di vanificare le decisioni adottate dalla Francia nei confronti di queste persone. Secondo il nostro diritto, infatti, le loro posizioni sono tutte prescritte e non possono dare luogo a estradizioni quaranta o cinquanta anni dopo i fatti. Ricordiamo che in Francia soltanto i crimini contro l’umanità sono imprescrittibili. Ora considerare degli omicidi alla strega di un genocidio, assimilare delle persone accolte dalla Repubblica francese a dei nazisti nascosti da qualche dittatura del Medioriente, è fare prova di un relativismo che può giovare soli ai circoli negazionisti e ai loro amici d’estrema destra.
Istituti fondamentali della giustizia Signor Presidente, la premura mostrata verso il punto di vista dei nostri partner europei non può condurre al confusionismo storico né all’abbandono di istituti fondamentali della giustizia. Nell’Orestea di Eschilo, un omicida vaga nell’esilio braccato dalle dee della vendetta che reclamano riparazione in nome della vittima. Ma Oreste dice questa cosa curiosa: «Non sono più un supplicante con mani impure: la mia macchia si è cancellata a contatto con gli uomini che mi hanno accolto nelle loro case o che ho incontrato per strada». Come se il tempo, l’esilio, il commercio degli uomini avessero un potere purificatore, e che Oreste non poteva ridursi più a colui che fece la cosa più terribile di tutte: uccidere la madre. Alla fine dell’opera, Atena, dea protettrice della Città, prende una decisione più simile ad un’amnistia che ad un’assoluzione. Le Erinni, invitate ad abitare Atene per riaffermare il rispetto delle vittime, accettano la fondazione del tribunale dell’Areopago, la fondazione del diritto moderno. Il ciclo della vendetta si chiude, viene quello della giustizia. Com’è possibile che si dimentichi così spesso questo mito fondatore della nostra comune cultura europea? La vendetta è di nuovo a l’ordine del giorno. La colpa che non si cancella mai, che riduce il criminale al suo crimine, sempre presente, mai passato, è uno strumento per manipolare l’opinione e confondere le coscienze. E l’estrema destra italiana, responsabile dei due terzi dei morti di quelli che vengono definiti «anni di piombo» e che osa parlare in nome delle vittime, non potrà che rallegrarsi di questo risultato. Signor Presidente, ci vorrebbe senza dubbio Atena per convincere il Parlamento italiano a votare la legge d’amnistia attesa da troppo tempo, e che consentirebbe alla società italiana di voltare pagina e volgersi finalmente verso il futuro. Lei tuttavia ha per intero la possibilità di confermare l’impegno della Francia nei confronti degli esiliati italiani, dei loro figli e delle loro famiglie. La decisione di estradarli non può essere solo una questione tecnica. Si tratta di una questione politica che dipende dalla sua persona. Vorrebbe forse fare quel che al suo posto farebbe sicuramente un rappresentante del Rassemblement national (la destra lepenista)? Vogliamo credere invece che lei vorrà confermare che la ragione e l’umanesimo sono un fondamento delle nostre democrazie, che non è buona cosa aggiungere sofferenza alla sofferenza, e forse citare ai suoi interlocutori transalpini quel verso che Eschilo faceva pronunciare ad Atena: «Tu vuoi passare per giusto piuttosto che agire con giustizia».
Firmatari: Agnès b., Jean-Christophe Bailly, Charles Berling, Irène Bonnaud, Nicolas Bouchaud, Valeria Bruni-Tedeschi, Olivier Cadiot, Sylvain Creuzevault, Georges Didi-Huberman, Valérie Dréville, Annie Ernaux, Costa-Gavras, Jean-Luc Godard, Alain Guiraudie, Célia Houdart, Matthias Langhoff, Edouard Louis, Philippe Mangeot, Maguy Marin, Gérard Mordillat, Stanislas Nordey, Olivier Neveux, Yves Pagès, Hervé Pierre, Ernest Pignon-Ernest, Denis Podalydès, Adeline Rosenstein, Jean-François Sivadier, Eric Vuillard, Sophie Wahnich, Martin Winckler
La recherche d’une vérité manquant encore à l’appel aura été une des justifications les plus rappelées dans l’orgie de commentaires ayant accompagné la nouvelle de la rafle des exilés italiens des années 1970, à Paris ces jours-ci. Parmi les voix les plus autorisées, on aura remarqué celle du nouveau ministre de la Justice, Mme Marta Cartabia, accompagnée de nombreux représentants du “parti des victimes du terrorisme”. La page historique des années 1970 ne peut être encore fermée -soutiennent ces nouveaux soldats de la vérité- sans que ne soit d’abord fait la lumière sur les faits de la lutte armée. Cet établissement de la vérité ne peut du même coup être séparé de l’exécution de la peine, unique moyen -à ce qu’on comprend de leurs arguties- d’arriver à la vérité. Affirmation à la portée implicite inquiétante : rappeler que la vérité serait ontologiquement liée à la punition ouvrirait des scenarii totalitaires qui ne semblent pourtant pas avoir déclenché d’alarmes. Qui demande la vérité de cette façon ne promeut en aucune façon un parcours de connaissance mais cherche une confirmation de ses propres préjugés, par addition autoritaire. Une vérité préconçue dont les présumés coupables devraient s’accommoder. Soit l’exact inverse de la vérité historique, qui est, au contraire, un processus libéré des conditionnements, où l’on creuse à la recherche de sources nouvelles, et où se réélaborent et se confrontent dans l’espace publique les sources les plus dignes d’intérêt. Ce qui est en revanche proposé par les milices de la vérité punitive est un marché des vérités, le marché des vérités opposables, vérités qui changent avec les changements de majorités électorales et de couleurs politiques. La chose la plus absurde consistant à voir la plus haute autorité de la Justice promouvoir la demande d’extraditions, en utilisant pour ce faire tous les subterfuges possibles pour contourner les prescriptions là où l’inexorable écoulement du temps les a déjà sanctionnées (au vu de l’invention de la délinquance habituelle), sur la base de sentences qui reconstruisent une vérité judiciaire avec de lourdes conséquences pénales, et, immédiatement après, entendre dire que ces coupables doivent encore dire la vérité, une vérité qui ne peut donc être différente de celles qui ont été sanctionnées dans les sentences rendue (quand on pense au fait qu’il soit illégal de discuter publiquement de décisions de Justice, une fois celles-ci rendues). Mais s’il est ainsi que vont les choses, quelle légitimité ont donc les demandes d’extraditions fondées sur des sentences de justice établies sur des semblants de vérités? Une fois en prison après mon extradition de l’été 2002, je rétorquai la même question au magistrat de surveillance qui, en s’érigeant en 4° degré de jugement, me demandait la vérité, qui se serait, à défaut, toujours opposée à la concession de quelque mesure alternative que ce soit. «Si vous me formulez cette demande -répondis-je-, je voudrais bien savoir sur la base de quelle vérité judiciaire ai-je été condamné?». Cela ressemblait à une de ces pages de Lewis Carrol, dans Alice au pays des Merveilles, «d’abord la condamnation, puis l’établissement des faits». Evidemment, ça s’est terminé de la pire des façons. Qui prétend qu’il y ait encore des mystères ait au moins la cohérence de briguer l’annulation des vieilles condamnations et des vieux procès. On ne peut pas demander à la fois une vérité nouvelle et s’entêter à maintenir d’aussi vieilles accusations de culpabilité.
Traduit de l’italien par Boudjemaa Sedira, samedi 1er mai 2021
La richiesta di una verità ancora mancante è stata una delle giustificazioni più richiamate nell’orgia di commenti che hanno accompagnato la notizia della retata degli esuli degli anni 70 a Parigi. Tra le voci più autorevoli si è distinta quella del nuovo ministro della Giustizia Marta Cartabia, accompagnata da numerosi esponenti del partito delle vittime. La pagina storica degli anni 70 non può ancora essere chiusa – sostengono questi nuovi soldati della verità – senza che prima non sia fatta chiarezza sui fatti della lotta armata. Di pari passo questo accertamento della verità non può essere separato dalla esecuzione della pena, unico modo – par di comprendere – per arrivare alla verità. Affermazione dalla portata inquietante: ritenere che la verità sia ontologicamente legata alla punizione apre scenari totalitari che non sembrano tuttavia aver creato allarme. Chi chiede verità in questo modo non sta promuovendo un percorso di conoscenza ma semplicemente una conferma, per giunta autoritaria, del proprio pregiudizio. Una verità precostituita a cui i colpevoli dovrebbero adeguarsi. L’esatto contrario della verità storica che invece è un processo libero da condizionamenti, dove si scava alla ricerca di fonti nuove e si rielaborano e si confrontano nello spazio pubblico quelle note. Quello che invece viene proposto dalle milizie della verità punitiva è un mercato della verità, il mercato delle verità contrapposte, verità che cambiano col cambiar delle maggioranze e dei colori politici.La cosa più assurda è vedere la massima autorità della Giustizia promuovere la richiesta di estradizioni, per giunta utilizzando tutti i sotterfugi possibili per aggirare le prescrizioni lì dove l’inesorabile decorso del tempo le ha già sancite (vedi l’invenzione della delinquenza abituale), sulla base di sentenze che ricostruiscono una verità giudiziaria con pesanti conseguenze penali, e subito dopo sentir dire che quei colpevoli devono ancora dire la verità, una verità che dunque non può che essere diversa da quanto sancito nelle sentenze. Ma se così stanno le cose, che legittimità hanno delle richieste di estradizione fondate su sentenze che non dicono il vero? In carcere, dopo la mia estradizione, rivolsi la stessa domanda al magistrato di sorveglianza che erigendosi a quarto grado di giudizio mi chiedeva la verità, altrimenti si sarebbe sempre opposta alla concessione di qualsiasi misura alternativa. «Se lei mi fa questa domanda – risposi – vorrei sapere in base a quale verità giudiziaria sono stato condannato?». Sembrava una di quelle pagine di Lewis Carrol in Alice e il paese delle meraviglie, «prima la condanna poi l’accertamento dei fatti». Ovviamente finì nel peggiore dei modi. Chi dice che ci sono ancora misteri abbia almeno la coerenza di pretendere l’annullamento delle vecchie condanne e dei vecchi processi. Non può al tempo stesso chiedere una nuova verità e confermare quelle vecchie colpe.
L’appel contre les extraditions des réfugiés italiens signé par des personnalités du monde de la culture française
Libération, 29 avril 2021
Monsieur le Président, C’est par la volonté d’un président de la République, François Mitterrand, que des militants d’extrême gauche italiens engagés dans la violence politique durant les années 70 ont été accueillis dans notre pays à la condition expresse d’abandonner toute activité illégale. Peut-être n’auriez-vous pas vous-même pris cette décision. Mais le contexte était différent, la «stratégie de la tension» encore vivace, les juristes français souvent perplexes quant aux «lois spéciales» qui régissaient les procédures italiennes. Et quoi qu’on pense de cet héritage, vous conviendrez qu’on ne peut remonter le cours du temps ni changer les événements du passé. Il y a maintenant quarante ans, plusieurs dizaines de personnes sont sorties de la clandestinité, ont déposé les armes, ont vu leurs dossiers examinés par les plus hautes autorités des services de renseignements, de police et de justice françaises : leur séjour en France a été accepté, puis officialisé par la délivrance de cartes de séjour. Certaines se sont mariées, créant ainsi des couples binationaux, beaucoup ont eu des enfants qui sont aujourd’hui citoyens français, parfois des petits-enfants, eux aussi français. Elles ont contribué à la richesse nationale par leur travail pendant plusieurs décennies, certaines étaient même employées par l’Etat français. Toutes ont respecté leur engagement de renoncer à la violence. Alors que ces personnes ont aujourd’hui entre 65 et 80 ans, qu’elles ont des problèmes de leur âge, problèmes de santé, de dépendance, de vieillissement, certains en Italie s’en servent comme de commodes épouvantails pour des objectifs de politique intérieure qui ne nous concernent pas. Leur campagne équivaut à accuser des dizaines de fonctionnaires de nos services administratifs, à accuser police, justice, administration de la République française d’avoir, quarante années durant, protégé des assassins.
C’est faire preuve d’un relativisme Faisant comme si le temps s’était arrêté il y a un demi-siècle, certains feignent de croire que ces personnes étaient restées figées dans un éternel présent, alors que la France et l’expérience douloureuse de l’exil loin du pays natal leur ont permis au contraire d’avancer sur le chemin de la vie, de devenir d’autres personnes. Pour la France, c’était faire confiance à l’être humain, en ses capacités de transformation et de progrès, et cette confiance a été honorée. En août 2019, à l’instigation de monsieur Salvini, l’Italie a ratifié la convention européenne relative à l’extradition entre Etats membres de l’Union européenne, ce qu’elle se gardait de faire depuis 1996. Cette initiative avait pour seul objectif d’annuler les décisions françaises afférentes à ces personnes. Selon nos règles de droit, en effet, les dossiers en question sont tous prescrits et ne sauraient donner lieu à des extraditions quarante, voire cinquante ans après les faits. Rappelons qu’en France, seuls les crimes contre l’humanité sont imprescriptibles. Mettre un signe égal entre telle affaire d’homicide et un génocide, assimiler des personnes accueillies par la République française à des nazis cachés par quelque dictature du Proche-Orient, c’est faire preuve d’un relativisme qui ne pourra que réjouir les cercles négationnistes et leurs amis d’extrême droite.
Mécanismes fondamentaux de la justice Monsieur le Président, le souci de prendre davantage en compte le point de vue de nos partenaires européens ne saurait mener au confusionnisme historique et à l’abandon des mécanismes fondamentaux de la justice. Dans l’Orestie d’Eschyle, un meurtrier erre en exil, pourchassé par les déesses de la vengeance, qui réclament réparation au nom de la victime. Mais Oreste dit cette chose curieuse : «Je ne suis plus un suppliant aux mains impures : ma souillure s’est émoussée. Elle s’est usée au contact des hommes qui m’ont reçu dans leurs maisons ou que j’ai rencontrés sur les routes.» Comme si le temps, l’exil, le commerce des hommes avaient un pouvoir purificateur, et qu’Oreste ne se réduisait plus à celui qui fit cette chose, terrible entre toutes : tuer sa mère. A la fin de la pièce, Athéna, déesse protectrice de la Cité, prend une décision qui s’apparente davantage à une amnistie qu’à un acquittement. Les Erinyes, invitées à habiter Athènes, comme pour réaffirmer le respect des victimes, acceptent la fondation du tribunal de l’Aréopage, la fondation du droit moderne. Le cycle de la vengeance est achevé, vient celui de la justice. Cette fable, fondatrice de notre culture européenne commune, comment se peut-il qu’on l’oublie si souvent ? La vengeance est de nouveau à l’ordre du jour. La souillure qui ne s’efface jamais, qui réduit le criminel à son crime, toujours présent, jamais passé, est un outil pour manipuler l’opinion et troubler les consciences. Et l’extrême droite italienne, responsable des deux tiers des morts de ce qu’on appelle les «années de plomb» et qui ose parler au nom des victimes, ne pourrait que se féliciter de cette entreprise. Monsieur le Président, il faudrait sans doute Athéna pour convaincre le Parlement italien de voter la loi d’amnistie espérée depuis si longtemps, et qui permettrait à la société italienne de tourner la page et de regarder vers l’avenir. Mais vous avez toute latitude pour tenir l’engagement de la France vis-à-vis des exilés italiens, de leurs enfants, de leurs familles françaises. La décision de les extrader ne saurait être une question technique. Il s’agit d’une question politique qui dépend de vous. Voulez-vous faire ce qu’aurait fait à votre place un représentant du Rassemblement national ? Nous voulons croire que vous voudrez plutôt rappeler que la raison et l’humanisme sont au fondement de nos démocraties, qu’il n’est pas bon d’ajouter inutilement du malheur au malheur, et peut-être citer à vos interlocuteurs transalpins ce vers qu’Eschyle jadis mettait dans la bouche d’Athéna : «Tu veux passer pour juste plutôt qu’agir avec justice.»
Signataires : Agnès b., Jean-Christophe Bailly, Charles Berling, Irène Bonnaud, Nicolas Bouchaud, Valeria Bruni-Tedeschi, Olivier Cadiot, Sylvain Creuzevault, Georges Didi-Huberman, Valérie Dréville, Annie Ernaux, Costa-Gavras, Jean-Luc Godard, Alain Guiraudie, Célia Houdart, Matthias Langhoff, Edouard Louis, Philippe Mangeot, Maguy Marin, Gérard Mordillat, Stanislas Nordey, Olivier Neveux, Yves Pagès, Hervé Pierre, Ernest Pignon-Ernest, Denis Podalydès, Adeline Rosenstein, Jean-François Sivadier, Eric Vuillard, Sophie Wahnich, Martin Winckler
“Questo Paese appena cinque anni dopo la guerra ha dato amnistia e indulto a membri delle bande di fascisti che torturavano. E vogliamo parlare dell’armadio della vergogna? Sembra che solo i reati degli anni ’70 siano imprescrittibili, perché i protagonisti di quegli anni sono i vinti della storia”. A parlare all’Adnkronos è Paolo Persichetti, negli anni ’80 nelle Brigate Rosse-Unione dei Comunisti, primo (e unico, al momento) ex terrorista estradato in Italia dalla Francia, che, commentando gli arresti di oggi, sottolinea: “La messa in discussione dello Stato, il crimine rivoluzionario, è quello che non perdonano, anche se quella rivoluzione è fallita e tutti lo sanno, dunque non c’è nemmeno un pericolo di ‘memoria’”.
“L”esilio’ – dice Persichetti, parlando di una esperienza che ha vissuto in prima persona – non dico che è una forma di pena ma è certamente un percorso di difficoltà, di sofferenza: vivi senza permessi, senza lavoro, non è che sei lì a fare la bella vita, anche se poi magari la propaganda ti dipinge a mangiare ostriche e champagne. In Francia non ho mai avuto assistenza medica, non avevo i soldi per fare nulla, quando vivi sans papier è così”. E tuttavia, racconta l’ex terrorista parlando dei fuoriusciti, “quelle persone anche restando lì sono riuscite a dare un valore aggiunto alla loro vita. Roberta Cappelli, ad esempio, lavora da tanti anni come educatrice in una scuola per bimbi disabili: era un architetto, si è riconvertita, ha acquisito nuove competenze ed è diventata una riabilitatrice, una figura fondamentale per tante mamme con figli in difficoltà. Marina Petrella, invece, ha un’associazione che fa un lavoro sociale enorme, si occupa di anziani e persone in difficoltà, fa attività di sostegno sul territorio”. “Che senso ha ora distruggere tutto ciò? La pena deve avere una funzione socializzante, riabilitativa. E in qualche modo l”esilio’ ha avuto lo stesso effetto – sottolinea Persichetti, oggi ricercatore storico -: è stata la prova di un’alternativa possibile alla pena, alla sanzione e alla repressione, e una prova vincente. Il problema è che questo dimostra l’inutilità del sistema sanzione e del sistema giustizia come lo concepiamo. Ecco allora che dopo 40 anni lo Stato riafferma un potere su persone di 65 anni e più, che minimo dovranno fare 10 anni di carcere per avere benefici. Che senso ha? Il rapporto tra il tempo e la giustizia non può essere infinito”.
Nella smorfia napoletana il 48 è il morto che parla. Un numero importante che indica il defunto venuto in sogno a suggerire i numeri da giocare. La smorfia non transige, quando il morto parla e si devono puntare i suoi numeri bisogna sempre aggiungere il 48. Lo si deve al morto stesso in segno di gratitudine per il prezioso suggerimento fornito. Non si può proprio mancargli di rispetto altrimenti la puntata è persa e la jattura è assicurata. Il 48 è divenuto un numero importante anche in un’altra disciplina: la dietrologia. Il morto che parla è decisivo, senza le sue rivelazioni non riusciremmo a sapere nulla del nostro passato, la sua voce è la torcia accesa che ci illumina nel mondo oscuro dei misteri, ci permette di prevedere il tempo che fu. Il morto che parla è la fonte delle fonti, quella che ci risolve ogni problema. Gli storici non lo hanno ancora capito, sono dei ciechi che avanzano a tastoni cercando inutili documenti, prove, testimonianze, riscontri. La voce che viene dall’aldilà ci risparmia da tutte queste fatiche, soprattutto quando le nostre ipotesi non trovano maledettamente conferma. Evocare il morto che parla non costa davvero nulla e poi offre un grande vantaggio perché ci ritroviamo ad essere i soli depositari della sua verità. A quel punto siamo noi che parliamo per lui, lo testimoniano, diventiamo i suoi ventriloqui. Quanto sono belli i morti che parlano, soprattutto perché non possono ascoltarci e sentire quel che noi gli mettiamo in bocca. I morti che parlano hanno il pregio di non poter smentire né confermare. Da quando i defunti ciarlano così tanto i dietologi hanno fatto incredibili scoperte. L’ultima, in ordine di tempo, l’ha riportata Stefania Limiti sul Fatto quotidiano del 20 aprile scorso: Licio Gelli partecipava alle riunioni che si tenevano al Viminale durante il sequestro Moro. Lo avrebbe confidato Bettino Craxi a Sandra Bonsanti – nei decenni passati grande narratrice sulle pagine di Repubblica di misteri, complotti e depistaggi. Dell’intima convinzione che l’ex segretario socialista, scomparso ventuno anni fa nel suo esilio di Hammamet, avrebbe riferito alla giornalista in piazza Navona non esiste ovviamente altra prova se non la testimonianza della Bonsanti stessa. Il morto che parla, per giunta figura autorevole quando era in vita, è convocato ancora una volta per dare prova della teoria che vorrebbe Gelli stratega occulto della gestione statale del sequestro, emanazione di quel potere invisibile che avrebbe manovrato per liquidare insieme a Moro la possibilità di far entrare il Pci al governo. Che poi la strategia di Moro fosse l’esatto opposto, ovvero contenere la crescita elettorale del Pci, usurarne l’immagine presso i suoi elettori coinvolgendolo nella maggioranza di governo senza offrirgli mai responsabilità nell’esecutivo, utilizzano invece la sua capacità di calmierare l’insubordinazione sociale che ribolliva nel fabbriche e nelle piazze, questa teoria complottista non può che ometterlo. Allo stesso modo non sa spiegare perché il Pci e la P2 coabitarono tranquillamente nel Corriere della sera e i vertici piduisti dei Servizi segreti furono tutti nominati con l’assenso del maggiore partito di opposizione. Circostanze che messe insieme sollevano un unico decisivo interrogativo: i dirigenti di Botteghe oscure erano corrivi o solo degli incapaci? Le rivelazioni dalla Limiti proseguono sul filo dei ricordi della Bonsanti tratteggiando i contorni di grande e confuso complotto. Una macchinazione che deresponsabilizza le scelte fatte dai gruppi dirigenti delle maggiori forze politiche dell’epoca, allontanando lo sguardo dei lettori dalle acquisizioni storiografiche che ci descrivono le dinamiche reali che agirono in quelle settimane convulse. Il protagonismo assoluto del partito della fermezza, il blocco Pci-Dc (Moro boys in testa) ostinatamente intenzionato a fare muro contro ogni cedimento, margine di manovra, possibilità di negoziato, ricerca di un compromesso, fino a decretare l’inautenticità delle lettere che Moro inviava dalla prigione. Ancora una volta la figura di Gelli e della P2 vengono convocate attraverso le parole di un defunto per coprire l’operato di questo pezzo importante di ceto politico, la scelta voluta da Pci-Andreotti e Zaccagnini di non convocare il parlamento per lunghi mesi, tanto che nemmeno alla notizia della morte di Moro si aprì una discussione per il timore fondato che un dibattito alla Camere, dando voce ai dissenzienti che chiedevano di trattare, avrebbe scatenato una inevitabile crisi di governo sfaldando il fragile patto consociativo. Solo la pubblicazione del memoriale difensivo di Moro, il testo dattiloscritto trovato dopo l’irruzione dei carabinieri di Dalla Chiesa nella base Br di via Montenevoso, costrinse il parlamento, ben cinque mesi dopo la morte del leader Dc, a discutere del rapimento e della sua morte. Si evoca Gelli per coprire Berlinguer che marcava a uomo Zaccagnini, ricondotto immediatamente all’ovile dopo il suo improvviso incontro con Craxi che aveva rotto il fronte della fermezza. Forse perché si vuole far dimenticare l’intimidazione del cugino Cossiga, quando iniziò a circolare l’idea di una possibile mediazione della Croce rossa o l’interrogatorio simil-poliziesco che Berlinguer fece a Craxi per conoscere le fonti che lo avevano portato a ritenere possibile una trattativa. Per i maggiori dirigenti del Pci Moro era morto il giorno dell’arrivo della sua prima lettera a Cossiga e venne seppellito quando arrivò la missiva contro Taviani. Si convoca la P2 per nascondere le parole ciniche pronunciate contro Moro durante le Direzioni del Pci o il biglietto di Tatò a Berlinguer, «Se […] aderissimo al principio della trattativa per salvare la vita fisica di Moro, in realtà (e senza alcuna garanzia di riaverlo vivo) faremmo credere che anche noi siamo interessati a che Moro mantenga i suoi segreti: avvaloreremmo […] la difesa dello Stato e di una Dc che vogliono tenere nascosti i loro misfatti». La morte di Moro serviva a mantenere intatta la purezza del Pci. Agitare le trame aiuta a dimenticare il viaggio di Napolitano negli Stati Uniti nei giorni del sequestro e l’ignavia dei dirigenti democristiani di fronte alle richieste del loro presidente, senza dimenticare la mancate dichiarazioni di Fanfani promesse all’esecutivo brigatista e che fecero precipitare la sorte di Moro. Invece di parlare con i morti, Sandra Bonsanti avrebbe fatto bene a ricordare le pagine del suo giornale uscite durante il sequestro, gli attacchi contro le colombe con gli artigli o l’invenzione delle torture inflitte il prigioniero, argomento sollevato per non dare credito alle parole di Moro che oggi sappiamo esser vere. Dovrebbe spiegare gli editoriali di Scalfari, compreso quello in cui si affermava che la salvaguardia dello Stato valeva la morte di un uomo. La vendetta è un piatto freddo e il direttore di Repubblica fece pagare a Moro gli omissis sulle carte del piano Solo che lo avevano portato in tribunale. Se dietro tutto ciò c’era un burattinaio, come Bonsanti e la Limiti si ostinano a dirci, e non le scelte dichiarate e le condotte palesi di un sistema politico arroccato su se stesso, allora bisogna riconoscere che gli esponenti del partito della fermezza furono delle marionette tirate per i fili, Bonsanti compresa.
Esce in Germania il libro più completo sulle lotte operaie a Mirafiori tra ’62 e ’73, scritto dallo storico Dietmar Lange. La recensione di Sergio Bologna
Sergio Bologna, il manifesto 21 aprile 2021
È uscito in Germania presso il grande e prestigioso gruppo editoriale Vandenhoeck & Ruprecht il libro di Dietmar Lange, Aufstand in der Fabrik. Arbeitsverhältnisse und Arbeitskämpfe bei Fiat Mirafiori 1962 bis 1973 (Rivolta in fabbrica. Condizione operaia e lotte operaie alla Fiat Mirafiori 1962-1973), pp. 421, euro 63. Messo a paragone con le numerose rievocazioni di quella stagione che la ricorrenza dell’autunno caldo ha stimolato prima e dopo la pandemia, il lavoro di Lange mostra un respiro storico che nulla ha a che vedere con l’«aria di famiglia» che traspira dalla produzione pubblicistica italiana. Lange colloca la vicenda Fiat in un quadro che la iscrive nelle «onde lunghe» dei cicli di lotta che partono dalla Comune di Parigi e, attraverso i moti rivoluzionari del 1917-23, giungono agli anni Sessanta del secolo scorso. Sembra di avvertire qui la lezione di Marcel van den Linden e della sua Global Labour History, che se da un lato ha cercato di rovesciare l’eurocentrismo della storia del lavoro come l’abbiamo praticata durante tutto il Novecento, dall’altro lato ci ha messo in guardia da un eccessivo uso della microstoria nell’analisi delle lotte dei lavoratori, spingendoci a innalzare lo sguardo sui grandi snodi della storia mondiale. Per altro verso Lange si richiama esplicitamente al Labour Process Debate lanciato da Harry Bravermann agli inizi degli anni Settanta, che sollecitò gli storici ad occuparsi del controllo sociale sulla forza lavoro esercitato attraverso dinamiche e strumenti ben diversi da quelli dell’ingegneria taylorista in fabbrica. Un controllo che provoca nella classe operaia una reazione alla stessa altezza e che i sociologi tedeschi chiamarono di proletarische Öffentlichkeit o di Gegen-Öffentlichkeit.
Da questo intinerario metodologico Lange arriva all’operaismo italiano, del tutto correttamente, a nostro avviso, perché il punto di contatto è rappresentato proprio da quella netta distinzione tra la sfera della «composizione tecnica di classe» e la sfera della «composizione politica di classe». L’operaismo non aveva mai concepito un «dentro» e un «fuori» la fabbrica, come due spazi fisici dove all’interno del primo si lottava per il salario e l’orario e all’interno del secondo per la casa, i trasporti, la scuola, l’informazione ecc. (le cosiddette «lotte per le riforme» post-69). Le due sfere erano concepite come due gradi di maturità antagonista, quindi come un percorso lungo il quale la forma della cooperazione nella e per la produzione si rovescia in forma di conflitto collettivo. Le prime diciotto pagine in cui l’autore si sofferma su questi aspetti metodologici meritano una particolare attenzione perché identificano chiaramente un punto di vista molto diverso da quello di molta letteratura e memorialistica italiana sulla vicenda Fiat, prigioniera certe volte di una visione «localistica», pur con la forte passione politica della scrittura. Lange colloca la vicenda Fiat al centro di quella «frattura strutturale» (Strukturbruch) verificatasi nella società capitalistica, che noi abbiamo chiamato «passaggio dal fordismo al postfordismo». L’anno in cui questa frattura ha cominciato ad apparire in tutta la sua dimensione planetaria è il 1973, più precisamente ottobre 1973 con lo scoppio della «crisi petrolifera». Ma è anche l’anno in cui il ciclo che si era aperto agli inizi degli anni Sessanta ed era culminato nell’autunno caldo comincia una discesa non lineare, anzi, costellata di sussulti e di riposizionamenti strategici (si pensi al movimento del ’77), prima della sconfitta bruciante dell’ottobre 1980 proprio alla Fiat. E qui si pone un altro problema di carattere metodologico. Un problema di periodizzazione. Quando e dove inizia il ciclo? Alla Fiat sicuramente nel 1962 e quindi Lange ha fatto benissimo a iniziare la sua narrazione da lì, riprendendo la periodizzazione classica dei Quaderni Rossi. Se fosse partito dal 1967 avrebbe probabilmente commesso lo stesso errore in cui sono incorsi molti di noi attribuendo funzione di «detonatore» alle lotte studentesche.
Ma oggi sappiamo cheche non è corretto isolare Torino dal resto d’Italia e Lange, se proprio avesse voluto mantenere estrema coerenza alla sua posizione, non avrebbe dovuto ignorarlo. Lo scontro alla Fiat che si sarebbe concluso nell’ottobre 1980 non s’identifica con il grande ciclo, perché la data d’inizio di quel ciclo è il 1960, Milano, sciopero dei 70 mila elettromeccanici, una lotta «che resiste un minuto più del padrone» per quasi un anno e vince. Questo vizio «torinocentrico» che ci siamo portati dietro per decenni evidentemente è contagioso. Lange trova nella produzione storiografica che lo ha preceduto un’insufficiente capacità di cogliere tutta la complessità delle interrelazioni tra sfera dello sviluppo economico, sfera dei mutamenti tecnologici, comportamenti soggettivi di classe, rappresentanza sindacale e configurazione del sociale e dichiara che il suo intento è stato proprio quello di affrontare di petto questa complessità nello sforzo di realizzarne una sintesi. Se ci sia riuscito o meno dovremmo poterlo giudicare analizzando in dettaglio i vari capitoli del libro, compito che richiederebbe uno spazio ben maggiore di questa che non è una recensione ma una semplice segnalazione. Ci limitiamo pertanto a elencare gli argomenti dei diversi capitoli: l’Italia del miracolo economico, la formazione di un pensiero della «nuova sinistra», l’epoca della catena di montaggio, piazza Statuto e le sue conseguenze, l’ombra della congiuntura (1963-66), il «maggio strisciante» alla Fiat, crisi e mutamento nell’Italia inizi anni Settanta, un nuovo modello di gestione alla Fiat, la stagione contrattuale del 1972/73. I capitoli dedicati al nuovo modello di gestione costituiscono la sezione più corposa del volume e riguardano il confronto classe-direzione di fabbrica sull’organizzazione del lavoro, sui cottimi, l’inquadramento unico, i ritmi, il potere dei capi, la fase cioè in cui l’egualitarismo dell’autunno caldo si deve tradurre in articolazione di reparto, contestando l’ingegneria taylorista. È qui che Lange dà maggiore spazio al ruolo della sinistra radicale, in particolare a Lotta Continua e al potere d’interdizione che un solo reparto chiave (ad esempio, la verniciatura) può esercitare sull’intero flusso produttivo.
Nella ventina di pagine di Zusammenfassung Lange cambia completamente tono e punto di vista rispetto alle pagine introduttive sulla metodologia. La lunga narrazione precedente lo ha costretto a rimettersi sul terreno della microstoria, dell’indagine sociologica, dell’ascolto della soggettività operaia. È un riconoscimento che i limiti da lui individuati all’inizio nella storiografia che lo ha preceduto non sono limiti della visione d’insieme ma il portato di una «parzialità» che la storiografia militante ha sempre rivendicato. Gli va riconosciuto comunque non solo di aver lavorato su gran parte delle fonti primarie disponibili ma di aver mantenuto un grande equilibrio nel giudizio sul ruolo di determinati attori, per esempio sul ruolo della sinistra radicale, che non ha certo esercitato una leadership ma sicuramente ha avuto un ruolo importante nel mettere in comunicazione i diversi segmenti della classe operaia Fiat oltre ad aver saputo certe volte interpretare la soggettività degli operai comuni (scritto sempre in italiano e in corsivo nel testo) meglio del sindacato. A questo proposito va notato che avrebbe potuto andare più in profondità sulla differenziazione di atteggiamenti e di pratica tra militanti Fiom e Fim di fabbrica e apparati di partito e di sindacato. Ma questo non inficia un valutazione molto positiva del lavoro svolto da Lange, in effetti un libro così completo mancava, la vicenda Fiat con questa ricerca entra nella «grande storia». Un solo dubbio va sollevato. Acquisterebbe una valenza del tutto diversa la vicenda Fiat, se non la esaminassimo isolatamente ma nel contesto generale della conflittualità operaia in Italia, se accanto a Torino mettessimo Genova, Milano e la Lombardia, il Veneto, Napoli e via via i tanti territori dove l’antagonismo operaio si è manifestato nella sua interezza. Forse verrebbe esaltata la sua esemplarità ma forse verrebbe anche relativizzato il suo ruolo.
Arrestato a Milano il 4 aprile del 1981, dopo una trappola tesa in realtà ad Enrico Fenzi da un ex detenuto divenuto informatore della polizia, Mario Moretti, 75 anni compiuti il 16 gennaio 2021, ha raggiunto il suo quarantesimo anno di esecuzione pena. E’ l’unico membro del nucleo storico e del comitato esecutivo delle Brigate rosse ad essere ancora in carcere, in regime di semilibertà, misura ottenuta nel 1997 e che ha visto in questi anni chiusure, riaperture, restrizioni. Una circostanza che da sola dovrebbe fare giustizia dell’accusa che da più parti gli viene mossa di essere stato un infiltrato all’interno delle Brigate rosse. Nel corso dei decenni trascorsi è stata costruita sulla sua persona una leggenda nera che lo rappresenta come una figura ambigua, un doppiogiochista che ha operato per conto di imprecisati Servizi segreti la cui nazionalità, o campo di appartenenza, varia di volta in volta secondo le opinioni e gli schieramenti dei suoi accusatori. Nonostante la presenza di una ricca pubblicistica e filmografia che lo rappresenta in questo modo, prove anche minime di queste affermazioni non ne esistono. Ma in questi casi non servono, basta il brusio di fondo, il gioco di specchi e di echi reciproci dove il rimbalzo delle parole dell’uno e dell’altro diventa fonte del vero. Una macchina del fango a cui basta inchiodare la persona al sospetto, all’illazione, alla congettura.
Le diffamazioni del «Mega» A puntare il dito contro di lui, trasformando la dialettica politica, la diversità di punti vista sul modo di fare la lotta armata in attacchi alla purezza e integrità politica personale, sono stati all’inizio due suoi ex compagni. Alberto Franceschini e Giorgio Semeria, membri del nucleo storico delle Br, con grande disinvoltura gli attribuirono la responsabilità dei loro arresti chiedendo agli altri membri dell’Esecutivo esterno di aprire un’inchiesta nei suoi confronti. Indagine che venne svolta con molta discrezione da Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, i quali coinvolsero Rocco Micaletto e Raffaele Fiore1. L’accurata verifica appurò l’infondatezza dei sospetti. I due dirigenti reggiani delle Br risposero che nulla di irregolare era emerso sulla condotta di Moretti. Ma la cosa non finì lì, il sospetto, divenuto un rovello ossessivo fino a sfociare in un delirio paranoico, lavorò nella testa di Franceschini e Semeria: durante la stagione delle torture e dei pestaggi praticati dalle forze di polizia sui militanti appena catturati, i due decretarono la caccia ai «traditori» ai quali erano state estorte dichiarazioni con l’uso della forza. In un clima di caccia alle streghe, dove le divergenze d’opinione, una diversa linea politica, il mancato allineamento alle tesi del «Mega», soprannome con cui Franceschini amava farsi chiamare con deferenza nelle carceri speciali, veniva immediatamente tacciata di «resa» al nemico, «tradimento» e «infamità», un piano inclinato che portò Semeria a macchiarsi dell’omicidio di Giorgio Soldati. Proveniente da Prima Linea, gruppo ormai in dissoluzione, il 12 novembre 1981 Soldati venne catturato insieme a Nando Della Corte all’interno della stazione centrale di Milano dopo un conflitto a fuoco nel quale trovò la morte un poliziotto. I due stavano allacciando rapporti con il Partito Guerriglia, formazione distaccatasi dalle Br e che dal carcere Franceschini e Semeria avevano sponsorizzato per sabotare la gestione politica delle Br incarnata proprio da Moretti. In questura, dopo un interrogatorio violento, Della Corte cominciò a collaborare, mentre a Soldati vennero estorte solo delle dichiarazioni. Giunto nel carcere di Cuneo, Franceschini e Semeria lo processarono. Abbagliati da un’allucinatoria fuga dalla realtà ritenevano che le ammissioni rese non erano parole estorte con la forza ma la prova di una resa politica, un segno di imborghesimento, un tradimento della causa.
L’arrivo del bugiardo di Stato Terminati gli anni del furore purificatorio e clamorosamente sconfitta, tra pentimenti e torture, l’esperienza del Partito Guerriglia su cui avevano scommesso tutte le loro carte, Franceschini e Semeria si avviarono sulla strada della dissociazione. Questa nuova postura tuttavia non ha modificato il loro male di vivere, l’impasto di risentimento e frustrazione che li ha spinti, nel più classico dei transfert, ad esportare sugli altri responsabilità e fallimenti personali. Ne approfittarono per acquisire vantaggi premiali in cambio di una narrazione della loro esperienza militante subordinata agli interessi di apparati politici che fuori dal carcere li accolsero a braccia aperte. Alle abituali sentenze di morte sostituirono l’arma raffinata della diffamazione che trovava nel senatore Sergio Flamigni (Pci-Pds e successivi) un abile divulgatore. Più volte membro delle diverse commissioni parlamentari che hanno indagato sulla vicenda Moro, Il suo volume, La sfinge delle Brigate rosse. Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario Moretti, scritto per le edizioni Kaos nel 2004, raccoglie, rielabora e amplifica sotto forma di biografia nera le congetture di Franceschini contro Moretti. Quella di Flamigni è un’ossessione dichiarata, un «fatto personale», come scrive in appendice al suo volume, ma anche redditizia sul piano della notorietà e della carriera politico-parlamentare, con relativi benefit annessi. Pierluigi Zuffada, un brigatista della prima ora, formatosi all’interno della Sit-Siemens, spiega così il ritorno all’ovile di Franceschini: «Grazie al Pci di allora ha trovato una collocazione sociale e lavorativa in seguito alla sua dissociazione. Ma per portare acqua al suo mulino, Franceschini sa bene che doveva dare qualcosa in più. E il “qualcosa in più” fa parte proprio della sua personalità: lui si considerava il più intelligente e … il più furbo, proprio così. E conoscendo i suoi polli, sapendo che la sola dissociazione non era poi la carta definitiva da giocare, ecco che trova la via maestra da percorrere tutta, insieme a Flamigni e soci: grazie alla veste politica e culturale del “redento”, inizia a suggerire argomenti che sicuramente avrebbero fatto presa nei suoi interlocutori, a rafforzare cioè la ricerca e di chi sta dietro alle “sedicenti”, o “cosidette” Brigate Rosse. La risposta per Franceschini è semplice: ma sicuramente Moretti. Poiché è difficile sostenere che Moretti sia al servizio del Kgb o della Cia, Franceschini insistere su una presunta ambiguità del “capo”, lasciando poi ai suoi interlocutori/padroni il compito di ricamarci a dovere, cosa di cui sono veramente abili»2.
Il percorso politico-sindacale di Moretti Nato a porto San Giorgio nelle Marche, orfano minorenne di padre in una famiglia con altri tre figli e una madre in difficoltà per crescerli, Moretti frequenta un convitto di salesiani a Fermo dove termina gli studi per raggiungere Milano grazie all’interessamento della marchesa Casati, sollecitata da una sua zia che aveva una portineria in un palazzo milanese della nobildonna. Questa vita di provincia è dipinta da Flamigni con toni foschi, Moretti viene descritto come un predestinato, un giovane «di destra» cresciuto in un «humus clericale» che dovrà infiltrare la sinistra (sic!), solo perché arriva alla politica e alla militanza rivoluzionaria a 22 anni, nella Milano del 1968-69, come tanti suoi coetanei. Anche il passaggio all’università Cattolica, l’unica che consentiva in quegli anni di frequentare corsi serali ad uno studente lavoratore come Moretti, che con il suo stipendio sostiene l’anziana madre e i tre fratelli, diviene la prova della sua ambiguità culturale, anche se in quella università con l’occupazione del novembre 1967 si manifestò uno degli eventi anticipatori della rivolta del 1968. In quella stessa università fece i suoi studi anche Nilde Jotti, ma a quanto pare per lei la regola di Flamigni non vale. Nemmeno la formazione politico-sindacale all’interno della Sit-Siemens, azienda che impiegava alla catena di montaggio tecnici diplomati come il giovane Moretti, placa il pregiudizio di Flamigni3. Anche il ruolo d’avanguardia nelle lotte all’interno della fabbrica, insieme a Gaio Di Silvestro e Ivano Prati, e che porta alla nascita del Gruppo di studio impiegati, contemporaneo alla formazione del primo Cub Pirelli, che poi si trasformerà nel Gruppo di studio operai-impiegati, «esperimento – racconterà lo stesso Moretti – di organizzazione autonoma dei lavoratori in fabbrica, tra il sindacato e la politica, tra la critica al modo di produzione capitalistico e il sogno di una progettualità democratica, rivoluzionaria»4, è per Flamigni motivo di maldicenza, ottusa dimostrazione della inadeguatezza culturale di un funzionario del Pci di fronte a quel che avveniva nelle fabbriche di quegli anni.
Gli arresti di Pinerolo Ispirato dalle accuse di Franceschini, Flamigni rincara la dose attribuendo a Moretti responsabilità dirette nel primo arresto di Curcio e dello stesso Franceschini 5. Ma a smentire i due sono le stesse parole di Curcio e quelle di Pierluigi Zuffada. Alberto Franceschini sa perfettamente di essere il primo responsabile della propria cattura. Non doveva trovarsi a Pinerolo con Curcio e Moretti nemmeno sapeva della sua presenza all’appuntamento con “Frate Mitra”, glielo dirà Mara Cagol dopo il disperato tentativo di intercettare i due lungo la strada per Pinerolo. I tre si erano visti a Parma il sabato 7 settembre 1974, dove c’era un appartamento in cui si tenevano gli incontri del «Nazionale». Era definita così, in quella fase in cui non esisteva ancora un Esecutivo formalizzato, la sede di coordinamento tra le varie colonne. A Milano operava Moretti, a Torino Margherita Cagol e Curcio, Franceschini era sceso a Roma con altri membri del gruppo, Bonavita e Pelli. Terminata la riunione nel tardo pomeriggio, Moretti rientra a Milano. Sa che Curcio il giorno successivo dovrà rivedere per la terza volta Girotto a Pinerolo. Lo raggiungerà direttamente da Parma dove resterà a dormire mentre Franceschini sarebbe rientrato a Roma. In realtà, mutando i programmi stabiliti, Franceschini non va a Roma ma accompagna Curcio a Torino. I due poi la domenica partono per Pinerolo. Il venerdì sera era arrivata una telefonata ad Enrico Levati, un medico del gruppo di Borgomanero, vicino Novara, che aveva contatti periferici con le Br. Nella telefonata un anonimo diceva che la domenica successiva Renato Curcio sarebbe stato arrestato all’appuntamento con Girotto. Levati raggiunse Milano ma ebbe grosse difficoltà per riuscire a trovare il contatto giusto negli ambienti delle fabbriche milanesi e far pervenire l’informazione. Quando questa arrivò alle Br, Moretti aveva già lasciato Milano per Parma. Al suo rientro trovò ad attenderlo con la notizia Attilio Casaletti, membro della colonna milanese. Sicuro di trovare ancora Curcio, Moretti fece ritorno a Parma dove arrivò intorno alle 22 insieme a Casaletti, ma non trovò nessuno nella base. A questo punto, racconta Curcio, «Moretti tenta di rintracciarmi nella mia casa di Torino, dove era venuto una volta, ma non ricorda l’indirizzo e neppure sa come fare ad arrivarci. Allora prova a ripescare Margherita, che doveva trovarsi in un’altra casa, ma anche lei era appena partita per non so dove. Come ultima possibilità convoca, in piena notte di sabato, un gruppo di compagni di Milano e gli dice di creare dei “posti di blocco” sulle strade tra Torino e Pinerolo»6. Tentativo che Moretti racconta in questo modo: «andiamo sulla strada per Pinerolo, separandoci sui due percorsi che portano a quella cittadina, e ci mettiamo nel bordo sperando che Curcio ci noti mentre passa»7. Zuffada aggiunge altri dettagli: «i compagni partano per l’Astigiano per avvisare Mara, che conosce l’abitazione di Renato, ma non la trovano. Pensano che sia a Torino a casa di Renato, per cui da lì vanno a Torino per cercarli, sperando che un contatto del luogo potesse conoscere l’abitazione di Renato. Non trovano il contatto, e in quel momento Mario e i due compagni prendono una decisione folle, anche perché era arrivata la mattina: vanno sul luogo dell’appuntamento a Pinerolo nella speranza di avvisare Renato prima dell’incontro con Girotto, rischiando di cadere anch’essi nella trappola. Pensavano che ad accompagnarlo fosse Mara, non certo che Franceschini fosse presente all’appuntamento. Si accorgono di una situazione strana, nel senso che il luogo pullula di agenti in borghese. La trappola era già scattata, i compagni riescono a svignarsela»8. Conclude Curcio, «Moretti non sapeva che non avevo viaggiato sulle strade statali, ma su strade bianche e percorsi miei che non rivelavo a nessuno. Dunque tutti i tentativi di raggiungermi vanno a vuoto»9. Zuffada e Moretti, smentendo Flamigni, sostengono che sulla figura di Girotto, a parte Curcio, ci fosse nel gruppo una perplessità generale, in particolare della Cagol. Secondo i piani di Curcio, l’ex frate avrebbe dovuto essere inserito nel fronte logistico in costituzione. Diffidenza rimasta anche dopo il secondo incontro a cui partecipò lo stesso Moretti (presidiato da un folto gruppo di brigatisti che controllavano la zona in armi, dissuadendo così le forze di Dalla Chiesa dall’intervenire). L’arruolamento programmato di Girotto derogava una regola ferrea, spiegherà successivamente Moretti: «nelle Br si arriva dopo una militanza nel movimento, sperimentata e verificata. Per Girotto non poteva essere così. Decidemmo almeno di essere rigidissimi sulla compartimentazione. Stabilimmo che avrebbe lavorato solo con Curcio in una struttura periferica, alla cascina Spiotta»10. Sulle successive recriminazioni di Franceschini, Zuffada fornisce alcune chiavi di lettura interessanti: «A partire dalla liberazione di Renato [nel carcere di Casale Monferrato, Ndr], Franceschini ha iniziato a imputare a Mario di non essere andato a liberarlo: la sua “visione” su Moretti è stata rafforzata dall’aver preferito Renato a lui. Non poteva prendersela con Mara, conoscendo bene come era fatta: lei non gliela avrebbe mai fatta passare. Si può dire che Franceschini abbia tratto un vantaggio dalla morte di Mara, nel senso che si è trovato un testimone in meno per contrastare la sua versione»11. Sul valore delle recriminazioni di Franceschini contro Moretti per la sua mancata evasione, Lauro Azzolini fornisce ulteriori dettagli: «Dopo la liberazione di Renato non è vero che l’Organizzazione non provò a liberare il Franceschini, anzi. Avvenne nel vecchio carcere di Cuneo; Franceschini lì era recluso e sapeva che l’Organizzazione aveva stabilito con lui la sua liberazione in altra modalità di quella di Casale. Pronto il nucleo, con Mara, e lui che pur armato fa tali errori da venire bloccato prima dell’intervento esterno. Col rischio di far pure catturare i compagni che erano pronti a “portarlo a casa”»12.
Il secondo arresto di Curcio, la trappola contro Semeria e il delatore interno alla colonna veneta Alcuni documenti recentemente desecretati e la testimonianza del giudice Carlo Mastelloni hanno permesso di ricostruire i retroscena che portarono al secondo arresto di Curcio nella base di via Maderno a Milano, il 18 gennaio del 1976, insieme a Nadia Mantovani, all’arresto nella stessa operazione di Angelo Basone, Vincenzo Guagliardo e di Silvia Rossi, moglie di quest’ultimo che però era estranea al gruppo. Le stesse fonti hanno permesso di ricostruire anche il nome di chi portò alla trappola tesa a Giorgio Semeria due mesi dopo, il 22 marzo 1976, sulla pensilina del rapido Venezia-Torino nella stazione centrale di Milano. Semeria provò a scendere dal treno ancora in movimento ma venne catturato e colpito al torace dal brigadiere Atzori quando era già stato immobilizzato. Il tentativo di omicidio nei suoi confronti spinse Semeria, allora responsabile del logistico nella colonna milanese, a ritenere che lo si volesse uccidere per coprire l’infiltrato che lo aveva venduto. In carcere, rimuginando insieme a Franceschini sulle circostanze dell’arresto, non trovò di meglio che indirizzare i sospetti contro Moretti, con il quale avrebbe dovuto incontrarsi il giorno successivo, chiedendo all’esecutivo di indagare su di lui. Accuse riprese da Flamigni nella sua monografia dedicata a Moretti13. Il delatore era, in realtà, un operaio veneto presente nella colonna fin dai suoi inizi e che lo aveva accompagnato alla stazione di Mestre, dove Semeria si era recato per rimettere in piedi la struttura locale. Secondo quanto riferito dal giudice Carlo Mastelloni nel suo libro Cuore di Stato, Semeria una volta in carcere fu avvertito dei sospetti che pesavano sull’operaio: due militanti veneti, Galati e Fasoli, che stavano per uscire dal carcere per scadenza dei termini di custodia cautelare, gli chiesero «di poter fare gli accertamenti del caso e colpire il presunto traditore». Semeria si oppose convinto che semmai l’operaio avesse avuto un ruolo, questi faceva parte di una rete di infiltrati che faceva capo a Moretti14. L’operaio venne arrestato da Mastelloni nel corso delle indagini sulla colonna veneta, «Ricordo – scrive Mastelloni – che qualche giorno dopo si precipitò nel mio ufficio per ottenere informazioni il colonnello Bottallo, capocentro a Padova del Sismi, già appartenente al vecchio Sid». Subito dopo questo intervento l’uomo venne rimesso in libertà15. In un appunto del generale Paolo Scriccia, consulente della Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, si può leggere che l’11 maggio 1993, nel corso di un esame testimoniale condotto dai pubblici ministeri romani Ionta e Salvi, il generale Nicolò Bozzo, collaboratore per il centro-nord del generale Dalla Chiesa, rivelò il nome di questo confidente: «ho notizia di un altro infiltrato nelle Brigate rosse e specificatamente di questo Tovo Maurizio che portò alla cattura di Curcio nel 1976 unitamente a Semeria Giorgio, Nadia Mantovani e Basone Angelo». Sempre nello stesso appunto troviamo un’altra testimonianza resa in commissione Stragi, il 21 gennaio del 1998, dove il generale Bozzo precisa: «noi abbiamo avuto un infiltrato, un certo Tovo Maurizio di Padova, nel 1975/1976. Questo Tovo Maurizio, Tovo o Lovo – io non l’ho mai visto e non ricordo bene – era una fonte del centro Sid di Padova. Il Sid, nella persona del generale Romeo. […] Seguendo questo soggetto siamo arrivati alla Mantovani, seguendo la Mantovani siamo arrivati al covo di via Maderno numero 10 [5 Ndr], dove la sera del 18 gennaio 1976 c’è stata un’irruzione, un conflitto a fuoco. Ferito Curcio e ferito gravemente il vicebrigadiere Prati. Sono stati catturati in due, Curcio e Mantovani. Da allora sono cessati gli infiltrati»16. In altri documenti dell’Aise, citati da Scriccia, si legge che l’infiltrato era indicato come fonte «Frillo». Nel l’ottobre 1990, sempre il generale Bozzo aveva rivelato in un altro interrogatorio che per quanto riguarda il Nord, i Carabinieri avevano avuto nel corso di tutta la loro attività di contrasto alle Brigate rosse, «solo tre infiltrati, tutti interni o fiancheggiatori, nessuno dei quali militare». Questi erano: «Silvano Girotto, nonché altri due, uno di Padova e uno della zona di Torino, i cui nomi sono noti ai magistrati che si interessarono delle relative vicende». Fonti – aggiunge Bozzo – che hanno collaborato «nell’anno 1974 (Girotto), nell’anno 1975/76 (quello di Padova) e nel 1979/80 (quello di Torino)». In realtà a Girotto non venne dato il tempo di infiltrarsi ma fu impiegato unicamente come esca. Dell’infiltrato torinese, parla invece il giudice Mastelloni nel suo libro: si trattava anche qui di un operaio della Fiat proveniente dal Pci che nel dicembre 1980 fece arrestare Nadia Ponti e Vincenzo Guagliardo, tornati a Torino per riorganizzare la colonna distrutta dalla collaborazione di Peci con i carabinieri di Dalla Chiesa. Contattato dalla staff di Dalla Chiesa – scrive Mastelloni – «l’uomo si accordò con i militari dietro promessa di un forte compenso economico per consegnare i due militanti clandestini, puntualmente bloccati all’interno di un bar del centro»17.
Note 1. Testimonianza di Lauro Azzolini all’autore in data 12 aprile 2021, «Dopo le insistenze da parte di alcuni che erano incarcerati di porre attenzione al compagno Mario, anche Micaletto venne coinvolto, insieme ad altro compagno che ritenevamo di provata sicurezza, Fiore. In quei mesi Mario mostrò tutto il suo altruismo e solidarietà di comunista partecipando attivamente alle necessità della Organizzazione, come, in prima persona nel combattimento, col rischio della propria vita, per porre in salvo e cure a compagni feriti…e non solo. Per cui dopo mesi di “freno delle attività” dovute a tale voluta depistante inchiesta alla quale dammo risultanze concrete, riprendemmo a porre in essere il percorso strategico di costruzione offensiva della Organizzazione». 2. Pierluigi Zuffada, Le bugie di Alberto Franceschini, https://insorgenze.net/2020/08/03/le-bugie-di-alberto-franceschini/, 3 agosto 2020. 3. Sergio Flamigni, La sfinge delle Brigate rosse, Kaos 2004, pp. 7-32. 4.Mario Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, prima edizione Anabasi p. 7. 5.Sergio Flamigni, Idem, pp. 138-142. 6. Renato Curcio, A viso aperto, Mondadori 1993, p. 103-104. 7. M. Moretti, Idem, p. 76. 8.Pierluigi Zuffada, Idem, 3 agosto 2020. 9. R. Curcio, Idem, p. 104. 10. M. Moretti, Idem, p. 73-74. 11. Pierluigi Zuffada, Idem, 3 agosto 2020: «La liberazione è stata decisa dall’Esecutivo dell’organizzazione all’interno di un programma per la liberazione dei compagni dalle galere. L’inchiesta ha portato a scegliere il carcere di Casale Monferrato come primo obiettivo, e tale scelta è stata imposta dalle allora capacità operative dell’Organizzazione, soprattutto dall’inesperienza nell’assaltare un carcere. Nella decisione di scegliere Casale hanno pesato soprattutto le argomentazioni di “Mara” Cagol. In contemporanea era stata fatta un’inchiesta sul carcere di Saluzzo, dove Franceschini era recluso, e addirittura in seguito al suo trasferimento a Pianosa, Moretti ha portato avanti inchieste per pianificare un’evasione da Pianosa. Da notare che Franceschini si è fatto beccare sul tetto di quel carcere durante una ricognizione per scappare, vanificando di fatto tutto il progetto di fuga. Se non ricordo male, né lui, né i suoi compagni di cella sono mai stati incriminati per tentata evasione, o danneggiamento delle sbarre della finestra. Ma ritornando a Casale, nella fase di pianificazione dell’azione sono stati evidenziati errori “tecnici”, per il superamento di uno di questi io sono stato chiamato da Mario Moretti: una volta corretto, ho insistito per parteciparvi attivamente, e in seguito processato e condannato». 12. Testimonianza di Lauro Azzolini all’autore in data 12 aprile 2021 che aggiunge: «Chi ha combattuto e vissuto con Mario non ha dubbi alcuno. Per quanto riguarda la Storia della Organizzazione Br e le “rotture che ha subito”, non essendo stato io in accordo con tali posizioni date, penso che il Franceschini abbia dato un forte apporto perché ciò succedesse» 13. Sergio Flamigni, Idem, 162-164. 14.Carlo Mastelloni, Cuore di Stato, Mondadori 2017, p. 223. 15. Ibidem, p. 223. 16. CM Moro 2, Doc 799/3 del 2 novembre 2016, Appunto del generale Paolo Scriccia, declassificato il 2 febbraio 2018. 17. Carlo Mastelloni, Idem, pp. 103-104. 5
Mario Moretti fu arrestato il 4 aprile del 1981. Quindi sono 40 anni precisi precisi che dorme in galera da molto tempo semilibero ma comunque detenuto notturno. L’anniversario di quelle manette è l’ennesima occasione che il festival della dietrologia non si lascia scappare. Basta sentire le parole che Gennaro Acquaviva all’epoca del sequestro Moro capo della segreteria di Bettino Craxi ha consegnato in questi giorni a Walter Veltroni che sul Corriere della Sera ci prova sempre a rievocare “i misteri”. «Non so chi, non so come, ma sono certo che le Brigate Rosse sono state manovrate presentemente dal Kgb. L’infiltrazione sovietica nell’area della protesta violenta era evidente. Nel gruppo romano non lo so non credo, ma nelle Br in genere penso di sì. Bisognerebbe chiedere a Moretti». Eccoci, un esponente del partito della trattativa insieme a un erede del partito della fermezza per ribadire quello di cui negli atti processuali non si trova traccia. Ma a Mario Moretti tutti o quasi continuano a chiedere la verità quella che lui ha sempre detto a cominciare con il libro intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca che gli chiedevano in che modo lui reagisse al sospetto di ambiguità e trasversalità. «Ah, con molta serenità e molta tranquillità nel senso che io mi rendo conto che attraverso questa accusa si vuole colpire l’idea dell’autenticità delle Brigate Rosse. La tesi che siano state manovrate dall’esterno è una tesi cara a chi non può sopportare l’idea che in questo paese si siano svolti dei fatti, delle iniziative, si siano giocati dei progetti politici esterni ai giochi di palazzo. Queste illazioni non meritano alcuna considerazione» è la posizione di Moretti che finora nessuno è stato in grado di scalfire concretamente. Anche se la dietrologia non vuole demordere. Ci sono carriere politiche e giornalistiche costruite sui falsi misteri del caso Moro. Sempre in questi giorni il figlio del capo della scorta di Moro, Domenico Ricci, intervistato da Adnkronos è tornato a intimare a Moretti di “dire la verità”. Non resta che stare ai fatti. Nel caso Moretti avesse intrallazzato con servizi segreti e potenze straniere non dormirebbe ancora dopo 40 anni in una cella del carcere di Opera. Il paese anche dopo così tanto tempo rifiuta di fare i conti con quello che fu un fenomeno squisitamente politico perché evidentemente ha paura della propria storia. Al punto da non voler prendere atto che Moretti condannato a sei ergastoli ha pagato per le sue responsabilità e dovrebbe dopo quarant’anni essere scarcerato. Avrebbe pieno diritto alla liberazione condizionata che lui non chiede perché non vuole evidentemente relazionarsi con chi in pratica con la dietrologia gli nega identità politica. Sentirsi rivolgere sempre lo stesso sospetto per uno che sta dentro dal 1981 è se possibile peggio dei sei ergastoli che gli hanno dato i giudici. In libreria da pochi giorni c’è un saggio “Brigate Rosse: un diario politico” curato dalla ricercatrice Silvia De Bernardinis. Un rendiconto critico e autocritico della storia delle Br a opera di alcuni dirigenti e militanti. Ribadisce il saggio, che dietro le Br c’erano solo le Br.
Per me Roberto Silvi vuol dire l’esilio. L’ho conosciuto poche settimane dopo il mio arrivo a Parigi, quando ancora spaesato mi aggiravo per le vie di quella città. Roberto aveva appena deciso di rientrare in Italia. Rientrare voleva dire consegnarsi e finire in carcere. Da qualche anno aveva scoperto di avere una forma di Sla. Lui, che ogni mattina correva, aveva scoperto di avere un andamento instabile. L’ho salutato una sera d’autunno che stava ancora in piedi. Nonostante la diagnosi e la sedia a rotelle scontò per intero la condanna, piccola per fortuna, pochi anni per reato associativo. Gli chiesero ripetutamente di dissociarsi, il requisito per uscire non era lo stato di salute, la possibilità di avviare da subito cure adeguate che in carcere non erano possibili, ma la presa di distanza dal suo passato militante, lontano decenni. Declinò ogni offerta, come era suo stile. Eppure Roberto quel suo passato lo aveva lungamente rielaborato approdando su posizioni radicalmente nonviolente. Ma le sue nuove convinzioni in nessun modo potevano divenire merce di scambio. Dopo il carcere fece alcuni viaggi per il mondo nel tentativo di capire qualcosa di più della sua malattia. Soggiornò nella sua amata Napoli ma alla fine ritornò a Parigi. Era quello il suo posto, tra noi fuoriusciti, latitanti, sanspapiers, senza tetto ne legge, senza capo ne coda, un mondo di sospesi. Non te la togli di dosso quella identità, resti sempre a mezz’aria, con «le radici all’insù» come ci disse una donna senegalese che occupava insieme ad altre donne della sua terra una piazza parigina per rivendicare papiers, dignità, diritti, la vita. Eravamo e restiamo così, con le radici rivolte verso quel cielo che provammo un tempo a conquistare. Roberto era tornato, vederlo scendere con le stampelle dalla macchina di un compagno ci raggelò il sangue. La malattia era avanzata ancora. Tornammo a frequentarci, a litigare di nonviolenza, a stare insieme. Poi Roberto stregò una nostra amica, nacque una lunga storia mentre cominciò a bloccarsi sempre più. Lasciate le stampelle era ormai stabilmente in sedia. Cominciammo a prenderci cura di lui, eravamo caregiver senza saperlo, un giorno a settimana a turno. Quando lei andava al liceo per tenere i suoi corsi di filosofia, andavamo al mattino per alzarlo dal letto, aiutarlo ad andare in bagno, vestirlo, preparargli la colazione. Non dimentico quella mattina che arrivai davanti alla casa di Belleville, sul piano strada, era una vecchia bottega, e non potetti entrare perché avevo dimenticato le chiavi, mentre Roberto era bloccato al letto ed io che imprecavo contro la mia sbadataggine. Roberto fu il primo che si accorse della mia cattura e diede l’allarme la mattina del 25 agosto di qualche anno dopo. Ma ero già in Italia in quel momento. Dopo una folle corsa nella notte, all’alba mi avevano consegnato all’uscita del tunnel del Monte Bianco. Sono passati altri anni, nel frattempo la sua malattia avanzava inesorabile. Janie, la sua cara compagna, lo riportò a Napoli. Ho fatto appena in tempo a risentire la sua voce, un soffio di vita leggero, nel mio primo permesso all’inizio del 2008, poi ci ha lasciato
Roberto Silvi, nasce il 31 maggio del 1952 a Napoli dove vive fino al 1977. Consegue il diploma di perito chimico presso l’Istituto Tecnico Leonardo da Vinci e si iscrive alla Facoltà di Scienze presso l’Università Federico II, ma interrompe gli studi al terzo anno a causa del suo crescente impegno nell’attività politica. Si trasferisce a Milano nel 1977 e vi resta fino al 1982. Per sfuggire ai procedimenti giudiziari a suo carico dovuti al suo coinvolgimento nel ciclo della lotta armata, si rifugia in Francia, dove rimane dall’ ’82 al ’92. A Parigi riprende gli studi, insegna Italiano e studia Letteratura e Linguistica Comparata di italiano e francese. Dopo l’insorgere di una paralisi progressiva, malattia mai precisamente diagnosticata, rientra in Italia nel ’92 per scontare la sua pena detentiva (tre anni) rimanendo in carcere un’anno e mezzo e scontando l’altra metà come lavoro esterno a causa del suo stato di salute. In seguito divide il suo tempo tra Napoli e Parigi dove si trasferisce definitivamente nel 2000. Traduce il libro di psico-meccanica del linguaggio di Gustave Guillaume Principi di linguistica teorica, Liguori, Napoli, 2000. Con Cecilia Calvi scrive il testo drammaturgico Le ragioni dell’altro, Colibri, 2004. Muore a Parigi il 1 aprile del 2008. La scheda dell’autore pubblicata da Colibrì, la casa editrice del suo testo postumo “La memoria e l’oblio“, mi riporta alla memoria un particolare che avevo completamente rimosso: Roberto l’avevo conosciuto quasi 50 anni fa. Dal 1971, infatti, io giocavo a rugby nella squadra del suo istituto tecnico, il da Vinci, che dopo aver vinto una serie di campionati provinciali studenteschi aveva deciso di partecipare ai tornei federali. Il boss della squadra era mio padre, vicepreside della scuola. Roberto era uno dei pochi compagni in un istituto tecnico assolutamente marginale nell’onda di piena del movimento di quegli anni. E avevamo subito simpatizzato, perché aveva sin da giovane una cifra di distacco quasi aristocratico (il fisico elegante e slanciato lo aiutava sicuramente) e di autoironia implacabile che lo rendeva unico e irresistibile in un ambiente umano vitalissimo e appassionato ma anche caciarone e approssimativo. Negli anni seguenti ci incrociammo spesso per evidenti ragioni di prossimità politica: io militante dell’Autonomia nel centro storico, lui vicino al gruppo umano che da Lotta continua promosse l’esperienza dei Nap, amico del cuore di Nicola Pellecchia, ma anche legatissimo ad altri due compagni “morti giovani”: Sergio Romeo e Alberto Buonoconto. Il giornale contro il carcere a cui diede vita quando si trasferì a Milano “Senza galere” era uno strumento prezioso di controinformazione per noi impegnati nelle attività di solidarietà con i detenuti politici. Ci ritrovammo dieci anno dopo a Parigi, dove si era rifugiato per sfuggire ai mandati di cattura che lo avevano colpito per la militanza nei Pac. In quell’hub straordinario che era casa di Oreste, riconnessi dal comune impegno nella battaglia per l’amnistia. Fu quindi una scelta naturale per me essergli vicino quando lui decise che un passaggio decisivo nella lotta alla malattia che lo aveva colpito (una forma di sclerosi mai precisamente definita) era il chiudere i conti per il passato. Mentre era detenuto a Bellizzi Irpino ci vedevamo tutte le settimane, perché avevo accettato di fare volontariato in carcere e quindi assunsi l’incarico di redattore capo del giornale dei detenuti. Quando uscì, progressivamente, la frequentazione si diradò. Non reggevo emotivamente il procedere della malattia e lui, che aveva patito ben altri “cedimenti” umani, non me lo fece mai pesare. E fu decisamente contento quando mi vide comparire a una sua festa di compleanno, quando già si era trasferito a Parigi da qualche anno. Il mio è, in tutta evidenza, un ricordo puramente sentimentale e mi tocca quindi, per provare a restituire la ricchezza umana e politica di Roberto, qualche “traccia di lettura”
Le parole e la lotta armata: l’intervento al convegno del 1997 di Roberto Silvi è alle pagine 142 e 143 del volume curato da Primo Moroni e dedicato a “Storia vissuta e sinistra militante in Italia, Germania e Svizzera”. Se il link funziona lo potete leggere qui. Se no vi tocca cercarlo su Google books.
La recensione di Sandro Padula, la prefazione di Fred Vargas e la presentazione del convegno su “La memoria e l’oblio” di Antonio Piedimonte
Il saluto di Oreste
Il saluto finale tocca, ovviamente a Oreste, che, pas par hazard, era proprio a Napoli mentre Roberto si spegneva a Parigi. E’ poi toccato a Oreste e a Nicola Pellecchia l’ultimo commiato: la dispersione delle sue ceneri nelle acque di Procida.
Roberto “Roberto senza galere” questo il soprannome che si portava dietro da Napoli, dalle nebbie lombarde da immigrato…- è morto oggi per un ultimo sorriso tra le lacrime, verrebbe da dire che ha “tirato l’anima coi denti” per lasciarci un primo aprile, come tra il serio e il faceto, come lasciare un dubbio, tra realtà e simulazione. Sulla linea d’ombra, crinale di confine tra il vivere comunemente, corporalmente inteso era vissuto gli ultimi 25 anni. Un quarto di secolo, ça fait un bail, nu contratto `e locazione, quasi una vita-di-lavoro, cioè una semi-vita, attendendo il <<parco umano>> dei sopravvissuti, esuberi dal lavoro, che quando sono operai, o nemmeno, muoiono in fretta, che una derisoria “libertà-dal-lavoro”, uno scampolo residuo, una nostalgia di vita intera irrompe nei polmoni come l’aria dolorosa alla nascita e i polmoni dal lavorio salariato sono così avvelenati e “cirrotici” che possono morire di aria fresca, mitridatizzati dal lavoro coatto per forza di bisogno anche quando è giuridicamente “liberamente” cercato, trovato, il prezzo della forza che lo sprigiona, forza creatrice trasmuta in merce, è contrattato. Roberto, la vita gliela ha mangiata non già il ritmo lavoro / “tempolibero”, cioè scampoli di vita di risulta, (semi-vita affannata e ipotecata dall’ombra dell’altra mezza, come una voce ventriloqua o un fratello siamese crudele, come il controllore di ogni controllato, nell’incubo visionario e reale di Orwell)… Roberto, la vita gliela era andata mangiando un nome nosologico, nelle cartografie, nelle tassonomie, nomenclature di male di vivere ulteriore, a oltranza, definito “sclerosi multipla bilaterale”, o “amiotrofica”, o “a placche”. Aveva cominciato con l’incespicare, e poi la discesa per questi 25 anni era stata lenta, continua e, come sul dirsi, inesorabile. La resistenza di Roberto (e da poco dopo l’inizio di questo millennio, con le superstizioni progressiste, o il misto di superstizioni e realtà apocalittiche, che il sommarsi dell’effetto fin-de-siècle e passaggio di millennio propaga, quella “mostruosamente” simbiotica, a due, a noio, di Roberto&Jeanie, Rob&Jany ) era stata, appunto, “mostruosa”, nel senso proprio del monstrum mirabilis. Ancora dal 24 agosto dell’anno scorso fino a dicembre, non avevano mancato un’udienza della Chambre, una riunione, un sit-in, un volantinaggio a una manifestazione, nella scommessa disperata, con troppo aria di causa persa per strappare la persona demonizzata di turno, Marina Petrella a un’estradizione che sarebbe l’inizio di una traiettoria di agonia vestita da ergastolo.[…] Come per coincidenza, come per un saluto estremo, già ricordo, nostalgia del presente, ieri mattina a Napoli al banco dei libri di “Sensibili alle foglie” con Renato, Nicola, Nicola, Rafele e un po’ di altri e altre di noialtri “avanzi di galera” o scampativi di misura; ieri sera al Corto Circuito a Roma con Franco e Robertaccio, Barbara, Bruno e poi altri, sopravvenuti più di recente per età, avevamo riparlato di Roberto, di questa sua condizione di recluso nel corpo che tenta e ritenta incessantemente l’evasione, come di una sorta di homo sacer, di un soprassalto della potenza che persiste in nuda vita. […] Noi, noi, Orest’&Complici, siamo costretti a interrompere il giro, i canti e i ragionamenti, le chiacchiere, i sussurri e le grida…non serve nemmeno scusarsene, se una qualche ubiquità ce lo permettesse, continueremmo accelerando proprio per Roberto, come fosse la forma migliore di quella che nei rituali (da non irridere perché la consolazione si cerca come l’aria), è abbassare le bandiere, rosse come quelle della Sociale, nere come grembiali da lavoro dei Canuts, operai delle fabbriche tessili della Croix-Rousse a Lione schiacciati nel 31 – milleottocentotrentuno, come in una anticipazione del massacro versagliese di 40 anni dopo contro i comunardi – … bandiere rosse, nere ross&nere de La Comune. Contiamo di ripartire, con una infinita tristezza di più, il 7 prossimo, dallo Ska. Comme par hazard, – e, vorremmo aggiungere – come per caso, Robbè! Il fiotto delle cose da dire di Roberto è tale che per ora restiamo un lungo attimo senza parole. Lo cominceremo a fare domani e sarà comunque iscritto in una insurrezione di voci, dal profondo. Ci sale alle labbra la banalità del “non ho parole”. Ma un attimo di silenzio è forse il solo adeguato,come l’attimo prima del colpo di inizio di uragano o di coro. Oreste Scalzone &C 1 aprile 2008 Napoli, Roma, Parigi.