Sabina Rossa e gli ex terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime

La proposta di legge. Il testo elimina la necessità del «sicuro ravvedimento»: sufficiente la rieducazione senza più le indagini psicologiche e la valutazione del rapporto tra condannati e parenti delle vittime

Giovanni Bianconi
Corriere della Sera
28 dicembre 2008

ROMA – Ha incontrato uno degli assassini di suo padre, e poi il giudice che deve decidere sulla scarcerazione di quell’uomo. Ha detto che il brigatista che nel gennaio 1979 sparò al sindacalista Guido Rossa oggi è un’ altra persona, e merita di lasciare la images10prigione dopo trent’ anni di reclusione. Quell’ uomo, l’ ex brigatista Vincenzo Guagliardo, è invece ancora dentro anche perché non ha voluto pubblicizzare l’incontro con la figlia di Rossa, né s’ è rivolto ad altre vittime ritenendo che fosse la forma migliore per rispettarle. E oggi Sabina Rossa, dopo il faccia a faccia con Guagliardo e altri ex militanti delle Brigate rosse fa un passo in più. Da deputato del Partito democratico, la figlia del sindacalista ucciso dalle Br ha presentato un disegno di legge per sostituire il «sicuro ravvedimento» richiesto dal codice penale per concedere la liberazione condizionale (e che per molti giudici, compresi quelli di Guagliardo, si misura proprio dal contatto tra carnefici e vittime) con una formula diversa: può uscire dal carcere prima del fine pena, e nel caso degli ergastolani dopo 26 anni, chi ha tenuto «un comportamento tale da far ritenere concluso positivamente il percorso rieducativo di cui all’ articolo 27 comma 3 della Costituzione». Niente più indagini psicologiche alla ricerca dei sintomi del «ravvedimento», quindi. E niente più valutazione del rapporto tra gli assassini e i parenti di chi è stato assassinato. «Le vittime non hanno bisogno di vedersi affidare il peso del destino di coloro che li ha colpiti – spiega la Rossa -. Se questi contatti avvengono, non devono essere sbattuti in tribunale per dimostrare qualcosa. Devono restare in un altro ambito, non diventare metro di giudizio per decidere se un detenuto merita di uscire oppure no». La liberazione condizionale è diventata materia delicata da quando hanno cominciato a chiederla gli ex terroristi, di sinistra e di destra, che non hanno usufruito degli sconti di pena concessi a pentiti e dissociati. Si tratta di ergastolani, condannati per omicidi, che compiuti i 26 anni di cella presentano istanza per tornare a una vita regolare fuori dalle galere, di solito quando già godono della semilibertà (all’ esterno di giorno e dentro di notte). La legge attuale prevede, appunto, che sia certificato il «sicuro ravvedimento», ma Sabina Rossa lo considera un requisito «troppo aleatorio». Per alcuni giudici, un fattore discriminante è stato proprio il comportamento del condannato nei rapporti con i familiari delle persone uccise; cioè se avesse o meno «dimostrato solidarietà nei confronti della vittima, interessandosi delle sue condizioni e facendo quanto è possibile per lenire il danno provocatole». E’ successo così che chi aveva preso contatti con i parenti delle vittime, di solito attraverso delle lettere inviate tramite gli avvocati, è stato considerato «ravveduto» ed ha lasciato il carcere definitivamente, mentre chi non l’ ha fatto s’ è visto negare questa possibilità. Nel caso di Guagliardo, il giudice ha detto no proprio in assenza di quei contatti, nonostante l’ incontro con Sabina Rossa fosse già avvenuto. Ma l’ ex br non ne ha parlato, sostenendo di considerare il silenzio «la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato». Ora Sabina Rossa, protagonista di questa vicenda in qualità di figlia dell’ uomo ucciso da Guagliardo, ritiene che «una simile interpretazione della norma, che chiama in causa direttamente le vittime del reato e o loro familiari, si presti a grandi difficoltà applicative e lasci grande spazio a disomogeneità legate all’ intrinseca difficoltà di lettura profonda della relazione tra images-2condannato e vittima». Anche perché ogni magistrato decide come crede, e in passato sono state liberati pure ex terroristi che non si sono mai rivolti ai parenti dei loro «bersagli». Di qui la proposta di modificare la legge, e di ancorare l’ eventuale scarcerazione a criteri più oggettivi e meno discrezionali. «Senza andare a scandagliare l’ animo delle persone», dice ancora la deputata del Pd, che attribuisce a questa iniziativa un significato più ampio. «Vorrei che fosse – spiega – un ulteriore passo verso il superamento dei cosiddetti “anni di piombo”, che non può avvenire mettendo una pietra sul passato o attraverso il silenzio. Le leggi premiali hanno messo in libertà degli assassini senza che scontassero una vera pena, mentre c’ è chi dopo trent’ anni è ancora in carcere pur non avendo più nulla a che fare con la persona che fu. E’ un paradosso, che sarebbe bene superare con misure meno discrezionali possibili».

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Ancora ergastolo per Vincenzo Guagliardo

La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre
Sabina Rossa: “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”
Sabina Rossa: “Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre”

Giustizialismo e lotta armata

Secondo Sofri l’uccisione di Calabresi si distinguerebbe dai successivi atti di lotta armata avvenuti nel corso degli anni 70-80 perché aveva un contenuto morale che alla lotta armata per il comunismo mancava
Risponde Scalzone che difficilmente una vendetta, un atto di giustizialismo politico, può rivendicare una superiorità morale


Caro Sofri, uccidere Calabresi fu giustizialismo politico

di Oreste Scalzone
Liberazione
2 ottobre 2008

12 dicembre 1969 terrore di Stato, banca popolare di piazza Fontana dopo la strage

L’incontro patrocinato dal segretario dell’Onu in occasione del Memory day in favore delle «vittime del terrorismo» ha fatto saltare i nervi ad Adriano Sofri. In nome di una indistinta nozione della figura di vittima si è tenuta nelle scorse settimane una cerimonia attorno alla quale sono state raccolte vicende molto diverse tra loro, distanti e persino opposte nello spazio, nel tempo, financo nella loro fenomenologia, morfologia e eziogenesi, come i morti delle Twin Towers, gli scolari trucidati a Beslan, i morti delle stragi di piazza Fontana o l’uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi, per fare solo alcuni esempi.

Il commissario di polizia Luigi Calabresi

Il commissario di polizia Luigi Calabresi

Condannato per quest’ultimo episodio, ma da sempre proclamatosi innocente, Sofri non ha sopportato l’accostamento. “Io terrorista, alla stregua dei sequestratori di Beslan? No, non ci sto!”. È stato questo il senso della sua indignata reazione per un qualcosa che esplicitamente ferisce il suo onore. Sofri ha giustamente contestato che un episodio come l’uccisione di Calabresi, arrivato al culmine di una sequenza che vide la morte dell’innocente Giuseppe Pinelli e la montatura contro gli anarchici con l’incriminazione di Pietro Valpreda, possa essere messo sullo stesso piano della strage di piazza Fontana, accorpato addirittura a massacri di bambini e deportazioni a volte vicine al genocidio. Sul Foglio del 13 settembre ha sollevato la pietra dello scandalo affrontando la semantica di una delle parole più stregate al mondo: «terrorismo». Termine tra i più compromessi, multiuso, impiegato essenzialmente per delegittimare, mostrificare, demonizzare l’avversario piuttosto che per definire un particolare uso della violenza. Occasione per questo di un infinito autismo comunicativo. Si potrebbe forse obiettare che non ha molto senso rincorrere sul terreno della stigmatizzazione linguistica chi bombarda o ordina martellamenti d’artiglieria e poi rivendica virtuose illibatezze, senza mancare di dare del terrorista ai ragazzini col cappuccio che lanciano sassi, rompono qualche vetrina o riempiono i muri di tag. Da alcuni anni una direttiva europea considera terrorismo il pirataggio informatico o la semplice occupazione illegale di piazze e edifici pubblici. Di fronte a ciò, è lecito chiedersi se si possa passare la vita lasciandosi ipnotizzare nel tentativo di raddrizzare i torti semantici, di (ri)prendersi la ragione rispetto a un intreccio infinito di mascalzonate statali d’ogni tipo…? Forse a questo punto l’unica cosa possibile è fare un’operazione di radicale Jugitzu semantico, come quella realizzata dai movimenti afro-americani, quando decisero di svuotare l’aggressività coloniale e razzista dello stigma negro appropriandosi essi stessi di quella definizione.

Giuseppe Pinelli, innocente morto all'interno della questura di Milano

Giuseppe Pinelli, anarchico ucciso nella questura di Milano

La parola terrorismo nasce sulla base di una autodefinizione del rivoluzionarismo statalista-borghese nel drittofilo del diritto di resistenza e del «diritto-dovere a insorgere con le armi alla mano contro il despota e l’usurpatore». Teorie, come quella del tirannicidio, finemente elaborate dai gesuiti spagnoli del 600, Birenbaum e altri, per argomentare la legittimità dell’attentato contro la persona dell’imperatore, se questi entrava in conflitto con l’autorità papale. Dottrine poi riprese con fedeltà mimetica da quello che potremmo chiamare legittimismo del futuro prossimo venturo, di parte repubblicana; e poi di nuovo, alla rovescia, dal legittimismo tradizionalista anti-repubblicano. Termini, dunque, di doppia matrice, cattolica apostolica romana prima e poi – nella teologia politica, con perfetta spinta alla ritorsione mimetica – giacobina. Tanto che potremmo parlare con pertinenza di concetto catto-giacobino.
Che una traccia di filiazione con questa matrice ci sia anche nei vendicatori anarchici – dopo Felice Orsini e gli attentatori della «propaganda attraverso il gesto», i Gaetano Bresci, i Giovanni Passannante, i Sante Caserio, non deve stupire più di tanto.  La stessa relazione conduce alle azioni dei populisti, gli amici del popolo, i Narodniki dell’attentato a Stoljpin; o ancora ai nazionalisti – e, se vogliamo distinguere il nazionalismo conculcato e irredentistico da quello già al potere, nazionalitarî; e ancora più in generale ai movimenti caratterizzati da ideologia-passione identitaria nutrita di martirio. La realtà è che le idee delle classi dominanti costituiscono un reticolo concettuale da cui non ci si libera sollevandosi per il codino, come il barone di Munchausen…

Pietro Valpreda, anarchico vittima della montatura giudiziaria

Pietro Valpreda, anarchico vittima della montatura giudiziaria

Per contro, non a caso il termine è ereditato senza complessi dal filone della sinistra della socialdemocrazia russa, i bolscevichi, e dal loro successivo costituirsi in Komintern. Quasi inevitabile riscontro degli effetti suscitati dalla contraffazione, oltreché lavorista e statalista, teorizzata da Ferdinand Lassalle. Nel programma di Gotha si stabiliva infatti una retrospettica filiazione non certo con l’Associazione internazionale dei lavoratori e la Comune di Parigi, ma proprio col giacobinismo, con certi passaggi dottrinari, in particolare di Robespierre e Saint-Just.
D’altronde Trotsky non ha complessi quando risponde con l’opuscolo Terrorismo e comunismo al pamphlet Comunismo e terrorismo di Kautsky. Nei resoconti delle sessioni del Komintern si dà documentazione dei dibattiti sull’opportunità di ricorrere in talune circostanze a combinazioni e dosaggi di terrore come ingrediente dell’azione. In alcuni suoi passi Lenin argomenta la necessità di instaurare forme di terrore poliziesco, anche come antidoto e argine a una violenza spontanea insorgente, che altrimenti avrebbe fatto scorrere fiumi di sangue ancor più grandi (vengono in mente in questo caso Bronte, la repressione spietata gestita da Bixio, e altrove le osservazioni di Foucault – nel Dialogo con i maoisti e in Microfisica del potere – sulla violenza rivoluzionaria che quando si istituzionalizza in tribunali e carceri si trasmuta nel suo contrario).
Ma queste cose Adriano Sofri le conosce meglio di me. Cionondimeno si è lasciato andare ad una stucchevole danza del ventre rivendicando non l’esistenza di una differenza (quella sì, fondata su una diversità di strategie e tattiche nell’uso della violenza politica, oltreché sugli obbiettivi), ma la presenza di una superiorità morale, di una qualità che distinguerebbe la vicenda Calabresi dai successivi atti di lotta armata avvenuti nel corso degli anni 70. A suo avviso il movente dell’indignazione – che per civetteria definisce «privata», ma che vuolsi chiamare civile – sarebbe stata moralmente superiore – e per questo esente dall’infamia d’essere una pratica ritenuta terrorista – a qualsivoglia altra motivazione politica, come quella legata alla pedagogia della «lotta armata per il comunismo». Egli sembra suggerire una definizione della categoria di terrorismo a partire dal movente, per cui l’omicidio ingenerato da indignazione civile ne sarebbe esente e dopo ripetute contorsioni, correzioni, rettificazioni e sfumature via, via aggiunte, arriva anche a precisare quanto da sempre sostenuto dal marchese di Lapalisse: esiste una violenza che non è violenza politica (vedi la strage di Erba), e una violenza politica che non è terrorismo (Corriere della sera del 16 settembre).
Addirittura per rafforzare il suo ragionamento cerca appoggi nelle parole dei giudici che lo hanno condannato, interpretando la mancata applicazione dell’aggravante per «fini di terrorismo ed eversione dell’ordine costituzionale» come il riconoscimento, anche da parte della magistratura, della natura «privata» e non eversivo-terroristica dell’omicidio Calabresi. Argomento, questo, ribadito con ancora maggiore nettezza da Giuliano Ferrara sul Foglio del 22 settembre: «Chi ha ucciso il commissario non aveva un piano terroristico per attaccare il cuore dello Stato, bensì vendicare la morte dell’anarchico Pinelli. Sono due cose completamente diverse, il terrorismo e l’assassinio di Luigi Calabresi».

volantino

volantino

Errore davvero macroscopico, visto che le leggi speciali dell’emergenza sono state varate sette anni dopo l’attentato, e che dunque la magistratura non poteva qualificare retroattivamente l’uccisione di Calabresi come un atto di sovversione dell’ordinamento costituzionale (come d’altronde avvenne anche per il sequestro Sossi e altri episodi analoghi fino al rapimento Moro), o applicare l’articolo 280 del codice penale, riscritto sempre nel 1979, (attentato con finalità di terrorismo o eversione), piuttosto che il generico 575, omicidio di diritto comune.
Come se non bastasse, nel tentare un parallelo Sofri non trova di meglio che richiamare una delle azioni gappiste più importanti della Resistenza: l’uccisione di Giovanni Gentile. Un episodio che nulla ha di “esclusivo” ma che si iscrive nella strategia della lotta armata urbana condotta dai Gap. Insomma se uno dei requisiti del terrorismo è quello di avere una strategia, e dunque una sua riproducibilità nella azioni – come pare voler suggerire Sofri –, quello dei Gap era terrorismo anti-nazifascista, né più né meno, come si è ritenuto che fosse – a partire da un certo momento in poi – per Prima linea e le Brigare rosse.
Toccherà agli storici futuri stabilire se la lotta armata degli anni 70 lo fu davvero, perché dal punto di vista del diritto non esiste una definizione universalmente riconosciuta, a meno che non si voglia prendere per buona quella offerta dai testi dell’Fbi o del Pentagono. Ciò che invece suscita sconcerto è il fatto che una vendetta, come l’uccisione di Calabresi, qualcosa che si apparenta ad una supplenza soggettiva della giustizia statale, all’epoca per giunta rifiutata da Sofri stesso, una sentenza di morte applicata sulla base di una colpevolezza stabilita sulla scorta di una vox populi, senza nemmeno la farsa di un processo popolare e addirittura considerata oggi un “errore giudiziario”, come lo stesso Sofri scrive, possa essere ritenuta un gesto più nobile degli attentati successivi.
Quello che già allora molti di noi ritennero una forma di giustizierismo politico ci fa orrore, tanto più quando in quell’episodio si arriva ad intravedere un segno del torvo giustizialismo impregnato del paradigma della colpa che sarebbe arrivato 36 anni dopo.
Scriveva Lissagaray, il comunardo che riuscì a scrivere una storia al presente della Comune di Parigi: «Chi diffonde tra il popolo false leggende rivoluzionarie, e lo diletta di storie cantanti, è altrettanto nocivo che il geografo che indirizzi ai naviganti delle carte nautiche che mentono».

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Neanche il rapimento Sossi fu giudicato terrorismo

Quando il rapimento Sossi non veniva giudicato un atto di terrorismo

L’aggravante di eversione dell’ordinamento costituzionale fu introdotta solo nel 1979

Paolo Persichetti
Liberazione 2 ottobre 2008

Una legislazione antiterrorista e un diritto penale politico speciale in senso proprio nascono soltanto alla fine del 1979. Spiega Luigi Ferrajoli, nel suo ormai classico Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, che nel 1979 si opera un rovesciamento della strategia antiterrorista condotta dallo Stato. È la magistratura, non più la polizia, che ne assume per intero la supplenza. Vengono così rivitalizzati gli ampi strumenti normativi già presenti nel codice Rocco e introdotti nuovi dispositivi che daranno il via alla stagione dell’emergenza. Con il decreto-legge del 15 dicembre 1979, n. 625, convertito nella legge n. 15 del 6 febbraio 1980, viene introdotta la circostanza aggravante della «finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico» (successivamente corretta con la dizione “ordinamento costituzionale”). La nuova aggravante comporta un aumento di pena pari alla metà della pena edittale del reato base e l’esclusione delle attenuanti, oltre a modificare i criteri di cumulo di più circostanze aggravanti nel senso di un sostanziale aumento della quantità di pena irrogabile. Lo stesso decreto introduce nuove fattispecie criminose come «l’attentato per finalità terroristiche o di eversione» (nuovo testo dell’articolo 280 del codice penale) e «l’associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico» (articolo 270-bis del codice penale).
Tutti i reati con movente politico commessi prima dell’entrata in vigore della nuova aggravante antiterrorista vennero giudicati in base alla normativa preesistente, sulla scorta del principio di irretroattività della legge penale. Considerati episodi di natura eversiva solo dal punto di vista socio-storico ma non giuridico. Così avvenne per il sequestro Sossi (1974) che diede luogo a un’accesa disputa giurisprudenziale. Da una parte chi riteneva andasse inquadrato nella fattispecie del «sequestro semplice» e chi invece configurava nelle richieste politiche delle Br delle finalità di natura estorsiva. Analogo trattamento ebbero i reati politici commessi fino al 1979 (ivi compreso l’attentato a Coco) fatta eccezione per quelli ritenuti di «natura permanente» e protrattisi oltre la data di entrata in vigore delle nuove disposizioni di legge.

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Giustizialismo e lotta armata

Dopo la legge Gozzini tocca al 41 bis, giro di vite sui detenuti

Isolamento totale. Lo invoca una circolare inviata dal ministro della Giustizia ai direttori degli Istituti di pena

Paolo Persichetti
Liberazione 20 luglio 2008

Ogni annuncio ha il suo pubblico. In un sistema politico ridotto ormai a teatrino, il ministro della Giustizia Alfano ha scelto la città di Palermo, profittando della platea che gli veniva offerta dall’anniversario dell’attentato mortale contro il giudice Borsellino e la sua scorta, per rendere noto il contenuto di una circolare diramata dai suoi uffici «molto restrittiva sul 41 bis. Una stretta che impedirà qualsiasi comunicazione fra i boss arrestati».

Reuters, Jorge Adorno

Reuters, Jorge Adorno

Nel provvedimento si chiede ai direttori degli istituti di pena di disporre lo spostamento dei reclusi sottoposti al regime del carcere duro in celle distanti tra loro per impedire qualsiasi scambio verbale. Una decisione che creerà non pochi problemi al Dap, visto l’attuale sovraffollamento delle sezioni di massima sicurezza. Sanzioni disciplinari sono poi state previste per i detenuti sorpresi a comunicare tra loro. Il guardasigilli si è voluto probabilmente ispirare alla nota osservanza del silenzio che regolava la vita monacale dei frati cistercensi. A ben vedere, il regime detentivo previsto per il 41 bis ricorda molto da vicino «l’osservanza integrale della Santa Regola, soprattutto dell’astinenza perpetua dalla carne, la fedeltà nelle leggi costituite a proposito del digiuno e del silenzio». Disposizioni più selettive sono state introdotte anche per regolare i “gruppi di socialità”, ovvero il numero e i criteri di composizione dei detenuti che possono accedere nei piccoli cubicoli di cemento che fungono da passeggi per le ore d’aria. Unico spazio d’incontro concesso nell’arco di una giornata altrimenti marcata dalla monotonia dell’isolamento più assoluto.
L’annuncio del ministro ha lasciato però insoddisfatto il capo della Procura della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo, a cui l’inasprimento del regime detentivo non basta poiché – ha sottolineato – il «problema è il mantenimento del carcere duro

REUTERS/Damir Sagolj

REUTERS/Damir Sagolj

rispetto a certi soggetti. Serve un impegno diretto e di modifica della norma e una sua più puntuale interpretazione». Il giro di vite interviene dopo le polemiche suscitate dalle revoche decise da più tribunali di sorveglianza, in favore di 37 detenuti condannati per reati di mafia. Il solito coro trasversale dei professionisti dell’antimafia si era subito levato per denunciare le «interpretazioni eccessivamente garantiste» fornite dai magistrati.
Esempio tra i più clamorosi della giustizia d’eccezione, il 41 bis rielabora il vecchio articolo 90, ovvero la norma che sospendeva l’applicazione della riforma carceraria utilizzata nelle carceri speciali durante gli anni della detenzione politica di massa. Introdotto per la prima volta nel 1992, con il decreto Scotti-Martelli, il regime speciale di massima sicurezza è stato sistematicamente rinnovato fino ad essere stabilizzato nel 2002, quando l’eccezione si è tramutata in regola. Una lunga serie di sentenze della Cassazione e della Corte costituzionale hanno fatto sì che l’assegnazione al regime di carcere duro venisse sottoposta a verifica giurisdizionale, consentendo ai detenuti di presentare ricorso alla magistratura. Oggi il 41 bis è vittima del suo successo. Infatti la revoca può avvenire soltanto una volta verificata l’assenza di legami con la criminalità mafiosa e l’attenuarsi della pericolosità sociale. Molte delle declassificazioni concesse sono intervenute dopo oltre un decennio di isolamento nelle sezioni di massima sicurezza. Segno che la clausura ha spezzato i legami più intensi con i contesti criminali. Chi contesta queste declassificazioni sostiene il contrario entrando così in una insanabile contraddizione: se decenni di un isolamento che s’apparenta alla tortura non servono a rompere i legami criminali, allora il 41 bis a cosa serve?
Già negli anni del governo Prodi si era registrata una crescita delle revoche che aveva spinto il Dap a incrementare la creazione di nuove sezioni a «elevato indice di vigilanza». Una nuova clasificazione che sfugge a qualsiasi controllo giurisdizionale, essendo il mero risultato di due circolari interne dell’amministrazione penitenziaria. Caratterizzate da un regime ristrettivo molto vicino a quello del 41 bis, le nuove sezioni Eiv – che accolgono anche quei detenuti che per legge non possono essere sottoposti a 41 bis, tra cui i detenuti politici degli anni 70-80 – di fatto rappresentano un regime di massima sicurezza camuffato che non può nemmeno avvalersi delle prerogative riconosciute per il 41 bis ufficiale.disegno_liberitutt
Il presidente della prima Commissione Affari Costituzionali del Senato, l’ex Psdi Carlo Vizzini, oggi nel Pdl, ha presentato un ddl che aumenta di un anno la durata de 41 bis, capovolge incostituzionalmente l’onere della prova dell’assenza dei legami con la criminalità, oggi a carico delle procure antimafia e sposta la competenza al solo tribunale di sorveglianza di Roma per tutti i ricorsi contro l’assegnazione al 41 bis.

 

ansa0035012bcxw200h270c00Gli spettri del 41 bis
di Paolo Persichetti, Liberazione 30 ottobre 2002

Degli spettri si aggirano per le carceri italiane, sono i detenuti sottoposti al 41 bis. Si tratta di uomini e donne imprigionati due volte. Dei tribunali hanno tolto loro la libertà, una amministrazione ha decretato la loro invisibilità. Si trovano qualche metro più in là, oltre le sbarre e la griglia che ornano la finestra di questa cella. Pochi metri di cortile mi separano dal popolo dei murati vivi, i fantasmi della prigione. Quando qualcuno di questi spettri traversa il carcere le porte blindate vengono chiuse al loro passaggio. Altre barriere si aggiungono a ispessire il loro isolamento e la loro distanza. Il 41 bis è il regno della opaca afflizione, la pena che rende invisibili. Il supplizio moderno ha vergogna di se stesso, fosse trasparente probabilmente perderebbe molta parte della sua legittimazione sociale.
L’intero carcere è colmo di queste «assenze» che si fanno pesanti presenza per tutti. Disciplina e regolamento dell’istituto sono segnati dalla esistenza di questi spettri: non c’è socialità, non ci sono attività rieducative o di formazione, è chiuso persino il campo di pallone. Anche la televisione è imprigionata in una scatola metallica. Tutto è chiuso, metodicamente blindato e imbullonato. «Massima sicurezza» vuole dire deserto disciplinare, spazi angusti e metallici dove i corpi in soprannumero sono stipati e formati in modo rigido e severo mentre le menti si inaridiscono. 20080603_giudiciL’unico svago concesso viene dall’agognato carrello dell’infermeria che scandisce la giornata distribuendo tre volte al giorno stupefacenti ricreazioni chimiche a base di benzodiazepine. Gli «invisibili», come fantasmi, ogni tanto battono un colpo, anzi dei colpi sui cancelli blindati. Quelle periodiche battiture ci ricordano che il loro è un mondo di vivi che non rinuncia a resistere.
Recentemente il senato ha reso definitivo il regime del 41 bis, una norma sospensiva del normale trattamento penitenziario e che in origine doveva essere solo «eccezionale e transitoria». Non soddisfatti, i senatori ne hanno prolungato la durata ed esteso la portata ad altre tipologie di reato. Chi sostiene la validità di questo trattamento differenziato afferma che esso è necessario per condurre a termine la lotta contro il nemico di turno, che si tratti dei mafiosi, dei terroristi, degli scafisti, non conta poi molto. I «nemici», si sa, sono intercambiabili. La battaglie di civiltà e le lotte per l’emancipazione si svolgono il più delle volte sul terreno impervio delle questioni di principio. È sui punti limite che si misurano i passaggi epocali, i momenti di rottura. Troppo comodo e troppo facile, nonché in effettuale, è l’atteggiamento di chi pensa di poter difendere solo i diritti di coloro che sente più prossimi: «poveri ma belli» oppure «ricchi e potenti». In entrambi i casi vi è il segno speculare dell’atteggiamento strumentale di chi pensa di eliminare il proprio nemico abolendo i suoi più elementari diritti, considerandolo sub specie umana. È la peggiore guerra quella mossa in nome del diritto per abolire i diritti.
Sfugge a questa concezione una lucida consapevolezza di ciò che è l’emergenza, dei suoi dispositivi di governo delle relazioni sociali, del suo ricorso sistematico alla eccezione che addirittura non sospende più la regola ordinaria ma si candida a rimpiazzarla stabilmente. Sorprende che proprio chi si vuole radicale, antagonista, comunista, non percepisca come i pesanti cella_largedispositivi giudiziari e penitenziari della emergenza, sempre più limitanti e costrittivi delle libertà individuali e collettive, restino radicati nel tempo, mentre le tipologie di applicazione hanno vocazione a variare. Ieri è toccato ai «terroristi», oggi ai mafiosi, persino ceto politico e imprenditori ne hanno saggiato gli effetti. E domani?
La ruota gira e con i tempi che corrono tra «guerra preventiva», estensione a dismisura della nozione di terrorismo fino a comprendere comportamenti politici e sociali considerati semplicemente «non allineati», a chi giova rafforzare l’arsenale repressivo che un giorno potrebbe essere facilmente rivolto verso tutti quelli che sono semplicemente «contro»?
Quei 61 collegi su 61 vinti in Sicilia dalla Casa delle libertà non avrebbero dovuto istruire sul fallimento delle politiche unicamente repressive condotte dagli imprenditori dell’antimafia? Dieci anni di 41 bis non hanno sconfitto la mafia, al contrario il centrodestra ha fatto man bassa dei voti come mai era riuscito persino alla Dc. Con la sua strategia fatta di carcere duro e pentitismo remunerato, lo Stato con i suoi centri di potere emergenziale è riuscito solo a favorire la selezione di nuove élites mafiose e il ritorno alle strategie morbide e conniventi di una «Cosa nostra» tornata invisibile ma sempre percettibile.
A cosa sono serviti allora questi lunghi anni di 41 bis, se non a perfezionare le tecniche di differenziazione penitenziaria, utilizzabili domani, anzi oggi stesso, contro altri gruppi sociali scomodi trasformati in nuovi nemici?
Abolire le garanzie, restringere le maglie della società,non facilita la lotta contro i potenti che dispongono comunque di altre risorse per tutelarsi, mentre rende vulnerabili, espone al ricatto repressivo coloro che non hanno potere, risorse sociali, economiche e culturali. È ora di abbandonare l’idea che la lotta di classe si possa fare con i tribunali e le prigioni. Ne trarrebbe giovamento la critica e la lotta contro ogni forma di valorizzazione legale e illegale del capitale. La sciamo al diritto la funzione di seguire le evoluzioni della società, di registrare avanzate e sconfitte. Staremo tutti meglio e saremo più liberi di lottare.

Approfondimenti
Cronache carcerarie

Denis Salas: il populismo penale, una malattia delle democrazie

La volontà di punire


Denis Salas

Liberazione
– Queer 13 luglio 2008

Populismo penale: così avevo chiamato uno dei mali endemici che colpiscono la nostra democrazia in un libro pubblicato nel 2005. All’epoca questo fenomeno interessava gli Stati Uniti. Sembrava essere soltanto una minaccia lontana per noi Europei. Ma ormai ovunque in Europa le legislazioni penali si irrigidiscono contro nuovi pericoli come l’immigrazione clandestina, la pedofilia, l’insicurezza delle città e, certamente, il terrorismo… Come definire allora questo fenomeno? Soltanto un’eventualità, una “tentazione” come dicevo nel 2005, oppure una tendenza di fondo, addirittura irreversibile?
Definire il populismo penale soltanto attraverso la sensibilità che le nostre democrazie d’opinione riservano ai fatti di cronaca non basta. Emerso negli Stati Uniti nel corso degli anni 80, ha assunto la forma di un discorso politico proprio della destra neo-conservatrice specializzato nelle promesse punitive capaci di sedurre l’elettorato. Facendo leva su un’opinione costantemente in cerca di sicurezza e sull’effetto creato dall’annuncio di leggi in difesa delle genti oneste, ha fatto si che il mostrarsi tough on crime (duri verso il crimine) sia diventato l’atteggiamento “utile”, la formula vincente per qualsiasi candidato in cerca del suffragio popolare.
Oggi questa definizione non è più sufficiente. Occorre andare oltre. Il populismo penale si basa anche su un rovesciamento delle nostre rappresentazioni della violenza e dell’insicurezza. Mentre in passato la legislazione penale aveva per oggetto di adattare la sanzione al delinquente, una volta riconosciuto colpevole, ora la vittima, a lungo dimenticata, è diventata la sua preoccupazione prioritaria. I due fenomeni sono legati: da un lato, il delinquente viene cancellato come persona ed esiste soltanto in quanto minaccia; dell’altro, la vittima esce dall’oblio e si presenta come soggetto di un trauma. Il delinquente diventa soltanto un corpo da identificare, rinchiudere e neutralizzare, mentre la vittima è una persona sofferente in cerca di una improbabile elaborazione del lutto.
Siamo passati dal delinquente visto come un individuo da correggere o trasformare alla delinquenza analizzata come una peste da arginare. Ogni responsabile politico degno di questo nome deve proteggere il corpo sociale per evitare nuove vittime. La pena non è più la sanzione di un crimine, ma esprime la lotta della legge contro questa peste e la riparazione delle sue conseguenze negative.
Questo rovesciamento avviene sotto gli occhi dell’opinione pubblica. Ormai al di sopra delle stesse istituzioni, l’opinione pubblica è il giudice sovrano di ogni cosa. Facile alla compassione, favorisce un’ideologia vittimaria dominata dalla solidarietà effimera attorno alle sventure individuali. Questo tipo di linguaggio – enfatizzato dai mass media – governa ormai il discorso politico. Le leggi penali vi attingono buona parte della loro giustificazione. Molte di queste leggi mirano a rafforzare il nostro arsenale penale, con l’esplicito scopo di difendere la società nel nome di un dovere di protezione delle vittime. Ad ogni nuovo fatto di cronaca nera si incita a punire in nome delle vittime offese nella loro dignità, denunciando al tempo stesso le istituzioni incapaci di rispondere a tali richieste. Potrebbe esserci una migliore dimostrazione della superiorità del “popolo” – e del suo comune buon senso – rispetto alle istituzioni? Come siamo arrivati a questo punto? È innegabile che la questione della vittima è centrale nelle società post-totalitarie. Poco a poco questa figura è diventata un soggetto di diritti, degno d’ascolto e al contempo di verità, a partire dalla presa di parola dei superstiti della Shoah. Dopo di loro, tutte le altre vittime (di stupro, d’abuso sessuale, di sindrome traumatica…) hanno saputo farsi sentire. Ma questo riconoscimento centrale della dignità della vittima ha prodotto un suo doppio immaginario: l’ideologia vittimaria secondo cui la Vittima, vera icona della lotta contro l’insicurezza, diventa il principale riferimento dei discorsi politici, mediatici o giudiziari. Alla singola vittima che occorre ascoltare, aiutare e accompagnare si sovrappone la vittima invocata dai resoconti multipli che la celebrano e la strumentalizzano. È significativo che negli Stati Uniti un certo numero di leggi penali portino la firma della vittima: così le Megan’s laws sugli archivi dei delinquenti sessuali portano il nome della piccola Megan Kanka assassinata nel New Jersey.
L’incantesimo punitivo attuale si fonda sul martirio dell’innocente e si nutre della denuncia delle istituzioni incapaci di porvi rimedio. Quest’ideologia è in procinto di rileggere alcuni nostri diritti fondamentali alla luce del suo “codice” emozionale per sovvertirli, come mostrato da questo dialogo immaginario tra diritti e ideologia vittimaria.
La presunzione d’innocenza? «Come accettarla – dice la Vittima – io che ho perso il mio bambino per colpa di quest’uomo che è accusato? Voi lo definite presunto innocente, ma mi è impossibile accettare la parola: innocenza. Per me i fatti sono incontrovertibili. Il crimine è inscritto nella carne del mio bambino. Il colpevole non è un imputato presunto più di quanto io non sia una vittima presunta».
La prescrizione? «Mi è insopportabile poiché il trauma che mi colpisce è irreparabile. La violenza del trauma che ho ricevuto risuona sempre in me. L’oblio sarebbe una capitolazione, il perdono uno scandalo».
La responsabilità dei criminali malati di mente? «Come sopportare l’assenza di spiegazione e d’imputazione di un crimine per cui si dichiara un “non luogo a procedere”? Mi dite che il processo non avrà luogo, ma le perizie psichiatriche che deresponsabilizzano quest’uomo mi privano di un processo, di un resoconto, di una verità alla quale ho diritto».
La pena, in democrazia, deve essere commisurata e proporzionale all’atto e alla personalità? «Certamente, ma la mia sofferenza è senza misura. Il mio bambino è condannato a una “pena” che non ha alcuna comune misura con quella che colpirà il suo autore, il quale vivrà per qualche tempo in prigione, leggerà dei libri, potrà lavorare e uscirà un giorno, mentre il mio bambino è per sempre nella tomba».
È facile capire quanto questa posizione ripresa nei discorsi politici comporti necessariamente una crisi generalizzata della moderazione penale. Viene da pensare a una frase del filosofo Paul Ricœur: «La sofferenza aggiunta della pena si carica della sofferenza immeritata della vittima». Possiamo inoltre misurare il rischio contenuto in un’ideologia che sacralizza la causa delle vittime: un diritto penale del nemico, un universo mortifero senza uscita, una democrazia impoverita, amputata dai suoi diritti fondamentali.
Tutto ciò è poi sintomatico della crisi di legittimità del potere politico. Sembra che ogni responsabile politico debba ormai rigenerarsi attraverso la figura della vittima. I morti e i feriti dei fatti di cronaca gli sono diventati vicini, un po’ come se fossero membri della sua famiglia. Così si spiega la loro presenza al capezzale di questi infelici, la partecipazione alla celebrazione di un culto inedito che esige una giustizia esemplare.

(Traduzione a cura di Chiara Bonfiglioli)

Denis Salas è Direttore scientifico dei Cahiers de la Justice della Scuola Nazionale della Magistratura. Autore di La volonté de punir, essai sur le populisme pénal, Pluriel, Paris, 2008

Approfondimenti
Populismo penale

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Il populismo penale una malattia democratica
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Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
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Luigi Ferrajoli: Populismo penale ovvero la strategia della paura


Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria

La democrazia coniugata in forma giudiziaria ha favorito la svolta a destra della socieità italiana

Paolo Persichetti
Liberazione
(supplemento Queer) 13 luglio 2008

Il tema della criminalità si è imposto ormai come una delle leve principali dell’azione politica. Vero e proprio strumento di «governo attraverso la paura», secondo la definizione che ci viene da alcuni studi sociologici nordamericani. All’origine di questa “innovazione” sembra esserci il consolidamento del sistema di produzione postfordista e del corrispondente modello politico neoliberale.
Da una forma di capitalismo che cercava d’ottimizzare le sue prestazioni attraverso politiche che incrementavano l’impiego e utilizzavano la capacità d’acquisto dei salari per accrescere la domanda, si è passati a un modello che ha fatto della precarizzazione della vita e della speculazione finanziaria la sua fondamentale fonte di profitto, ingenerando un nuovo tipo di società dominato dall’esclusione, dalla marginalizzazione sociale, dalla collocazione forzata nell’armata del precariato diffuso, dallo sfruttamento intensivo dei settori più marginali della forza lavoro. Una società dove l’umanità è percepita come un’eccedenza sociale, economica e politica. Sovranumeri da cui occorre liberarsi per alleggerire il ciclo produttivo, ripulire le città, rispedire nei luoghi di provenienza i migranti, fare piazza pulita di questuanti, posteggiatori e lavavetri, occupanti di case sfitte e writers. Il tutto declinato attraverso il linguaggio della messa al bando, della difesa della società e della neutralizzazione del male. Una società dove s’indeboliscono i legami sociali, viene meno ogni capacità inclusiva e prevale un dispositivo predatorio, una sorta di legge della giungla che conforma tutti i rapporti sociali ridisegnando una nuova dimensione ideologica che ha preso il nome di «populismo penale». Una “cultura del controllo” risultato della costante «tensione tra ideologia neoliberale del libero mercato e autoritarismo morale neoconservatore», dove il conflitto non trova più uno sbocco: privo di progettualità esprime solo rabbia, rivalsa, frustrazione, rancore. Una guerra dei forti contro i deboli, non solo dei primi contro gli ultimi ma dei penultimi contro chi viene subito dopo, di chi sta peggio col suo simile, di sopraffazione permanente, di scontro molecolare.
Dentro queste nuove contraddizioni mette radici un groviglio confuso di sentimenti che intrecciano la paura per l’avvenire, l’ossessione per il declino sociale, accentuando i processi d’identificazione vittimistica.

Vittime meritevoli e privatizzazione della giustizia
Figura centrale di questa grande svolta punitiva approdata in Europa dagli Usa è l’icona della vittima presentata come «autentica incarnazione dell’individuo meritevole: quasi un modello ideale di cittadino». Tuttavia l’investitura legittimante che offre l’acquisizione di questa posizione sociale è caratterizzata da un accesso fortemente limitato e diseguale. La postura dell’innocente è infatti riconosciuta sulla base di ben selezionati requisiti di ordine sociale, economico, culturale e etnico che variano secondo le latitudini. Per i gruppi stigmatizzati in partenza, nei confronti dei quali si presume una contiguità originaria con l’universo criminale o la genealogia del male, non vi è alcuna possibilità di accedere alla santità vittimaria.
In effetti più della vittima in se è la nozione di “vittima meritevole” che trova affermazione e legittimazione. Non basta aver subito un torto o un danno per poter essere riconosciuti come tali, occorre innanzitutto entrare a far parte della categoria legittimata ad esserlo. L’uso strumentale della figura della vittima ha innescato un processo regressivo di privatizzazione della giustizia. Ogni retorica riabilitativa è scomparsa dietro una pura logica di rappresaglia che i poteri pubblici delegano alla vendetta privata, costruita sulla spersonalizzazione e la disumanizzazione assoluta di chi viene immesso nel recinto dei colpevoli. Questo processo di privatizzazione del diritto di punire trae la sua origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica, favorendo la riparazione psicologica della vittima. La giustizia processuale perde in questo modo il suo ruolo peculiare di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di ricostruzione clinica della persona offesa.
Un’interpretazione che non ha mancato di sollevare obiezioni poiché sancisce una connaturata fragilità dell’individuo moderno, ormai ritenuto incapace di reggere i conflitti. L’esaltazione narcisistica della sofferenza diventa così una risorsa che le parti in lotta introducono nella dimensione simbolica del conflitto, percependosi ciascuna non più come avversaria e combattente, ma l’una vittima dell’altra. La reciprocità agonistica sostituisce l’inconciliabilità vittimistica. Una competizione della sofferenza che mina ogni possibile terreno di soluzione, ogni pausa o riconciliazione civile. Alla fine la vittima genera solo altre vittime, ricordava Hannah Arendt.
Quest’ideologia presenta tuttavia sfaccettaure diverse tra la realtà nordamericana e quella europea. Differenze legate alla presenza di modelli sociali, istituzionali e giudiziari dissimili. Il tema della complicità dello Stato con il crimine, tacciato per questo d’elitismo e corruzione, appartiene – per esempio – al repertorio classico della critica neoconservatice e dei libertarians americani (i fautori dello Stato minimo) nei confronti di quello che viene ritenuto un eccessivo presenzialismo statale. Al contrario, da noi, i “professionisti dell’antimafia” denunciano il lassismo del governo nella lotta alla criminalità auspicando un sempre maggiore coinvolgimento dello Stato. Il sistema giudiziario di tipo accusatorio fa si che nel modello nordamericano si configura una contrapposizione politico-ideologica tra gli incarichi elettivi e quelli indipendenti che reggono il sistema della giustizia penale, definito da Simon il «complesso accusatorio». Lo sceriffo della contea insieme a l’attorney (il procuratore) sono ritenuti gli eroi della guerra senza quartiere al crimine. Mentre il giudice terzo, in quanto garante delle forme della legge, è percepito come un ostacolo se non addirittura una figura connivente con la delinquenza.
La tradizione inquisitoria che pervade ancora il sistema giudiziario italiano, via di mezzo tra rito istruttorio e “semiaccusatorio”, consente invece alla nostra magistratura di essere individuata come il perno centrale della lotta non solo alla criminalità ma più in generale all’ingiustizia. L’impegno profuso nel contrastare la sovversione sociale degli anni 70, la lunga stagione delle leggi penali speciali e dei maxiprocessi che ha traversato il decennio 80, e poi lo tsunami giudiziario che ha preso il nome di “tangentopoli”, hanno conferito alla magistratura, e in particolare ad alcune importanti procure, il ruolo di vero e proprio soggetto politico portatore di un disegno generale di società, di una filosofia pubblica capace di sostituirsi agli attori tradizionali della politica, partiti e movimenti.

L’ideologia vittimaria
Tuttavia l’ideologia vittimaria non ha ancora assunto una sua fisionomia codificata e stabile. In un’epoca in cui i fenomeni sociali prendono una conformazione sociale «liquida», anche il vittimismo diventa non solo pervasivo ma proteiforme, mutevole. E così nelle lande del settentrione leghista fanno breccia gli argomenti tipici della destra statunitense sul contribuente vittimizzato dalle tasse governative, sul costo eccessivo di un welfare per i poveri e le minoranze urbane, cioè le stesse comunità accusate di generare criminalità, che nella retorica leghista diventano i migranti e le regioni meridionali.
Nonostante sia evidente la matrice ultrareazionaria e il carattere ferocemente conservatore dei suoi esiti politici, al dilagare del populismo penale – almeno in Italia – non è estranea la cultura di buona parte della sinistra che ancora pochi giorni fa si è radunata in piazza Navona. Questo mito dell’azione penale intesa come strumento politico di sostituzione, grimaldello che in nome di una presunta società civile pura, inerme, innocente, vittima e onesta, scardina la “casta della politica”, si attaglia perfettamente a quella concezione strumentale dell’apparato giudiziario di radicata tradizione sostanzialista, riassunta nella tradizione giacobina e lasalliana, maggioritaria nelle correnti di pensiero presenti nel movimento operaio. Un processo d’autoinvestitura politica della magistratura emerso in pieno negli anni 90. Un atteggiamento che privilegia la concezione aggressiva della funzione del giudice e attribuisce all’azione penale una posizione centrale nella scena pubblica, fino ad avocare a se un ruolo politico decisivo e una competenza illimitata. I parametri classici della teoria della tripartizione dei poteri vengono in questo modo stravolti a vantaggio di un modello di governo giudiziario nel quale il suffragio e la tradizionale teoria liberale della rappresentanza sono sopraffatti da una kantiana repubblica di procuratori della repubblica che ambisce all’interpretazione dell’interesse generale.
La giudiziarizzazione crescente della politica e il trionfo del populismo penale hanno contribuito al declino ulteriore dei modelli di Stato sociale in favore dello ritorno dello Stato etico e penale. «La vera fonte della legittimità deriva dalle legalità o dal suffragio?» – è arrivata a chiedersi nel 2001 la rivista Micromega, organo ideologico dei pasdaran della soluzione penale. La democrazia coniugata nella sua forma giudiziaria ha favorito e accelerato la svolta a destra della società italiana.
Per questo il rilancio dell’azione politica alternativa e della critica sociale non può che passare per il rifiuto totale di ogni subalternità verso concezioni penali della politica, unico modo per liberare la società dagli effetti stupefacenti dell’oppio giudiziario.

Per approfondire
Populismo penale
Curare e punire
Il governo della paura
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Alain Brossat, curare e punire

La legge francese sull’ “internamento di sicurezza”

Alain Brossat
Liberazione
(supplemento Queer) 13 luglio 2008

323-queer-13-07-08

La legge Dati, adottata dal Parlamento francese il 25 febbraio 2008, ha introdotto per i reati a sfondo sessuale l’internamento di sicurezza per una durata indefinita in luoghi annessi ai penitenziari, veri e propri “ospedali-prigione”, una volta terminata la pena. Questa nuova disposizione si pone al di fuori del principio di proporzionalità tra delitto e sanzione tradizionalmente sancito dal diritto penale. In questo modo la pena non è più legata all’infrazione contestata ma alla personalità dell’incriminato, ritenuto un pericolo costante per la società. Il criterio ispiratore di questa nuova legge sovrappone pericolosamente logiche e dinamiche molto diverse, creando una indistinzione tra l’approccio medico e quello penale. Riemerge così in tutto il suo splendore la figura dell’irrecuperabile (in questo caso doppiamente perché incurabile). Questi “malati” hanno in genere scontato lunghissime condanne (il dispositivo si riferisce a pene di quindici anni e più), durante le quali hanno avuto accesso soltanto a cure episodiche, inadatte, o addirittura a nessun tipo di cura. Dei malati gravi, così malati che un obbligo di cura può essere loro imposto vita natural durante, ma che saranno trattati al tempo stesso alla stregua di ipercriminali, di mostri. Questa nuova modalità legislativa segna anche il ritorno al modello delle lettres de cachet; le lettere sigillate con un timbro della casa reale che contenevano decisioni arbitrarie e inappellabili emesse dal sovrano, come ad esempio la condanna alla detenzione in prigioni e ospedali, o l’espulsione nelle colonie senza possibilità di processo o di appello. Sotto il segno di questa indistinzione appare, in realtà, un nuovo paradigma, quello del curare e punire. Dove il curare rischia fortemente di restare in questo caso un puro e semplice alibi per un nuovo giro di vite repressivo. Non per niente, infatti, il Sindacato della magistratura ha parlato a proposito di questa legge di «logica d’eliminazione». È risaputo che la nozione di rischio appartiene tanto all’arsenale discorsivo poliziesco quanto a quello medico. Se il primo parte dall’idea che certe categorie sociali ed etniche, certe topografie presentino maggiori rischi in termini di sicurezza o di criminalità, il secondo si concentra sui rischi sanitari legati alle epidemie, alle condizioni ambientali, alle categorie d’età. Il fantasma sicuritario, inteso come fantasma medico-poliziesco, consiste dunque nella eliminazione del rischio. Ma come ha osservato uno psichiatra nel contesto della discussione sulla legge Dati: «il rischio zero non esiste, o allora, bisognerebbe rinchiudere il 40% della popolazione». Ritroviamo qui le molteplici poste in gioco che un governo generale delle condotte può sfruttare a partire da teorie del rischio e discorsi di esperti, sociologi e altri, che vengono a concentrarsi attorno alla nozione di “società del rischio”. Quando il progetto di legge è stato discusso in parlamento, il suo relatore ha fatto aggiungere all’ultimo momento un emendamento che allarga il suo campo d’applicazione a ogni altra persona che sia stata condannata a una pena superiore ai quindici anni di carcere! Dunque, non più soltanto i “pedofili che rifiutano di curarsi”, come si pretendeva inizialmente ma anche gli autori di atti criminali di qualsiasi tipo, anche se non si capisce come questi ultimi possano essere considerati dei malati da sottoporre a un obbligo di cura. L’alibi medico viene così a cadere. Il pedofilo rappresenta, in realtà, una delle principali piaghe destinate a giustificare la sperimentazione di dispositivi che entrano nel quadro di ciò che possiamo chiamare l’eccezione furtiva. Il dispiegamento camuffato di un modello d’emergenza permanente. La nozione di “difesa sociale” – che implica la necessità di istituzioni e dispositivi volti ad allontanare i criminali “irrecuperabili” in modo più o meno permanente – è sempre esistita nelle società moderne occidentali. In Francia, ad esempio, era alla base della legge del 27 maggio 1885 che organizzava la lotta contro la recidiva per mezzo dell’internamento perpetuo dei multirecidivi nelle colonie. È del tutto evidente che un tale dispositivo non deve nulla alla medicina, o allora, con un gioco di parole, si tratta di una sorta di profilassi del crimine che prende in prestito alla medicina soltanto certi elementi morfologici molto generali. Gradualmente si è prodotto dunque uno spostamento di significato: il potere-sapere medico viene incluso in quest’ultima creazione della “difesa sociale”, il piccolo macchinario dei centri socio-medico-giudiziari di sicurezza. È apparso anche, in occasione della discussione di questa legge, il concetto di “pedo-criminali”. Questo neologismo richiama la nostra attenzione su due cose. In primo luogo la promozione del pedofilo al posto che occupava il parricida nella società di ancien régime, il vertice della piramide nella gerarchia dei mostri criminali. Ma soprattutto la fascinazione crescente che sembra esercitare nelle nostre società la delinquenza sessuale di ogni specie (stupro, molestia…). Perché tutto ciò?
Forse una risposta la si può ricavare dal fatto che tali tematiche rendono possibili nuove operazioni di concatenazione discorsiva tra gli enunciati sull’ordine e quelli sulla salute. Quest’ipotesi rimarrebbe forse in sospeso se non la si completasse con un’altra osservazione: il sesso che fascina e seduce, che richiede di essere simultaneamente sanzionato e medicalizzato, è il sesso colpevole, il sesso sregolato, il sesso patologico. La fascinazione moderna per il sesso, il sesso che parla si associa qui a quella esercitata dalla punizione. Una forma di punizione aggravata che ritrova in parte il prestigio degli antichi supplizi (la pena infinita al posto del taglio dei corpi). Come sappiamo, un desiderio immenso di punire attraversa attualmente le nostre società attraverso tutte le loro istituzioni – scuola, giustizia, polizia, impresa, ecc. Laddove questo desiderio di punire incontra il sesso si producono quelle che potremmo chiamare delle schegge accecanti di micro-fascismo. D’altra parte, viene confermato il tendenziale ritorno a modelli di reclusione e a politiche dell’esclusione, nel senso in cui questo termine viene utilizzato da Foucault in Storia della Follia: un movimento che riguarda categorie di persone sempre più disparate. Psicotici che si ritrovano in prigione, bambini disadattati, sans papiers, delinquenti sessuali e altre categorie stigmatizzate.
Per quel che riguarda la psichiatria e la sua implicazione volente o nolente in questo processo, sembra di assistere a uno sfilacciamento parziale di quel che era avvenuto con il passaggio dal “regime chiuso” dell’asilo al “regime aperto” o semi-aperto dell’ospedale psichiatrico e la sua multifunzionalità. Tutta la questione consiste nel comprendere come tali movimenti regressivi possano rendersi compatibili con la dinamica generale della medicalizzazione della società e della vita.
In nome della difesa degli uni, cioè del corpo “sano” della popolazione, dei “normali”, si tratterà di pronunciare un certo numero di decreti d’esclusione e di ostracismo contro gli altri. Sembra così che la medicalizzazione possa andare di pari passo con qualcosa di più che l’aumento della repressione: il ritorno alla vecchia operazione di divisione che consiste nell’escludere il folle tramite reclusione e lo straniero indesiderabile tramite proscrizione ed espulsione. La medicalizzazione può perfettamente accompagnare il ritorno o la perpetuazione di violenze estreme: tortura medicalizzata e pena di morte indolore negli Stati Uniti, pena perpetua in Europa.

(Traduzione a cura di Chiara Bonfiglioli)

Alain Brossat ha pubblicato in Italia per Eleuthèra
Sprigionare la società 2003

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Populismo penale
Curare e punire
Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
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Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica
Luigi Ferrajoli: Populismo penale ovvero la strategia della paura

Il governo della paura

Tratto da Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, Raffaello Cortina editore 2008 (2007)

di Jonathan Simon
Liberazione
(supplemento Queer) 13 luglio 2008

Il governo attraverso la criminalità rende l’America meno democratica e più polarizzata dal punto di vista razziale; esaurisce il nostro capitale sociale e reprime la capacità di innovare. Malgrado tutto questo, il governo attraverso la criminalità, non ci ha resi – e io credo che non possa renderci – più sicuri; esso, anzi, alimenta una cultura della paura e del controllo che, 323-queer-13-07-081 inevitabilmente, abbassa la soglia della paura nel momento in cui sottopone i cittadini americani a una pressione sempre più forte. Le conseguenze dell’ascesa della questione criminale a uno status del genere sono state enormi: che si individui il valore della democrazia americana nelle sue caratteristiche di libertà o di uguaglianza, il governo attraverso la criminalità ha prodotto effetti negativi. In primo luogo, il massiccio dirottamento di risorse fiscali e amministrative verso il sistema di giustizia criminale – a livello statale e federale – ha configurato una trasformazione efficacemente descritta come transizione dallo “stato sociale” allo “stato penale”. Il risultato non è stato un governo più leggero, ma un esecutivo più autoritario, un potere legislativo più inerte e un sistema giudiziario più difensivo di quanto sia mai stato imputato allo stesso stato sociale. Inoltre, la parte di popolazione sotto custodia penale per aver commesso reati è cresciuta al di là di ogni legge storica. Alla fine del XX secolo, un numero senza precedenti di americani era confinato in prigioni statali o di contea, in centri di detenzione e luoghi di custodia all’interno delle scuole. La declinazione razziale di questa incarcerazione ha visibilmente invertito aspetti chiave della rivoluzione dei diritti civili. Per la prima volta dall’abolizione della schiavitù, un gruppo definito di americani vive, su basi più o meno permanenti, in una condizione giuridica di non-libertà – in virtù di una singola condanna all’ergastolo, di ripetute incarcerazioni, oppure delle conseguenze di lungo termine di una condanna penale; non solo, ma tra questi una sconcertante percentuale discende dagli schiavi liberati. Governare questa porzione di popolazione attraverso il sistema penale non ha garantito quelle condizioni di sicurezza che 9788860301727 potrebbero ispirare un maggiore investimento delle inner cities (cinture urbane, Ndr), ma, al contrario, ha ulteriormente stigmatizzato comunità già assediate dalla concentrazione della povertà. Come è prevedibile, sono i poveri, sovrarappresentati in entrambi i gruppi, a condividere questo destino; ma anche la vita quotidiana delle famiglie middle class è stata trasformata, non tanto dalla criminalità in sé, quanto dalla “paura della criminalità”. Nelle famiglie appartenenti alla middle class, decisioni quali dove vivere, dove lavorare e dove mandare a scuola i figli sono prese sempre più spesso in base al rischio percepito di criminalità. Nella misura in cui le istituzioni che sono al servizio della middle class si concentrano sulla gestione della paura della criminalità, la nostra nei confronti degli altri e quella degli altri nei nostri confronti, gli effetti si moltiplicano. Il punto non è che la middle class sia più colpita dal governo attraverso la criminalità di quanto lo siano i poveri; piuttosto, è considerare tanto il sistema di giustizia penale incentrato sulla comunità povere quanto il settore privato degli ambienti securizzati middle class alla stregua di specifiche modalità di classe, tra loro interagenti, del governo attraverso la criminalità. Tanto l’emergere delle gated communities (complessi residenziali chiusi all’accesso dei non residenti, Ndr) quanto il moltiplicarsi di smisurati Suv (sport utility vehicles) riflettono la priorità accordata dalle famiglie middle class alla sicurezza e al mantenimento della distanza, contro un rischio di criminalità associato ai poveri urbani. Ma come i critici dello sprawl (progressiva estensione delle città oltre il perimetro urbano, Ndr) hanno iniziato a documentare, un’insistenza così pesante sulla fortificazione rende queste comunità ancora più dipendenti da una polizia aggressiva e dallo stato penale per la tutela delle norme di civiltà. Infatti, il nuovo ambiente securizzato tende ad alimentare alcune routine circoscritte, ma quando si presentano situazioni inedite, esso tende a creare ciò che gli economisti chiamano (in modo appropriato, nel nostro caso) “dilemma del prigioniero”: vale a dire un gioco in cui i giocatori non possono collaborare, e possono avere la meglio solo se si fanno predatori per primi. L’ultimo che resta fuori perde (anche se sta tornando al suo Suv o nella sua gated community). In un ambiente di questo tipo, è lecito aspettarsi che querele e procedimenti penali intervengano sempre più a ristabilire il controllo sociale in assenza di fiducia.
La democrazia americana è minacciata anche dall’emergere della vittima del crimine come modello dominante del cittadino in quanto rappresentante della gente comune, i cui bisogni e le cui capacità definiscono la missione del governo rappresentativo (Garland, 2001a, p. 249). Una serie di nuove forme di conoscenza porta adesso la “verità” delle vittime all’interno del sistema penale e al di là di questo (Simon, 2004, 2005). Le verità di queste vittime sono potenti, e spesso travolgono il significato emotivo di altre questioni. Esse minano le forme di solidarietà e di responsabilità necessarie alle istituzioni democratiche.
[…]
Le vittime di reati sono in senso letterale i soggetti più rappresentativi del nostro tempo (Garland, 2001a, pp. 70-72). E’ infatti in veste di vittime della criminalità che gli americani possono immaginarsi più facilmente come uniti; la minaccia del crimine al contempo ridimensiona le differenze esistenti tra loro e li autorizza a compiere passi politici decisivi. Di conseguenza, una parte considerevole dell’attività legislativa delle istituzioni rappresentative americane riguarda la criminalità. La vulnerabilità e i bisogni delle vittime delineano le condizioni ideali per l’intervento del governo.
La natura di tale identità della vittima è profondamente connotata in termini razziali. Non sono infatti tutte le vittime, ma essenzialmente quelle bianche, suburbane e middle class ad aver ispirato con la loro visibilità questa ondata di legislazione. La legislazione anticrimine ha un proprio luogo immaginario: aree residenziali sicure e rispettabili, tipicamente suburbane e circondate da un confine chiaramente demarcato sul quale si abbattono la criminalità, la povertà e l’incremento demografico delle minoranze. Le vittime di criminalità violenta hanno assicurato un volto pubblico alla legittimazione della guerra alla criminalità, sebbene tale guerra abbia preso di mira soprattutto reati non violenti e spesso persino senza vittime individuabili, come le violazioni della disciplina sulle droghe o delle norme che vietano agli autori di reato di detenere armi da fuoco (Dubber, 2002).
Ma sebbene le vittime abbiano avuto successo nel rivendicare l’attenzione e l’intervento del legislatore, questa forza non riesce a tradursi in prestazioni legate al moderno stato sociale. Al contrario, secondo la logica della moderna legislazione penale le vittime possono trarre beneficio solo dalla produzione di una sicurezza generale che discenderebbe dalla punizione del colpevole, oppure – in caso di morte di uno dei propri cari – da eventi psicologici come la “closure” (l’esecuzione capitale come terapia finalizzata a curare la sofferenza delle vittime, Ndr) (Zimring, 2004). Qualora invece le vittime ricevessero qualcosa di paragonabile, per esempio, a un’indennità di disoccupazione, esse verrebbero a rappresentare solo un ulteriore gruppo di interesse in cerca di reddito, e non certo il modello di “volontà generale” che esse impersonano attualmente.
[…]
Negli anni Ottanta, la vittima della criminalità è emersa dall’ombra del soggetto dei diritti civili per costituirsi come soggetto politico idealizzato in sé. In una sorta di estensione all’“uomo qualunque”, le rivendicazioni delle vittime di criminalità fecero propria la critica di complicità che gli attivisti dei diritti civili e le femministe avevano articolato a proposito del coinvolgimento dello stato nella violenza criminale. Era il fallimento dello stato liberale nella forma del processo accusatorio, della cauzione e delle alternative alla detenzione come la parole, a permettere a gente nota (o sospettata) come criminale dalla polizia, di uscire dal carcere in anticipo (se non addirittura di evaderne) e di porre in atto ulteriori aggressioni alla proprietà e alle persone.
[…]
Una volta separata dal soggetto dei diritti civili, la vittima della criminalità può legarsi facilmente a un altro nucleo fondamentale di mobilitazione politica (soprattutto da parte dei repubblicani): il contribuente, vittimizzato dal governo, minacciato da un’avida classe politica di perdere i propri averi e persino la capacità di avere una casa propria. La vincente retorica repubblicana sulle tasse degli anni Settanta e Ottanta collegava tutto questo all’elevato costo del welfare per i poveri e le minoranze urbane – le stesse comunità accusate di generare criminalità. Di conseguenza, gran parte della legislazione prodotta dal governo federale e dagli stati negli ultimi vent’anni sembra essere ispirata alla regola implicita secondo la quale i legislatori non devono mai sembrare avversi agli interessi di un soggetto politico che è al contempo contribuente e (potenziale) vittima di criminalità.

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Populismo penale
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Ho paura dunque esisto
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica
Luigi Ferrajoli: Populismo penale ovvero la strategia della paura

Populismo penale, una declinazione del neoliberismo

«A uno Stato snello, che rinuncia alle tradizionali funzioni protettive, si chiede allora l’essenziale: la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, anziché la difesa da un’economia che li minaccia. Il populismo penale è legato allo snellimento dello Stato e alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo, d’altro canto, va riferito al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonati dall’autorità. Questo risentimento, però, si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono»

 

Vincenzo Ruggiero
Liberazione
(supplemento Queer) 13 luglio 2008

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La questione criminale e quella penale sono ormai oggetto irrinunciabile della contesa tra i partiti politici. Destra e sinistra fanno a gara, negli Stati Uniti come in Danimarca, in paesi culturalmente simili o diversissimi, ad offrire sicurezza per i cittadini onesti e severità per chi viola le leggi. Si tratta di una tendenza generale, che tuttavia lascia intravedere delle differenze non secondarie quando si esaminano i paesi individualmente. Adottando una distinzione sommaria tra paesi a economia spiccatamente neo-liberista e paesi a economia relativamente controllata, i primi mostrano tassi più elevati di carcerazione, maggiore severità delle pene e minore tolleranza verso i reati di limitata gravità sociale. Una spiegazione provvisoria potrebbe essere la seguente. Nei paesi di intensa fede neo-liberista il successo individuale viene premiato tanto quanto l’insuccesso viene punito. Chi nel mercato mostra segni di fallimento, insomma, va espulso, castigato; si rischia altrimenti di lanciare un messaggio insidioso, vale a dire che la responsabilità per il fallimento non è da attribuire all’individuo, ma al mercato medesimo. I processi di globalizzazione fanno da sfondo a queste dinamiche. Mi riferisco, particolarmente, all’erosione del minimo di sussistenza per intere popolazioni, allo sradicamento provocato dalla deregolazione dei commerci, e alla creazione conseguente di eserciti di 883391268xg migranti e richiedenti asilo. D’altro canto, con la crescente interdipendenza tra paesi e popoli, e con la coabitazione ‘coatta’ tra questi ultimi, la presenza dell’altro si rende visibile e finisce per creare insicurezza. Ecco un paradosso. L’insicurezza creata dai mercati riguarda tutti, o per lo meno le maggioranze, in termini di paura rispetto al futuro, vulnerabilità nei confronti del datore di lavoro, impotenza verso i processi decisionali. Ma una simile paura, che Bakhtin definirebbe ‘cosmica’, rivolta com’è a un potere inafferrabile e debordante, viene tradotta in sgomento indirizzato a minoranze visibili. Se lo Stato non può più difenderci dall’economnia, se non è più in grado di guidarla ma solo di obberdirle, allora dovrà difenderci da altre fonti di insicurezza. A uno Stato snello, che rinuncia alle tradizionali funzioni protettive, si chiede allora l’essenziale: la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, anziché la difesa da un’economia che li minaccia. Il populismo penale è legato allo snellimento dello Stato e alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo, d’altro canto, va riferito al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonati dall’autorità. Questo risentimento, però, si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono avvertita. Il populismo non aspira al sostegno dell’opinione pubblica in generale, ma solo di quel settore della società che si crede sfavorito e danneggiato dalla presenza e dalle attività di altri gruppi. Questi ultimi, ritenuti immeritevoli di quanto posseggono, vengono indicati come responsabli dell’emarginazione di chi non vuole far altro che condurre un’esistenza ordinaria e silenziosa. Michael Howard, ministro britannico conservatore, in una dichiarazione rilasciata nel 1993, espresse con chiarezza questo pensiero: la maggioranza silenziosa è diventata rumorosa, perché il sistema della giustizia criminale fa ormai troppo per i criminali e troppo poco per la protezione del pubblico. Secondo una definizione comune, sono populisti i politici che concepiscono politiche penali punitive le quali sembrano rispecchiare gli umori popolari. Il populismo penale che si diffonde oggi, in realtà, nasconde altro. Assistiamo allo spettacolo dell’affluenza privata e dello squallore pubblico. Avvertiamo che i legami sociali si indeboliscono e sappiamo che solo questi legami possono contribuire, almeno parzialmente, a ostacolare gli appetiti individuali 8833911454geccessivi. La paura dell’altro, in questo contesto, è paura del tipo di sistema che abbiamo creato, è consapevolezza che sappiamo rispondere al crimine, ma non siamo in grado di rispondere alle sue cause. In una situazione di ineguaglianza crescente, con una polarizzazione della ricchezza che torna a livelli ottocenteschi, si teme che il crimine sia destinato a diffondersi e ad assumere i connotati della disperazione. Si teme l’ineguaglianza, non il crimine. Il populismo penale, infine, può avere una propria funzione latente. Se la severità penale, nei primi decenni della rivoluzione industriale, intendeva disciplinare le orde di spossessati al lavoro di fabbrica, nell’epoca corrente una simile severità può educare chi conduce vita precaria ad accettare la propria insicurezza e interiorizzare il proprio scarso valore sociale e umano. La pena, allora, contribuirà alla riduzione delle aspettative, convincendo chi ne è colpito della propria inutilità. Il populismo penale, in breve, è il compagno ideale della crescita economica, basata spesso sulla produzione dell’inutile che rende alcuni gruppi di esseri umani inutili. Ho detto in apertura che, nell’esaminare i paesi individualmente, si notano differenze non secondarie. Guardando all’Italia, ad esempio, credo che il populismo penale si avvalga di uno sfondo culturale e politico davvero singolare. Con una vita pubblica ormai priva di qualsiasi missione etica, e un’élite che moltiplica le manifestazioni della propria illegalità, il populismo non è il trasferimento in politica del risentimento popolare o delle intuizioni che vengono dalla strada, ma è l’insulto, l’aggressione, la depredazione che alcuni temono di poter subire per strada.

Vincenzo Ruggiero è professore di Sociologia presso la Middlesex University di Londra.
Tra i suoi libri: Economie sporche, Delitti dei deboli e dei potenti, Movimenti nella citta, Crimini dell’immaginazione, La violenza politica, e in questi giorni nelle librerie inglesi Social Movements: A Reader

 

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Una storia politica dell’amnistia

Libri – Une histoire politique de l’amnistie, a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, 263 pp, 24 euro

Paolo Persichetti
Liberazione
Sabato 25 agosto 2007

Solo pochi decenni fa l’amnistia era considerata ancora una parola di sinistra. Nata con la democrazia ateniese, era parte del repertorio delle forze che si dicevano democratiche. Fin dalle origini aveva animato le battaglie di libertà del movimento operaio. Convogliava un’idea di società tollerante e progressiva, conteneva una domanda di giustizia moderatrice consapevole dell’importanza che il ricorso a strumenti di correzione politica della fermezza penale, ispirati a quella mitezza tratta dalle vecchie massime latine che richiamano prudenza ed equità nell’applicazione della legge, svolgeva una funzione riparatrice delle ingiustizie. 41jpad5dx5l_ss500_Ma alla fine del Novecento una drastica inversione di tendenza sospinge paesi e società civili occidentali a ripudiare questo strumento di soluzione dei conflitti. Ciò non è vero ovunque, basti pensare alla Gran Bretagna di Blair che, nell’ambito del processo di soluzione politica della questione nord-irlandese, ha amnistiato tutti i militanti coinvolti negli scontri armati. Anche se l’esperienza più innovatrice viene dal Sud Africa di Mandela che, ispirandosi ai principi della giustizia ricostruttiva, ha scartato la via penale tradizionale per istituire un criterio d’accertamento dei fatti in cambio di clemenza e risarcimento pubblico delle vittime. Operazione che però ha messo sullo steso piano la violenza istituzionale che appoggiava il sistema segregazionista e quella antistituzionale che lottava in armi contro l’apartheid. Ipotesi che terrorizzerebbe qualsiasi esponente, passato e presente, dello Stato italiano chiamato a dover rispondere delle stragi della strategia della tensione e delle centinaia di morti che hanno insanguinato la gestione dell’ordine pubblico nei primi decenni della repubblica, quando nessuno a Sinistra aveva ancora scelto la via della violenza. Tuttavia queste due esperienze restano episodi minoritari rispetto ad un diritto penale internazionale sempre più ostile alle istituzioni della clemenza. Proprio dal tentativo di trovare una risposta a questo discredito parte l’opera collettanea curata da Sophie Wahnich, storica e ricercatrice del Cnrs, Une histoire politique de l’amnistie. Il volume, frutto di una ricerca multidisciplinare avviata nel 2003 e condotta su scala comparativa tra diversi paesi europei, poggia sulla convinzione che ormai, date le interdipendenze, una soluzione amnistiale per le insorgenze politiche degli anni 70-80 possa essere trovata unicamente coinvolgendo i livelli istituzionali dell’Unione europea, attraverso nuove forme di clemenza sopranazionale. Storicamente le amnistie sono state sempre accompagnate da dispositivi di riscrittura della storia, spesso opposti tra loro: far dimenticare, accertare la verità o renderla illeggibile. Molto diversa è poi la natura delle clemenze che sanciscono forme d’impunità preventiva, tipiche dei poteri costituiti, come accaduto per le dittature militari sudamericane o per i colpi di spugna sui reati economico-finanziari. In questo caso l’amnistia ha aiutato l’oscuramento dei fatti. Altro significato hanno invece le clemenze che temperano, dopo decenni di carcere, le dure repressioni contro gli oppositori politici, ripristinando quando ormai gli eventi sono ampiamente accertati una situazione di normalità giudiziaria stravolta dalle misure d’eccezione. Ma tutte queste distinzioni scompaiono di fronte all’attuale tendenza a voler confondere qualunque amnistia con l’impunità. È questo l’atteggiamento tenuto in Italia da un ceto politico che ha tutto l’interesse a far dimenticare le proprie ascendenze riversando sui reprobi degli anni 70 le pagine più ingombranti del proprio Novecento. Una rimozione che impedendo la chiusura del decennio 70 riemerge continuamente sotto forma di spettri che agitano fobie, polemiche, grottesche imitazioni del passato, ciniche speculazioni delle agenzie repressive, col risultato di avvelenare lo spazio pubblico. Ma la regressione della clemenza ha altre ragioni ancora più strutturali che investono la mutazione dei sistemi politici occidentali insieme all’emergere impetuoso del paradigma vittimario. Le democrazie occidentali sono ben lontane dal costituire degli esempi di superamento dell’inimicizia politica. E ciò, anche in ragione di un’ideologia umanitaria che attorno al «criterio dell’inerme» ha perso ogni capacità di discernimento tra i crimini di lesa umanità universalmente riconosciuti, come tortura, schiavitù, genocidio, misfatti coloniali, o quell’orrorismo di cui ha recentemente scritto Adriana Cavarero (Feltrinelli 2007), e le infrazioni commesse da chi ha esercitato il diritto di resistenza. In realtà chi dice umanità vuole ingannare, metteva in guardia Proudhon. Il diritto penale umanitario (tragico ossimoro) è divenuto lo strumento di distinzione tra bene e male, tra barbaro e civilizzato, favorendo l’emergere di assoluti etico-morali che depoliticizzano e destoricizzano sistematicamente gli eventi, fino a smarrire la differenza che passa tra l’illegalità degli oppressi e quella dei poteri costituiti. Non stupisce allora che la retorica umanitaria sia diventata la nuova arma ideologica con la quale gli Stati hanno moltiplicato guerre e spogliato della loro veste politica le infrazioni commesse da chi si organizza contro l’oppressione, relegandole a mera fattispecie criminale. Ma non tutti gli assoluti servono per essere rispettati, così nulla impedisce di scendere a patti con i tagliatori di teste Talebani, o chi pratica lo sterminio suicida come Hamas, mentre era assolutamente vietato negoziare con le Br. In questo caso il criterio non è più l’umano e l’inumano ma l’omologia tra le entità statali costituite dell’Occidente e quelle in formazione degli islamisti, radicalmente opposte al demone della rivoluzione sociale. Ciò rende più comprensibile anche quel grande stupro di senso che ha portato ad accomunare in un’unica giornata, non certo per ragioni di pietas, il ricordo delle vittime delle stragi di Stato e quelle della lotta armata. Resta da capire dove collocare i morti ammazzati come Pinelli o le centinaia di manifestanti falciati, dal 1946 fino a Carlo Giuliani, dalle forze dell’ordine. Vicende storiche opposte e inconciliabili sono riassunte in un unico paradigma che nulla c’entra col dolore ma assolve unicamente il potere. Altro che ricerca della verità e tentativo di riconciliazione. Il Sud Africa è lontano e le vittime delle stragi muoiono una seconda volta. L’uso strumentale della figura della vittima è uno dei passaggi centrali di questo processo, a cui è dedicato un intero capitolo nel quale si spiega che il diritto alla riparazione simbolica dell’offeso è lentamente scivolato verso un potere di punire quantificato in base alla natura e all’entità della pena da infliggere e al riconoscimento di una capacità d’interdizione e ostracismo perpetuo sul corpo del reo. Questo processo di privatizzazione della giustizia trae la sua origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica. Il sistema giudiziario perde il suo ruolo di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di riparazione psicologica della persona offesa. Una svolta culturale cui sembra aver contribuito la nozione di «stress post-traumatico» introdotta dalla psicologia clinica anglosassone dopo la guerra del Vietnam. Ma può un eventuale sentimento d’ingiustizia considerarsi una «ferita psicologica» sanabile per il mezzo di una condanna penale? In questa prospettiva la ricerca della verità giudiziaria non offre scampo. Essendo un momento necessario all’elaborazione del lutto, la dichiarazione di colpevolezza e l’ostracismo perpetuo restano l’unica soluzione accettabile perché il proscioglimento o la reintegrazione civile dell’accusato ostacolerebbe la guarigione mentale della vittima. L’uso strumentale della retorica vittimistica ha così legittimato il capovolgimento dell’onere della prova, il passaggio alla presunzione di colpevolezza, l’aggravamento delle sanzioni, la limitazione dei diritti dell’accusato e l’immoralità delle amnistie, fino al paradossale esercizio di un’etica selettiva che perde improvvisamente tutta la sua intransigenza di fronte a quella ragion di Stato che premia pentiti e dissociati.