Rapimento Moro, nuove carte mostrano che l’allarme lanciato dai palestinesi non riguardava il presidente della Dc /1

di Marco Clementi e Paolo Persichetti

 

20 april 1Il 20 aprile 1978, in pieno rapimento Moro, un ex appartenente ai Servizi di sicurezza del Venezuela fornisce al Sismi informazioni su due riunioni segrete tenute a Madrid e poi a Parigi nei primi mesi del 1978 sotto la direzione di una «Giunta di coordinamento rivoluzionario», la JCR (Junta coordinadora revolucionaria). La notizia, esposta in questi termini, era già nota alla prima commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento Moro (presieduta tra gli altri dal senatore Libero Gualtieri nel corso dell’VIII legislatura, 1979-1983). Il Sismi ne aveva scritto all’interno di una Relazione (pag. 21-22) inviata alla commissione, dove forniva «elementi specifici di risposta in funzione dei quesiti posti alla Commissione Parlamentare d’inchiesta» [1]. Oggi 7 20 aprile doc 2 copiasiamo in grado di presentarvi nella sua versione integrale quell’appunto del 20 aprile citato dal Sismi. Si tratta di un testo di due pagine redatto senza intestazione, data, numeri di protocollo e altri riferimenti (lo potete visionare qui accanto) ritrovato tra le carte della direttiva Prodi depositate presso l’Archivio centrale dello Stato (Direttiva Prodi, “Caso Moro”, Fondo Ministero Interno Gabinetto Speciale, busta 11).

Perché questo documento è importante?
Recentemente si è tornati a parlare, contro ogni evidenza, di segnali che avrebbero anticipato il progetto di sequestro del presidente della Democrazia cristiana e messo addirittura in allarme il maresciallo Leonardi e lo stesso Moro. Lo ha fatto la nuova commissione d’inchiesta parlamentare, presieduta da Giuseppe Fioroni, mischiando episodi diversi, in passato ampiamente indagati e rivelatisi infondati [2], che suscitarono una certa preoccupazione da parte del leader democristiano, non per la sua persona ma per le carte riservate presenti nell’archivio personale di via Savoia (oggi sappiamo – leggi qui – che vi erano conservati documenti di Stato [3], in particolare le carte del caso Sifar e dello scandalo Lockeed, di cui si discuteva molto in quel periodo [4]). La preoccupazione per la tutela di quei dossier era tale che Moro chiese alle forze di polizia «un servizio di vigilanza a tutela dell’ufficio di via Savoia» nelle ore della giornata in cui non era presente, richiesta che mostra quanto fosse poco allarmato per la sua persona [5]. Altro spunto utilizzato dalla commissione per rilanciare la pista dell’allarme preventivo è stato il cablo pervenuto da Beirut il 18 febbraio 1978 (in realtà comunicato al Sismi il giorno precedente) [6], dove la fonte 2000 (presumibilmente il colonnello Giovannone capocentro in Libano) riferiva la notizia fornitagli dal capo del FPLP George Habash di una possibile azione terroristica che avrebbe potuto coinvolgere l’Italia. Il documento è stato rinvenuto da chi scrive nella scorsa primavera tra i files depositati dall’Aise presso l’Archivio centrale dello Stato, nell’ambito delle Direttive Prodi e Renzi, e reso pubblico nel corso dell’audizione tenuta il 17 giugno 2015 davanti alla nuova commissione d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro [7]. Poiché il colonnello Giovannone era un uomo vicino a Moro e per suo conto svolgeva un ruolo centrale nella gestione del cosiddetto “Lodo Moro”, la commissione ha ipotizzato che Moro stesso fosse stato informato di quell’allarme senza tuttavia aver trovato conferme che l’informazione di Habash facesse riferimento a un progetto di attacco contro il presidente della Dc [8].

La ratio che sta dietro il tentativo ostinato di voler a tutti i costi dimostrare l’esistenza di un preallarme che avesse anticipato la preparazione di un attentato contro Aldo Moro, nella migliore delle ipotesi condurrebbe a denunciare la colpevole negligenza dei Servizi di intelligence e delle forze di Polizia per aver trascurato i segnali premonitori del pericolo imminente; in realtà serve ai fautori delle tesi complottiste, e delle narrazioni dietrologiche che imperversano sulla storia del sequestro Moro, per dimostrare il ruolo connivente, se non addirittura attivo dei Servizi, e di “forze oscure dello Stato”, nella organizzazione, esecuzione e gestione del sequestro.

L’appunto del 20 aprile assume dunque una rilevanza particolare perché dal raffronto incrociato con le indicazioni contenute nel cablo di Beirut si riscontra la presenza di due informazioni sovrapponibili:

  1. L’incontro avvenuto non molto tempo prima in un Paese europeo: «progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa», riferisce il cablo di Beirut; due riunioni segrete, una a Madrid e l’altra a Parigi, secondo l’appunto del 20 aprile.
  2. Il contenuto della riunione: progetto di una «operazione terroristica di notevole portata» per il cablo proveniente da Beirut; «l’esecuzione di azione clamorosa contro un’eminente personalità politica pubblica dell’Europa Occidentale», riferita nel documento del 20 aprile.

Entrambi i documenti si riferivano a Moro?
1 Cablo Beirut 17:18 febbraio 4309
La domanda è più che logica alla luce di quanto avvenuto il 16 marzo in via Fani, ma la risposta è negativa. Come vedremo meglio nella seconda puntata il Sismi svilupperà una intensa attività informativa per verificare la portata e il significato della informazione del 18 febbraio, sia precedentemente che successivamente all’azione di via Fani. Ripetutamente interpellate e sollecitate le varie organizzazioni palestinesi non solo ribadirono di non aver mai avuto notizia del progetto brigatista di sequestro, ma si mostrarono incapaci di instaurare un qualsiasi contatto, diretto o indiretto con i rapitori, e di riuscire a influenzarne politicamente, anche a distanza, l’azione. Come già sottolineato nell’audizione del 17 giugno 2015, il cablo proveniente da Beirut, in realtà, porta ad escludere ogni riferimento all’imminenza di un’azione delle Br in Italia, perché l’interlocutore del FPLP, ossia George Habash, sembra voler rassicurare il Sismi che l’Italia ne sarebbe stata fuori. Altre informative e indagini svolte dal Servizio – su cui ci soffermeremo sempre nella seconda puntata – corroborano piuttosto l’ipotesi di un attentato nei confronti di un obiettivo riguardante l’area mediorientale, che avrebbe potuto coinvolgere l’Italia al massimo come luogo di transito. Nel successivo appunto del 20 aprile si precisa con molta nettezza che il progetto di esecuzione di una clamorosa azione contro un’eminente personalità politica dell’Europa Occidentale «non è riferita all’On. Moro, come da recente precisazione della fonte». Sempre nello stesso appunto, tra i gruppi politici rivoluzionari indicati come partecipanti alle riunioni segrete della «Giunta», non sono mai menzionati gruppi combattenti europei come Eta, Raf, Br, Pl.

L’appunto del 20 aprile 1978
Il documento, suddiviso in tre punti, riferisce di una prima riunione segreta della “Giunta di coordinazione rivoluzionaria” tenutasi a Madrid nel gennaio 1978, nella quale avrebbero partecipato i rappresentati di formazioni politiche rivoluzionarie, in prevalenza sudamericane: il Mir cileno, l’Erp e i Montoneros argentini, l’Eln boliviano, i Tupamaros uruguaiani, il Mrp brasiliano, Baniera roja e la Liga socialista venezuelani. Insieme a loro viene segnalata la presenza di rivoluzionari di sinistra di altri Paesi (formulazione che lascia pensare ad una partecipazione di tipo individuale), dalla Colombia al Centroamerica, Usa, Germania occidentale, Giappone, Singapore. Avrebbero partecipato anche i guerriglieri del Fplp di George Habash (il che fornirebbe una spiegazione sul possesso delle informazioni riferite nel cablo del 18 febbraio), il Fronte polisario, il Pcte spagnolo, una formazione francese d’ispirazione trotzkista che nel punto successivo è indicato tra i gruppi iberici e Lotta Continua.

Preciso nel riferire delle realtà politico-rivoluzionarie del Sudamerica, che evidentemente la fonte, vista l’origine geografica, conosce direttamente, le informazioni diventano molto più lacunose quando si tratta di riportare la composizione dei gruppi degli altri continenti ed è ipotizzabile un errore per quanto riguarda LC.

Nella seconda riunione segreta tenutasi a Parigi si sarebbe decisa una strutturazione per aree regionali del coordinamento: sezione latino-americana; iberica; europea, nordamericana e asiatica. Il punto tre affronta i contenuti operativi di questo secondo incontro:

  • la finalizzazione di un piano per il trafugamento di equipaggiamento altamente sofisticato (armi portatili, laser con congegni di mira di nuovo tipo ecc);
  • l’esecuzione di un’azione clamorosa contro un’eminente personalità politica pubblica dell’Europa Occidentale (non riferita all’On. Moro, come da recente precisazione della Fonte);
  • la creazione di una centrale in Europa per la produzione di documenti personali falsi;
  • l’istituzione di un comitato tecnico-scientifico per lo studio di armamenti atomici;
  • l’addestramento dei guerriglieri in campi angolani da parte dei cubani;
  • l’incremento della lotta armata, soprattutto in Argentina, Brasile e Cile;
  • lo sviluppo di azioni terroristiche in occasione del campionato di Calcio in Argentina;
  • una nuova riunione in Svezia.

L’ex agente dei servizi venezuelani viene sentito a rapimento in corso e si offre per organizzare un’azione di infiltrazione utilizzando un nucleo di propri informatori [9]. Offerta in seguito esclusa dopo una serie di trattative – spiega il Sismi nella relazione inviata alla commissione – per le «scarse garanzie offerte dagli interlocutori» che tentano di accreditarsi millantando «il possesso di primizie informative» al momento del rinvenimento del cadavere di Moro, «giocando sulla differenza dei fusi orari rispetto all’immediata diffusione della notizia sul piano mondiale». Oltre alla coincidenza con i contenuti del cablo del 18 febbraio, è proprio questa mancanza di informazioni sulle Brigate rosse e il rapimento in corso che paradossalmente rafforza quanto riferito sulle riunioni della “Giunta” che, palesemente, nulla hanno a che vedere con quanto stava avvenendo in Italia.

La Junta coordinadora revolucionaria
Qualche informazione in più va spesa sulla JCR. Sorprende, infatti, ritrovare nel 1978, e per giunta in Europa, la sigla di questa organizzazione internazionalista nata nel 1974 dalla decisione delle formazioni rivoluzionarie dell’America Latina di stringere un’alleanza dopo il golpe cileno dell’anno precedente e coordinare le proprie forze e strategie per combattere le dittature militari del Cono Sud ispirate e sostenute dagli Stati Uniti. La JCR, soprattutto tramite l’ERP argentina, ha avuto relazioni intense con la Quarta internazionale, in particolare con i francesi della Ligue communiste révolutionnaire che appoggiarono l’opzione armata in Argentina. Gli storici più accreditati spiegano come la JCR, che le feroci dittature militari affrontarono dispiegando il piano Condor, entrò in crisi nel 1977 a seguito delle divisioni emerse all’interno dell’ Erp e alle relazioni stabilite dal Mir con Cuba in vista di un rientro in Cile. Un colpo molto duro arrivò nel 1975 con l’arresto e la tortura in Paraguay, da parte della polizia segreta di Alfredo Stroessner, di due dei suoi maggiori dirigenti: Jorge Fuentes soprannominato “El Trosko”, membro del Mir cileno, e Amilcar Santucho esponente dell’Erp argentino. Nella metà degli anni 70, la JCR che aveva il suo massimo radicamento in America latina, aprì delle sedi in Messico, ad Algeri e in Europa, dove per un periodo stabilì il suo segretariato centrale. E’ probabile che nel 1978, grazie alla rete degli esuli, si sia tentato di rilanciare la struttura internazionalista. Questo spiegherebbe le riunioni di Madrid e Parigi, anche se sembra che in questa fase la JCR non avesse più alcuna operatività reale. Aldo Marchesi, ritenuto uno degli studiosi più competenti delle vicende di questa organizzazione rivoluzionaria, scrive che in alcuni rapporti dei Servizi dei regimi Sud dittatoriali Americani si riferiscono riunioni tenute in Europa, dopo il 1977, con formazioni rivoluzionarie locali da coordinamenti indicati con la sigla JCR, che tuttavia non avevano più l’estensione organizzativa della prima JCR [10].

La nota del 15 aprile 1978
9 nota 15 aprile 4291:1
Il 5 aprile 1978 un’agenzia di stampa di destra, l’Aipe, dirama un dispaccio (n° 1640) in cui si riporta un allarme dei servizi di sicurezza francesi sul rischio di un nuovo gesto spettacolare.

«Il servizio segreto francese, cioè lo SDECE, – riferisce l’agenzia – è in stato di preallarme. Ha informazioni in base alle quali i terroristi comunisti europei stanno preparando spettacolari imprese, questa volta contro impianti e servizi, in alcuni Paesi dell’Europa Occidentale. Questo allarme è stato comunicato anche alle autorità di sicurezza dell’Italia, che oggi è il Paese più esposto al terrorismo comunista» [11].

La nota d’agenzia suscita una richiesta di verifiche e spiegazioni all’interno del Sismi. Il 15 aprile il Servizio redige un appunto di particolare interesse, in «Visione per il signor Capo Reparto», in cui nonostante la presenza di alcuni omissis (di cui sarebbe necessario provvedere alla rimozione) emergono ulteriori informazioni, per esempio un allarme del mese di Gennaio 1978 che avrebbe interessato le città di Londra e Parigi, e dal quale si scopre la presenza di altri documenti non ancora resi pubblici [12].

AIPE

Dispaccio Aipe

L’estensore precisa che «nessun preallarme relativo ad attentati terroristici in Europa Occidentale è recentemente pervenuto da Omissis. Siamo stati invece noi, nel gennaio scorso ad estendere in Omissis [nel testo sono appuntati a mano i numeri di protocollo di documenti ancora non versati in Acs, nel fondo della direttiva Prodi, 361=2 pal 38 (1512 + 1514)] un allarme (all. 2) pervenutoci da “R” ed interessante in particolar modo Londra e Parigi.
Poiché in tale messaggio si fa riferimento ad “organizzazioni terroristiche europee” non è da escludere che si tratti proprio di quello cui fa riferimento la nota d’agenzia».

«Altro Stato d’allarme – prosegue sempre la precisazione del Sismi – esteso più recentemente in Omissis» è quello in allegato 2 [numero aggiunto a penna insieme ai protocolli 1526 + 1527 + 1528, rispettivamente il cablo proveniente da Beirut, e la stessa informazione girata al Sisde, Ministero interni e Servizi alleati] [13] sempre originato da “R”.
E anche tale messaggio ha qualche assonanza con la nota d’agenzia poiché si parla di una “operazione di notevole portata” e nella nota si dice “spettacolari imprese”. Non si dispone di elemento utile a risalire al responsabile della diffusione delle notizie di cui alla nota successiva».

L’allarme dello Sdece francese sarebbe stato – almeno stando a quanto sostiene il Sismi – soltanto un’eco delle informative diffuse dal Servizio italiano presso quelli alleati. Ma quel che appare ancora più interessante in questo documento, con il beneficio del dubbio degli omissis, è l’indicazione di Londra e Parigi come sedi possibili degli attentati.

1/continua

Note

[1] ACS, “Caso Moro”, fondo Ministero Interno Gabinetto Speciale (MIGS) busta 11. Tra i quesiti affrontati dal Servizio militare al punto a) si chiedeva (pag. 2), «se vi sono state informazioni, comunque collegabili alla strage di via Fani, concernenti possibili azioni terroristiche nel periodo precedente il sequestro di Aldo Moro e come tali informazioni siano state controllate ed eventualmente utilizzate»; al punto b) (pag. 10) «se Moro abbia ricevuto, nei mesi precedenti il rapimento, minacce o avvertimenti diretti a fargli abbandonare l’attività politica».
Prima di fornire risposte sulle informazioni raccolte e l’attività di prevenzione svolta, il Sismi precisa, senza lasciare spazio ad interpretazioni, che «Nel periodo antecedente la strage di Via Fani non risulta che il SISMI abbia mai raccolto elementi che potessero far in qualche modo prevedere lo insorgere della vicenda MORO, sia sotto il profilo dell’acquisizione di informazioni su possibili e dirette azioni terroristiche e sia dal punto di vista dell’esistenza di semplici minacce od avvertimenti nei confronti del Parlamentare».

[2] Sul presunto «sequestro annunciato», parafrasi di un famoso libro di Garcia Marquez, si rinvia al volume di Vladimiro Satta, Odissea del caso Moro, Edup edizioni 2003, pagina 150, in cui l’autore ricostruisce con dovizia di particolari gli episodi dei falsi allarmi avvenuti sotto lo studio personale di Aldo Moro in via Savoia. In particolare la presenza di un motociclista sospetto con in mano un oggetto luccicante che poteva corrispondere ad una pistola, segnalata da Franco Di Bella, allora direttore del Corriere della sera, l’11 novembre 1977. L’uomo intravisto anche da altri testimoni venne poi identificato. Aveva precedenti per scippo ma la perquisizione della sua abitazione non diede alcun esito. Il secondo episodio del 4 febbraio 1978 riguardò un dipendente del Banco di Roma, Franco Moreno, visto aggirarsi con fare sospetto, secondo le impressioni ricavate da un testimone, nei pressi dello studio privato di Moro. Anche qui l’allarme risultò privo di qualsiasi fondamento.

[3] Vedi in proposito l’articolo di Marco Clementi sui documenti presenti nello studio privato di Aldo Moro in via Savoia a Roma, in https://insorgenze.net/2016/01/03/per-la-nato-moro-non-possedeva-segreti-che-mettessero-a-rischio-la-sicurezza-atlantica-2/

[4] Basti ricordare che il giorno del sequestro Repubblica aveva lanciato in prima pagina l’ipotesi che il collettore di tangenti della vicenda, sotto il nome in codice di Antelope Coobler, fosse lo stesso Moro. Edizione subito ritirata e sostituita con una nuova totalmente agiografica appena si diffuse la notizia del sequestro.

[5] Secondo quanto riferito da Nicola Rana, uno dei più stretti collaboratori di Moro che lavorava nell’ufficio privato del presidente Dc, fu lui stesso e non Moro a convocare il capo della polizia nello studio di via Savoia per ragioni che attenevano ad una serie di episodi: il caso Moreno e il furto reiterato dell’autoradio dalla sua automobile privata. Nell’audizione del 30 settembre 1980, davanti alla prima commissione Moro, Rana riferisce di aver incontrato il 15 marzo 1978 a sera, nell’ufficio di via Savoia, il capo della Polizia Parlato. Questa informazione contrasta con una relazione del 22 febbraio 1979, redatta dal capo della Digos e indirizzata al questore di Roma De Francesco, nella quale Domenico Spinella riferisce di esser andato di persona il 15 a sera in via Savoia per organizzare la vigilanza dell’ufficio nelle ore di assenza di Moro e della sua scorta. Per altro nella stessa relazione Spinella ricorda che la notizia dell’agguato di via Fani gli arrivò quando si trovava nell’ufficio di De Francesco. Nell’ultima audizione del 16 febbraio 2016, Rana afferma di non ricordare più con esattezza chi venne la sera del 15 marzo, se il capo della Polizia con cui aveva notevole dimestichezza o Spinella. Tuttavia conferma le ragioni di quella visita: «Torno a ripetere che una preoccupazione specifica e diretta su queste vicende non l’avevamo. Il furto riguarda il fatto che per 5-6-7 volte fu tolta la radio alla mia macchina, che era un’A112. Molto probabilmente attirava l’attenzione di giovani scapestrati, che toglievano la radio. A un certo momento poi determinate cose prendono una direzione anche sul piano delle preoccupazioni, che fino a quel momento non avevo, perché era un periodo in cui il furto di auto alle macchine era di moda. Peraltro, la mia macchina era piuttosto attraente e, quindi, i ragazzacci ne erano attratti».

[6] ACS, Acsnas-1/direttiva Prodi/AISE Moro II (marzo 2015) articolazione 1 (div CS CT e COT)/14 Faldone/volume 2, file 4309, UFFICIO R reparto “D” 1626 Segreto.

[7] Audizione del Professor Marco Clementi, 17 giugno 2015, davanti alla nuova commissione d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.

[8] Riguardo a tale ipotesi esiste tuttavia una secca smentita pronunciata da Nicola Rana nel corso della audizione tenuta davanti all’ultima commissione d’inchiesta Moro, cf. seduta n. 71 di Martedì 16 febbraio 2016.

[9] ACS, Caso Moro, MIGS, b. 16, SISMI, “Relazione per l’Inchiesta parlamentare sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro”, p. 22

[10] Aldo Marchesi, in Geografías de la protesta armada: nueva izquierda y latinoamericanismo en el cono sur. El ejemplo de la Junta de Coordinación Revolucionaria, Sociohistórica 2009, n° 25, pp. 41-72, Memoria Académica.

[11] ACS, direttiva Prodi/AISE Moro II (marzo 2015) articolazione 1 (div CS CT e COT)/14 Faldone/volume 2, file 4221, 15 aprile 1978, 2 pal 38/1558 Riservato, 3 fogli.

[12] Ivi, primo foglio «VISIONE PER IL SIGNOR CAPO REPARTO».

[13] ACS, direttiva Prodi/AISE Moro II (marzo 2015) articolazione 1 (div CS CT e COT)/14 Faldone/volume 2, file 4299, 18 febbraio 1978, ore 12.25, 2 pal 38/1527 Riservatissimo; file 4304 sempre 18 febbraio 1978, ore 18.30, 2 pal 38/1528 Riservato.

 

Alla ricerca del complotto. Speculazioni, cinismo e buchi nell’acqua di una inutile commissione d’inchiesta sul caso Moro

statua-moro-maglie.scale-to-max-width.825xLa nuova commissione d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro è giunta al suo giro di boa. Entro il mese di ottobre dovrà informare il parlamento sullo stato dei lavori sinora svolti. Dopo due anni di audizioni e nuove indagini peritali, delle tante aspettative iniziali sulla possibilità di fare luce sugli (pseudo)misteri del caso Moro è rimasto solo l’effetto d’annuncio. Il campo era già stato  sgomberato in parte dalla magistratura che nel corso delle sue ultime inchieste aveva accertato l’infondatezza delle rivelazioni sulla mancata liberazione di Moro in via Montalcini da parte dei Servizi. Anche la vicenda del presunto doppio ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani, il 9 maggio 1978, si era rivelata una millanteria con relativa incriminazione dell’autore. Venuti meno per manifesta infondatezza questi due oggetti di indagine, che tanto scandalo avevano suscitato facilitando la nascita della nuova commissione, ai suoi membri non è rimasto altro che concentrare l’attenzione sui fatti di via Fani. Ma anche qui le cose non sono andate nel verso auspicato dai dietrologi: la versione di Alessandro Marini, da sempre ritenuto un testimone chiave, sui due motociclisti che avrebbero dato supporto al rapimento esplodendo alcuni colpi contro il parabrezza del suo motorino, la presenza sulla scena del rapimento di un colonnello dei servizi, il tiratore scelto dalle molte identità, gli spari da destra, l’Austin sempre dei servizi posteggiata in modo da ostacolare la fuga del convoglio di Moro, il bar Olivetti chiuso da mesi ma riaperto di forza da alcuni commissari, i palazzi di via Fani gestiti da società fiduciarie sempre degli onnipresenti servizi, e ancora l’audizione di monsignor Mennini spacciata per la grande novità che avrebbe finalmente permesso di confermare l’esistenza del “canale di ritorno”, e come se non bastasse, la leggenda del fascicolo scomparso (invece soltanto smembrato e ricostituito altrove, presso l’archivio del Gabinetto speciale del ministro dell’Interno attivato durante il sequestro fino alla metà degli anni 90), l’armadio con le carte ancora secretate, l’originale di due fotocopie che non si trova da nessuna parte… Una lunga sequenza di episodi finiti tutti inevitabilmente in briciole. Un buco nell’acqua dietro l’altro che certo non arresterà i perditempo della dietrologia che ignorando ogni refutazione costruiscono sulla produzione industriale di misteri le loro carriere politiche e il loro stipendio. Fascicolo
Tuttavia questo bilancio pessimo, che ci conferma l’inutile spreco di questo carrozzone parlamentare, qualche cosa di nuovo e di buono – anche grazie al lavoro di alcuni commissari – alla fine l’ha dimostrato comunque. Intanto perché finalmente l’accesso alle fonti è aperto. La direttiva Prodi e quella più recente del governo Renzi consentono ormai la libera consultazione di una quantità incredibile di materiali provenienti dai Carabinieri, dal Gabinetto speciale del ministero dell’interno, dal Dis e da altre amministrazioni che si sono intersecate con la vicenda Moro. Esiste una quantità di fondi che fa invidia ad altre vicende storiche, che che ne dicano i maestri della dietrologia, notamment grandi “culi di pietra” che non amano faticare negli archivi. Questo ci dice che siamo difronte ad una realtà nuova: l’epoca del monopolio delle fonti che tanto piaceva a personaggi come Sergio Flamigni è finita. Quanto alla nuova generazione di dietrologi il problema nemmeno si pone, lavorano come pappagalli su fonti di terza o quarta generazione, copia-incolla e basta.
Questa novità ha permesso a nuovi ricercatori che si sono confrontati con questi materiali, che si sono misurati con le fonti primarie, di rimettere al centro il metodo storico e dare vita ad una critica della genealogia del discorso dietrologico. Per la prima volta sono stati auditi in commissione due studiosi di scuola non complottista, come Marco Clementi e Vladimiro Satta. Sembra una banalità eppure non era mai accaduto in precedenza. Nuovi documenti, documenti dimenticati o mai cercati, sono tornati alla luce, come mostra il libro di Gianremo Armeni che ha sgretolato la narrazione complottista di via Fani o il lavoro di Nicola Lofoco. Anche questo blog ha fatto la sua piccola parte scovando l’immagine del motorino col parabrezza privo di colpi d’arma da fuoco e una testimonianza chiave da tutti stranamente sempre taciuta.
Ciao MariniMa c’è stato ancora dell’altro. Una sorta di eterogenesi dei fini. La presunzione che il ricorso alle nuove tecniche forensi avrebbe permesso di acquisire quelle prove mai raggiunte in passsato dai teoremi complottisti, ha spinto incautamente la nuova commissione a chiedere al Servizio centrale antiterrorismo, alla polizia scientifica ed ai Ris dei carabinieri di compiere nuovi accertamenti. Contro ogni attesa la scansione tridimensionale di via Fani, insieme alle nuove indagini ed alla escussione di testimoni, hanno invece definitivamente messo a terra le velleità dietrologiche validando la versione fornita dai brigatisti, il numero delle armi impiegate e dei membri del commando che hanno fatto fuoco, escludendo ancora una volta la presenza di sparatori da destra contro la 132, confermando l’aggiramento in una seconda fase dell’Alfetta da parte di uno degli assalitori e l’inesistenza del mistero della vernice speciale presente su alcuni bossoli. Tutte cose già note e mai accettate dai fautori del complotto.
Pochi giorni fa è stata la volta del Ris che ha informato la commissione sui risultati ottenuti dalle ricerche fatte su 1115 reperti provenienti da alcune basi romane delle Brigate rosse e del Partito guerriglia, risalenti per altro ad epoche diverse: quelle di via Gradoli, via Pesci, via delle Nespole e poi nella stanza dell’appartamento di viale Giulio Cesare nella quale Morucci e Faranda avevano trovato una provvisoria ospitalità dopo l’uscita dall’organizzazione.
Ai tecnici dei carabinieri era stato chiesto di ritrovare tracce organiche della presenza di Moro e di Senzani in via Gradoli e di stabilire il numero dei frequentatori di quella base. L’ipotesi investigativa della commissione poggiava sulla convinzione che Moro fosse stato portato a spasso per Roma durante i 55 giorni e che a gestirlo ed interrogarlo non fosse stato Mario Moretti ma Giovanni Senzani.
Le ricerche effettuate su scarpe e oggetti da toilette (due spazzolini, un rasoio, alcune paia di scarpe e una pinzetta) non hanno evidenziato la presenza di profili di dna compatibili con quello di Moro. Sono emersi invece quattro profili ignoti, due maschili e due femminili. “Per la quasi totalità dna ‘da contatto’ depositato dal sudore”, ha riferito il colonnello Ripani, comandante del Ris. 
Conclusione: Moro non è mai stato in via Gradoli. Fine della storia? Neanche a pensarlo. Che quella base, come è noto, sia stata abitata nel tempo da due coppie di brigatisti (Faranda-Morucci e Balzerani-Moretti e in origine da Maria Carla Brioschi e Franco Bonisoli), per il presidente della commissione Fioroni non è un elemento sufficiente: ora si tenterà una comparazione col dna dei militanti Br condannati per la vicenda Moro. Sempre che questi siano d’accordo!
E perché mai dovrebbero esserlo?
Tracce della saliva di Moro sono state trovate sul bavero della sua giacca, il che –  ha sottolineato sempre il presidente Fioroni – porterebbe a supporre una morte non immediata dopo l’esecuzione. Circostanza, in realtà, già evidenziata dai risultati autoptici conosciuti da decenni e sottolineata con disappunto dal fratello di Moro nel suo libro. Insomma una conferma di quanto già noto se solo fosse letta la documentazione esistente.
L’altro materiale periziato ha riguardato tre gruppi di audiocassette provenienti da via Gradoli, viale Giulio Cesare e via delle Nespole. I Ris hanno provveduto a valutare lo stato di conservazione, a trasferire il materiale su dvd, a migliorare la qualità del parlato e a individuare, qualora presente, la voce dell’onorevole Moro. “Tutti i nastri – ha spiegato sempre il responsabile del Ris – sono in formato stereo 7, in uso negli anni ’70, sono in buone condizioni ma non è mai presente la voce dell’onorevole Aldo Moro”. 
Le diciotto cassette rinvenute nella base di via Gradoli ed in via delle Nespole, ha aggiunto il comandante, “sostanzialmente contenevano o un corso di inglese o della musica o non erano state incise”, con buona pace dell’onorevole Grassi che sognava di trovarvi l’interrogatorio di Moro in tedesco.

Rettifica
“Contenuti potenzialmente significativi”, così li ha definiti il responsabile del Ris, sarebbero stati stati riscontrati in altre cassette rinvenute non in viale Giulio Cesare, come erroneamente indicato all’inizio, ma in via delle Nespole, base del Partito guerriglia scoperta nel gennaio 1982 dopo alcuni interrogatori sotto tortura condotti con la tecnica dell’acqua e sale.
I “contenuti significativi” riferiti dal Ris sarebbero un audio inedito con la finta rivendicazione della esecuzione di Moro. Una voce annuncia il comunicato numero 13 (mai esistito, in tutto furono 9) e il ritrovamento del corpo a Genova. Probabilmente una prova. Le verifiche hanno escluso che si trattasse della voce di Morucci, autore della telefonata finale in cui si annunciava il luogo dove era stato lasciata la Renault 4 con il corpo di Moro. Il testo è sovraregistrato su un precedente audio in cui si sente una voce tenere una sorta di lezione, non si capisce bene se di economia o altra materia, che sembra aver attirato l’attenzione degli esperti del Ris insieme al contenuto di un’altra cassetta, dove comunque non è presente la voce dello statista democristiano.
Convinta di scoprire chissà quali segreti la commissione sta rovistando tra i rimasugli e gli scarti delle passate perqusizioni, recuperando reperti già ampiamente valutati all’epoca e ritenuti insignificanti o inutili per lo sviluppo delle indagini, convinta che la verità si trovi in fondo ad un cestino dei rifiuti.

Segue/Alle spalle di Moro

Per saperne di più
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Alle spalle di Moro
Ecco la prova che nessuno sparò al motorino di Marini in via Fani
La colonna sonora di via Fani. Dei nuovi documenti smontano la storia della Honda e le fantasie del supertestimone Marini
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Su via Fani un’onda di dietrologia. Ecco chi c’era veramente sulla Honda

La dietrologia nel caso Moro
1a puntata – Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia
2a puntata  – Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol
3a puntata – Via Fani e il fantasma del colonnello Guglielmi
4a puntata – La leggenda dei due motociclisti che sparano e il tentativo di cambiare la storia di via Fani
5a puntata – Nuova commissione d’inchiesta, De Tormentis è il vero rimosso del caso Moro
I dietrologi dell’isis su Moro
La falsa novità dell’audizione di monsignor Mennini. Il confessore di Moro interrogato già 7 volte
Povero Moro ridotto a “cold-case”
Perché la commissione Moro non si occupa delle torture impiegate durante le indagini sul sequestro e l’uccisione del presidente Dc?
La vicenda Moro e il sottomercato della dietrologia ormai allo sbando

La colonna sonora di via Fani. Nuovi documenti smontano la storia della Honda e le fantasie del supertestimone Marini

Esclusiva – da pochi giorni è nelle librerie Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, Tra le righe libri, aprile 2015. Un saggio da non perdere assolutamente se volete liberarvi il cervello da decenni di scorie complottiste. L’autore, Gianremo Armeni, ha trovato documenti ignorati per decenni da magistrati, membri delle commissioni d’inchiesta, complottisti d’ogni risma e colore, mettendo in luce come i dietrologi hanno impunemente arrangiato le loro ricostruzioni deformando la realtà. La storia torna a prendersi la sua grande rivincita. Ecco come andarono veramente le cose in via Fani

Paolo Persichetti
Il Garantista, 23 aprile 2015

armeni-copertina-moro16 marzo 1978, via Fani. Le tre vetture del commando brigatista con Moro a bordo stanno risalendo via Stresa. La scena dell’assalto, ormai alle loro spalle, è avvolta da improvviso silenzio, una sorta di tempo sospeso dopo il crepitìo degli spari, il rombo dei motori e lo strepitìo delle gomme che partono in accelerazione.
Un minuto, forse due e sul posto arriva una volante con a bordo gli agenti Di Berardino e Sapuppo. Si mettono immediatamente in contatto via radio con la centrale operativa per fornire le prime informazioni. Mentre gran parte dei testimoni prendono coraggio e si avvicinano ai corpi riversi all’interno delle vetture colpite, uno di loro punta diretto verso i poliziotti. La sua è un’ansia di parola, è convinto di aver visto tutto, di sapere ogni cosa, lui deve dire, indirizzare subito le indagini. Quel che è accaduto si invera nel suo racconto, egli ne è il depositario. Inizia così il vangelo dei misteri del caso Moro, attraverso il verbo primigenio dell’ingegner Alessandro Marini che, contrariamente a quello che si è voluto lasciar credere fino ad oggi, non ha mai illuminato di verità la storia del rapimento Moro, a cominciare da quel che è realmente accaduto quella mattina: la corretta dinamica dell’assalto brigatista; la presunta funzione attiva svolta da una moto Honda durante le fasi del rapimento; i presunti colpi sparati da uno dei passeggeri contro il parabrezza del suo motorino.
Tutto sommato dettagli difronte alla vicenda politica del rapimento, alla portata storica dell’episodio, al rilievo internazionale che esso ha avuto. Nonostante ciò questi aspetti hanno assunto un rilevo centrale, sono divenuti l’architrave originario della dietrologia sul rapimento, oggetto di una sterminata pubblicistica complottista, di ripetute indagini giudiziarie e processi, dell’attività ultradecennale di ben due commissioni d’inchiesta parlamentare e della recente costituzione di una terza, ma soprattutto hanno reso senso comune la superstizione del complotto.

11 Motorino01 copiaTrentasette anni dopo Gianremo Armeni, una laurea in sociologia, collaborazioni con Limes, un libro su Dalla Chiesa, un volume dedicato alle regole della lotta clandestina, Vademecum del brigatista, e un romanzo d’iniziazione sul nucleo storico delle Brigate rosse, fa piena luce sulla inattendibilità del super testimone con un saggio spietato appena uscito nelle librerie, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro (Tra le righe libri, aprile 2015, 16 euro).
Quella di Armeni è innanzitutto una grande prova di metodologia storica. Alla stregua di quelli che considera i suoi maestri, Giovanni Sabbatucci, Marco Clementi e Vladimiro Satta (quest’ultimo autore della prefazione), per districarsi dal ginepraio di ricostruzioni cospirazioniste fondate nella migliore delle ipotesi su presupposti che fanno capo al metodo indiziario e deduttivo, dove il soccorso delle prove è carente o inesistente, le fonti trascurate, travisate, omesse o peggio manipolate, Armeni è andato alla ricerca dei fatti, alla sorpresa che riserva l’incontro sempre imprevedibile con le fonti. Cinque anni di lavoro, una ricerca imponente che non trova eguali sulla materia: oltre alle monografie sulla vicenda Moro, ha studiato l’intero complesso di carte processuali e istruttorie che hanno dato corpo ai cinque processi sul rapimento, documentazione conservata presso l’aula bunker di Rebibbia. Per ben tre volte ha riletto i 130 volumi della commissione Moro e scandagliato con maniacale attenzione l’intero filone “caso Moro” della commissione Stragi. Un lavoro mastodontico che non ha tradito le aspettative: cercando «l’ago nel pagliaio», come lui stesso scrive, ha scovato tre documenti fondamentali più altre circostanze che radono al suolo la tesi della funzione attiva della moto in via Fani, gli spari contro il parabrezza del motorino di Marini, mettendo in serio dubbio il corretto operato di alcuni giudici istruttori, sostituti procuratori, presidenti di corte d’assise e membri delle commissioni d’inchiesta che hanno avuto un ruolo nell’accreditare la storia della moto.

8 Motorino nastrato-1 copiaNe fuoriesce un’autopsia implacabile di quella che è la genesi del discorso dietrologico: basta riandare ai minuti successivi dell’agguato quando l’ingegner Marini si avvicina ai poliziotti della volante per raccontare loro di aver visto una moto seguire la Fiat 132 che portava via Moro. Armeni ricostruisce nel dettaglio il percorso compiuto da quella prima e originaria informazione, subito registrata nei brogliacci della centrale operativa che dirama a tutte le volanti l’avviso di ricerca di quella misteriosa Honda, mai vista da nessuno degli altri testimoni che assistono lungo via Stresa alla fuga del commando brigatista. Il brogliaccio della centrale operativa e il successivo rapporto dei due agenti, che riprende le parole di Marini, finisce in una relazione di sintesi che il questore De Francesco invia in quelle prime ore alle massime autorità dello Stato. Nel testo si cita la presenza di una moto senza riferirne la fonte. Nel 2002, uno dei consulenti della commissione Stragi, Silvio Bonfigli, scova la relazione del questore e la pubblica in un libro scritto insieme a Jacopo Sce, Il delitto infinito. Ultime notizie sul sequestro Moro, Kaos edizioni. Prende forma così la leggenda della presenza, certificata da un’autonoma acquisizione della polizia, di una moto nell’azione di via Fani. Informazione – sostengono gli autori – di cui la magistratura non avrebbe tenuto conto aderendo invece alle smentite dei brigatisti. Falso anche questo perché alla fine del primo processo Moro, tra le condanne inflitte contro i componenti del commando che agirono quella mattina, ce ne fu una per complicità nel tentato omicidio dell’ingegner Marini assieme ai due presunti passeggeri della moto mai identificati. Ma che importa, il presupposto della dietrologia è ignorare le refutazioni alimentando una mondo di verità parallele, una controrealtà virtuale che mescola senza scrupoli credenze, suggestioni, incantesimi, malafede e menzogne, spesso a scopo di lucro.

4. Motorino 1 copiaAnche la verità giudiziaria non è da meno: da decenni sentiamo arguire che moto e spari contro Marini sono realtà storica poiché lo ha stabilito un giudicato processuale. Ma se il magistrato deve attenersi a questa regola, lo storico ha la felice libertà di ribaltare l’assunto rimettendo al centro l’indagine sui fatti realmente accaduti, lasciando sullo sfondo le chiacchiere di una sentenza che si è limitata a trascrivere, per altro in parte, una delle tante versioni di un testimone. Questa regola aurea della buona ricerca storica conduce Armeni a nuove sconcertanti scoperte, come la falsa storia della presunta inversione effettuata dolosamente dalla magistratura, quella relativa alla posizione occupata dai due centauri sulla moto, un aspetto questo che ha veicolato l’ennesima ipotesi di complotto; oppure i ripetuti cambi di versione forniti dal supertestimone nelle sue 11 deposizioni, che lo portano persino a cambiare il colore della moto e mettere in dubbio che qualcuno gli abbia sparato. Ritrattazioni mai attenzionate dalle roccaforti cospirazioniste. Anche qui il libro riserva la sorpresa di un documento eccezionale, sottolineato con inchiostro rosso presumibilmente dalle autorità giudiziarie dell’epoca.

Ciao MariniOsservato da vicino Marini è un vero vaso di Pandora: il 16 marzo riferisce d’aver visto la moto ma solo il 5 aprile, 20 giorni dopo, racconterà degli spari contro di lui. Ecco perché – nota Armeni – la polizia scientifica non poté sequestrare il parabrezza del motorino, lasciato incustodito in via Fani la mattina del 16 marzo (come è possibile vedere in alcune foto pubblicate su questo blog), che ritraggono un ciclomotore con il parabrezza nastrato accanto al muretto, sul lato sinistro del marciapiede da dove era sbucato il commando brigatista). Nel settembre successivo, sentito dal giudice istruttore Imposimato, torna sull’episodio e fornisce una fantasiosa mappa dell’agguato. I membri del commando raddoppiano e stranamente manca il cancelletto inferiore. Non c’è la donna armata che pure altri testimoni indicano. In sede processuale ribadirà di non aver mai visto la donna che presidiava l’incrocio tra via Fani e via Stresa.
Moro: Honda con due persone anche in Armeni non molla la presa, viviseziona le parole dell’oracolo Marini fino ad accorgersi di un dettaglio rimasto inosservato: secondo il supertestimone il passeggero della moto avrebbe impiegato il braccio sinistro per esplodere i colpi di pistola diretti contro di lui. Una singolare incoerenza che assomiglia tanto ad un lapsus rivelatore: Marini, infatti, si sarebbe dovuto trovare sul lato basso di via Fani, quindi a destra della moto al momento del suo passaggio. Anche qui Armeni mette in crisi la ricostruzione ufficiale ripescando una testimonianza, sempre ignorata, che solleva forti dubbi sulla posizione dichiarata dall’ingegnere sul motorino quella mattina, per offrirci alla fine una ulteriore chicca che chiude il cerchio sulla natura vertiginosa del personaggio. Il lettore capirà, allora, perché l’autore abbia scelto come titolo del suo saggio, Questi fantasmi, una delle più celebri commedie di Eduardo di Filippo, l’artista napoletano convocato sulla scena del rapimento Moro dallo stesso Marini.

Iter parabrezza 1Uno dei pezzi forti del libro è la documentazione, scovata in un particolare ufficio giudiziario, che ricostruisce la storia del parabrezza, fulcro dell’intera narrazione dietrologica. Si scopre che Marini, dopo averlo sostituito, ne aveva conservato solo due frammenti (circostanza assai singolare per un reperto di quella importanza), presi in consegna dalla Digos il 27 settembre 1978. Da quel giorno rimarrà chiuso nell’ufficio corpi di reato, dove lo spedisce il giudice istruttore Imposimato senza mai farlo periziare fino alla sua distruzione il 9 ottobre 1997. Non risponde al vero, dunque, la relazione del senatore Luigi Granelli, membro della commissione Stragi, che il 23 febbraio 1994 inspiegabilmente scrive di una perizia e di un colpo d’arma da fuoco che avrebbe attinto il Iter parabrezza 2parabrezza. In realtà il reperto non era mai uscito dal deposito dei corpi di reato e la sua esistenza era del tutto ignorata dai periti, come lamenterà uno di essi difronte ai giudici. Soltanto il 31 marzo 1994 e il successivo 17 maggio la magistratura si accorgerà della sua esistenza. Il reperto viene prelevato per non più di 24 ore, quando il pm Marini (omonimo del supertestimone) lo sottoporrà in visione al suo ex proprietario, il quale riconoscendolo rivela con estremo candore che non furono dei colpi di pistola a danneggiarlo ma una caduta del ciclomotore dal cavalletto nei giorni precedenti il 16 marzo (vedi qui, il Garantista del 12 marzo 2015).

Dep Marini 0 1994Dep Marini 1994Quanto basta per concludere che la funzione attiva della Honda nel rapimento è un ectoplasma processuale, che la magistratura giudicante volle inizialmente accreditare per mettere nel cassetto due ergastoli supplementari, divenuta in seguito uno dei cavalli di battaglia delle teorie complottiste a scapito anche della stessa corporazione togata che non avrebbe certo immaginato un giorno di essere all’origine di tanti danni. Nonostante ciò il procuratore generale Antonio Marini si è recentemente opposto all’archiviazione dell’inchiesta, ed ha riconvocato tutti i membri del commando brigatista presenti in via Fani, convinto che la fantomatica moto sia ricomparsa nel 1983 per compiere il ferimento di Gino Giugni, rivendicato dalle Br-pcc.

Ha fatto bene, allora, Gianremo Armeni a portare il colpo conclusivo alla fine del suo saggio. Partendo da alcuni studi sulla memoria uditiva, più affidabile di quella visiva, e dalla constatazione che tutti i testi hanno assistito solo ad alcune sequenze dell’azione, mentre la percezione dei rumori è rimasta ininterrotta, ha ricostruito con un esperimento innovativo la colonna sonora dell’assalto in via Fani. L’esito della prova è di una efficacia sorprendente: riemerge la traccia coerente del «fragore degli spari» e del momento preciso in cui essi hanno avuto termine. L’esame non lascia più spazio alle interpretazioni, alle ipotesi, alle suggestioni: la storia si riappropria di ciò che le era stato sottratto. Finita l’azione cala il silenzio, i testimoni si affacciano, rialzano la testa, escono dai loro momentanei ripari, scopriamo allora che è venuto il tempo di separare la storia dalla farsa.

Postscritum: una volta provato che nel modulo operativo del commando brigatista non era presente alcuna moto, e che nessun’altra ha interferito nell’azione, la questione della Honda diventa superflua. Tuttavia, poiché l’indagine di Armeni non smentisce affatto il passaggio di una motocicletta quella mattina (ne circolano migliaia a Roma ogni giorno), resta legittima la curiosità del lettore sul momento esatto in cui essa si è affacciata sulla scena. Armeni con estremo rigore ricostruisce anche questo, correggendo alcune ricostruzioni circolate in passato. Gli elementi per scoprirlo c’erano già tutti, bastava rimontare i pezzi con un po’ di logica scevra da retropensieri, pregiudizi e strumentalizzazioni. Chi c’era sopra? Questo è stato già scritto (vedi qui). Ora leggete il libro, poi ne riparleremo.

Per saperne di più
Rapimento Moro, la ricostruzione dell’azione di via Fani disegnata da Mario Moretti
Ecco la prova che nessuno sparò al motorino di Marini in via Fani
La leggenda dei due motociclisti che sparano e il tentativo di cambiare la storia di via Fani
Su via Fani un’onda di dietrologia. Ecco chi c’era veramente sulla Honda

La dietrologia nel caso Moro
1a puntata – Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia
2a puntata  – Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol
3a puntata – Via Fani e il fantasma del colonnello Guglielmi
4a puntata – La leggenda dei due motociclisti che sparano e il tentativo di cambiare la storia di via Fani
5a puntata – Nuova commissione d’inchiesta, De Tormentis è il vero rimosso del caso Moro
I dietrologi dell’isis su Moro
La falsa novità dell’audizione di monsignor Mennini. Il confessore di Moro interrogato già 7 volte
Povero Moro ridotto a “cold-case”
Perché la commissione Moro non si occupa delle torture impiegate durante le indagini sul sequestro e l’uccisione del presidente Dc?
La vicenda Moro e il sottomercato della dietrologia ormai allo sbando

Armeni pag 12

 Armeni pag 13

Rapimento Moro, ma quali servizi sulla moto Honda di via Fani c’erano due giovani che abitavano nel quartiere

Sulla motocicletta Honda che la mattina del 16 marzo 1978 transitò in via Fani, pochi minuti prima che scattasse l’attacco delle Brigate rosse contro la scorta del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, non c’erano uomini del Sismi ma due giovani del quartiere. I loro nomi, come ha ricordato recentemente un articolo apparso su Contropiano, sono noti da tempo alla magistratura: identificati dalla Digos nella primavera del 1998 chiarirono la loro posizione davanti al pubblico ministero Antonio Marini.
Nonostante la circostanza fosse stata ampiamente chiarita 16 anni fa, non si è esitato a rilanciare sull’Ansa un nuovo depistaggio, partendo da una lettera anonima inviata al quotidiano la Stampa nel 2009 che indicava a cavallo della Honda due presunti agenti del Sismi, i servizi segreti militari, ovviamente deceduti nel frattempo. Pista archiviata nel 2009 dalle procure di Torino e Roma dopo che gli uffici della Digos ne avevano verificato l’inconsistenza.


Su via Fani un’onda di dietrologia

di Marco Clementi e Paolo Persichetti

cb500fk2b2 Abitavano in via Stresa, a poche decine di metri dall’incrocio dove venne portata a termine l’azione più importante delle Brigate rosse. Giuseppe Biancucci aveva 23 anni e Roberta Angelotti 20, quella mattina stavano tornando a casa ignari di quel che stava accadendo, non avevano armi con loro e non facevano parte delle Brigate rosse anche se gravitavano in un’area politica contigua. Erano sulla moto che transitò pochi attimi prima dell’arrivo del convoglio di Moro che subì l’attaccato di un nucleo composto da dieci brigatisti. La motocicletta che passò improvvisamente sulla scena non c’entrava nulla con quell’azione, anzi, creò solo imbarazzo. Biancucci e Angelotti, conosciuti a Roma Nord come “Peppe e Peppa” erano due “compagni” che militavano nel “Comitato proletario di Primavalle Mario Salvi”, dal nome del “militante comunista combattente” ucciso nel 1976 con un colpo di pistola alle spalle da Domenico Velluto, guardia carceraria, alla fine di una manifestazione sotto il ministero della Giustizia.
La loro militanza politica è una circostanza decisiva perché spiega due cose: il comportamento tenuto una volta giunti all’incrocio tra via Fani e via Stresa e il loro successivo silenzio. Dettaglio non da poco, Biancucci e Angelotti vennero arrestati nella primavera successiva nel corso di una inchiesta condotta dai Carabinieri nella zona Nord della capitale contro l’Mpro, un’area che le Brigate rosse stavano tentando di creare al di fuori dell’organizzazione con l’intento di coinvolgere parte del “movimento”.
Come ha raccontato Contropiano, Giuseppe Biancucci conosceva molto bene due persone che erano in via Fani quella mattina: Valerio Morucci, uno degli “steward” che dietro la siepe del bar Olivetti attendevano la vettura di Moro e la sua scorta e Alessio Casimirri, uno dei componenti del “cancelletto superiore”. Con il primo aveva frequentato il liceo mentre con il secondo aveva condiviso la militanza nel comitato di Primavalle. Rallentò perché si accorse di loro, vide Morucci camuffato, capì che stava accadendo qualcosa di grosso, addirittura lo salutò con un cenno di mano e poi via a tutto gas verso casa. Quell’esitazione, gli sguardi di complicità scambiati con i vecchi compagni furono poi interpretati da alcuni testimoni oculari, alquanto confusi e contraddittori, come il segno di una complicità operativa che non ci fu.
La domanda giusta, allora, non è cosa stessero facendo Biancucci e Angelotti sotto casa sulla loro moto con targa regolare, ma perché non hanno mai parlato. Porsi una domanda giusta è il segreto per avere una risposta di qualche interesse. L’esatto opposto di quel che fa la dietrologia. Per la cronaca, Biancucci rientrava dal lavoro, smontava dal turno di notte nel garage del padre situato a poca distanza.
E forse non ha mai parlato, perché in via Fani aveva visto degli amici, perché magari era convinto che stessero facendo una cosa condivisibile, o semplicemente perché un “compagno” non fa la spia. Tempi diversi da quelli odierni.
A parlare ci pensarono poi altri, alcuni pentiti come Raimondo Etro che rientrato da una lunga latitanza all’inizio degli anni 90 per discolparsi dal sospetto di essere stato uno dei passeggeri della moto riferì l’episodio sentito raccontare da Casimirri: «ad un certo punto sono passati quei due cretini su una moto». Individuati dalla Digos, Biancucci e Angelotti vennero ascoltati nella primavera del 1998 dal magistrato che cercò di incastrarli su un’altra vicenda, quella del tentato omicidio di Domenico Velluto, l’assassino di Mario Salvi, e della morte del suo vicino di tavolo, Mario Amato, colpito per errore in una trattoria mentre festeggiava la scarcerazione. I due ammisero di essere passati per via Fani quella mattina ma con tutto il resto non c’entravano nulla. Successivamente, come ha riportato Contropiano la settimana scorsa, uno dei testimoni chiave di via Fani, l’ingegner Marini (citato sempre a sproposito) riconobbe addirittura lo stesso Biancucci, scomparso precocemente nel 2010, come il guidatore della moto.

 Le considerazioni che questa storia suggerisce sono molte:

1) 16 anni fa la magistratura è pervenuta ad una ricostruzione della vicenda della moto di via Fani che si avvale di elementi probanti molto forti: la deposizione dei due motociclisti che hanno ammesso la circostanza, la plausibilità del loro racconto, la prossimità delle loro abitazioni con via Fani, il riconoscimento del testimone, il possesso della moto da parte del Biancucci compatibile temporalmente con i fatti, la testimonianza di uno dei brigatisti presenti in via Fani. Evidenze del tutto ignorate dal circo mediatico che ha rincorso uno scoop fondato su una lettera anonima farcita di contraddizioni. Possibile che nessuno sapesse dell’inchiesta del 1998? Che nessuno si sia ricordato?

2) La lettera anonima e il racconto dell’ex poliziotto in pensione, la stesura romanzata della vicenda facevano acqua da tutte le parti. Ci voleva molto poco per sentire puzza di marcio. L’autore dell’articolo scegliendo un registro narrativo vittimistico-persecutorio ha omesso di raccontare come le procure di Torino (pm Ausilio) e Roma (procuratore aggiunto Capaldo, a cui venne trasmesso il fascicolo per competenza), avessero fatto accertamenti escludendo l’attendibilità di quanto asserito in quella lettera ed inviando la pratica verso una inevitabile archiviazione (Cf. la copia delle lettera).

Lettera Honda copiaSi potevano evincere da subito due grossolane contraddizioni:

a) Stando al suo contenuto, l’anonimo autore del testo (dalla sintassi traballante) sarebbe il passeggero posteriore della motocicletta, quello che secondo uno dei testimoni più citati di via Fani – l’ingegner Marini – aveva un sottocasco scuro sul volto e soprattutto era armato con una piccola mitraglietta con cui avrebbe sparato ad altezza d’uomo (anche se i bossoli non sono mai stati trovati e l’esame balistico non conferma affatto l’episodio). Perché mai dunque la ricerca delle armi si è indirizzata solo sul guidatore (di cui si forniscono tracce nella missiva) che non aveva armi in mano? Ed a lui sarebbe stata trovata una improbabile pistola per nulla riconducibile ad una mitraglietta (vedi l’immagine qui sotto)?

b) Racconta l’ex poliziotto di aver trovato l’arma sospetta nella cantina del supposto guidatore, vicino ad una copia cellofanata della edizione straordinaria de La Repubblica del 16 marzo con il titolo “Moro rapito dalle Brigate Rosse”. Se non è un copione cinematografico poco ci manca. L’arma era una Drulov cecoslovacca, pistola sportiva monocolpo a gas compresso Co2, con canna molto lunga. Poco maneggevole, basta provarla per capire che va bene solo per il tiro a segno, da posizione immobile e con tempo prestabilito per la mira, inutilizzabile in un’azione come quella di via Fani, impensabile come arma in dotazione a corpi speciali.

Drulov copia

 3) Siamo ormai al terzo tentativo fallito di accreditare in pochi mesi nuove piste, rivelazioni e misteri, dopo la clamorosa defaillance dell’ex magistrato Imposimato, raggirato da un personaggio che si è finto teste chiave assumendo diverse personalità e nikname e per questo ora indagato dalla magistratura. Queste “rivelazioni” assumono rilevanza non per la loro veridicità intrinseca ma solo per l’enorme pressione mediatica che le sospinge e una volontà politica largamente condivisa, decisa a non seppellire il cadavere di Moro per perpetuarne l’uso strumentale nell’arena politica con una nuova commissione parlamentare d’inchiesta.

4) Quale è il significato ultimo di tanta dietrologia sul rapimento Moro? Estirpare da ogni ordine del pensabile l’idea stessa di rivoluzione. Sradicare quegli eventi dall’ordine del possibile. Negarne non solo la verità storica (su cui il dibattito resta, ovviamente, aperto), ma l’ipotesi stessa che possa essere avvenuta. Presentare, quindi, le rivoluzioni come eventi inutili, se non infidi, sempre e comunque manovrati dai poteri forti, in cui c’è sempre un grande vecchio che non si trova e una verità occulta che sfugge continuamente. Si è diffusa una sorta di malattia della conoscenza, una incapacità ontologica che impedisce di accettare non solo la possibilità ma la pensabilità stessa che dei gruppi sociali possano aver concepito e tentato di mettere in pratica una strada diretta al potere. La dietrologia e il cospirazionismo hanno come essenza filosofica il negazionismo della capacità del soggetto di agire, di pensare in piena autonomia secondo interessi legati alla propria condizione sociale, ideologica, politica, culturale, religiosa, di genere.
Infine, impedisce di vedere ciò che appare acclarato, talmente grande ed evidente, che finisce sempre per rimanere celato dalle “rivelazioni”: lo Stato, i partiti, assunsero durante i 55 giorni del rapimento Moro una posizione ben precisa. Non trattarono. Fu una legittima scelta politica che, però, conteneva in sé la potenzialità che Moro potesse venire ucciso. Si tratta di una responsabilità non da poco ma, lo ripetiamo, assolutamente legittima. In tale contesto, i servizi potevano logicamente servire a trovare Moro, o a controllare che non uscisse vivo dalla prigione del popolo? Più si insiste sulla seconda ipotesi, più sfugge il lato politico della vicenda. Più si preme il tasto della dietrologia, meno si ricordano le dichiarazioni quotidiane di quei giorni, per cui, come disse un alto esponente del Pci dopo la prima lettera a Cossiga, “per noi Moro è politicamente morto”.

Cosa accadde a via Fani la mattina del 16 marzo 1978?
Roma,16 marzo 1978, in via Fani alcuni operai scesi dalle fabbriche del Nord insieme ad un gruppo di precari romani provano a cambiare la storia d’Italia. Erano le Brigate rosse

Sulle recenti rivelazioni
www.contropiano.org “Un faro nel buio
Radioblackout.org 2014/03/ Chi c’era dietro le Br? Tanti, tanti proletari
Rapimento Moro, il borsista Sokolov non è l’agente del Kgb di cui parlano Imposimato e Gotor

Uno sguardo critico su Doppio Stato, teorie del complotto e dietrologia
Doppio Stato e dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro
L
otta armata e teorie del complotto

Per una storia sociale della lotta armata
Gli anni 70 è ora di affidarli agli storici-intervista
Steve Wright: operaismo e lotta armata
La vera storia del processo di Torino al “nucleo-storico” delle Brigate rosse: il Pci intervenne sui giurati popolari
Mario Moretti, Brigate rosse une histoire italienne


Italiani brutta gente. Ritrovato a Rodi l’archivio segreto realizzato dai Carabinieri durante la dominazione coloniale nel Dodecaneso. 90 mila dossier per 130 mila abitanti

Dalla Cirenaica a Nassiriya le proiezioni italiane all’estero sono state sempre accompagnate dalla litania degli «italiani brava gente». La scoperta di un archivio dei Carabinieri Reali – Ufficio speciale (una sorta di Ros attuale) di stanza a Rodi durante la dominazione italiana dell’arcipelago del Dodecaneso, rimasto segreto fino ad oggi, porta l’ennesimo colpo a questa retorica del “colonialismo buono”. Un controllo capillare e oppressivo, un abitante su quattro schedato: erano queste le basi del consenso e le forme di civiltà che la “grande proletaria”, evocata da Pascoli, dispensava nelle sue colonie. Lo storico Marco Clementi, che ha contribuito a riportare alla luce queste carte segrete, ci racconta quel che ha potuto leggere fino ad ora

Marco Clementi
L’Huffington Post
  8 dicembre 2013

archivio dodecaneso italianoRodi, Gruppo Carabinieri Reali – Ufficio Centrale Speciale. Dietro questa sigla si nascose per più di dieci anni, dal 1932 fino alla fine della seconda guerra mondiale, l’ufficio politico italiano di pubblica sicurezza, che riuscì a mettere sotto controllo praticamente l’intero Dodecaneso.
Su una popolazione di 130.000 abitanti furono raccolti circa 90.000 dossier, conservati oggi in un archivio unico e per il momento non accessibile agli studiosi, ma che si spera in un paio d’anni potrà fornire materiale in grado di aiutare a rileggere la presenza italiana nel Dodecaneso (1912-1947) e offrire nuovi spunti per la comprensione del fascismo.
Eirini Toliou, la direttrice del locale Archivio di Stato che ha acquisito i fascicoli, sostiene che fu Mussolini a volere questo stretto controllo. Probabilmente, nonostante un governo non disprezzabile, l’Italia non era stata in grado di ottenere la piena fiducia dei dodecanesini. Il luogo, inoltre, meta turistica di prestigio, si prestava allo spionaggio di stranieri residenti o di passaggio, provenienti dal Levante o dall’Europa, alleati o possibili nemici.
Scheda del nominato: così era chiamata la cartella contenente cognome e nome della persona controllata, paternità e maternità, data e luogo di nascita e residenza. In basso il numero di pratica, ossia il dossier, con l’indicazione dell’anno in cui era stato creato. Da quel momento, tutte le successive informazioni venivano allegate nella cartella originale. Persone normali si è detto, come Nichitas Zavolas, nato a Pigadia il 15 marzo 1897, o Teorodo Costantinidi fu Costantino, medico condotto, sul quale il 17 febbraio 1939 i carabinieri scrivono: “In passato fu un fervente irredentista ed era tenuto in molta considerazione dalla popolazione per l’opera che svolgeva a favore dell’unione di queste Isole alla Grecia”. Da diversi anni però (siamo nel 1939) “si disinteressa di politica ed affianca le autorità italiane dando a vedere di essere un leale collaboratore […]. Non è di razza ebraica”.
Cambiano i tempi. Siamo dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia. A Rodi è governatore Cesare Maria de Vecchi conte di Val Cismon, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Moderato verso gli ebrei, mantiene il Collegio rabbinico ma deve comunque gestire il formale controllo razziale. Ai cittadini viene fornito un questionario dove specificare, cancellando con un tratto di penna le indicazioni che non interessano, se si appartiene alla razza ebraica (padre o madre), se si è iscritti alla comunità israelitica o se ne professi la religione.
Gli ebrei e gli irredentisti sono tenuti sotto controllo. Si capisce. Ma anche gli amici, come il maggiore della polizia tedesca Rodolfo Kaufmann, numero di protocollo 1229 categoria 2=10=15=1938, o il presidente della compagnia di bandiera “Ala Littoria”, Umberto Klinger, l’onorevole Klinger, che partecipò all’impresa di Fiume e durante la seconda guerra mondiale diresse il 114º Gruppo Autonomo di Bombardamento, protocollo 4950 categoria 2.11.1698-1937. Con lui, i passeggeri dei voli per Rodi, tutti regolarmente segnalati.
Poi i nemici, certo, come Kermeth Arthur Noel Anderson, maggiore comandante le truppe inglesi in Palestina, protocollo 6880 categ. 2.10.41=1933, o il deputato “irakiano” Yassin Taymore (167:1.1-102:1939) e la certissima “agente servizio informazioni cecoslovacco” Margaret Kis, agganciata nel 1936.
Scoppia la guerra e il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, la cui giurisdizione non era stata estesa alle Isole Egee, diventa a Rodi il “Tribunale speciale per la difesa del Possedimento”, e condanna all’ergastolo Giorgio Chirmicali per aver “portato armi contro lo Stato italiano”. Prigioniero a Taranto, non può neanche ricevere un pacco dal padre Elias. Sono i Carabinieri dell’Ufficio Centrale Speciale a sconsigliarlo il 29 gennaio 1943, considerando il detenuto “non meritevole di alcuna agevolazione” a causa della gravità del crimine commesso.
L’epoca è complessa. Migliaia di ebrei fuggono dall’Europa, ma milioni restano. Alcuni vanno in Francia, altri negli Stati Uniti. Quelli cosiddetti “revisionisti”, convinti che la terra promessa sia la Palestina, si imbarcano come possono diretti verso Haifa. Le navi inglesi bloccano le rotte, affondano navi e carrette del mare entrano nelle acque del Dodecaneso, fanno naufragio. Il Possedimento accoglie i naufraghi. Alcuni ripartono subito, ma altri restano più a lungo, in improvvisati campi profughi. E sono messi sotto controllo. Nel frattempo l’Italia ha occupato la Grecia. I carabinieri collaborano con l’ufficio informazioni del Comando superiore delle Forze Armate dell’Egeo, si passano notizie e dati. Rosa Spiegel, di Bratislava, così come Eugene Reimann, non riceveranno mai alcune lettere inviate dalla loro città natale. Interviene la censura militare, blocca la corrispondenza, traduce e gira ai carabinieri, che aprono nuovi fascicoli. Sono decisi, fermi, ma alla fine trattano bene i profughi. Che nel 1942 vengono trasferiti in Italia, a Ferramonti, in Calabria, e il 16 settembre 1943 saranno i primi ebrei europei ad essere liberati dagli Alleati.
Qualche settimana fa lavoravo al “Titolario”, il vecchio indice dell’archivio amministrativo che fecero gli italiani nel 1942. Tra le tante voci, mi restava come sospesa la classe G del titolo IV: “tipografia, macchine tipografiche, gestione”. Una classe per la tipografia? Che senso ha, quando cose apparentemente più importanti come la costruzione di acquedotti o caserme sono una sottoclasse? Solo osservando le “schede del nominato”, ho capito l’importanza e la necessità di una voce separata dalle altre spese. La tipografia stampava le schede, a Rodi, in segreto. Gestire il potere, allora, osservare senza essere visti, significava avere anche il controllo totale di quelle macchine.

Dal blog dell’autore
Ansa med nel Dodecaneso
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ntold story italian regime spied
Il Corriere della sera e cefalonia

Rapimento Moro, il borsista Sokolov non è l’agente del Kgb di cui parlano Imposimato e Gotor

Basta avviarsi sui sentieri della ricerca storica e subito le approssimazioni complottiste della dietrologia finiscono in briciole. Appare subito evidente l’inutilità dell’ennesima commissione parlamentare d’inchiesta proposta in questi giorni da alcuni esponenti politici. Uno dei quali, Miguel Gotor, si trova in evidente conflitto d’interessi. Uno storico che veste i panni del politico non è più uno storico, se poi promuove una legge che vuole istituire una commissione d’inchiesta, o decide di dare le dimissioni da parlamentare per svolgere la funzione di consulente storico, il che ne segnalerebbe comunque la subalternità, oppure è meglio che rinunci alle cariche accademiche per la professione politica. Commissione d’inchiesta che, una volta varata, come le precedenti sarà pronta a scrivere verità politiche a colpi di voti di maggioranza, alla faccia dei fatti storici.
Lo studente borsista sovietico Sergej Fedorovich Sokolov, giunto in Italia con una borsa di studio in storia del Risorgimento e che seguì alcune lezioni di Moro nella facoltà di scienze politiche della Sapienza prima del suo rapimento da parte della Brigate rosse, non è l’agente del Kgb di cui hanno scritto di recente l’ex magistrato Ferdinando Imposimato e il giornalista-complottista Sandro Provvisionato (Doveva morire. Chi ha ucciso Aldo Moro, Chiarelettere 2013).
E’ quanto ha potuto verificare lo storico Marco Clementi nell’articolo che potete leggere qui sotto.

Indagini poco approfondite, omonimie non verificate e facili sovrapposizioni sono bastate per dare corpo alla pista sovietica che si contende la scena delle «interferenze esterne nel caso Moro» con quella statunitense (vedi il ritorno di attenzione su Steve Pieczenick, il consulente antisequestri impiegato dal ministero dell’Interno nei giorni del rapimento), come se le due piste non si annullassero a vicenda.
Sul manifesto di oggi, 1 ottobre 2013, si spiega che il pm Luca Palamara, titolare dell’ennesimo procedimento aperto sul rapimento e l’uccisione del presidente democristiano, ha disposto il sequestro del file di una intervista di Giovanni Minoli all’esperto americano, già collaboratore di Cossiga nella primavera del 1978, diffusa da Radio 24. Pieczenick ha ribadito cose già dette in passato (cf. Abbiamo ucciso Aldo Moro), ovvero di aver ispirato (l’autostima non gli manca) il rifiuto di ogni trattativa soprattutto dopo le lettere di Moro in cui si chiedeva di avviare negoziati con i suoi rapitori, ricordando la strategia tenuta dal governo italiano con gli irredentisti altoatesini, la guerriglia palestinese e le azioni sporche dei servizi israeliani (il cosidetto “Lodo Moro”).
Lettere scritte dalla base brigatista di via Montalcini a Roma dove era tenuto prigioniero. Per Pieczenick un’ostaggio che invitava alla trattativa, ispirandosi ad una diversa logica della ragion di Stato, andava prima screditato (affermando che quel che scriveva non corrispondeva alla sua volontà perché manipolato, drogato o costretto con la violenza), quindi abbandonato al suo destino, unico modo – a suo avviso – per stabilizzare la situazione politica italiana e sconfiggere le Brigate rosse nella partita a scacchi del sequestro.
Una singolare convergenza con la strategia tenuta dal Pci in quei 55 giorni. Dopo la lettera a Cossiga, Pecchioli annunciò al ministro dell’Interno che per il gruppo dirigente di Botteghe oscure Moro era da considerarsi «già morto»; Berlinguer si spese con tutte le sue forze per affermare che gli scritti dalla prigione del leader democristiano non gli appartenevano perché estorti. “Moro non era Moro e i suoi scritti non erano farina del suo sacco”. Il Pci collaborò strettamente con i vertici piduisti dei servizi segreti e si oppose con ogni ricatto possibile all’apertura di qualsiasi negoziato.
E’ singolare che in tutti questi anni nessuno abbia mai proposto di aprire una commissione d’inchiesta sul comportamento tenuto dai partiti politici in quei giorni, in particolare sui fautori del rigor mortis, la cosidetta linea della fermezza.

Sokolov, chi è costui?
Marco Clementi
il manifesto 1 ottobre 2013

Il caso Moro è recentemente tornato attuale a causa della proposta di istituire una nuova Commissione Parlamentare di Inchiesta e della decisione della Procura di Roma di riaprire un fascicolo sul rapimento dell’allora presidente della Democrazia Cristiana. L’ex giudice Ferdinando Imposimato, autore di lunghi studi sulla vicenda ai quale si sono richiamati i due parlamentari del PD firmatari della proposta di legge per la Commissione, Gero Grassi e Giuseppe Fioroni, sostiene da tempo che nel delitto Moro abbiano avuto un ruolo primario forze esterne e, in particolare, il KGB. Come altri prima di lui, si è concentrato sulla figura di Sergej Sokolov, uno studente sovietico che giunse in Italia pochi mesi prima della strage di via Fani con una borsa di studio in Storia del Risorgimento e che frequentò anche alcune lezioni di Aldo Moro alla “Sapienza”. Lo stesso sarebbe tornato in Italia nel 1981 come corrispondente della Tass, per poi comparire nelle liste dell’Archivio Mitrokhin, rapporto Impedian n° 83 del 23 agosto 1995 dove si dice che tale Sergej Fedorovich Sokolov, nato il 5 giugno 1953 [dove?], è stato un ufficiale del KGB “di comprovata attendibilità, con accesso diretto ma parziale”, e corrispondente della Tass a Roma dal 1981 al 1985.
Al di là del fatto che essere un membro dei servizi di sicurezza sovietici non comporta il necessario coinvolgimento della struttura di appartenenza a un complotto internazionale, prima di qualsiasi discussione sarebbe utile individuare con certezza la persona di cui si parla. La storia del KGB è piena di Sokolov: in una raccolta neanche tanto voluminosa di documenti sulla Ljubjanka, già sede del KGB [330 pp., Mosca 1997] sono presenti tre Sokolov, P.N., Ja.P. e I.I. e altri quattro in una successiva [Mosca 2004], uno senza iniziali, un A.G., un P.A. e un F.V. In tutto, sette Sokolov che hanno avuto a che fare con i servizi, dei quali nessuno è certamente Sergej. Dunque, Sokolov è un cognome molto diffuso in Russia, così come lo è il nome Sergej. Per individuare con certezza una persona in caso di piena omonimia di nome e cognome, l’uso russo fornisce come parte integrante del nome anche la paternità, o patronimoco. Se il Sergej dell’archivio Mitrokhin è lo stesso che nel 1978 frequentò le lezioni di Moro, intanto per cominciare il patronimico deve coincidere. Secondo quanto si legge nel libro “Doveva Morire”, edito da Chiarelettere e scritto da Imposimato insieme a Sandro Provvisionato, il Sergej [Fedorovich?] Sokolov studente che frequentò le lezioni di Moro nel 1978, in patria si occupò del notissimo dissidente Andrej Sacharov e di sua moglie Elena Bonner, che visitò più volte a Gor’kij (oggi Nizhnij Novgorod) durante gli anni dell’esilio. Ecco quanto riportato a p. 230: “Nell’estate del 1985 il governo di Mosca è fortemente preoccupato del fatto che l’attenzione dei media di tutto il mondo sia puntata sul destino dell’intellettuale Andrej Dmitrevic Sacharov, l’emblema stesso del dissenso all’interno dell’impero sovietico. Il compito di controllare l’intellettuale e sua moglie, Yelena Bonner, viene affidato a un ufficiale del KGB, proprio Sokolov, che incontra Sacharov nell’ospedale dove è ricoverato, al confino di Gor’kij”.
La figura di questo ufficiale è messa in cattiva luce sostenendo che incaricò i medici di nutrire in modo coatto Sacharov durante uno sciopero della fame e che in seguito propose un accordo allo stesso fisico sovietico: permettere a lui e alla moglie di andare negli Usa per vedere la famiglia a patto che non rilasciassero dichiarazioni pubbliche. Ebbene, anche il Sokolov che si occupò di Sacharov si chiama Sergej, ma il patronimico comincia con la lettera I [Ivanovich?]. Inoltre, secondo le memorie dello stesso dissidente, quel rapporto sembra essere più complesso. Anzitutto, Sergej I. Sokolov era un agente del KGB già nel 1973. Scrive Sacharov: “Nei primi giorni di novembre [del 1973] Ljusia [Elena Bonner] ricevette una citazione che la convocava in veste di testimone a Lefortovo [dove si trova la sezione istruttoria del KGB; a Lefortovo c’è anche il carcere istruttorio, tecnicamente definito isolamento istruttorio]; la citazione le ingiungeva di presentarsi dal giudice istruttore Gubinskij. Prima dell’interrogatorio la conversazione venne condotta da un certo Sokolov (ora pensiamo si trattasse del capo della sezione locale del KGB; in seguito lo incontrammo varie volte a Gor’kij)”.
Se questo è il Sokolov nato nel 1953, nel 1973 aveva 20 anni. Chi conosce il funzionamento dei servizi sovietici sa che è impossibile che a quell’età si potesse essere già a capo di una sezione locale degli stessi, o avere la responsabilità di dissidenti del livello di Sacharov e Elena Bonner. Più avanti nelle sue memorie, pubblicate in Italia da Sugarco nel 1990, Sacharov riprende il discorso [pp. 707-708]:
“Il mattino del 5 settembre [1985] arrivò [a Gor’kij] inaspettatamentee un inviato del KGB dell’URSS, S.I. Sokolov. Probabilmente era direttore di uno degli uffici del KGB incaricati di seguire il mio caso e quello di Ljusja. Nel novembre del 1973, prima che Ljusja fosse interrogata da Syscikov, Sokolov aveva usato con lei, nel corso di un ‘colloquio’, accenti persuasivi. Nel maggio del 1985 era venuto a trovarci per parlare con me e Ljusja (separatamente). Con me era stato assai duro, voleva convicermi dell’assoluta inutilità dello sciopero della fame allo scopo evidente di costringermi a interromperlo”.
Tre sono le cose importanti di questo passaggio: la prima è che il Sokolov che viene a trovare Sacharov nel 1985 è lo stesso di 12 anni prima. La seconda è che egli non ordinò l’alimentazione coatta, ma cercò di dissuadere Sacharov a continuare lo sciopero della fame. Tanto che quando il fisico premio Nobel per la Pace parla nel suo libro di alimentazione forzosa, non fa alcun riferimento a Sokolov. La terza riguarda l’anno: l’11 marzo 1985 venne eletto segretario generale del CC del Pcus Michail Sergeevich Gorbachev che diede il via all’ultimo tentativo di riforma del sistema sovietico, noto come perestrojka. Sokolov giunse a Gor’kij su incarico dello stesso Gorbachev per contrattare con Sacharov il viaggio all’estero di sua moglie e, eventualmente, quello di Sacharov stesso, al quale chiese esplicitamente una sola condizione vincolante: non rivelare i segreti sugli armamenti nucleari sovietici che il dissidente conosceva perché tra i padri della bomba termonucleare sovietica, cosa per la quale era stato insignito in passato per ben tre volte dell’onorificenza di eroe del lavoro socialista.
Per concludere, prima di ogni altra possibile discussione sul presunto coinvolgimento del KGB nel caso Moro, è bene individuare con precisione il Sokolov di cui si sta parlando. Dai riscontri oggettivi, infatti, appare molto probabile che il borsista sovietico e l’agente dei servizi siano due persone diverse.

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Ai funerali di Prospero

di Marco Clementi dal blog www.primadellapioggia.blogspot.it
21 gennaio 2013

Un contadino nella metropoliA casa di Prospero ho trascorso il Primo Maggio del 2005. Stavo insieme a Francesco Piccioni e su incarico della Casa Editrice “Odradek” si doveva parlare del libro “Un contadino nella metropoli”, uscito l’anno dopo con Bompiani.
Devo dire che quel titolo non mi convinceva. Come un contadino? I contadini sono sempre stati dalla parte della reazione, alla fine. Sono i piccolo borghesi doc, quelli che dalla terra ricavano più redditi con un solo lavoro, che quando ottengono la terra – rivoluzione ti saluto.
Ma nella metropoli si proletarizza, rispondeva Prospero, e acquista coscienza di classe. Sul titolo nulla, un muro. Non mi convinceva neanche il resto, però. Non perché l’avrei buttato via. Ma mi sembravano necessari alcuni passaggi politici che erano stati omessi. Perché? Perché, gli dicevo, sei stato uno dei massimi dirigenti delle Br. Discutemmo per ore. Registrai pure qualcosa, che avrò messo chissà dove, ma alla fine non si spostò di una riga. Non ci fu verso (e Piccioni era dalla mia parte allora) di convincerlo a spostare nulla. A malincuore “Odradek” decise di non pubblicare il libro. Quando poi uscì, l’anno seguente, inseguito da stroncature su tutti i maggiori quotidiani, il titolare della casa editrice romana alzò le sopracciglia. Come a dire: non mi ero sbagliato.
Nel frattempo sentivo Prospero, ma solo per telefono. Era malato, Prospero, molto malato. Già allora, già da decenni.
Reggio Emilia fa impressione. Te la ricordi una delle città della provincia italiana più ricca, e invece la crisi miete anche qui. La stazione e le strade intorno sono una piccola “Termini” dei tempi peggiori. Solo le centinaia di biciclette ammassate su un lato sono un segno. Si prende il 4 e si va verso Coviolo, la frazione dove abitava Prospero. Attraversi il centro mentre continuano a salire adolescenti che escono dalle superiori e vanno a casa. Tutti a Coviolo, fermata più, fermata meno. L’autobus è pieno. La neve intorno copre tutto.
Scendiamo di fronte al cimitero. Un breve tratto a piedi e sei dal fioraio. Prendiamo quattro garofani rossi, che metteremo sopra la bara di Prospero, già avvolta in quella bandiera con falce e martello e stella a cinque punte. Pare ci sia la Digos, ma neanche la vedo. Sto attento ai volti dei compagni e delle compagne, abbraccio Giava, stringo la mano a Piccioni, poi arriva Salvo, Baruda, vedo Tinino, Giorgione di Bologna, e Sante, che ha preso in mano l’organizzazione. Dentro la camera mortuaria, mentre depongo i garofani, un giornalista mi chiede se può scattare una foto, così, dice, non ci sono solo vecchi. Premuroso. Qualche ragazzino, in realtà, c’è. Magari è intimorito e non entra. Ci si sposta dentro la sala per le commemorazioni, ma ci stiamo solo in minima parte. Sante propone di fare la commemorazione fuori, sotto la neve, ma almeno le mille persone intervenute possono partecipare.
Comincia Seghetti, che ricorda i nomi degli assenti. Poi la parola passa Tonino Paroli, che difende la storia delle Br e come Cossiga, sottolinea che non fu terrorismo. Sante legge sue poesie, quindi prende la parola Oreste per un’omelia sentita ed emozionante. Aveva già fischiettato l’internazionale nella camera ardente. Ora la riprende, poi la canta, in italiano e francese. Pugni chiusi. Lunghi applausi. Prospero è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai.
Chi ha qualcosa da dire lo faccia, insiste Giava. Prendono la parola due giovani, viene letta una pagina del libro di Prospero.
Ancora un applauso, quindi Sante e Tonino portano del vino. C’è anche Renato. Brindiamo intorno al feretro.
Le persone muoiono. Il funerale successivo, fortunatamente programmato molto dopo quello di Prospero, dovrebbe iniziare. Si sta avvicinando un piccolo corteo di gente, che si vedrebbe venire intorno quello che i giornali hanno definito “lo stato maggiore delle Br”. Se solo lo riconoscessero.

Ma perché un morto a uno stato maggiore che non è mai esistito nella realtà allora, figuriamoci oggi che sono tutti ultrasessantenni ma segnati da decenni di carcere, perché tutto ciò fa ancora tanta paura in questo paese? Perché un gruppo consistente di persone che sono venute sotto  la neve da tutta Italia non può accompagnare un proprio morto con un pugno chiuso sollevato verso il cielo? Perché deve essere etichettato, segnato, violato come allora (si parlava di rivendicazioni deliranti) come “nostalgici”? E mica stiamo a Predappio. Mica si vuole restaurare un regime. Mica vogliamo Curcio presidente del Consiglio. Volevamo soltanto salutare un compagno che ha dato tanto, ha dato la vita a vederla bene, per la causa della rivoluzione proletaria. Per i più deboli, gli emarginati, quelli senza casa e senza lavoro. E basta così. Non c’è bisogno di retorica.
Ma sono quelle, proprio quelle le idee che fanno paura. Non siamo noi. Se volessero in cinque minuti ci sbattono dentro e ci lasciano marcire per un po’ in carcere.  Le idee. Quanto è strano. Davvero quelle non le ingabbi. E se lo fai, le alimenti. Loro, che lo sanno bene, se la prendono allora con le persone, fanno scoppiare una ridicola querelle addirittura dentro Rifondazione, che appoggia una lista di giustizialisti. E di quelle idee non vogliono parlare. Uguaglianza, dignità, rispetto, lavoro, casa.
Sono più di 150 anni che il conflitto di classe si basa su queste. Eppure Prospero, in questa Italia ormai post-belusconiana, fa ancora paura. Un uomo. Un contadino. Una coscienza di classe. Un morto. Di Reggio Emilia.

Gallinari, Gotor e le lettere di Moro

Miguel Gotor, perfidie e miseria di uno storico italiano

Dopo la notizia della morte di Prospero Gallinari, il quotidiano la Repubblica ha intervistato una delle sue penne più importanti, Miguel Gotor, storico cinquecentista, specialista di eresia e inquisizione, vicino alla famiglia Moro e storico “ufficiale” del Quirinale (è amico di uno dei figli di Napolitano, docente di diritto pubblico a Roma tre), oltre ad essere descritto come uno dei consiglieri più ascoltati di Bersani e addirittura “ministrabile” nel caso il centrosinistra riesca davvero a vincere le prossime elezioni.
Benché non sia uno specialista di “Contemporanea”, Gotor si è ritagliato il ruolo di storico del caso Moro, vicenda sulla quale ha pubblicato due volumi (Aldo Moro, lettere dalla prigionia, Einaudi 2008; Il Memoriale della Repubblica, Einaudi 2011) e svariati articoli.

Al giornalista di Repubblica che lo intervistava Gotor ha spiegato che fu Gallinari a battere le lettere di Moro, «Fu una lettera di Prospero Gallinari alla sorella, nel 1975, recuperata dagli inquirenti, a farmi scoprire che era stato lui, uno dei carcerieri di Aldo Moro, a redigere la versione dattiloscritta di tutte le lettere del presidente della Dc dalla ‘prigione del popolo’ di via Montalcini a Roma».
«Di quelle lettere – continua Gotor – le Br ne resero pubbliche solo una trentina, ma l’intero corpus fu battuto a macchina nel covo dove era tenuto prigioniero Moro. Il dattiloscritto, però, riportava alcuni evidenti errori di ortografia continuamente ripetuti: soprattutto l’accentazione dei pronomi personali. Quegli stessi errori sono presenti nella lettera di Gallinari alla sorella e, dunque, rendono possibile identificare l’autore del dattiloscritto».

Le parole di Gotor, forse a causa della sintesi giornalistica, sono risultate talmente ambigue da ingenerare confusione tra le lettere e il cosiddetto Memoriale e suggeriscono la singolare idea che l’autore di entrambi i testi non sia stato Moro ma uno dei militanti delle Brigate rosse che lo tenevano in consegna, ovvero Prospero Gallinari.

Tuttavia il ritrovamento nel 1990 del fascicolo con le copie fotostatiche del manoscritto del memoriale insieme alle fotocopia di altre lettere inedite e brutte copie di altri testi, smentisce palesemente una tesi del genere. Gotor voleva dire che Gallinari ha avuto il compito di ritrascivere a macchina la versione del memoriale poi ritrovata sul tavolo dell’appartamento di via Montenevoso nell’ottobre 1978.

In realtà nel suo Il Memoriale della Repubblica lo storico ha elaborato una ricostruzione di quel che avvenne molto più aggrovigliata e sofisticata, non per questo carica di velenosa perfidia. Vediamo cosa dice:

«Da questi dati oggettivi, che riguardano la materialità dei testi e la loro collazione, credo esca confortata l’ipotesi già avanzata che i dattiloscritti fossero battuti a macchina durante il sequestro – solo quelli che riguardavano temi particolarmente caldi a giudizio di Moretti e di Gallinari (50) – affinché potessero uscire dalla prigione senza che il corriere incorresse in particolari rischi, proprio perché dattiloscritti e non firmati. I fogli erano esaminati in quel formato dal comitato esecutivo delle Br per poi rientrare nel covo e venire dettati a Moro con i dovuti inserti imposti dai brigatisti o contrattati dal prigioniero, il quale trascorreva ore allucinate e febbrili a copiare e ricopiare i suoi testi fino alla loro versione definitiva, come indicano innumerevoli e inequivocabili segni grafici e sviste tipiche del copista. Questo è il «battere e levare» che segna il ritmo della scrittura perseguitata del prigioniero, un prodotto sporco, ambiguo e pattuito tra la vittima e i suoi carnefici, delimitato da un filo spinato in cui l’autorialità senza libertà di Moro si trasforma in un’incessante dialettica tra istinto di conservazione e morte. Non il monumento di un eroe, ma il simulacro di un’umanità dolente e creaturale che si esprime dentro una zona grigia, la condizione necessaria perché quel discorso non solo si pronunciasse, ma lasciasse memoria di se stesso, testimonio di una tragedia che assume la forma di una disperata battaglia tra le inesauribili possibilità del linguaggio e la logica del terrore. Evidentemente, nel caso delle due versioni dello scritto su Taviani, sempre di Moro si tratta, perché lui che scrive, ma quelle parole sono allo stesso tempo sue e non sue. Eppure non si è lontani dal vero se si afferma che gli inserti presenti nella versione pubblicizzata dai brigatisti furono inclusi in un secondo momento su specifica richiesta dei carcerieri, che di fatto costrinsero il prigioniero a sottoscrivere un verbale contro un suo compagno di partito in cui la dimensione dell’ingerenza americana doveva essere l’elemento dietrologia più pregnante e ricattatorio».

Insomma le lettere dello statista democristiano uscite dal carcere del popolo non sarebbero interamente farina del sacco di Moro ma una creazione delle Br.

Lo storico Marco Clementi, autore di una monografia, La Pazzia di Aldo Moro, Rizzoli 2008 (prima edizione 2001 presso Odradek) e di una Storia delle Brigate rosse, 2007, commentando questa tesi sul suo blog (primadellapioggia.blogspot.it, mai-muore-la-dietrologia-invece.html) ha detto che «Gotor è un dietrologo non cospiratore, nel senso che non parla di servizi segreti, come altri hanno fatto in passato. Si limita a togliere a Moro attendibilità. La stessa cosa che dicevano di quelle lettere tutti i politici italiani durante il rapimento».
La scienza storica – ha aggiunto – «è andata avanti negli ultimi 15 anni. La cosa è sfuggita a Gotor e a “Repubblica”. Una miseria per il nostro paese e per la nostra storia, continuamente inquinata purché si dimostri che in Italia non c’è mai stato uno scontro di classe, nessuno ha processato la DC e il suo presidente. E che Moro è stato lasciato solo da quelle forze politiche che egli stesso aveva messo insieme per sostenere il governo Andreotti. E’ bene ripeterlo: una miseria».

Da cosa ricava Gotor la convinzione che le parole scritte da Moro non sarebbero completamente sue? Dal fatto che esisterebbero più versioni delle lettere e delle pagine del memoriale, con aggiunte, tagli, modifiche ed attraverso una comparazione con le diverse versioni del dattiloscritto. Una considerazione che non tiene conto del fatto, se è vero che la ritrascrizione dattilografata del memoriale avvenne durante il sequestro (come racconta lo stesso Gallinari), dunque in via Montalcini e non in via Montenevoso a Milano, dove le carte di Moro arrivarono in settembre, che nel frattempo Moro continuava a scrivere, riscrivere e correggere nuove pagine.

E’ davvero singolare che Gotor finisca in qualche modo per fare da sponda a quel gioco di delegittimazione delle parole del prigioniero che fu invece propria del governo e dell’intero fronte politico della fermezza, Pci in testa, che egli stesso descrive in un altro passaggio del suo libro:

«Il governo italiano adottò una strada crudele, ma obbligata, quella di depotenziare l’attendibilità del prigioniero per diminuire l’efficacia dell’azione propagandistica dei sequestratori. Si trattava di un classico espediente di antiguerriglia psicologica che, per essere efficace – e lo fu con zelo speciale, si direbbe emotivamente partecipato – dovette contare sul sostegno delle principali agenzie di comunicazione del paese, che risposero con un coro dall’impressionante unanimità».

Una situazione d’eccezione che lo stesso Gotor in un impeto di coraggio non esita ha definire «uno spazio extragiudiziale ed extrapolitico» (pagina 67, Il Memoriale della Republica), caratteristico degli «stati di eccezione, quelli non dichiarati, [dove] le sovranità si restringono sino a farsi solitarie ed esclusive» (idem).

Nel 2006 Prospero Gallinari col il suo consueto stile asciutto aveva raccontato come erano andate le cose all’interno dell’appartamento di via Montalcini, dove era trattenuto Moro. Leggiamo di seguito la sua testimonianza che oltre ad anticipare di ben cinque anni ciò che Gotor dirà di aver scoperto nel 2011, smentisce radicalmente le ipotesi avanzate dallo storico di origine catalana.

Il PrigionieroPagine 187-188, da Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani 2006

La prima regola ineludibile in una istuazione come quella è il rispetto verso il prigioniero.

Le condizioni di vita sono ovviamente precarie, gli spazi ristretti, i criteri di sicurezza inderogabili. E’ in questo contesto che occorre governare i problemi che si presentano giorno dopo giorno. Abbiamo costruito un impianto di aerazione che permette il cambio dell’aria all’interno della celletta nella quale Moro vive. Ma di notte l’apparechio non può restare in funzione, perché il rumore che provoca è troppo elevato e creerebbe disturbo se non addirittura sospetti fra gli inquilini dei piani susperiori. Una cosa mal calcolata, e ci rendiamo subito conto che, durante quelle ore, Moro non riesce a respirare decentemente. La quiete della notte è però anche il momento più pericoloso per qualsiasi reazione incontrollata del prigioniero. Così si crea la prima occasione nella quale rivolgo la parola a Moro, stabilendo le condizioni di un accordo: “Io le tengo la porta aperta e lei mi garantisce il silenzio”.

Ci chiede di leggere. Gli diamo libri sul movimento operaio e sulla storia del comunismo. Ma gli facciamo avere anche la Bibbia. Si immerge in quelle pagine. Le Scritture della religione in cui crede lo aiutano ad astrarsi dalla realtà che lo circonda. Chiede di ascoltare la messa. Non possiamo rischiare di fargli sentire messaggi in diretta o notizie che non siamo in grado di controllare. Così, insieme a Laura, registrriamo la cerimonia trasmessa ogni domenica in televisione. Con una cassetta e il registratore a pile, seguirà la messa in differita risentendola continuamente.

Questo sarà il modo in cui le Brigate Rosse e Aldo Moro intraterranno i loro rapporti durante i 55 giorni del sequestro. Un modo che, seppure all’interno di una condizione estrema come quella, si rifletterà negli interrogatori (o sarebbe meglio dire nelle discussioni che Mario instaurerà con lui), negli scritti che lo stesso sequestrato redigerà, nella vita quotidiana che, giorno per giorno, avrà luogo nella base.

Inizialmenete riproduciamo tutti gli interrogatori attraverso il microfono cha abbiamo installato nella stanzetta-prigione, con audio e registratore all’esterno. Insieme a Germano, mi dedico al complicatissimo compito di sbobinare i nastri e trascriverli. Poi ci accorgiamo che, in realtà, è Moro stesso che tende a mettere per iscritto tutti i suoi ragionamenti e le riflessioni politiche emerse nelle discussioni con Mario. Di conseguenza, il nostro lavoro certosino risulta inutile. Chiudiamo con le registrazioni e distruggiamo il paio di cassette riempite. Resta la parola scritta, che appare subito importante anche per lo stesso presidente della DC. Moro si rende velocemente conto che il suo problema è tutto politico. E’ stato sequestrato in rappresentanza di un partito e di una politica che noi attacchiamo in base a considerazioni generali, e capisce che l’unico modo per favorire la sua liberazione è proprio quello di investire di responsabilità l’insieme del suo partito, chiamando in causa i maggiori rappresentanti del potere democristiano.

E’ una perspicacia che non smarrirà neppure per un attimo, nelle varie fasi di quello scontro. Avrà la lucidità di condurre questa battaglia fino alla fine, anche se, a un certo punto, si renderà conto che gli è stata fatta terra bruciata attorno, che interessi interni al suo partito, all’establishement politico generale, hanno preso il sopravvento su qualsiasi possibilità di soluzione. Anche i suoi più fedeli amici sono ormai schiaciati dalle condizioni che si sono venute a creare. Debolezze, opportunismi, piccole e grandi ragion di Stato, bloccano il quadro della situazione, comprimendolo sotto il ricatto di una cornice ferrea: quella politica delle fermezza messa in campo da una parte del suo partito e dal PCI.

La cerimonia di saluto
Tutti a Coviolo per salutare Prospero Gallinari la cerimonia si terrà domani 19 gennaio alle-14-30
Ciao Prospero
In diretta da Coviolo immagini e parole della cerimonia di saluto a Prospero Gallinari/1
In diretta da Coviolo in migliaia per salutare Prospero Gallinari/2
La diretta twitter dai funerali
Ciao Prospero
Gli assenti
Scalzone: Gallinari come Prospero di Shakespeare, “la vita è fatta della stessa sostanza dei sogni”
Fine di UNA storia, LA storia continua
Mai alcuna confessione di innocenza, Prospero

Testimonianze
In memoria di Prospero Gallinari di Oreste Scalzone
Al funerale di Gallinari la generazione più felice e più cara
Su Prospero Gallinari
Gallinari e il funerale che andava fatto anche per gli altri

La storia
Bianconi – I parenti delle vittime convocati via posta per perdonare Gallinari
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili
“Eravamo le Brigate rosse”, l’ultima intervista di Prospero Gallinari
Prospero Gallinari quando la brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni
Gli avvoltoi s’avventano sulla memoria di Prospero Gallinari
Gallinari è morto in esecuzione pena dopo 33 anni non aveva ancora ottenuto la libertà condizionale
Prospero Gallinari un uomo del 900
Chi era Prospero Gallinari?
Gallinari e Caselli, il confronto tra cattivi maestri e bravi bidelli
Gallinari, Gotor e le lettere di Moro
Caselli Prospero Gallinari e i cattivi maestri
In risposta a Caselli su Gallinari

La biblioteca del brigatista

Cosa leggeva un brigatista nel settembre 1978?

Nonostante la semplicità della domanda pochi se la sono posta. Eppure la risposta avrebbe aiutato a comprendere meglio la storia di una delle componenti politiche più importanti che hanno dato vita alla lotta armata in Italia tra gli anni 70 e 80. I materiali ci sono, una documentazione immensa, repertata nelle migliaia di procedimenti penali e verbali di sequestro realizzati nel corso di oltre 20 anni di inchieste, operazioni di polizia e processi. Basterebbe andarli a cercare, leggerli, studiarli. Quanti lo hanno fatto? Io ne conosco solo due che hanno lavorato in questo modo: Marco Clementi e Miguel Gotor. Agli antipodi, ma non importa.
Cosa si ricava dal ricorso al metodo storiografico? Si smontano molte leggende, fandonie, luoghi comuni, crolla l’intera impalcatura dietrologica. La presenza di un libro della Kollontaj ridimensiona persino la critica femminista che tacciava la lotta armata di “machismo” nonostante nei gruppi armati di sinistra la presenza femminile sia stata di gran lunga più alta di qualsiasi altra formazione politica, extraparlamentare o istituzionale. Nell’appartamento di via Montenevoso 8, a Milano, c’erano i libri (sarebbe stato interessante poterli riavere tra le mani per osservarne le sottolineature, i commenti a margine, ma molto probabilmente saranno finiti al macero o forse in qualche armadio dei reparti antiterrorismo, i cui membri saccheggiavano senza scrupoli le librerie dei militanti arrestati)
impiegati come fonti per la realizzazione dei comunicati scritti durante il sequestro (il ritratto biografico-politico di Aldo Moro ripreso da un volume di Aniello Coppola, pubblicato da Feltrinelli due anni prima del rapimento) ed altri utilizzati per redigere le domande al prigioniero. Spiccano due assenze: non c’era L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di  Engels, il libro de chevet dell’ex maoista Marco Bellocchio infilato come i cavoli a merenda in una scena demenziale del suo film (quella del mantra) sul rapimento Moro, Buongiorno notte (2003); non c’erano neanche liriche innegianti al calibro ben oliato o le bottiglie di Veuve Clicquot che riempivano i frigoriferi della case dove si nascondeva Sergio Segio.
Ancora più interesante è la genealogia della cultura politica brigatista che si può ricavare da queste letture. Certo è solo un primo elemento che andrebbe sovrapposto ad un lavoro di analisti dei testi. E’ l’inizio di una possibile, anzi utile pista di ricerca. In ogni caso è evidente come l’album di famiglia stalino-togliattiano richiamato come immagine dalla Rossanda, a dire il vero per polemizzare con chi diceva che i brigatisti erano dei “fascisti travestiti di rosso”, “agenti provocatori sotto controllo della Cia”, non era esatto. Altri dati poco studiati, le rilevazioni sociologiche sulle biografie politiche, ci dicono che la provenienza degli imputati per appartenenza alle Br non è riconducibile all’image d’Épinal del gruppo di fuoriusciti dalla Fgci di Reggio Emilia o agli studenti un po’ cattolici dell’università di sociologia di Trento. Ci sono le fabbriche milanesi, torinesi e genovesi. La diaspora di Potere operaio e di altre formazioni che operavano nelle borgate romane. L’onda lunga del 77. Pezzi di Autonomia veneta, Porto Marghera. L’area napoletana. E poi ancora le periferie romane degli anni 80.
Basta avere voglia di fare ricerca vera, libera, fuori dai preconcetti delle baronie universitarie lottizzate, dagli anatemi di re Giorgio e da chi ha messo in piedi quella rete di controllo della memoria che è il portale promosso dall’archivio Flamigni con la bendizione del Quirinale.

Ma torniamo al questito iniziale: cosa leggevano i brigatisti?

Via Montenevoso, 8: il nascondiglio segreto dietro un pannello rimosso nell’ottobre 1990 da un muratore

E’ la domanda a cui risponde Miguel Gotor esaminando con gli occhi dello storico il materiale repertato dai nuclei speciali del generale Dalla Chiesa dopo l’irruzione nell’appartamento di via Montenevoso 8, a Milano, il 1° ottobre 1978. Quella di Montenevoso era una base importante, una sorta di archivio delle Brigate rosse, scelta per conservare e preparare l’opuscolo che avrebbe dovuto raccogliere i materiali dell’interrogatorio (il cosiddetto “memoriale”) del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro. Al suo interno vivevano due esponenti dell’esecutivo nazionale della Brigate rosse: Lauro Azzolini e Francesco Bonisoli, entrambi “clandestini”. Il primo, trentacinquenne ex operaio della Lombardini di Reggio Emilia; il secondo, ventitreenne ed anche lui di Reggio Emilia, aveva preso parte nel marzo precedente all’azione di via Mario Fani, dove venne prelevato Aldo Moro. Insieme a loro da pochi giorni era arrivata anche Nadia Mantovani, venticinquenne, originaria di Padova e studentessa in medicina, latitante da poche settimane dopo che si era sottratta al domicilio coatto (confino) a cui era stata assegnata dopo un primo arresto. L’appartamento era stato individuato in agosto e tenuto sotto stretta sorveglianza per alcune settimane, il tempo di agganciare gli altri contatti, scoprire altre basi e farvi irruzione.

Dalle sessanta fitte pagine del verbale di sequestro, redatto dai carabinieri dei reparti speciali che occuparono l’appartamento nei  5 giorni successivi, prima di essere sloggiati con modi alquanto bruschi da altro personale dell’Arma appartenente alla struttura territoriale di Milano che faceva capo alla caserma Pastrengo (1), si ricava un interessante profilo della bibliografia brigatista che Miguel Gotor (2) descrive in questo modo (cfr. Il memoriale della Repubblica, Einaudi 2011, pp. 51-54):

Il lungo elenco consente di scattare una radiografia della vita quotidiana dei militanti delle Brigate rosse e di catalogare oggetti «comuni a un’intera generazione di giovani: non marziani, come sono diventati lentamente nel ricordo obliquo e reticente dei loro compagni di strada, man mano che costoro si separavano da quell’esperienza umana e politica che li aveva lambiti come un’onda improvvisa, senza travolgerli. Più che dalle intenzioni, spesso salvati dal puro caso: un appuntamento mancato, un amore improvviso, un figlio inatteso, la cartolina del servizio militare».

Nella base i militi «trovano centinaia di dattiloscritti fitti di analisi economiche e numerose rassegne stampa, in particolare sulla realtà industriale lungo l’asse Milano-Torino, non solo auto, ma anche chimica e siderurgia. Diari mensili riguardano lo stabilimento della Lancia di Chiasso (maggio e giugno 1978), una Relazione Fiat Mirafiori carrozzeria e presse, uno scritto intitolato La Fiat degli Agnelli, un documento politico sull’Ansaldo, il cui stabilimento è adesso a Milano uno spazio espositivo per l’alta moda (3). E poi i libri: non molti, ma ben scelti. Una piccola biblioteca portatile di edizioni recenti. Un vero e proprio campionario dell’internazionalismo rivoluzionario operaio e studentesco, oggi sopravvissuto tra le bancarelle dei bibliofili o negli scomparti virtuali di eBay a testimonianza di un’antica vitalità ormai dispersa; ieri strumenti preziosi per capire un mondo in ebollizione tra rivolte anticapitaliste, resistenze a regimi dittatoriali neofascisti e processi di decolonizzazione in atto con le loro speranze di giustizia e di riscatto: un altro socialismo sembrava ancora possibile».

Il mobiletto di via Montenevoso 8, dietro il quale si celava il pannello-nascondiglio come venne fotografato dai carabinieri nei primi giorni dell’ottobre 1978

Tupamaros, Kollontaj, Pisacane, Weather Underground, Bettelheim , Brecht, Mao…
Lotta armata in Iran di Bizhan Jazani, teorico socialista iraniano morto nel 1975;  La resistenza eritrea di Piero Gamacchio e, dentro un baule, Prateria in fiamme, ossia il programma politico dei «Weather Underground» il movimento di ispirazione marxista statunitense; Tupamaros: libertà o morte di Oscar José Dueñas Ruiz e Mirna Rugnon de Dueñas; La rivoluzione in Italia di Carlo Pisacane, eroe risorgimentale che la riscoperta resistenziale di Giaime Pintor (4) aveva riportato alla considerazione dei movimenti rivoluzionari italiani in maniera ben più radicale di quanto la scolastica Spigolatrice di Sapri avrebbe mai lasciato supporre con la sua apparentemente innocua cantilena. E poi l’edizione einaudiana del Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht a cura di Cesare Cases e il classico del femminismo Vassilissa: l’amore, la coppia, la politica. Storia di una donna dopo la rivoluzione dell’eroina sovietica Aleksandra Kollontaj. Non manca l’attenzione al tema delle partecipazioni statali e della riorganizzazione dell’impresa pubblica italiana (Lo Stato padrone, La borghesia di Stato), al mondo della nuova televisione (L’antenna dei padroni), alla realtà delle multinazionali quando il termine globalizzazione non era ancora entrato in voga (Multinazionali: tutto il loro potere in Europa, a cura di Stephen Hugh-Jones, e Multinazionali e comunicazioni di massa del sociologo francese Armand Mattelart). In camera, in un comodino di fianco al letto, «numerose riviste pornografiche», una Settimana enigmistica, la «Lotta di classe in Urss con annotazioni» del marxista critico Charles Bettelheim e le Opere scelte di Mao Tse-tung. Occhieggia persino «un libro dal titolo Carabinieri (di barzellette)», come registra con involontario senso dell’umorismo il verbalizzante, quello illustrato da Bertellier e pubblicato da Samonà e Savelli, forse come omaggio all’abusato slogan di quegli anni: «una risata vi seppellirà» (5).

Materiali e libri che servirono da fonti per redigere i comunicati e preparare le domande a Moro
Alla luce della lettura dei comunicati brigatisti divulgati nel corso dei cinquantacinque giorni non meraviglia la presenza della biografia di Aldo Moro scritta da Aniello Coppola (6), dal momento che il profilo dell’uomo politico contenuto nel secondo messaggio sembrò agli osservatori più attenti ripreso proprio da quel libro. E neppure stupisce, se si fa riferimento alle parti dell’interrogatorio in cui Moro fu costretto a rispondere sulle attività di antigueriglia della Nato in Italia e sulla cosiddetta strategia ella tensione, il rinvenimento di una relazione sulla «Rosa dei Venti», e di una copia del libro Il sangue dei leoni, edito nel 1969 da Feltrinelli (7). Il volume pubblicava nella prima parte un lungo discorso del leader congolese Édouard-Marcel Sumbu, ma dissimulava al suo interno il ben più intrigante «Manuale delle Special Forces», in cui erano riassunte le principali tecniche di antiguerriglia e di sabotaggio messe in pratica dai «Berretti verdi» statunitensi nei quadri bellici non convenzionali della guerra fredda. Desta interesse la copia di un discorso di Umberto Agnelli del 1976, poiché una delle domande a cui Moro dovette rispondere riguardò proprio i meccanismi che portarono alla sua elezione nelle file della Dc in quell’anno. Una serie di riscontri occasionali che confermano i rapporti organizzativi  intercorsi lungo la linea Roma-Milano, via Firenze, tra il nucleo operativo che gestì il sequestro e l’interrogatorio di Moro e il comitato esecutivo di cui facevano parte anche Azzolini e Bonisoli, ossia gli occupanti di via Montenevoso.

Genealogia politico-culturale della rivoluzione brigatista: non c’erano Togliatti e Zdanov, anzi non c’era nemmeno “l’album di famiglia”, di cui scrisse Rossanda, ma le correnti del neomarxismo degli anni 60 del Novecento
Si tratta di un pachetto di libri assai lontani dall’armamentario tipico del militante comunista iscritto al Pci, piuttosto sono letture tipiche della nuova sinistra extraparlamentare di quel decennio, con suggestioni anticapitalistiche, terzomondiste, trockjiste, maoiste, guevariste, genericamente rivoluzionarie e libertarie, di sicura ispirazione antistalinista. Ben lungi quindi dall’immagine dell’«album di famiglia» – il sapore staliniano e zadnoviano degli anni Cinquanta avvertito da Rossana Rossanda nel linguaggio del secondo comunicato delle Br dopo il rapimento di Moro (8) – un’immagine che tanto consenso trasversale e duraturo ebbe presso l’opinione pubblica italiana da cui fu utilizzata per accreditare la tesi di una filiazione diretta della Brigate rosse dal Pci. La formula ebbe un successo propagandistico duplice che meriterebbe di essere approfondito nel suo sviluppo e radicamento nel dibattito nazionale: alla destra del Pci, perché amplificava una generale ossessione anticomunista e permetteva di riattualizzare lo stereotipo della doppiezza togliattiana; alla sinistra di quel partito, in quanto consentiva di rimuovere, o almeno stemperare in una vaga aria di famiglia, il nodo centrale del rapporto di contiguità culturale e generazionale tra il variegato  mondo extraparlamentare, la lotta armata e la pratica della violenza politica nel suo complesso. Un nodo intricato e scivoloso, strettosi  sempre più nel corso degli anni anche grazie  a una serie di ambiguità, reticenze, omissioni e qualche indulgente connivenza. Zdanov e il Moloch sovietico degli anni Cinquanta, in realtà c’entravano assai poco  e rischiavano di trasformarsi in un comodo alibi catarchico per non guardare in faccia la realtà[…].
Anzi , quei libri sono lì a ricordare che quel manipolo di giovani brigatisti era a modo suo, con granitica intransigenza e allucinata coerenza, dentro la cultura, le letture, le pratiche politiche e valoriali del movimento, come se le due realtà fossero attraversate da uno stesso sistema di vasi comunicanti.

Quanto accadeva in Italia rifletteva un contesto sovversivo insurrezionale di dimensione europea. Non a caso, due fitte pagine del verbale raccolgono i documenti della tedesca «Rote Armee Fraktion», ad attestare la solidità dei rapporti con le Br (9): strutture del gruppo, atti relativi al processo di Stammheim, dichiarazioni dei detenuti dell’organizzazione del 1977 fra cui Andreas Baader, lettere dattiloscritte di Ulrike Meinhof e altri, una pubblicazione in lingua tedesca datata settembre-ottobre 1977, una cartella contenente documenti relativi alla storia della Raf (memoriali, verbali dibattimentali, strategie di guerriglia), due «cassette di cui una iniziata con una voce femminile che parla lingua tedesca» (10).

Note

1. La rivendicazione della competenza sull’inchiesta, che ebbe conseguenze disciplinari interne, fece emergere le forti tensioni e rivalità tra fazioni opposte che si confrontavano dentro l’Arma dei Carabinieri e nei Servizi. Il repentino avvicendamento tra gli uomini di Dalla Chiesa e quelli della Pastrengo fu una delle probabili cause – a meno che non si voglia ritenere valida la tesi avanzata (ma non suffragata ancora da elementi totalmente convergenti) da Miguel Gotor, della mancata scoperta del nascondiglio celato dietro un pannello di gesso, a sua volta coperto da un mobiletto posto sotto il davanzale di una finestra, nel quale dodici anni dopo un muratore napoletano scoprì, mentre stava realizzando dei lavori di ristrutturazione, le fotocopie del manoscritto di Aldo Moro insieme a copie fotostatiche di altre lettere,  soldi e delle armi avvolte in giornali del 1978. Materiale, la cui “scomparsa”, la mancata verbalizzazione nel carte del sequestro giudiziario, era stata ripetutamente denunciata in sede processuale e di fronte ai magistrati nel corso degli anni successivi dai brigatisti che occupavano l’appartamento, Franco Bonisoli e Lauro Azzolini.

2. Miguel Gotor in più occasioni ha dimostrato di avere uno sguardo per nulla compiacente nei confronti della storia delle Brigate rosse e più in generale della Lotta armata e delle formazioni rivoluzionarie degli anni 70, come dimostrano i diversi libri, saggi e articoli dedicati al sequestro Moro, in particolare alla produzione scritta del dirigente democristiano (lettere e memoriale).

3. Acss, Legione carabinieri di Milano, Processo verbale di perquisizione e sequestro di via Monte Nevoso di Milano, 1° ottobre 1978, ore 10, pp. 8, 15-17, 22, 31, 42, 45.

4. Carlo Pisacane, Saggio su la Rivoluzione, a cura di Giaime Pintor, Einaudi, Torino  1942.

5. Si tratta delle seguenti edizioni: Bizhan Jazani, Lotta armata in Iran, Calusca, Milano 1977; Piero Gamacchio, La resistenza eritrea, Lerici, Cosenza 1978; Prateria in fiamme: il programma politico dei Weather Underground, Collettivo editoriale libri rossi, Milano 1977; Oscar José Dueñas Ruiz e Mirna Rugnon de Dueñas, Tupamaros: libertà o morte, isapere edizioni, Milano-Roma 1974; Carlo Pisacana, La rivoluzione italiana, a cura di Aurelio Lepre, Editori Riuniti, Roma 1975; Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi, prefazione di Cesare Cases, Einaudi, Torino 1977; Aleksandra Kollontaj, Vassilissa: l’amore, la coppia, la politica: storia di una donna dopo la rivoluzione, Savelli, Roma 1978; Pietro Guizzetti, Stato padrone. Le partecipazioni statali in Italia, Mondadori, Milano 1977; Antonio Mutti, La borghesia di Stato: struttura e funzioni dell’impresa pubblica in Italia, G. Mazzetta, Milano 1977; Francesco Siliato, L’antenna dei padroni: radiotelevisione e sistema di informazione, G. Mazzetta, Milano 1977; Stephen Hugh-Jones (a cura di), Multinazionali tutto il loro potere in Europa, Poligrafico G. Colombi, Milano 1977; Armand Mattelart, Multinazionali e comunicazioni di massa, prefazione di Ivano Cipriani, Editori riuniti, Roma 1977; Mao Tse-tung, Opere scelte, Casa editrice in Lingue Estere, Beijing 1969-75; Bertellier, Carabinieri: le più celebri barzellette sulla “Benemerita” per la prima volta raccolte e illustrate, introduzione di Sandro Medici, Savelli, Roma, Milano 1977.

6. Aniello Coppola, Moro, Feltrinelli, Milano 1976.

7. É-M. Sumbu, Il sangue dei leoni: appello politico a tutto il popolo congolese per una riscossa in massa contro la reazione Kinshasa. Discorso al Congresso culturale dell’Avana. Cultura e indipendenza nazionale. Manuale delle Special forces, Feltrinelli, Milano 1969.

8. Per l’espressione si veda Rossana Rossanda, Discorso sulla Dc, in il manifesto 28 marzo 1978, p. 1, e Id., L’album di famiglia, ivi, 2 aprile 1978, pp.1-2. Sul dibattito di quei giorni si rinvia a Gotor, Processo all’album di famiglia, pp. 53-58.

9. Sul processo, iniziato il 21 maggio 1975, cfr. Aust, Rote Armee Fraktion, pp. 283-370.

10. ACSS, Legione carabinieri di Milano, Processo verbale di perquisizione e sequestro di via mOntenevoso di Milano, 1° ottobre-5 ottobre 1978, ore 10, a firma Giovanni Scirocco e altri, ff. 7, 33-34. 39, 41, 49. 56, 58, 60 anche per le seguenti citazioni.

Problemi di storia della lotta armata per il comunismo
Brigate rosse, una storia che viene da lontano: il libro di Salvatore Ricciardi
Per amore della storia lasciate parlare gli ex brigatisti
L’eresia brigatista
Marc Lazar: “Gli anni 70 è ora di affidarli agli storici”
Steve Wright: per una storia dell’operaismo
Gli angeli e la storia
Giustizialismo e lotta armata
Neanche il rapimento Sossi fu giudicato terrorismo
Storia della dottrina Mitterrand
Enzo Traverso, années de plomb entre tabou et refoulement
Solo Cossiga ha detto la verità sugli anni 70
Etica della lotta armata
Ma quali anni di piombo: gli anni 70 sono stati anni d’amianto
Francesco Cossiga, “Eravate dei nemici politici, non dei criminali”
Francesco Cossiga, “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”
Quando la memoria uccide la ricerca storica – Paolo Persichetti
Storia e giornate della memoria – Marco Clementi

Brigate rosse
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro
Mario Moretti, Brigate rosse une histoire italienne
Vincenzo Tessandori, “Ci chiameremo la Brigata rossa
La vera storia del processo di Torino al “nucleo-storico” delle Brigate rosse: il Pci intervenne sui giurati popolari

Teorie del complotto
Dietrologia: chi spiava i terroristi
Doppio Stato, teorie del complotto e dietrologia
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella
Lotta armata e teorie del complotto
Doppio Stato, teorie del complotto e dietrologia
Doppio Stato e dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana – Paolo Persichetti
Doppio Stato? Una teoria in cattivo stato – Vladimiro Satta
La teoria del doppio Stato e i suoi sostenitori – Pierluigi Battista
La leggenda del doppio Stato – Marco Clementi
Italie, le theme du complot dans l’historiographie contemporaine – Paolo Persichetti
I marziani a Reggio Emilia – Paolo Nori

Le 18 risposte ad Aldo Giannuli 2/continua

Le risposte alle 18 domande di Giannuli dal blog di Marco Clementi

Rispondo da storico alle domande che il collega Aldo Giannuli pone nel suo libro. La documentazione per non porle e risparmiare carta è a disposizione di ogni studioso. A meno che, ma non lo penso, non siano state poste in modo retorico, ossia dando per scontate le risposte nel lettore. Giungono alla fine e non all’inizio del libro. Spesso mi è capitato di vedere il contrario: libri scritti per sciogliere i quesiti. Sta ovviamente nella libertà di ogni ricercatore impostare un lavoro come meglio ritiene opportuno.

Scrive Aldo Giannuli alle pagine 403-404 del suo libro, Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro, Tropea 2011:

«Sinceramente non credo che gli ex dirigenti delle Br risponderanno mai a queste domande, ma porgliele è d’obbligo e, in ogni modo, i silenzi in diverse occasioni sono più eloquenti di qualsiasi risposta.

1) Risulta un tentativo di contatto con padre Enrico Zucca dell’Angelicum di Milano?
No

2) Chi era il “misterioso intermediario” cui si fa cenno nel comunicato numero 4?
Veramente nel comunicato si parla di “misteriosi intermediari”. La frase completa è: «Abbiamo più volte affermato che uno dei punti fondamentali del programma della nostra Organizzazione è la liberazione di tutti i prigionieri comunisti e la distruzione dei campi di concentramento e dei lager di regime. Che su questa linea di combattimento il movimento rivoluzionano abbia già saputo misurarsi vittoriosamente è dimostrato dalla riconquistata libertà dei compagni sequestrati nei carceri di Casale, Treviso, Forlì, Pozzuoli, Lecce ecc. Certo perseguiremo ogni strada che porti alla liberazione dei comunisti tenuti in ostaggio dallo Stato Imperialista, ma denunciamo come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime di far credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti.»
Dunque, la domanda esatta dovrebbe essere: “chi sono i misteriosi intermediari”.
È palese che le BR si riferiscono ai partiti politici e ai loro contatti interni: gli intermediari sono quelli tra i partiti, che le BR non conoscono. Essi cercherebbero di imporre “trattative segrete”, mascherando i fatti. Le BR, invece, vogliono agire sotto gli occhi del proletariato.

3) A chi ci si riferiva con il cenno all’“esperto di controguerriglia psicologica”?
Anche in questo caso le BR usano il plurale. La frase è: «Per quel che ci riguarda il processo ad Aldo Moro andrà regolarmente avanti, e non saranno le mistificazioni degli specialisti della controguerriglia-psicologica che potranno modificare il giudizio che verrà emesso.»
Come sopra, il riferimento è all’atteggiamento dei partiti e della stampa, che cercavano di far passare le parole di Aldo Moro come scritte sotto dettatura.

4) Come mai le Br pensarono immediatamente che Fausto Tinelli e Iaio Iannucci erano stati uccisi dai “sicari del regime”?
La quarta domanda riguarda i compagni Fausto e Iaio. Che le BR non conoscevano, tanto che chiamano Iaio con il suo nome di battesimo, Lorenzo. Perché pensano che siano stati uccisi dai “sicari di regime”? Intanto quel duplice omicidio fu rivendicato dai NAR in diverse città. Inoltre, si tratta di un’espressione propagandistica forte, legata alla situazione politica del momento (le BR hanno in mano Moro). Le BR possono aver pensato a una intimidazione trasversale, o semplicemente, era difficile credere che Fausto e Iaio fossero stati uccisi da compagni del movimento, da anarchici o da rapinatori. Per le BR si trattava di un omicidio politico eseguito dai fascisti. Dopo piazza Fontana, che hanno sempre definito strage di Stato, a loro dire la mano fascista che uccide è parte del regime che stanno combattendo.

5) Come mai le Br non abbandonarono il covo di Montenevoso dopo l’omicidio del dirimpettaio Tinelli e dopo lo smarrimento del borsello di Azzolini, che non rendevano più il covo sicuro?
La quinta domanda, secondo Giannuli, è strettamente collegata alla precedente. Come detto, le BR non conoscevano né Fausto, né Iaio. Non sapevano dove abitassero e, inoltre, Fausto Tinelli non era “dirimpettaio” della base milanese di Via Monte Nevoso. Abitava al numero 9. La base era al numero 8. Le BR non avevano motivo di credere che con un mazzo di chiavi si potesse risalire alla base. Per questo non la lasciarono. Non era, poi, una base “viva”, ma fu usata allo scopo di scrivere i documenti del dopo Moro. In quel lasso di tempo venne scoperta.

6) Perché Bonisoli andò a prendere le fotocopie dei manoscritti di Moro da Firenze e non da Roma, dove avrebbero dovuto trovarsi, per prtarli a Milano?
Bonisoli prende i documenti a Firenze perché si trovavano lì, e non a Roma. Ricordiamo che a Roma, durante il sequestro Moro, viene scoperta la base di via Gradoli. Dopo l’uccisione del presidente DC, inoltre, la sua prigione fu progressivamente abbandonata. I documenti non si erano mai trovati lì. Moretti li portava dove era riunito l’esecutivo, a Firenze appunto.

7) Perché la copiatura dei testi di Moro non avvenne a Roma ma a Milano e proprio nella sede di Montenevoso che avrebbe dovuto essere già stata abbandonata?
Il lavoro sulle carte di Moro venne affidato alla colonna milanese. Per questo si lavorò a Milano.

8) Venne realizzata una sola copia dei manoscritti di Moro? In caso affermativo, perché mai, vista la delicatezza del testo in questione? In caso negativo, che fine hanno fatto le altre copie?
La mia supposizione è che non tutte le copie si trovavano a Milano. Ma gli originali finirono distrutti. Come? Si può supporre un errore.

9) Perché all’indomani del 1° ottobre 1978, le Br, ancora in possesso dei manoscritti originali di Moro, non pensarono di smentire le autorità politiche, giudiziarie e di polizia sulla parzialità del ritrovamento, pubblicando quel che era in loro possesso? E ciò anche in considerazione del forte effetto destabilizzante che questo avrebbe avuto?
All’indomani della scoperta di Monte Nevoso le BR avevano altre copie dei documenti di Moro. Pensare, però, che potessero comunque essere usati per destabilizzare il sistema dopo che le parole di Moro prigioniero erano rimaste inascoltate, o addirittura attribuite alla “sindrome di Stoccolma”, è strano. I militanti del gruppo armato, probabilmente, controllarono se le cose pubblicate dai giornali corrispondessero a quanto in loro possesso, e non trovarono emendamenti o censure.

10) Nei primi comunicati le Br enfatizzarono le rivelazioni che Moro andava facendo («L’informazione e la memoria di Aldo Moro non fanno certo difetto»), e promisero che tutto sarebbe stato rivelato una volta conclusa la vicenda. In seguito, invece, nulla venne reso pubblico. Se le rivelazioni del prigioniero non erano state (o non erano parse) significative, perché fino al 10 aprile erano state enfatizzate? Per altro, anche se fossero state poco significative, perché non pubblicarle, almeno per mantenere l’impegno preso e non far sorgere sospetti? Se invece lo erano, perché dopo sono state nascoste?
Anche in questo caso la domanda è mal posta. I documenti di Moro furono resi pubblici dopo la caduta di Monte Nevoso per decisione del governo. C’era bisogno di una seconda pubblicazione affermativa? Le BR non smentirono che quelle carte fossero originali. Tanto dovrebbe bastare.

11) Se quanto scritto e detto da Moro non era politicamente significativo perché prendersi la briga di spedire il materiale da Roma a Milano, via Firenze, e ribatterlo a macchina?
Nessuno ha detto che quanto scritto da Moro non fosse politicamente significativo, ma per le BR il FATTO POLITICO era l’aver preso Moro e cercare di ottenere qualcosa per la sua liberazione. Non ottennero nulla, invece. Questo fu per loro “politicamente significativo”.

12) Quando e perché maturò la decisone di non rendere pubblici i testi di Moro?
Anche questa domanda non trova riscontro. Non ci fu mai una decisione di non rendere pubblici gli scritti di Moro. Al contrario, in via Monte Nevoso stavano lavorando proprio per la loro pubblicazione. Ci pensarono i giornali, dopo la caduta della base.

13) Quando e perché le Br decisero di distruggere gli originali di Moro?
A questa domanda ho già riposto. Suppongo che furono distrutti per errore.

14) Quali ragioni di dicurezza imponevano di distruggere i manoscritti originali di Moro piuttosto che nasconderli, magari all’estero?
Vedi la riposta precedente. Con una postilla. Magari li potevano nascondere in una banca svizzera.

15) Se c’erano ragioni di sicurezza che imponevano la distruzione  degli originali di Moro, come mai non vennero distrutti immediatamente e si attese la fine del 1978?
Ibidem.

16) Per quanto poco significativi, gli scritti di Moro avevano un fortissimo valore mediatico. qualsiasi giornale o televisione europea avrebbe sborsato ingenti cifre per ottenere l’esclusiva. Come mai questa ipotesi non venne presa in considerazione da un gruppo dedito alla lotta armata e sempre alla ricerca di fonti di finanziamento?
Ibidem, ma con due postille. Risulta a Giannuli che le BR facessero scoop giornalistici, o la rivoluzione? È mai accaduto, prima o dopo Moro, che le BR vendessero a un giornale un documento? Li hanno sempre diffusi gratuitamente. Per quanto riguarda i finanziamenti, avevano soldi a sufficienza grazie al rapimento di un ricco imprenditore avvenuto anni prima, quando fu pagato un riscatto di più di un miliardo di lire.

17) E’ vero che le Br chiesero a Prima Linea di uccidere un ufficiale americano della base di Bagnoli, così come riferito da Roberto Sandalo? E, in caso affermativo, per quale motivo una richiesta così insolità? Perché proprio quell’ufficiale e qual era il suo nome? In caso negativo, perché Roberto Sandalo avrebbe dovuto inventarsi una storia così strampalata?
Non è vero.

18) Come mai gli ex dirigenti delle Br non hanno reagito in alcun modo alla pubblicazione del libro di Steve Pieczenik, e che valutazione ne danno?
Solo a quel libro? L’elenco di libri contro cui reagire mi sembra più lungo, molto più lungo. E che reazione ebbero? Questa domanda va posta a loro. Io, però, credo nessuna. Perché anche alla dietrologia ci si abitua.

Marco Clementi, storico

Link
Miseria della storia: quel cialtrone di Aldo Giannuli /1continua
Lotta armata e teorie del complotto: l’antistoria