Storia e giornate della memoria

Gli equiparatori, una ne fanno e cento ne pensano

Marco Clementi*
11 maggio 2009

Il 9 maggio è il giorno della memoria delle vittime del terrorismo in Italia. Di tutte le vittime, senza distinzione di matrice, tipologia di attentato, obiettivo. Per l’occasione, la vedova Pinelli è stata invitata al Quirinale, dove ha incontrato la vedova Calabresi e la vedova Tobagi (“il giornalista ucciso dalle Br”, secondo Il Sole24ore). 
L’iperbole è complessa, ma va analizzata e spiegata. Da tempo, ormai, il calendario italiano si è riempito di giorni della memoria e da tempo si cerca di far passare tacitamente che la memoria e la storia siano coincidenti, anzi, che la memoria abbia maggiore dignità della storia. Forse perché la memoria appartiene alle vittime, mentre la storia ai vincitori. In realtà non è così. La memoria appartiene alla sfera privata, mentre la storia è pubblica. La memoria non si può verificare, mentre la storia attende il riscontro di altri studiosi. La memoria non sostituisce la storia, né si affianca ad essa, ma le offre delle fonti, tutte da verificare. Non vale di più della firma di un ambasciatore sotto a una nota scritta per il suo ministero. Solo in un contesto di memoria può avere luogo un incontro tra la vedova Pinelli e la vedova Calabresi. Perché nella memoria si perdono i ruoli e Pinelli e Calabresi sono visti semplicemente come vittime. Nella storia, però, è ben chiaro che Pinelli è stato ucciso alla Questura di Milano e che solo dopo alcuni anni da quella morte qualcuno ha sparato a Calabresi. Non sono due vittime sullo stesso piano. L’assassinio di Pinelli è stato perpetrato all’interno di una struttura dello Stato nel corso di un’indagine surreale sulla prima strage di Stato fatta in Italia. Pinelli è un martire della libertà e una vittima di quella strage. Calabresi è, per l’appunto, un servitore di quello Stato e non è morto per la nostra libertà. Il suo assassinio rientra in un contesto diverso e qualcuno che potrebbe spiegarcelo non vuole farlo. Nella storia, due vedove non si incontrano, e per la storia non sono state le Br ad uccidere Tobagi.

*Storico

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Link sul paradigma vittimario
Giovanni De Luna: “Serve un nuovo patto memoriale che superi la centralità delle vittime”
Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Quando la memoria uccide la ricerca storica
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Una storia politica dell’amnistia
Storia e giornate della memoria
Per amore della storia lasciate parlare gli ex brigatisti
Sabina Rossa: “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari

Spazzatura: “Sol dell’avvenir”, Il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella

Il comico naufragio di Giovanni Fasanella. Quando la dietrologia si complotta addosso

Paolo Persichetti
Liberazione
10 agosto 2008

La polemica lanciata dal ministro della cultura Sandro Bondi contro Il sol dell’avvenir, film presentato al festival di Locarno, sembra una di quelle nemesi, in questo caso irrimediabilmente grottesca, che si abbattono sui destini umani. Nemesi è parola che prende il nome da una divinità greca figlia della Notte e delle Tenebre. Indica l’intervento di una giustizia compensatrice. È quell’imprevisto copj13.aspcapovolgimento di fronte che stravolge l’esito fin troppo scontato attribuito alle cose. In questo caso vittima del destino cinico e baro è Giovanni Fasanella, autore del libro-intervista realizzato con Alberto Franceschini, Che cosa sono le Br (Bur 2004) da cui è tratto il film. Fasanella è stato uno stretto collaboratore di Giovanni Pellegrino, presidente per diverse legislature della commissione d’indagine parlamentare sulle stragi e il terrorismo. Torinese, legato al giro di Luciano Violante, fervido seguace delle teorie del complotto, oltre che vicino a Giuseppe Vacca, lo storico togliattiano che riteneva le Brigate rosse «eterodirette», ha partecipato a numerosi libri, tutti volti a sostenere la presenza di piani complottistici dietro le vicende della lotta armata. Se ogni scrittore deve un albero al mondo, Fasanella deve una foresta per aver riempito gli scaffali di immondizia dietrologica priva di qualsiasi valenza storica. Nel suo libro sulle Brigate rosse sposa la paranoia senile di Franceschini, le confuse e rocambolesche ricostruzioni sull’azione concertata dei servizi europei, americani e sovietici, che avrebbero manipolato le diverse stagioni della lotta armata. La stessa dottrina Mitterrand è raccontata come un disegno destabilizzatore della democrazia italiana. Ipotesi presa seriamente in considerazione dal pm di Bologna Paolo Giovagnoli, altro adepto della setta cospirazionista. Con un riduzionismo semplificatorio che taglia la storia con l’accetta, Fasanella intende dimostrare che le Br sono uno scheletro negli armadi del Pci e quindi dei suoi epigoni. Figlie di quel «triangolo rosso» emiliano, teatro nell’immediato dopoguerra di vendette partigiane contro i fascisti e i nemici di classe. Una sorta di residuo stalinista intriso di nostalgie resistenziali. Per arrivare a ciò viene azzerata la componente di fabbrica legata all’esperienza milanese e quella dell’università trentina. Ma qui non c’è lo spazio per approfondire. Ciò che conta è l’intenzione di Fasanella: portare l’affondo contro la tradizione comunista rappresentando gli anni 70 come l’ultimo capitolo del libro nero del comunismo. La destra avrebbe dovuto gioire per questo regalo inaspettato, invece per voce del ministro Biondi, sollecitato dall’ex presidente dell’associazione delle vittime del terrorismo Giovanni Berardi, improvvisatosi critico cinematografico, ha sferrato un durissimo attacco al film. Fasanella che negli ultimi anni ha promosso un grosso lavoro editoriale in favore di una parte dei familiari delle vittime di quel decennio, si è visto messo sotto accusa quasi fosse un apologeta della lotta armata. Furioso ha risposto: «Le vittime non hanno sempre e comunque ragione, alcuni di questa condizione hanno fatto un mestiere». Quando si è cagion del proprio mal non resta che piangere se stessi.

Link
Quando la memoria uccide la ricerca storica – Paolo Persichetti
Storia e giornate della memoria – Marco Clementi
Doppio Stato e dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana – Paolo Persichetti
Doppio Stato? Una teoria in cattivo stato – Vladimiro Satta
La teoria del doppio Stato e i suoi sostenitori – Pierluigi Battista
La leggenda del doppio Stato – Marco Clementi
Italie, le theme du complot dans l’historiographie contemporaine – Paolo Persichetti
I marziani a Reggio Emilia – Paolo Nori
Ci chiameremo la Brigata rossa – Vincenzo Tessandori
Lotta armata e teorie del complotto
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro
Storia della dottrina Mitterrand

Università della Sapienza: il seminario sugli anni 70 della Pantera

Libri – Esilio e Castigo, Paolo Persichetti, La città del sole 2005

I seminari sugli anni 70 (estratti dal capitolo 12 )

Agli inizi degli anni 90, gli apparati dell’emergenza mostrarono una notevole insofferenza e palesi timori di fronte al venir meno della ragione logo_pantera1 sociale che aveva giustificato l’esorbitanza del ruolo da loro assunto, il forte potere di supplenza acquisito. Orfani della lotta armata, nostalgici di quel conflitto, come i giapponesi sperduti nelle isole del Pacifico, esercitarono il massimo potere d’interdizione e di minaccia che era loro possibile. Ne sanno qualcosa quei militanti usciti temporaneamente dal carcere sul finire degli anni 80, dopo lunghe detenzioni preventive, e che tentarono di mettere in pratica la discontinuità politica annunciata. A metà del gennaio 1990 erano state avviate numerose occupazioni universitarie, fenomeno che si estese progressivamente a tutto il paese per circa tre mesi, dando vita al primo movimento del genere dopo la fine degli anni 70. Una coincidenza che colpì l’immaginario di molti commentatori e attori istituzionali, i quali vi avevano intravisto il rischio di una riedizione dei fatti del 1977. Una previsione più che azzardata, senza dubbio, ma estremamente rivelatrice dei timori di chi guardava a quegli avvenimenti. D’altronde la simbolicità dei luoghi e di alcuni riti sembrava rievocare la gioventù di molti giornalisti che scrivevano su quegli eventi. Contenuti e modalità erano, in realtà, profondamente differenti, ma l’evocazione del passato tornava a ogni passo realizzato da quell’acerbo movimento, molto poco ideologizzato, con riferimenti culturali confusi e che stentava ad elaborare richieste precise.
Il confronto col passato veniva nel contempo riproposto da minoranze nostalgiche, come un riferimento da emulare; dalla pressione quotidiana dei media e degli apparati di polizia, come un modello da evitare. Continue prove d’affidabilità democratica, di rifiuto della violenza, di fedeltà istituzionale, venivano richieste a quei giovani prim’ancora che essi si fossero dati una forma, una identità, un progetto. L’ombra di un passato volutamente tenuto aperto agiva come un ricatto continuo sul presente, un’ipoteca su ogni possibile futuro.

I seminari
In omaggio all’apparizione misteriosa di un felino nelle campagne laziali, che le autorità avevano inutilmente tentato di catturare, quel movimento assunse il nome di Pantera. «La Pantera siamo noi», gridarono oltre esilio_castigoit centomila studenti scesi in strada. Le analisi del sangue non finivano mai, e forse proprio per questo venne dal suo interno la curiosità di conoscere e capire gli anni 70, quel passato prossimo così stregato e maledetto. Dietro quella domanda non c’era tanto la volontà di apprendere la grammatica di altre rivolte, quanto il desiderio di misurare distanze e differenze, potersi sentire finalmente diversi e assolti. Così a metà febbraio venne organizzato un ciclo di seminari itineranti all’interno dell’Università romana della Sapienza, uno dei centri più attivi delle occupazioni. Erano stati invitati a parteciparvi protagonisti, con o senza pendenze giudiziarie, semplici partecipanti degli anni 70, insieme a docenti, avvocati, giornalisti.
Il primo incontro si tenne del tutto casualmente (disponibilità immediata dell’aula) presso la facoltà di scienze politiche. Relatori della giornata erano Rina Gagliardi, all’epoca giornalista del Manifesto; Edoardo Di Giovanni, avvocato e figura storica del “Soccorso Rosso”, nonché membro del comitato che condusse la controinchiesta sulla strage di piazza Fontana; Raul Mordenti, docente universitario ed esponente del 77 romano.

Domande e risposte dal pubblico
Dopo la conferenza, al momento del dibattito col pubblico, tra le cui fila erano presenti giornalisti di diverse testate, uno studente rivolse un quesito sulle dinamiche che avevano portato alla scelta della lotta armata settori di movimento e sulle ripercussioni che ciò ebbe in gruppi come Lotta continua. Tra le varie risposte, tutte estremamente pacate e caratterizzate da analisi retrospettive, ce ne fu una proveniente da un imputato del processo Moro ter, scarcerato per decorrenza dei termini di detenzione preventiva, seduto tra gli spettatori. mini_zavoli
Il mattino successivo, Repubblica aprì con un richiamo in prima pagina: “Brigatisti all’Università, lezione di mitra in aula”. Ovviamente lo sconsiderato titolo ad effetto e buona parte dell’articolo interno, con tanto di foto, stravolgevano quanto era accaduto e lo spirito stesso dei seminari. Quell’uscita, che suscitò anche malumori nel quotidiano di piazza Indipendenza, perché aggrediva un movimento che al suo interno conteneva forti elementi di critica della stagione craxiana e della cultura commerciale delle televisioni berlusconiane, temi tradizionalmente cari alla redazione di quel giornale-partito, innescava un artificiale clima d’allarme. Si alludeva, infatti, ad un progetto d’infiltrazione e controllo del movimento da parte d’esponenti degli «anni di piombo». I quotidiani di destra, invece, ignorarono completamente l’episodio per ritornarvi sopra pesantemente solo dopo l’artificioso scandalo sollevato da Repubblica. I “liberal” di piazza Indipendenza potevano essere soddisfatti per aver scatenato la canea e tratto in salvo il governo del «Caf», la famosa alleanza della roulotte stipulata nell’ultima stagione della “Prima Repubblica” tra Craxi, Andreotti e Forlani, a cui non sembrava vero di poter uscire dall’angolo in cui erano stati messi dalla fortissima mobilitazione studentesca, utilizzando come capro espiatorio i «terroristi in libertà».

“Terroristi all’università”
Quello di Repubblica non fu un autogol, un atteggiamento irrazionale e suicidario, bensì il risultato d’un intrigato reticolo di connivenze che la rendevano punto d’arrivo e cassa di risonanza degli umori e delle opinioni di quella realtà composita che sono gli “imprenditori dell’emergenza”. Secondo questi ambienti, quel navigare alla luce del sole in situazioni di massa da parte d’imputati di banda armata o di persone appena scarcerate, accusate di reati di «terrorismo», non era altro che la prova di un doppio linguaggio, un doppio livello, una strategia dei due tempi, che ripiegava nei movimenti d’agitazione sociale per riacquistare forza e tornare a colpire. In assenza di formazioni armate in attività, di gruppi che agitassero la propaganda armata, esponenti delle procure antiterrorismo, confortati dal Ros dei carabinieri, imbastivano processi ad intenzioni attribuite, costruivano teoremi sul subconscio. scary
Le simbologie erano fortissime, tant’è che un incauto Giuliano Amato non esitò a evocare la volontà di una fredda provocazione, un agguato premeditato per oltraggiare la memoria di Vittorio Bachelet, vicepresidente del consiglio superiore della magistratura, ucciso anni addietro dalle Brigate rosse all’interno della facoltà di giurisprudenza, prossima al luogo della conferenza. Da settimane circolavano nelle redazioni e nelle sedi di partito alcune veline della questura romana che segnalavano, con nome e cognome, la presenza nelle facoltà occupate di decine di «personaggi implicati in fatti d’eversione». Ovviamente le informative dimenticavano di precisare che nella maggioranza dei casi queste presenze erano più che legittime, trattandosi di studenti regolarmente iscritti a corsi di laurea e non d’intrusi.

Autorità e dissociati al Rettorato
In risposta ai seminari, si tenne al Rettorato una solenne cerimonia, con la partecipazione del senato accademico, del rettore e delle autorità, insieme all’immancabile sfilata di vetture blindate, televisioni e bodygard, per esprimere una «sdegnata condanna del terrorismo». Vi parteciparono anche alcuni dissociati della lotta armata, sempre in prima fila quando occorre prendere parte al rito dell’esportazione della colpa e dell’autocritica degli altri e garantire le cambiali firmate in pegno della propria libertà. A dire il vero, libertà è parola fin troppo grossa in questi casi. Citando La Boétie dovremmo chiamarla «servitù volontaria».

Si scatenò una ferocissima campagna politico-mediatica, una caccia alle streghe che prevaricava, schiacciava, annichiliva, terrorizzava dei ragazzi spesso alla loro prima esperienza politica. Impressionante era la portata dell’attacco sferrato, il peso del sospetto sollevato, commisurato alla realtà delle fragili spalle di quei giovani che scoprivano sulla loro pelle come anche la memoria poteva essere una colpa. Ci sono “passati” che non è bene conoscere, se non nella forma delle versioni ufficiali. Ci sono pagine di storia che devono restare tabù. L’altra lezione che quell’episodio proponeva, riguardava coloro che in diversa misura erano stati coinvolti nelle vicende della lotta armata. Avere tracce di un tale percorso nella propria biografia sottraeva l’accesso pieno ai diritti, come quello di esprimere la propria opinione in un pubblico consesso, salvo recitare il rosario della colpa, trasfigurando la propria esperienza nella rappresentazione del male assoluto. centogiorni1

“Devono tornare in carcere”
Durante le riprese di una delle puntate della “Notte della Repubblica” di Sergio Zavoli, un livido Antonio Gava, ministro degli Interni, tuonò contro quei brigatisti in libertà che andavano ricacciati in carcere in qualunque modo. Detto fatto: in ossequio alla separazione dei poteri e all’autonomia della magistratura, un servile giudice istruttore confezionò per la bisogna un mandato di cattura contro uno dei presenti ai seminari. Il povero Gava era l’emblema di un ceto politico alla frutta. Imbevuto di supponenza, ebbro d’arroganza, stracolmo d’un potere costruito sul modello dello “scambio occulto”, consenso elettorale in cambio di crediti a pioggia, finanziamenti a fondo perduto, appalti a reti d’imprenditori amici, speculazioni, malaffare, clientelismo pubblico, accordi con gruppi di potere e camorre locali, era incapace di percepire il salto di paradigma che rendeva obsoleta la sua politica. Il nemico che l’avrebbe abbattuto era altrove ma non sapeva avvedersene. Di lì a poco, con aria mesta anch’egli dovette allungare i polsi e lasciarsi ammanettare, finendo come quegli odiati brigatisti che aveva fatto incarcerare. Gli strascichi della campagna nata attorno ai seminari, giunsero fino al processo d’appello alle Br-Udcc, apertosi un anno dopo. Un fondo di Giorgio Bocca annunciava l’esito di una sentenza-ritorsione scritta in anticipo. «Questi sono i peggiori – tuonava l’opinion maker – i più sanguinari, quelli che nel Sessantotto portavano ancora i pantaloni corti». Non facevano parte della meglio gioventù.

I provocatori di piazza Indipendenza
Dopo l’articolo di Repubblica contro i seminari, un adirato corteo di studenti si diresse verso piazza Indipendenza (allora sede della Repubblica) al grido di «venduti!», ma arrivati sotto le finestre della nave ammiraglia del moralismo editoriale italiano, memori delle cronache di quei giorni che raccontavano del grande scontro editorial-imprenditoriale tra De Benedetti e Berlusconi, preferirono passare allo slogan «compràti!». Pare che Eugenio Scalfari, ferito nel suo incommensurabile ego, accolse l’episodio malissimo con sommo gaudio della plebe studentesca.

I centri di potere dell’emergenza contro la soluzione politica
I fatti di quel periodo mostrano come gli apparati dell’emergenza preferivano di gran lunga il perdurare di un lottarmismo residuale, dottrinario e velleitario, fragile e contenibile, ma sufficientemente rumoroso per suscitare allarme sociale e alimentare ricatti emergenziali, risorsa strategica utile a condizionare perennemente i nuovi movimenti e le nuove radicalità, piuttosto che la chiusura dell’epoca precedente e il recupero di quadri e militanti in nuovi percorsi politici. Ciò spiega l’ostilità nei confronti di una soluzione politica e la persecuzione mirata di tutti quegli attori che ne potevano essere il vettore. Il fantasma della lotta armata doveva restare l’antidoto ad ogni fermento critico, l’alibi per non abbandonare la cultura dell’eccezione. Le accuse di «doppio gioco» e «dissimulazione», lanciate da alcuni magistrati, come Armando Spataro, servirono a chiudere definitivamente ogni ipotesi d’amnistia. Liberate da questa scomoda presenza, cullate dalla rimozione, le culture più catacombali hanno trovato campo libero, suscitando all’inizio solo un logorroico verbalismo lottarmista. Col tempo però, l’esorcismo degli apprendisti stregoni istituzionali ha sortito i suoi mirabili effetti ed alla fine degli anni 90 il brusio cospirativo ha lasciato il posto a degli imprevisti passaggi all’atto.

Quando la memoria uccide la ricerca storica

Libri – Enzo Traverso, Il passato: modi d’impiego. Storia, memoria, politica, Ombrecorte, Verona 2006

Paolo Persichetti
Liberazione 17 luglio 2008

Se la storia comincia la dove finisce la memoria, come sosteneva Maurice Halbwachs, uno dei massimi studiosi della memoria sociale; se ciò che distingue la storia dalla memoria è proprio quel processo che consente il passaggio dalla storia in me alla storia in sé, il recente riemergere impetuoso di memorie passate con il loro seguito di rugosi risentimenti e la ricerca di “connessione sentimentale” con l’opinione pubblica non giova granché alla ricerca storica. I momenti più controversi di questa guerra della memoria restano la guerra civile del 1943-45 (ne parla Filippo Focardi in, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza 2005) e quella di minore intensità ma prolungata per oltre un decennio che ha solcato gli anni 70.
Quando la memoria non riesce più a fare posto alla storia sopraggiunge un “tempo compresso” che rifiuta di farsi tempo passato. E la presentificazione del passato facilita l’azione delle memorie artefatte che diventano in questo modo prismi di lettura deformanti. Così vicissitudini parziali rocambolescamente conservate nel presente, ricostruzioni ex-post modellate col senno del poi o la menzogna del dopo, dirigono lo sguardo che portiamo su ciò che ci precede. Prestando attenzione allo sguardo che il vicino porta sul lontano, Marc Bloch invitava a capovolgere l’idea di un presente in lotta perenne per divincolarsi dalle eredità dei tempi andati. È il passato ad essere il più delle volte ostaggio di ciò che viene dopo. Se c’è oggi un’epoca prigioniera del presente, questa riguarda in particolare gli anni 70.
Fabbricato ormai dai poteri pubblici e amplificato dai media, il ricordo spettrale di quel decennio prende forma attraverso solenni rituali commemorativi che cadenzano il cerimoniale istituzionale. Una memoria in bianco e nero che evoca immagini sbiadite di violenza politica e cancella i colori vivi della storia. Ma se all’oblio dei fatti sociali si sovrappone la memoria penale, il risultato non può che essere il ritratto di una memoria avvinta dall’emozione e assorbita dalla sofferenza, eco di un dolore a senso unico che confonde surrettiziamente episodi storici contrapposti. Una ossessione memoriale finalizzata alla creazione di una nuova topolatria: il culto di luoghi e momenti sapientemente selezionati per rappresentare il sacrificio versato ai valori legittimi. La memoria assume così le sembianze del morto che agguanta il vivo, del vampiro che succhia la vita futura. Emanate le sentenze, sepolti nelle galere o ripresi dall’esilio gli insorti, deplorati i morti di una parte e decorati quelli dell’altra, elevate le lapidi e innalzati i monumenti, ribattezzate le vie, ai soggetti vivi della storia si sostituiscono i testimoni risentiti della memoria. Eppure, scriveva Ernest Renan, «una nazione non è fatta solamente di memoria ma anche d’oblio», quell’oblio che aiuta poi a riscoprire e ricostruire, soprattutto ad andare avanti. Utile in proposito la riflessione di Gabriele Ranzato, Il passato di bronzo. L’eredità della guerra civile nella Spagna democratica (Laterza 2006) nella quale si sostiene che lunghi momenti di oblio e una conoscenza degli eventi passati meno carica di sentimenti di rivalsa e di ogni altra passione distruttiva possono aiutare il superamento di conflitti fratricidi.
In realtà l’apparizione della memoria nel dibattito storiografico è piuttosto recente. È quanto ha spiegato Enzo Traverso nel suo, Il passato: modi d’impiego. Storia, memoria, politica (tradotto da G. Morosato per Ombrecorte, Verona 2006 e pubblicato a Parigi nel 2005). La memoria, dunque, non solo ha poca storia ma è soprattutto una cattiva storia dove il ricordo è l’imballaggio e l’oblio il contenuto. Nonostante ciò, ha più successo perché appare meno arida e più umana, testimonianza diretta, integrale e genuina. Non c’è competizione tra ciò che si presenta come il realmente vissuto rispetto al pensato del discorso storico.
Eppure nessun passato si trasforma immediatamente in memoria. Permane sempre il filtro del tempo che trasceglie. La memoria è più che mai una delle forme in cui si declina l’uso pubblico della storia attraverso pratiche ritualizzate che mirano a rinforzare la coesione sociale, a dare legittimazione alle istituzioni e inculcare quei valori che ad esse sono più graditi. In altre parole la memoria tende a divenire un vettore di religione civile. E lo dimostra il fatto che la visibilità e il riconoscimento di una memoria dipende più che mai dalla forza di coloro che la portano. Ci sono “memorie forti” che si contrappongono a “memorie deboli”, stigmatizzate dal discorso dominante.
Walter Benjamin spiegava questa ossessione memoriale con la sopraggiunta incapacità della società novecentesca a trasmettere l’esperienza. Uno dei tratti tipici della modernità sarebbe stato proprio l’affermazione dell’esperienza vissuta a svantaggio di quella tramandata. Caratteristica che ha aperto la strada all’epoca del testimone, attore centrale della memoria, nuovo protagonista del racconto storico. Non a caso nasce la storia orale e una diversa attenzione è riposta alla dimensione del mentale, agli aspetti culturali e immateriali, prima trascurati al punto da non lasciare spazio alla soggettività di chi fa la storia. Gli uomini e le donne erano e restavano masse anonime. Semplice numero, statistica che non permetteva ai subalterni di emergere come soggetti narranti. Le classi laboriose rimanevano alla fine dei popoli senza storia perché senza parola. Lavori come La formazione della classe operaia inglese di Edward P. Thompson, La storia della follia nell’età classica di Michel Foucault, La notte dei proletari di Jacques Rancière, Il Formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg, ridanno finalmente voce ai subalterni, ne ricostruiscono l’universo, offrono loro il proscenio rubato della Storia.
Eppure questo passo in avanti si trasforma, paradossalmente, nella premessa di un brusco salto indietro quando capostipite emblematico del testimone diventa il reduce dei campi nazisti col peso del suo ricordo sconvolgente, espressione di un vissuto eticamente insostenibile e che fa di Auschwitz lo zoccolo della memoria collettiva dell’Occidente.
A questo punto l’identificazione del testimone con la vittima totale è pressoché inevitabile. Tutti gli altri perdono gradualmente legittimità narrante. Da allora è testimone solo chi ritiene d’aver subito, o vede riconosciuta, una violazione dei diritti umani, categoria che alla fine spoliticizza la natura di molti conflitti trasformandoli unicamente in uno scontro tra bene e male. La prima conseguenza è la scomparsa dei Resistenti, cioè proprio di chi ha combattuto il fascismo e lottato contro gli aguzzini dei campi di sterminio (il fatto che fossero soltanto dei giovani ebrei romani a protestare sotto l’abitazione di Priebke, uno dei nazisti responsabili del massacro delle Fosse Ardeatine che in maggioranza ha visto uccisi comunisti e antifascisti, dovrebbe far riflettere). Ma poi quest’amnesia tocca anche tutte le successive figure partigiane, guerrigliere, militanti, rivoluzionarie.
Sprovvisti dello statuto di vittime, vinti e subalterni spariscono nuovamente dalla storia, eclissati e inghiottiti dall’oblio. Sembra, infatti, che per poter lasciare traccia resti solo la triste via della competizione vittimaria, il festival del risentimento che offre in palio la palma della vittima dominante a discapito di quella soccombente, quasi a voler sancire che se non c’è vittima non c’è storia. Che al posto della storia ci sono soltanto crimini.

Sullo stesso tema
Il paradigma vittimario

Il nuovo pantheon del martirologio tricolore

Considerazioni attorno al dibattito aperto dal libro di Luca Telese, Cuori Neri, Sperling & Kupfer 2006

Una nuova stagione di vittimismo memoriale evoca i “caduti in difesa della trincea interna della nazione, avamposto della difesa della patria, dell’ordine, della famiglia, della cristianità…”.
Cuori neri diventa così il lavacro di una nuova purezza, la fonte battesimale dove i vecchi fascisti di ieri ricuciono le loro slabbrate verginità giovanili perse sui marciapiedi greci, spagnoli, portoghesi e cileni, senza dimenticare la stagione delle stragi. Operazione di recupero che accomuna i benpensanti in doppio petto, la destra che lavora da anni, dopo lo sdoganamento craxiano e l’arruolamento berlusconiano, alla costruzione di un’immagine presentabile, rassicurante, di governo, ma dietro la quale pulsa sempre l’autoritarismo degli apparati che abbiamo visto in azione nelle strade di Genova, a Bolzaneto e alla Diaz.
Esiste poi la sua variante estremista, quella del culto degli eroi andati incontro alla bella morte: l’arcipelago dei naufraghi

Paolo Persichetti
Liberazione 2 febbraio 2006

Una nuova teodicea torna a spiegare i fatti sociali sotto forma di un male che rende sacro il dolore e lo trasforma in una prova necessaria alla redenzione. Una sorta di libidine del negativo fa della storia una piaga che non può e soprattutto non deve cicatrizzarsi. La memoria assume le nefaste sembianze del morto che agguanta il vivo, del vampiro che succhia la vita futura, di un rito cimiteriale, un’adorazione sepolcrale: l’esatto contrario dell’autopsia del tempo finito. In un libro che ritraccia la vita, e soprattutto la morte di ventuno militanti d’estrema destra, Luca Telese ci conduce nei tortuosi percorsi della memoria fascista, descrive la forma che ha preso lo «scontro con i rossi» e i lutti che esso ha provocato nella rappresentazione degli eventi tramandata nella comunità politica dei neri. Non un lavoro sulla storia dunque.

Cuori Neri evoca gli echi più che i rumori di quegli urti, ci introduce nelle «vite ulteriori» che i caduti della destra fascista hanno avuto nel ricordo dei loro camerati sopravvissuti. Se l’oblio cancella, la memoria deforma. Al di là di ciò che è inconfutabile, quei corpi rimasti al suolo sotto i colpi d’armi da fuoco o di selvagge aggressioni alla spranga, si estende lo spazio infinito dell’approssimazione, della semplificazione, dell’esagerazione, dell’invenzione e del fraintendimento, capaci alla fine di riscrivere per intero gli stessi avvenimenti.
Anche se la ricerca storica deve fare i conti con entrambe, la memoria esistenziale resta altra cosa dalla memoria fattuale. La storia della memoria trae slancio dalla tradizione storiografica che ha fatto delle mentalità un accurato oggetto d’indagine. Essa è un contributo decisivo portato alla conoscenza dell’importanza che le percezioni, le credenze, i miti e le leggende, hanno nel divenire storico. Da questo punto di vista lo statuto dell’evento muta completamente natura, assumendo la veste di fatto storico non a partire dalla prova fattuale del suo reale accadimento, ma perché esistono delle credenze che lo ritengono tale. Il fatto storico è la credenza in sé. Se la convinzione dell’esistenza dei protocolli dei saggi di Sion porta a perseguitare ed uccidere milioni di ebrei, la legenda originaria ha una pregnanza storica indiscutibile benché essa sia una mera invenzione. Ciò rinvia ovviamente ai delicati passaggi che costruiscono queste rappresentazioni successive, ai meccanismi della memoria, memoria individuale e memoria sociale, ma anche alla fabbricazione ufficiale della memoria, alla costruzione delle identità collettive. La memoria, in sostanza, non è semplice ricordo lineare di ciò che è avvenuto, ma il risultato complesso di un processo di selezione sociale tra oblio e ricordo, deformazione e invenzione. La memoria rinvia dunque a colui che rimemora, parla dell’oggi ben più che di ieri.
Cuori Neri ha il pregio di dirci molte cose sulla situazione attuale, non solo della destra. È, infatti, un libro-specchio nel quale le invenzioni memoriali dei fascisti, confermati, neo o ex-post, riflettono le favole retrospettive che la sinistra tutta, e i comunisti neo o ex-post, raccontano di se. Siamo in presenza di una sorta di speculare guerra dei miti, o se vogliamo di trappola della memoria che ha per ambizione la conquista della palma della vittima. Vista dalle due sponde opposte, la memoria degli anni 70 sembra irrimediabilmente prigioniera di una sfrenata concorrenza vittimaria, di una competizione scatenata per acquisire il possesso della nuova icona legittimante nel repertorio della politica attuale: lo statuto illibato del perseguitato. Alla teoria del misconoscimento elaborata dalla destra corrisponde specularmene il paradigma angelista diffuso nella sinistra. Entrambi nefasti, devastanti, profondamente menzogneri. Il problema, dunque, non è più quello di rincorrere le singole favole che entrambi gli schieramenti si raccontano, quanto superare il dispositivo memoriale che le accomuna in un medesimo inganno della memoria.
Ad un Alemanno che dichiara: «Uccidere un fascista non era reato. Molti dei nostri sono stati uccisi e non si conoscono ancora gli autori. Eravamo cittadini di serie b», ad uno Storace che in televisione arriva a dire – magari credendoci pure – che negli anni 70 chi era di destra rischiava di perdere il lavoro, fa da perfetto contraltare la reazione di quelli che a sinistra Erri De Luca ha chiamato «i trasecolati», ovvero i teorici dell’innocentismo genetico, consustanziale e antropologico, di quelli che scrivevano «uccidere un fascista non è reato» e poi sentenziavano: «un compagno non può averlo fatto», fino ad arrivare alla degenerazione della teoria della faida interna, più volte evocata come accadde con i libro di Savelli sul rogo di Primavalle, Un incendio a porte chiuse. Una cultura angelista – il nonviolento Carlo Panella ritiene addirittura di essere stato lui ad uccidere un fascista con il lancio di una bottiglia – che non si arresta alla morte dei militanti di destra ma arriva a quella di Feltrinelli e Calabresi. Un tabù profondo, che rinvia alla violenza politica degli anni 70, alle asperità che il conflitto dell’epoca portava con sé, e che nessuno sembra voler più assumere. Nel libro di Telese spicca l’assenza dei nomi di Giorgio Vale e Alessandro Alibrandi, militanti dei Nar morti con le armi in pugno, quasi che la loro presenza armata danneggiasse il pantheon dei martiri, contaminasse l’idilliaca visione del vittimismo, l’impasto sacrificale che accomuna il recinto vittimologico dei neri.
Destra e sinistra non vogliono riconoscere cosa erano, da dove venivano. Si è imposta, infatti, una disonesta cultura dissociativa e pentitoria che non aiuta l’oltrepassamento delle fasi storiche più traumatiche, ma si avvale di una ben più facile esportazione della colpa, di solenni cerimonie d’autocritica degli altri.
Per questo i prigionieri politici e i fuoriusciti, di sinistra come di destra, tornano molto utili. Sono lì, buoni per ogni stagione e per ogni colpa, pronti a pagare per tutti e amnistiare le coscienze di chi nel frattempo ha fatto carriera e dietro l’ombra di quei corpi imprigionati o braccati trova rifugio.

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I redenti
Fascisti su Marte

24 agosto 2002: storia di una “consegna straordinaria”

Retroscena di una estradizione

Paolo Persichetti
Liberazione
venerdì 15 aprile 2005

Era una calda sera d’estate quella del 24 agosto 2002 e l’Italia aveva urgente bisogno di recuperare uno di quei giovani maledetti degli anni ribelli per offrirlo in pasto all’opinione pubblica. Una grossolana impostura, escogitata con l’intento di fornire l’immagine truccata di un brillante successo operativo dopo l’attentato mortale contro Marco Biagi, ucciso pochi mesi prima da un piccolo gruppo che aveva riesumato dal museo della storia una delle ultime sigle della lotta armata. Un paese distratto e annoiato, persino futile, conquistato dall’avidità dell’oblio, impaurito dalla possibilità di sapere, era stato scosso dal frastuono di quegli spari improvvisi. Irritato dal brusco risveglio, aveva rovistato furiosamente in un passato ormai sconosciuto. Cercava in spazi e tempi lontani i responsabili di quei colpi senza radici. Attribuiva al passato quella che era una surreale imitazione figlia del presente. Cercava nelle figure di ieri dei colpevoli per l’oggi. estradizioneFu così che all’alba del giorno seguente venni scambiato nel tunnel del Monte Bianco. Metafora di un accordo sotterraneo, siglato al di fuori di ogni trasparenza, concluso nel ventre della terra, lontano dalla luce del sole, distante dal chiarore del giorno, dopo una folle corsa nella notte. Quella furtiva consegna celava una flagrante violazione della legalità internazionale: una persona non può essere estradata per dei fatti posteriori a quelli indicati nel decreto, in assenza di una nuova richiesta e previa verifica del suo fondamento. Pur di avallare il teorema della centrale francese le autorità hanno agito aggirando tutti gli obblighi previsti dalla convenzione europea sulle estradizioni.
I passati rivoluzionari faticano a diventare storia, adagiati nel limbo della rimozione, periodicamente vedono schiudersi le porte dell’inferno che risucchia brandelli di vita, trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d’epoche finite che rimangono ostaggio dell’uso politico della memoria. Non un passato che torna ma un futuro che manca. La concomitanza con l’anniversario dell’11 settembre ricordava quanto la musica nel mondo fosse cambiata. Era tempo ormai per un forte richiamo all’ordine, alla riaffermazione dell’autorità, al rispetto assoluto della legge, al ripristino della certezza della pena. In un fondo di Barbara Spinelli, intitolato «Gli assassini tornano di moda», venivo seriamente redarguito perché i prigionieri e i rifugiati non avevano mai fatto atto di pubblico pentimento. Poche settimane più tardi, nel silenzio cimiteriale di una cella d’isolamento, una lettera anonima riprendeva l’argomento consigliandomi di collaborare con la giustizia, se volevo uscire da quella sentina della terra. Una richiesta surreale che undici anni dopo cercava ancora le prove del verdetto emesso in corte d’appello.
Alla fine di una lunga trafila burocratica, anche il magistrato di sorveglianza non ha autorizzato i permessi d’uscita perché: «non risulta che abbia pubblicamente assunto posizioni di dissociazione della lotta armata, tanto più necessaria alla luce della grave recrudescenza del fenomeno terroristico dichiaratamente ispirato all’ideologia delle Brigate rosse». Una richiesta irricevibile poiché costituirebbe una resa di fronte a trattamenti differenziali e premiali che hanno incrinato il principio di eguaglianza di fronte alla legge e trasformato l’inchiesta, il processo e il carcere, da sedi di verifica e ricerca della prova o svolgimento della pena, in mercati delle indulgenze, fiere dello scambio politico, luoghi dove si riceve un po’ di futuro in cambio del proprio passato. Diceva a tale proposito Jeremy Bentham che «la sfera della ricompensa è l’ultimo asilo dove si trincera il potere arbitrario».
Le diverse formazioni in cui erano divise le Brigate rosse degli anni 80 si sono estinte alla fine di quel decennio. Una netta discontinuità politica fu sancita dai militanti dell’epoca. Lo striminzito gruppo apparso solo più tardi, negli anni 90, sotto la sigla Ncc, è sorto con un evidente intento polemico nei confronti dei fuoriusciti e dei prigionieri che durante gli ultimi grandi processi dell’87-89 avevano decretato la chiusura del ciclo politico della lotta armata. Ogni confusione con le epoche precedenti è dunque ingiustificata e strumentale. Non ci sono ambiguità intrattenute. Chi sostiene il contrario nel ceto politico, nel governo o tra gli apparati investigativi e giudiziari, offre solo la prova di una sorprendente osmosi culturale, una micidiale simmetria d’atteggiamento con gli autori degli attentati D’Antona e Biagi. I quali hanno tutto l’interesse a rimuovere i percorsi politici condotti dagli ex militanti della lotta armata nel decennio 90.
La dissociazione è l’esatto contrario di una disposizione dell’animo, un afflato della coscienza, un soprassalto dello spirito che sosterrebbe nobili percorsi di distacco interiore, assolutamente liberi e disinteressati, ma un tipico modello di autocritica degli altri, che ricava vantaggi giudiziari e penitenziari dall’esportazione delle proprie responsabilità. Paradossalmente il protrarsi della lotta armata, da cui essa pretende un cinico distacco, è il presupposto della sua forza contrattuale. Qualcosa d’assolutamente opposto al divenire politico del fenomeno stesso, al suo approdare altrove, al suo oltrepassarsi attraverso un tragitto assolutamente autonomo, sottratto a qualsiasi forma di connivenza o compiacenza col potere, come è avvenuto alla fine degli anni 80.
La riesumazione di questo vecchio arnese dell’emergenza riporta strumentalmente in dietro di decenni i percorsi politici realizzati. Una caricatura archeologica che si spiega con la maligna intenzione di costruire un nesso morale, in assenza di quello materiale, tra i militanti degli anni 70-80 e gli episodi del 1999 e del 2002. La responsabilità viene così ad assumere una singolare dimensione transitiva, utile per ricacciare indietro il timore di dover riconoscere che quei nuovi colpi d’arma da fuoco siano anche responsabilità di chi ha cullato il paese nella rimozione, di chi quell’oblio ha teorizzato e incensato, di chi in questo modo ha evitato imbarazzanti domande. Il rifiuto ostinato dell’amnistia, mantenendo gli insorti simbolicamente emarginati nei recinti carcerari o nei limbi disciplinari d’esistenze semipenitenziarie, ha congelato il tempo, cristallizzato le epoche, e tentato d’impedire a quel sapere incarcerato, a quelle esperienze sotto chiave o esiliate, di far valere le ragioni dell’irriproducibilità dei modelli di lotta armata trascorsi. Non anatemi morali ma autonome valutazioni politiche udibili dalle componenti sociali antisistema. Tutto questo è mancato. L’Italia è rimasta fedelmente ancorata alle politiche dell’urgenza, allo stato d’eccezione, ai modelli dell’abiura che hanno facilitato il reistallarsi della coazione a ripetere. L’esilio e il carcere hanno alterato la coscienza del tempo, rafforzando nella società la tentazione di considerare immutabile il rimosso.
Negli anni passati, prigionieri e fuoriusciti, se non altro per quella saggezza che fuoriesce dal disagio di chi deve confrontarsi con circostanze sfavorevoli, hanno dovuto misurarsi con la sconfitta esplorandone gli aspetti più reconditi, vivendola sui propri tragitti esistenziali, tra esili senza asilo e castighi. All’anatema hanno opposto la riflessione. Avrebbero potuto barricarsi nelle torri in cemento blindato delle carceri, trovare conforto nell’isolamento penitenziario che gli era destinato, arroccarsi nel dolore per le vittime della propria parte, sentirsi l’emblema sacrificale di un martirio metastorico, vivere di una mortifera nostalgia che come scrive Milan Kundera, «non intensifica l’attività della memoria, non risveglia ricordi, basta a se stessa, alla propria emozione, assorbita com’è dalla sofferenza». Invece hanno rifiutato tutto questo. Non si sono sottratti alla realtà mutata che rendeva obsolete le loro scelte passate. Hanno cercato, nonostante i muri e le sbarre, di andare oltre. Sono evasi dalla loro pena, sono fuggiti ai carcerieri rimasti a sorvegliare solo i fantasmi di una società attardata, ancora madida di rancore contro le immagini vuote d’icone da odiare.
I «vincitori», o quel che ne è rimasto, cosa hanno fatto? Adagiati sopra e poi travolti dagli stessi dispositivi concepiti per sconfiggere gli insorti non hanno saputo condurre a termine la benché minima elaborazione collettiva del lutto. Si rimproverano dei singoli per aver eluso un discutibile senso di colpa, mentre la società italiana è stata interamente conquistata dalla rimozione. Ciò che per i prigionieri e i rifugiati, ma anche per settori della società civile, è oramai storia, materia d’indagine e inchieste serrate da discutere con le tecniche fredde delle scienze sociali, per la quasi totalità del ceto politico e della magistratura resta una ferita aperta, strumentalmente intrattenuta come una piaga viva che non può e non deve cicatrizzarsi. Allo scandaglio del lavoro storico si contrappone la venerazione di una memoria trasfigurata nel culto di un dolore non riassorbibile. Al lavoro d’incorporazione del passato, doloroso e conflittuale, si sostituisce un atteggiamento di rifiuto che fa di esso una trincea su cui attestarsi. L’elaborazione del lutto diventa in questo modo, secondo una consolidata tradizione inquisitoriale, uno strumento di bonifica delle coscienze che aggiunge alla sanzione sui corpi anche la correzione delle menti. Si afferma in questo modo una narrazione penitenziale della storia contrassegnata da totem e tabù, miti fondatori e comportamenti demonizzati. La complessità sociale degli eventi si riduce ad una rozza contrapposizione tra bene e male, il decennio dei movimenti e dei conflitti diventa storia di delitti. I fatti perdono ogni loro dimensione sociale per acquistare unicamente rilevanza penale mentre la militanza si confonde con la devianza. Come in un perfetto esorcismo, gli anni 70 diventano il capro espiatorio del Novecento italiano, il capitolo che manca al livre noir du communisme.
A conti fatti, riflettere su questo passato che non passa, cercando di non farlo restare un’àncora, un peso, una zavorra, ma di scioglierlo nel presente, si è dimostrato una inutile fatica di Sisifo. Uno sforzo vano e inviso, causa di pregiudizio e di sospetto perché non recuperabile e integrabile attraverso logiche premiali e dissociative, ma quel che è peggio, oggetto di un vero e proprio misconoscimento, fatto nullo e non avvenuto, circostanza azzerata, pagina sbiancata.

Europe des libertés ou Europe des polices ?

Europe des libertés ou Europe des polices ?

Giorgio Agamben
le Monde 3 octobre 2002

Il y a quelques années, à l’occasion du retour en Italie de Toni Negri, j’avais tenté de réfléchir sur le bon usage de la mémoire et de l’oubli au regard de cette période récente de l’histoire italienne que l’on continue d’appeler les Années de 2008_andreas_templin_2plomb. Si je reviens aujourd’hui sur cette question à propos de l’extradition des citoyens italiens réfugiés en France, c’est parce que ce qui est en jeu ici n’est pas seulement le rapport d’un État de l’Union européenne avec son passé plus ou moins lointain. En réalité, la question concerne tous les Européens, parce qu’il en va de l’image même de l’Europe qui est en train de se construire. Cette image repose sur le présupposé selon lequel, puisque tous les États membres de l’Union sont des Démocraties, il est impossible qu’il existe des réfugiés politiques provenant de l’un d’entre eux. Un tel principe est une fiction, dont l’hypocrisie est évidente. La figure de l’exilé a accompagné l’histoire de la démocratie depuis ses origines en Grèce classique, et il est probable qu’elle continuera à le faire, du moins tant que le processus de dépolitisation, actuellement en cours dans les pays industriels avancés, n’aura pas liquidé tout conflit politique.
La démocratie est un concept complexe, qui, comme le sait tout juriste sérieux, ne peut en aucune manière se réduire à un dispositif électoral déterminé. Elle implique une série de principes et de critères que l’évolution des États modernes a si gravement remis en question que la simple opposition entre démocratie et dictature ne semble plus pertinente. Non seulement la liberté de penser et la possibilité même de la formation d’une volonté politique sont aujourd’hui dangereusement conditionnées par la manipulation des médias, amis le principe même de la séparation des pouvoirs a été progressivement érodé par le recours toujours plus fréquent au paradigme de l’urgence comme système de gouvernement. Sans doute peu de Français savent-ils que les lois ont permis de condamner les réfugiés politiques italiens (la loi n° 191 du 21 mai 1978, dite « loi Moro », et la loi n° 15 du 6 février 1980 1980) ne sont pas, au sens propre, des lois, mais de simples ratifications de décrets d’urgence émis par l’exécutif (respectivement le 28 mars 1978 et le 15 décembre 1979). Dans les trente dernières années, en particulier en période de crise politique, l’activité du Parlement italien n’a pas consisté à légiférer, mais à ratifier les mesures d’urgence de l’exécutif, en contradiction évidente avec le principe de la séparation des pouvoirs. Plus généralement, l’adoption des paradigmes de la sécurité et de l’urgence comme instruments de gouvernement est en train de transformer partout en profondeur le sens des institutions démocratiques. Ne voyons-nous pas aujourd’hui le gouvernement d’un État, jadis berceau de la démocratie, imposer au nom de l’urgence à ses concitoyens et au monde entier un état d’exception permanent, où les plus inhumaines violations de la Constitution et des principes du droit deviennent la règle ?
Dans ces conditions, il est essentiel que la fiction selon laquelle les citoyens de l’Union européenne ne peuvent être des réfugiés politique soit reconnue comme telle. Qu’adviendra-t-il le jour prochain où seront admis dans l’Union des États dont l’histoire récente est celle de génocides et de la répression violente de populations entières ? Dira-t-on alors, en gommant l’histoire, que de ces pays-là non plus ne sont jamais partis des exilés politiques ?
La France, avec la doctrine Mitterrand, a donné la preuve qu’elle voulait une Europe des libertés et pas seulement des polices. Il est essentiel qu’elle n’abandonne pas cette politique aujourd’hui.

(Traduit de l’italien par Joël Gayraud)

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L’exception permanente
Agamben, Lo Stato d’eccezione
Tolleranza zero: estensione dell’infrazione di terrorismo e nuovo spazio giudiziario europeo
La giudiziarizzazione dell’eccezione 1
La giudiziarizzazione dell’eccezione 2
Il caso italiano, lo Stato di eccezione giudiziario
Storia della dottrina Mitterrand
Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu

La fine dell’asilo politico
Garapon, L’utopia moralizzatrice della giustizia internazionale
Carcere, gli spettri del 41-bis
Dopo la legge Gozzini tocca al 41-bis, giro di vite sui detenuti
Tarso Gendro, “l’Italia è ancora chiusa negli anni di piombo”
Brasile, stralci della decisione del ministro della giustizia Tarso Gendro