Monteverde è antirazzista, antifascista e antisionista

Cronaca di una manifestazione festosa e colorata tra le vie del quartiere romano di Monteverde, dove negli ultimi tempi si sono succedute numerose aggressioni fasciste e sioniste, e il tentativo di manipolazione e delegittimazione dei media e delle istituzioni

Nel pomeriggio di domenica 30 novembre un corteo colorato e festoso, pieno di ragazze, ragazzi e musica, ha attraversato le strade del quartiere romano di Monteverde per manifestare contro le aggressioni sioniste e il genocidio in Palestina. I giovani volevano ricordare quanto accaduto il 2 ottobre precedente, quando alcuni studenti e docenti del liceo artistico Alessandro Caravillani (uno studente romano ucciso dai fascisti dei Nar nel marzo 1982 durante una rapina), che ha sede in uno spazio adiacente la sinagoga del quartiere, erano stati aggrediti da una squadraccia capeggiata da Riccardo Pacifici, ex presidente della comunità ebraica romana, uscita proprio dai locali della sede di culto.

Gli squadristi usciti dalla sinagoga

Lo scalpo

I giovani avevano da poco concluso un’assemblea di preparazione dello sciopero generale e della manifestazione nazionale che si sarebbe tenuto il 4 ottobre successivo. L’edificio scolastico non è dotato di un’aula magna e gli studenti si erano radunati nel cortile. Dopo una prima incursione all’interno degli spazi del liceo, la squadraccia ha atteso i ragazzi all’uscita. Ad uno studente, riconosciuto dal gruppo degli aggressori come un membro della comunità ebraica, era stato fatto lo scalpo. Trascinato per i capelli si era visto strappare una larga ciocca. Un docente che si era frapposto per difendere i liceali era stato violentemente strattonato mentre alcune ragazze si erano viste riempire di insulti a sfondo sessuale. Per questo episodio una quarantina di denunce sono state presentate al commissariato di zona dai genitori degli studenti, tutti minori, dai docenti e dal personale Ata del liceo. Il gravissimo episodio di violenza politica non ha conquistato le prime pagine dei media nazionali. Nessuna autorità dello Stato ha sentito il dovere di prendere la parola per condannare la grave minaccia portata alla libertà di studio ed espressione del pensiero all’interno della scuola e all’incolumità di chi la frequenta e fornire solidarietà agli aggrediti. Negli stessi giorni un lavoratore dell’ospedale Spallanzani, situato sempre nel quartiere, era stato aggredito da un’altra squadraccia mentre davanti al posto di lavoro teneva un presidio in sostegno della popolazione martoriata di Gaza. Nel febbraio precedente uno dei licei del quartiere, il Luciano Manara, era stato vandalizzato nel corso di una irruzione notturna: la serratura del cancello di ingresso all’istituto sigillata e le mura imbrattate con la stella di David. L’azione era stata rivendicata dalla «brigata Dario Vitali», che fu commissario dei fasci di combattimento di Livorno nel ventennio. Un ardito fascista di origini ebraiche che sintetizza bene l’ideologia che muove queste frange del sionismo romano.

Una manifestazione festosa e colorata per le strade del quartiere

Il corteo in sosta davanti all’ospedale san Camillo


Per queste ragioni il percorso del corteo ha volutamente seguito un tragitto che si è tenuto lontano dai locali della sinagoga. Una consapevole scelta politica dettata dalla volontà di non alimentare polemiche e innescare forme strumentali di vittimismo da parte degli esponenti più facinorosi del mondo sionista che abita il quartiere. Gli organizzatori hanno invece voluto attraversare i luoghi delle aggressioni, dove il corteo ha fatto sosta. Una lavoratrice del san Camillo ha così preso la parola quando i manifestanti si sono fermati davanti al grande ospedale romano. Lo stesso è accaduto davanti all’ex scuola media Fabrizio De André, oggi abbandonata. Una decisione che ha arrecato un grave pregiudizio al quartiere. L’obiettivo era quello di rimarcare l’internità al quartiere delle realtà politiche che hanno organizzato la giornata di mobilitazione, l’Assemblea autonoma di Monteverde insieme alla rete delle altre organizzazioni e centri sociali di Roma sud, oltre alla presenza costante e il legame con le problematiche che investono il territorio saldandole alle questioni più generali, come il genocidio di Gaza. L’iniziativa si è conclusa festosamente nella serata.

Le scritte notturne e la lapide oltraggiata


Il mattino successivo è giunta la notizia che durante la notte due sconosciuti col volto travisato, ripresi dalle telecamere di sorveglianza, come scrivono le cronache, avevano vigliaccamente imbrattato con una bomboletta spray la lapide di Stefano Gaj Taché, posta all’ingresso della sinagoga del quartiere, da dove erano usciti nelle settimane precedenti gli aggressori degli studenti del Caravillani. Stefano Taché è il bimbo rimasto ucciso durante l’assalto al tempio ebraico di Roma nell’ottobre del 1982, realizzato da un commando del gruppo Fatah-consiglio rivoluzionario guidato da Abu Nidal, una formazione dissidente della galassia guerrigliera palestinese (ferocemente anti Olp) che voleva vendicare la strage del settembre precedente nei campi dei rifugiati palestinesi di Sabra e Chatila, a Beyrut (bilancio finale oltre duemila morti), commessa dalle milizie maronite, ispirate e protette dall’esercito israeliano che presidiava gli ingressi dei campi. Qualche metro più in là, gli ignoti autori della scorribanda hanno lasciato anche due scritte sul muro, «Monteverde antifascista e antisionista» e «Palestina libera».

L’improvvisa fine del silenzio

Membri della squadraccia che ha aggredito gli studenti del Caravillani


Il presidente della comunità ebraica romana, Victor Fadlun, che aveva perso la parola davanti all’aggressione degli studenti del Caravillani da parte di alcuni frequentatori della sinagoga, l’ha improvvisamente ritrovata per qualificare le scritte notturne come un «atto di antisemitismo», denunciandone «l’uso abietto come strumento di lotta politica». Con una solerzia sospetta sono subito intervenute anche le più alte cariche dello Stato: dal Quirinale, alla presidenza del Senato, dal ministro degli Esteri e degli Interni, al sindaco di Roma, che tutti insieme avevano taciuto l’aggressione degli studenti e docenti del Caravillani. Una indignazione selettiva, una reattività a geometria variabile che mette in luce l’ipocrisia profonda della politica e delle istituzioni. Oltretutto suscita non poche riserve il ricorso alla qualifica di «antisemitismo» per definire termini come antifascismo e antisionismo o la stessa autodeterminazione e libertà di un popolo, quello palestinese, a meno che non si voglia sottendere l’esistenza di una supramatismo ebraico.
Ancora per un po’ il termine «antifascismo» resta parola costituzionale, visto che oltre ad ispirarne lettera e valori fondanti è indicato in una norma, seppur transitoria. Anche l’antisionismo non è ancora reato, sebbene la destra di governo abbia intenzione di renderlo tale. Il sionismo è una ideologia nazionalista con ambizioni coloniali, di stampo politico e per taluni anche religioso, con tendenze di ogni colore, che mira alla colonizzazione di un territorio, con relativa espulsione, segregazione o sterminio dei nativi. Le nostre leggi permettono ancora di definirsi colonialisti o anticolonialisti, si tratta di un discrimine che investe la dialettica politica non ancora quella giuridica, semmai è una infrazione amministrativa scriverlo sui muri delle città.

Una narrazione ribaltata


Alla notizia della lapide imbrattata i ragazzi hanno subito fiutato la trappola (sotto e qui il loro comunicato). Già in serata si preannunciavano le veline politiche, la narrazione capovolta da diffondere sull’episodio, ovvero il legame tra le scritte notturne e la manifestazione che si era tenuta la domenica pomeriggio. Un’accusa diretta agli organizzatori del corteo, subito ripresa dalla stampa mainstream del giorno successivo. In un comunicato diffuso in serata gli organizzatori hanno subito espresso l’«impellente necessità di discostarci chiaramente da questo gesto e di condannarlo con fermezza», esprimendo «sincera vicinanza alla comunità ebraica del nostro quartiere». Più avanti hanno stigmatizzato le «intollerabili accuse che ci sono state rivolte da testate giornalistiche che, oltre a non conoscere la situazione nel nostro territorio e i valori che caratterizzano la nostra assemblea, non hanno esitato un minuto a puntarci il dito contro. Anche perché tale gesto scredita e vanifica il lavoro collettivo di costruzione della piazza». Media e giornali, proseguono, «non solo mistificano la realtà, ma scelgono deliberatamente di raccontare alcuni fatti piuttosto che altri: nessun articolo sul corteo trasversale, colorato e popolare che ha attraversato le strade del nostro quartiere o le nostre chiare parole tanto contro il sionismo che contro l’antisemitismo». Per gli autori del comunicato: «L’incredibile manipolazione mediatica a cui assistiamo è solo uno dei tanti sintomi di una narrazione egemone malata, che non riesce a distinguere la religione dalla politica e così facendo manipola l’opinione pubblica. A partire dai massacri del popolo palestinese fino alla complicità del governo italiano».

Gli autori delle violenze del 2 ottobre sono noti, ma nessuna condanna politica è mai stata espressa (vedremo cosa farà la magistratura). Gli autori delle scritte notturne sono ancora ignoti (forse analfabeti della politica o furbetti che giocano alla manipolazione, è tutto da scoprire) ma istituzioni, politica e media hanno già individuato dei colpevoli preventivi da condannare.
Un doppio metro di giudizio non più accettabile.

Il ruolo avuto dagli apparati statali nella stagione iniziale dello stragismo degli anni 70

Intervento – A proposito della recente polemica tra Paolo Morando e Vladimiro Satta sul ruolo avuto da parte di apparati e settori dello Stato nella stagione iniziale dello stragismo degli anni 70

di Paolo Persichetti

Il 6 settembre scorso in un post sulla sua pagina faceboock Paolo Morando ha segnalato una serie di errori fattuali commessi da Vladimiro Satta nella appendice della edizione aggiornata del suo I nemici della repubblica, Rizzoli, 2024 (prima edizione Rizzoli 2016). Inesattezze contenute in alcuni passaggi che criticavano il suo libro del 2019, Prima di Piazza Fontana. La prova generale. Ad avviso sempre di Morando, quegli errori non erano veniali poiché, oltre a chiamarlo in causa, avrebbero ingannato il lettore.

Nella sua replica Satta ha riconosciuto che vi erano delle imprecisioni per poi aggiungere che il vero oggetto della divergenza portava nella diversa «valutazione storica degli attentati minori che nel 1969 precedettero la strage di Piazza Fontana a Milano».

Se per Morando si trattava, con la scrupolosa citazione degli episodi, della prova che le indagini furono orientate volutamente nella direzione degli anarchici, valutazione fatta soprattutto alla luce di quanto poi avvenne il 12 dicembre in piazza Fontana, a Milano, all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura dove morirono 17 persone dopo l’esplosione di una bomba e altre 88 rimasero ferite. Per Satta invece l’Ufficio politico della questura avrebbe agito senza secondi fini, indotto nell’errore dall’abitudine di alcuni ambienti anarchici a commettere piccoli attentati dinamitardi e soprattutto l’esito finale dei processi, che condusse all’assoluzione di gran parte degli inquisiti, avrebbe smentito la teoria della macchinazione o per meglio dire del pregiudizio politico da parte della questura. Insomma si sarebbe trattato di una legittima indagine che grazie alle garanzie processuali e ai contrappesi costituzionali, commisurò le reali responsabilità sui fatti accaduti.

Il secco botta e risposta (lo potete leggere in fondo) che i due studiosi si sono scambiati, riveste una certa importanza poiché solleva una rilevante questione storica sul ruolo avuto da parte di apparati e settori dello Stato nella stagione iniziale dello stragismo degli anni 70.

L’esplosione di due bombe il 25 aprile 1969, alla fiera campionaria (20 feriti) e alla stazione centrale di Milano, provocò l’arresto di sei persone di area anarchica su impulso di una indagine condotta dal commissario Calabresi. Ai sei vennero contestati complessivamente 18 attentati esplosivi, 12 dei quali considerati «stragi» (ricordo che il reato di strage, trattandosi di reato di pericolo, è punibile sulla sola base delle intenzioni anche se la strage non viene poi commessa e vi sono solo danni materiali, addirittura senza feriti), Vennero anche incriminati per falsa testimonianza e rinviati a giudizio l’editore Feltrinelli e la moglie.

La prima circostanza singolare di questa inchiesta sta nel fatto che nonostante gli arresti siano scaturiti dopo la bomba alla fiera campionaria, i sei non vennero accusati di strage per questo attentato, l’unico che ebbe feriti. Alla fine solo tre dei sei arrestati vennero condannati, tutti a pene molto lievi, per sei episodi minori avvenuti in ore notturne unicamente con danni materiali. Delle altre 12 esplosioni: le due più importanti, quelle del 25 aprile alla fiera campionaria con 20 feriti, e alla stazione centrale, furono – solo anni dopo – attribuite in via definitiva alla cellula ordinovista di Padova guidata da Freda e Ventura; delle altre 10 (minori avvenute in ore notturne, senza feriti), nulla si è mai più saputo.

Ora secondo Satta, l’iter giudiziario con l’assoluzione finale dei più proverebbe che non vi fu alcun intento persecutorio ma solo un fisiologico funzionamento dell’azione di controllo repressivo delle forze di polizia e di verifica della giustizia. «Non si può dire – scrive – che il procedimento giudiziario sia stato persecutorio, e ancor meno che fossero stati dolosamente colpevolizzati gli anarchici per arrivare a Feltrinelli e alla sinistra tutta». Ed è qui che le sue argomentazioni suscitano le prime perplessità: perché se è vero che in sede di dibattimento tutto si sgonfiò, non fu la stessa cosa durante l’inchiesta di polizia e l’istruttoria, che all’epoca era nelle mani del giudice istruttore, il quale – cito le parole di Morando: «si limitò a vidimare l’esito l’esito delle indagini dell’Ufficio politico della Questura di Milano, condotte dal commissario Calabresi, e a rinviare a giudizio tutti gli arrestati, tranne due due, una coppia di amici di Feltrinelli, ritenuti i vertici della cellula terroristica, prosciolti dopo oltre sei mesi di carcere». Ci sono poi altri dettagli che per brevità tralascio rinviando alla lettura completa dei due post chi fosse interessato. Poiché Morando conclude il suo post con un esercizio retorico che lascia al lettore valutare se i fatti accaduti siano stati «una macchinazione o che gli inquirenti fossero tutti dei gran cialtroni, giudichi il lettore», nella replica Satta fa notare che dolo, «la macchinazione», e cialtronaggine non sono la stessa cosa, invitando Morando a decidere su quale delle due optare.

Ha ragione Satta a sottolineare che il dolo presuppone intenzionalità mentre la cialtronaggine solo colpa, anche se ciò non esclude che le due cose possano marciare insieme. La vita reale è piena di “dolosi cialtroni” e viceversa. Vengono alla mente alcuni esempi clamorosi di altre famose inchieste, come la telefonata di Mario Moretti del 30 aprile 1978 attribuita alla voce di Toni Negri o quella del 9 maggio successivo di Valerio Morucci imputata a Pino Nicotri… Il risultato finale cambia poco.

In realtà quello che più sorprende negli argomenti proposti da Satta è la convinzione che l’assoluzione finale dissolva ogni cosa impedendo di evocare il dolo.

Questa convinzione mostra una certa confusione tra attività di polizia, funzione inquirente (all’epoca vigeva il rito istruttorio) e attività giudicante. Ora, se la funzione giudicante corregge in sede di dibattimento i comportamenti scorretti, inesatti o altro che possano accadere nelle prime due istanze, il dolo permane sempre seppur ridimensionato. Un arresto, una perquisizione, un sequestro, una indagine e figuriamoci un periodo di carcere, anche in presenza di un’assoluzione finale non sono elementi neutri sia sul piano del danno personale che dell’effetto politico e sociale, nella fattispecie lo stigma gettato sulla sinistra e gli anarchici.

Lo Stato non è un corpo unico, ma un apparato complesso attraversato da forze, campi, culture e tensioni. All’epoca poi stava emergendo un rinnovamento sociologico all’interno della magistratura, grazie ai nuovi concorsi che avevano permesso l’ingresso di nuovi ceti sociali che avevano interrotto la continuità di ceto e cultura con l’epoca fascista, cosa che non era avvenuta ancora nella polizia e nei servizi. Questo spiega le ragioni della rottura di quella omogeneità d’ambiente che in precedenza compattava la sfera statale e la presenza di possibili divergenze finali sugli esiti processuali.

Per un democratico-liberale di scuola rosselliana come Satta, l’indagine, l’arresto e l’incarcerazione di una persona, peggio più persone, anche se alla fine si conclude con un’assoluzione dovrebbe apparire come un fattore patologico, non fisiologico del sistema giustizia e del funzionamento dello Stato.

Nella vicenda di cui trattiamo, oltre all’ufficio politico della questura di Milano a un certo punto interviene in massa l’Uaarr che nei giorni di piazza Fontana si sposta da Roma e occupa gli uffici della questura meneghina. Una circostanza tenuta riservata per quasi 30 anni e venuta alla luce solo dopo il ritrovamento dell’archivio Russomanno in Circonvallazione Appia. Cosa ci sarebbe di nornale – come sostiene Satta – in una presenza mantenuta segreta anche dopo le idangini sulle circostanze della morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli? Neppure Calabresi ne fece mai cenno, eppure rivelarla l’avrebbe sollevato dal sospetto di un ruolo diretto nella morte dell’anarchico. Il ferroviere fermato, anzi che aveva seguito col suo motorino il commissario Calabresi che conosceva e gli aveva chiesto di venirgli dietro in ufficio, dove rimase trattenuto illegalmente, cioè oltre i termini legali previsti dalla legge – per il codice penale si dice sequestrato – per poi volare da una finestra del quarto piano. Sappiamo che un confidente del Sid (i Servizi segreti dell’epoca) era infiltrato in una cellula ordinovista (gruppo neofascista). Elementi, circostanze, che mostrano in tutta questa vicenda una ingombrante e anomala presenza di corpi dello Stato: tutto regolare, tutto fisiologico?

Satta – semplifico per i lettori – suggerisce la tesi di un ufficio politico che ignaro delle malefatte e dei progetti delle cellule neofasciste, sia stato indotto nell’errore dal fatto che alcuni anarchici facevano esplodere piccoli ordigni e quindi trova normale che il sospetto degli inquirenti si rivolgesse all’inizio nella loro direzione. Sembra dire che il pregiudizio accusatorio fosse in qualche modo fondato: alcuni anarchici mettono le bombe, allora tutti gli anarchici e i loro amici – nella fattispecie Feltrinelli, stiamo parlando del 1969 non del 1972 – le mettono o comunque sono sospetti. Un dispositivo che abbiamo visto in azione con le numerose retate giudiziarie negli anni successivi.

Sappiamo che è questione storiografica aperta il problema del massacro di piazza Fontana: voluto solo dalla cellula padovana di Ordine nuovo, che frustrata dall’indecisione mostrata dalle autorità di governo democristiane nel varare un giro di vite autoritario, avrebbe innalzato il livello della violenza passando alla strage diretta, abbandonando la lunga e documentata serie di attentati con bombe a basso potenziale funzionale alla creazione di un clima di tensione e paura nel Paese? Oppure scelta anche degli apparati, i nostri o di alcuni settori operanti nelle basi Nato? Le domande restano, ci sono risposte diverse ma un fatto certo è il fetente puzzo di omertà, il silenzio, le omissioni, le compromissioni e i non detti che chiamano in causa pesantemente i contesti statali dell’epoca.

Questa è la posta in gioco storiografica che Satta contesta, commettendo anche errori in punto di fatto, poiché egli parte da un presupposto, un assioma da cui discendono le sue conclusioni: lo Stato, o meglio stando al titolo del suo libro «I nemici della Repubblica» (vista l’assenza di aggettivazione anche qui ci sarebbe da ridire, perché i «nemici» da sinistra non erano certo monarchici e dunque la loro ostilità si rivolgeva alla forma statale in sé e al sistema economico-sociale non certo al dispositivo politico repubblicano…), è sempre illibata, pulita, candida e proba. Le istituzioni sono sacre e i suoi uomini santi, guai a lanciare contro di loro qualsiasi accusa, questo a prescindere da qualunque prova. Non a caso Satta gira la testa dall’altra parte davanti alle torture praticate dalle forze di polizia durante le indagini, documentate e oggi anche confessate da uomini dello Stato, per stare ad un solo esempio.

Da qui nasce anche la sua critica alla «dietrologia» mossa unicamente dalla esigenza di tutelare solo la probità delle istituzioni e solo in un secondo momento la verità dei fatti, dei processi sociali, delle dinamiche storiche, sempre se queste non contrastano e mettono in discussione la limpidezza dello Stato. Altrimenti silenzio.

Lo dico con cognizione di causa e un certo dispiacere, essendo stato uno dei pochi, forse addirittura il primo ad aver recensito e valorizzato Satta – (dal carcere) sul quotidiano Liberazione, suscitando polemiche dentro Rifondazione comunista (dove allignavano vecchie posizioni del Pci) nel lontano settembre 2003, (Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico) e averlo continuato a fare negli anni a venire, apprezzando moltissimo i suoi due volumi sulla questione, scritti quando ancora – fresco del suo lavori di documentarista della commissione Stragi – si cimentava con la ricerca documentale. Ma criticare la dietrologia, sacrosanta attività, fondamentale impegno in questo Paese intossicato, non vuol dire rinunciare alla critica sempre e comunque.

Ps: qui sotto potete trovare in ordine cronologico gli interventi dei due studiosi.

Paolo Morando
*Post lungo, per fatto personale*

Nell’edizione aggiornata di “I nemici della Repubblica” (BUR La Storia Le Storie giugno 2024, prima edizione Rizzoli 2016), lo studioso Vladimiro Satta commette una notevole serie di errori fattuali. Sono errori che ingannano il lettore e che per me risultano ancora più gravi, poiché su di essi l’autore basa una serie di critiche al mio libro del 2019 Prima di Piazza Fontana. La prova generale.
A pagina 871, la prima della “Appendice 1 – Dal 2016 a oggi” in cui Satta si occupa delle novità storiografiche e giudiziarie intervenute dopo la prima edizione del proprio libro, l’autore cita l’inchiesta ripercorsa in “Prima di Piazza Fontana”, scrivendo così: «Essa verteva su una serie di attentati minori susseguitisi nel 1969 a Milano, prima del 12 dicembre. Furono arrestate persone quasi tutte appartenenti all’area anarchica, rinviate a giudizio il 24 luglio 1970 e il 28 maggio 1972 assolte in ordine a dodici dei diciotto episodi in questione e condannate per i restanti sei, mentre Feltrinelli, che nel corso dell’istruttoria era stato sospettato di falsa testimonianza in favore di una coppia di coniugi suoi amici, era stato prosciolto a conclusione dell’istruttoria stessa come pure i coniugi».
Al di là dell’errore sulla data dell’assoluzione in assise, che avvenne nel 1971 e non nel 1972, l’intera ricostruzione di Satta è gravemente imprecisa. Giangiacomo Feltrinelli non venne sospettato di falsa testimonianza “in favore di una coppia di coniugi suoi amici”, bensì a favore dei due giovani anarchici accusati degli attentati del 25 aprile 1969 alla Fiera campionaria e alla Stazione centrale (il primo provocò una ventina di feriti), e che quella sera erano invece a cena proprio a casa Feltrinelli. Ma soprattutto, l’editore non fu affatto prosciolto in istruttoria. Venne invece rinviato a giudizio e fu processato in contumacia assieme alla moglie Sibilla Melega, accusata dello stesso reato. Entrambi furono poi assolti con la formula più ampia, tanto che la Procura nemmeno ricorse in appello.
È quindi del tutto infondato, oltre che quanto meno pretestuoso, il ragionamento di Satta per cui «Non si può dire, quindi, che il procedimento giudiziario sia stato persecutorio, e ancor meno che fossero stati dolosamente colpevolizzati gli anarchici per arrivare a Feltrinelli e alla sinistra tutta». L’andamento dell’inchiesta e del processo dimostra invece quanto Satta nega. Il giudice istruttore Amati, infatti, si limitò a vidimare l’esito delle indagini dell’Ufficio politico della Questura di Milano, condotte dal commissario Calabresi, e a rinviare a giudizio tutti gli arrestati, con l’esclusione della coppia di amici di Feltrinelli (Giovanni Corradini ed Eliane Vincileoni), ma solo dopo sei mesi abbondanti di carcere e ripetuti no alle loro richieste di scarcerazione per totale assenza di indizi.
Sul tema peraltro Satta è pervicace nel commettere errori, visto che a pagina 872 scrive così: «Quanto al presunto tentativo di risalire dagli anarchici e da Feltrinelli fino al maggiore partito della sinistra, proprio dal libro di Morando si apprende che due di coloro che furono coinvolti nell’inchiesta ma prosciolti a fine istruttoria, Clara Mazzanti e Giuseppe Norscia, non erano anarchici bensì erano iscritti al Pci». Falso pure questo. Mazzanti e Norscia furono arrestati nell’autunno del 1969 e non vennero mai prosciolti, bensì rinviati a giudizio e processati: rimasero continuativamente in carcere fino all’assoluzione del maggio ’71, con formula dubitativa che pure per loro in appello diverrà ampia.
Circa l’iscrizione della coppia Norscia-Mazzanti al Pci, Satta ne trae lo spunto per sostenere che «Questo dato di fatto è incompatibile con l’idea che l’intenzione degli inquirenti o addirittura di manovratori politici alle spalle degli inquirenti fosse danneggiare il Pci; in quel caso, approfittando di Mazzanti e Norscia si sarebbe scatenata subito una pretestuosa campagna anticomunista, che invece non ci fu per niente». Ed è vero, non ci fu, ma proprio perché l’appartenenza della coppia al Pci fu del tutto marginale nelle loro vite, come scrivo ampiamente nel libro. Che Satta ha dunque letto quanto meno distrattamente.
L’esito complessivo di quella disastrosa inchiesta di Calabresi e dell’ancora più disastrosa istruttoria di Amati è attestato dalla sentenza finale: due prosciolti in istruttoria, cinque assolti con formula piena e tre condannati a pene fra i 3 anni e 4 mesi e 1 anno e 4 mesi, ma a fronte di accuse che, per i sei imputati dei diciotto attentati, prevedevano una dozzina di ergastoli. Che sia stata una macchinazione o che gli inquirenti fossero tutti dei gran cialtroni, giudichi il lettore.

Vladimiro Satta
REPLICA A PAOLO MORANDO

Paolo Morando, un anno e mezzo dopo l’uscita dell’edizione aggiornata del mio libro “I Nemici della Repubblica”, mi ha attaccato pesantemente con un post nella sua bacheca FB. Il tema è la valutazione storica degli attentati minori che nel 1969 precedettero la strage di Piazza Fontana a Milano, vicenda cui lui ha dedicato una monografia qualche anno fa. Qui di seguito, la mia risposta a Morando. Chi fosse interessato, potrà leggere cosa ha scritto Morando e commenti vari presso la bacheca sua. << L’indicazione del 1971 come data dell’assoluzione in Assise è stata un refuso, mentre è stato un errore scrivere che Feltrinelli, Mazzanti e Norscia furono prosciolti in istruttoria, poiché in realtà furono assolti in primo grado e, per Feltrinelli, la Procura non ricorse in appello. Prendo atto delle puntualizzazioni di Morando al riguardo e provvederò alle opportune correzioni nelle prossime edizioni de “I nemici della Repubblica”, se ce ne saranno. Detto ciò, la questione fondamentale è – come riconosce Morando stesso nel suo post su FB di sabato 6 settembre- stabilire se il procedimento giudiziario fu persecutorio e colpevolizzò dolosamente gli anarchici per arrivare a Feltrinelli e alla sinistra tutta, oppure no. Nel post, Morando dapprima afferma che <<l’andamento dell’inchiesta e del processo>> dimostrano il dolo a fini politici che io invece nego, ma poi conclude senza prendere posizione tra <<macchinazione>>, che è sinonimo di dolo, e cialtroneria, che è altra cosa dal dolo. Come si vede, l’unica certezza ravvisabile nella visione di Morando è l’avversione nei miei confronti. In attesa che in merito all’interpretazione della vicenda storica e processuale Morando si metta d’accordo con sé stesso, faccio notare innanzi tutto che la presunta dimostrazione del dolo addotta da lui non sta in piedi. Un esito assolutorio non dimostra affatto che ci sia stato dolo da parte degli inquirenti; diversamente, dovremmo immaginare che i complotti orditi quotidianamente in Italia con la complicità della magistratura siano innumerevoli. Neanche Berlusconi arrivava a tanto. Davvero Morando pensa invece che, pur in mancanza elementi quali intercettazioni, testimonianze inoppugnabili, confessioni da parte dei responsabili, documenti probanti eccetera, le assoluzioni siano segno di dolo e ragiona così anche per altri casi? Davvero, ad esempio, di fronte alla pioggia di assoluzioni del secondo processo contro Ordine Nuovo basato su indagini di Vittorio Occorsio (c.d. processo dei 119) Morando parlerebbe di persecuzione dolosa ai danni dei neofascisti? Ha mai sostenuto che i molteplici processi nei quali Paolo Signorelli venne assolto servivano a tentare di screditare il MSI? Se Morando facesse questo, io dissentirei ancora una volta ma, almeno, potrei riconoscergli un po’ di coerenza.
Sull’ipotesi della cialtroneria, piuttosto, in qualche misura potrei essere d’accordo con Morando, come lui ben sa, poiché ne abbiamo parlato più volte, anche pubblicamente. Ma nel post, egli se ne dimentica.
Purtroppo, i buchi nel post di Morando non si limitano a questo. Egli, citando la pag. 872 del mio libro “I nemici della Repubblica”, ha omesso una serie di brani significativi, che qui riporto:
<<la sentenza (…) recepì quasi interamente le richieste del pubblico ministero, Antonino Scopelliti, il quale tempo dopo, ospite di un programma televisivo, dichiarò che il dibattimento aveva “chiarito centomila cose che l’istruttoria non aveva chiarito né forse poteva chiarire. Ecco perché il dibattimento è la fase illuminante del processo” (…) Oltre tutto, all’epoca Feltrinelli aveva già dato prova di non essere un personaggio legalitario e innocuo e perciò, se si fosse voluto colpire lui, lo si sarebbe potuto fare senza bisogno di montature contro gli anarchici. Persino Feltrinelli stesso trovava logico che le inchieste per attentati andassero in direzione degli anarchici; in un’intervista rilasciata alla rivista “Compagni”, datata aprile 1970, egli pur dichiarandosi convinto che tra i “giovani più o meno anarchici” si fossero infiltrati “agenti provocatori e fascisti”, riconosceva che coloro i quali “amano con facilità parlare di bombe, che di tanto in tanto possono anche far esplodere (…) facendo più rumore che danni (…) prestano facilmente il fianco per essere indiziati di atti criminosi come gli attentati di Milano e di Roma” (…) >>.
E sì che Morando conosce l’autorevole parere di Feltrinelli stesso, in quanto -se stranamente gli era sfuggito il noto libro di Panvini “Ordine nero e guerriglia rossa” dove le parole di Feltrinelli sono citate- non può però avere dimenticato il prolungato scambio di commenti su FB tra noi due, con la partecipazione di altri, avvenuto ai primi di marzo del 2022.
A cosa alludeva nel 1970 Feltrinelli, che conosceva personalmente parecchi anarchici e tra questi i giovani Braschi e Della Savia accusati -e infine condannati- per attentati minori effettuati prima della strage di Piazza Fontana? Rispondo con estratti dal volume di Morando “Prima di Piazza Fontana”: l’anarchico Paolo Braschi rivelò all’A. che <<noi non lo abbiamo mai ammesso, ma in effetti c’era questo quantitativo di esplosivo, 40-50 chili, tanta roba (…) una piccola parte la presi io e l’altra la si andò a sotterrare (…) Di attentati ne ho fatti due, più uno che si fece insieme>> ad un <<anarchico di Canosa>> non nominato, poi ancora <<lui ha fatto quelli di Roma>>. Un altro anarchico, Angelo Della Savia, <<ammette gli attentati romani e quelli di Genova con Braschi, racconta anche la sua prima “bombarella” a Milano>>, peraltro stralciata dal processo. Sempre Della Savia a Morando: <<le bombe le abbiamo messe, per cui innocenti innocenti non è che eravamo>>.
Quanto all’appartenenza della coppia Mazzanti-Norscia al PCI, un briciolo di esperienza di vita e/o di conoscenza del passato permette a tutti (o quasi) di comprendere che, ai fini della montatura di una campagna pretestuosa, importa poco o nulla se la suddetta appartenenza utilizzabile come pretesto fosse marginale o centrale.
Per inciso, Feltrinelli non era anarchico, ed era uscito dal PCI circa dieci anni prima dei fatti in oggetto. I suoi rapporti con il partito erano tali da far pensare a molti che lo scopo dell’attentato ad un traliccio a Segrate che lui stava preparando, nel quale perse la vita, fosse provocare un blackout per disturbare il congresso nazionale comunista che si teneva nella vicina Milano. Pertanto, fare leva su Feltrinelli per colpire gli anarchici, o il PCI, o tutti e due, sarebbe stato vano. Infatti non accadde, cosa che Morando non contesta ma dalla quale è incapace di trarre le conseguenze.
In conclusione, ricordiamoci sempre che indagare non è sinonimo di “incastrare” né di dichiarare colpevolezze prima delle sentenze, evitiamo di anteporre sospetti meramente congetturali di macchinazioni alle evidenze e, per quanto possibile, sforziamoci di ricondurre i fatti storici e gli errori iniziali delle inchieste alle loro reali dimensioni e cause.

Paolo Morando
Tocca aggiungere che Satta anche nella risposta al mio post cita erroneamente il mio libro. Parla infatti di un “anarchico di Canosa” con cui Braschi avrebbe compiuto un attentato. Ma Braschi, intervistato (cfr. pagina 317), nel libro non dice affatto quanto Satta gli attribuisce, per giunta tra virgolette

Pino Narducci – Rapimento Moro, le sentenze giudiziarie al vaglio della storia (parte prima)

A mezzo secolo di distanza dalle istruttorie e i maxi processi condotti contro i militanti della lotta armata è ormai maturo il tempo si sottoporre le sentenze di giustizia al vaglio critico della storia. Il tempo trascorso, l’importante mole documentaria, le ulteriori testimonianze orali e gli studi storici più seri, ci consentono di potere valutare se «la verità giudiziaria resista, e in quale misura, alla straordinaria forza della verità storica». Su Questione giustizia di questo mese di giugno, rivista di Magistratura democratica curata da Nello Rossi, è apparso un importante studio in due puntate di Pino Narducci, presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia, che già in passato si è cimentato su vicende giudiziarie che hanno riguardato i movimenti sovversivi degli anni Settanta.
Il lavoro di Narducci smonta uno dei luoghi comuni più diffusi, agitato polemicamente dagli esponenti della dietrologia contri chi cerca di fare lavoro storico: ovvero che questi ultimi si trincererebbero dietro le sentenze perché «i processi hanno detto tutto quello che c’era da dire». Basti pensare alle divergenze tra le prime ricostruzioni processuali sulla dinamica dell’azione di via Fani e i successivi lavori storici che hanno precisato nel dettaglio la preparazione logistica, il numero dei singoli partecipanti, la dinamica dell’azione, Il percorso di di fuga.
Tre anni fa, nel volume La polizia della storia pp. 260-263, (https://insorgenze.net/2022/03/15/sequestro-moro-dopo-44-anni-continua-ancora-la-caccia-ai-fantasmi/), avevo analizzato le cinque istruttorie e i quattro processi che hanno contraddistinto l’attività della magistratura nella vicenda del sequestro Moro. In quello studio indicavo in ventisette il numero delle persone condannate per il sequestro, l’uccisione della scorta e l’omicidio finale del presidente del consiglio nazionale della Dc, fatti avvenuti tra la mattina del 16 marzo 1978 e l’alba del 9 maggio successivo. Una ventottesima persona era stata assolta perché all’epoca dei processi non erano emersi elementi di prova nei suoi confronti. In realtà, solo 16 di queste risultavano con certezza direttamente coinvolte nella vicenda, le altre undici non avevano partecipato né sapevano del sequestro.
Il lavoro di scavo e analisi realizzato da Pino Narducci ci dice che le persone sanzionate furono in realtà trentuno. Ventisette condannate sia per fatti di via Fani (uccisione della scorta, tentato omicidio di Alessandro Marini e sequestro di Aldo Moro) che per l’omicidio in via Montalcini, gli altri quattro riconosciuti responsabili solo per due dei quattro delitti principali. Se all’elenco dei condannati – scrive ancora Narducci – si aggiungono gli imputati prosciolti in istruttoria o assolti nei processi, «scopriamo che la magistratura ha complessivamente inquisito oltre 50 persone, forse anche più. Una cifra decisamente spropositata». 
Questo ci dice che l’attività inquisitoria della magistratura e delle forze di polizia fu imponente, seppur inizialmente imprecisa, anche se la martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato negli anni successivi questo dato significativo. Non ci fu affatto una inazione o distrazione, tantomeno episodi di clemenza pattuita sulla base di una rinuncia a verità scomode o indicibili. Gli unici sconti di pena concessi furono il risultato della legislazione premiale che venne introdotta e applicata a quegli imputati che collaborarono nei processi o si dissociarono con dichiarazioni di abiura che prendevano le distanze dalla loro militanza passata.
Il lavoro di Narducci dopo aver scandagliato per intero le sentenze di ogni grado dei cinque processi, coglie le numerose incongruenze presenti. I reati principali contestati nei giudizi riguardavano l’assalto in via Fani con l’omicidio plurimo degli agenti della scorta di Moro e i vari reati corollario, il sequestro vero e proprio dello statista democristiano e infine la sua uccisione. Per altro Narducci contesta il ricorso all’aggravante della premeditazione della uccisione dell’esponente Dc, che si dimostra storicamente infondata o comunque valida solo a partire da una determinata data: il 15 aprile con il comunicato numero 6 che annunciava la fine del processo del popolo e la sentenza di condanna? Comunicato smentito in realtà dalla ricerca continua di una interlocuzione politica e scambio di prigionieri (le lettere di Moro inviate dopo quella data e la telefonata di Moretti del 30 aprile), o ancora la riunione dell’esecutivo di colonna dell’8 maggio in via Chiabrera, che di fatto sancisce la decisone reale della uccisone di Moro, predisponendone la logistica.
Chi era direttamente coinvolto nella gestione quotidiana del sequestro non per forza era in via Fani, nonostante ciò nelle prime sentenze di condanna emesse negli anni 80, questa differenza non viene fatta. Si applicano «singolari principi del concorso di persone nel reato, i giudici ritennero che l’adesione al programma politico-militare della “campagna di primavera” fosse elemento sufficiente per condannare i due brigatisti per tutti i reati contestati ai veri protagonisti della operazione di via Fani […] In altri termini, sembra che il ragionamento dei giudici sia stato quello secondo cui la militanza nelle BR, cioè la condotta di partecipazione alla banda armata prevista dal Codice penale, permetteva di addebitare al brigatista qualsiasi delitto commesso da altri membri della organizzazione, anche quelli che ignorava sarebbero avvenuti e rispetto ai quali, in ogni caso, non aveva fornito alcun aiuto o supporto». 
Cosa che non avverrà nei processi compiuti nella seconda parte degli anni 90 quando le sentenze torneranno ad applicare i canoni della responsabilità personale distanziandosi da quella «responsabilità di posizione» condivisi nel decennio precedente, tanto che il reato di concorso e l’appartenenza alla banda armata verranno puniti con criteri meno estensivi e maggiormente conformi al dettato costituzionale. Diversi tra quei 27 condannati nei primi processi, Moro uno-bis e Moro ter, non avrebbero subito la stessa condanna o sarebbero stati prosciolti se giudicati nel decennio successivo.
Nel suo studio Narducci sottolinea la sconcertante condanna di 25 imputati ritenuti colpevoli del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini. Il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini.
Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura pendono nuovi filoni d’indagine (su alcuni di questi vi sarebbe la richiesta di archiviazione), ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa (uno dei primi grossolani errori commessi dalla prima sentenza del Moro uno-bis, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver inquisito 50 persone, condannato 11 persone totalmente estranee al sequestro e altre coinvolte solo in parte, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

Schizzo di Mario Moretti

di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia
Pubblicato su Questionegiustizia.it, 25 giugno 2025 col titolo «Il caso Moro. Per un’analisi delle sentenze (parte prima)»

Le indagini che si avviarono nel marzo ‘78, secondo un giudizio storico ormai consolidato, si svolsero all’insegna della più assoluta impreparazione. Nella capitale, forze di polizia e magistratura non possedevano alcuna conoscenza della struttura brigatista, del suo gruppo dirigente e del suo insediamento nel territorio urbano. Pur avendo tra le proprie mani le registrazioni di diverse telefonate fatte dai brigatisti durante il sequestro (tutti hanno in mente quella fatta da Mario Moretti, il 30 aprile, alla famiglia del prigioniero e quella del 9 maggio con la quale il dottor Nicolai, cioè Valerio Morucci, comunicava al prof. Franco Tritto che il cadavere di Moro si trovava in via Caetani), per lunghissimo tempo gli inquirenti non riuscirono a stabilire a quale volto appartenessero quelle voci ed attribuirono quelle telefonate, di volta in volta, a persone che, in realtà, non c’entravano nulla con il sequestro Moro [1]

Non avendo alcuna idea sulla composizione del nucleo che aveva agito in via Fani, gli investigatori romani controllarono la possibile presenza a Roma, sia il 16 marzo che il 9 maggio, di decine di aderenti o simpatizzanti di formazioni della sinistra extraparlamentare di varie città italiane («sospettabili di vicinanza alle BR»), accertamento che, ovviamente, non poteva produrre alcun risultato. 

Quanto al luogo di prigionia di Moro, solo nel 1985 gli inquirenti stabilirono, in maniera definitiva, che il presidente della Democrazia cristiana era sempre stato, per l’intera durata del rapimento, in un appartamento situato al primo piano di un edificio che si trovava in via Montalcini 8 [2].

Patrizio Peci aveva iniziato a collaborare nell’aprile ’80 e, nel gennaio ’81, il giudice istruttore romano Ernesto Cudillo fece un primo bilancio delle indagini. Dispose il rinvio a giudizio di molte persone ritenute responsabili della vicenda Moro, ma dovette anche emettere una sentenza con la quale riconoscere che diverse altre – colpite da mandati di cattura che contestavano il reato di partecipazione alla banda armata Brigate Rosse e quello di partecipazione ai fatti del 16 marzo e 9 maggio ’78 – erano estranee a quei fatti. Cudillo prosciolse dalle accuse principali Corrado Alunni, Maria Fiore Pizzi Ardizzone, Enrico Bianco, Giovanni Lugnini, lo stesso Patrizio Peci, Franco Pinna, Oriana Marchionni, Susanna Ronconi, Giustino De Vuono e Antonio Negri [3]

Peci, tuttavia, non aveva partecipato alla azione di via Fani e, nel ’78, non era ancora diventato responsabile della colonna torinese. Le sue informazioni sulla operazione Moro erano scarne ed imprecise, per lo più frutto di alcune notizie fornite da Raffaele Fiore. Negli anni successivi si aggiunsero altre testimonianze, ben più importanti, provenienti da brigatisti appartenenti alla colonna romana, perché solo i romani potevano raccontare quello che era realmente accaduto. Le informazioni di Antonio Savasta ed Emilia Libéra, ma, soprattutto, quelle di Valerio Morucci e Adriana Faranda (ciascuno sempre tenacemente geloso della definizione, dai confini in verità assai labili, che riservava per sé: Morucci e Faranda imputati dissociati, Savasta e Libéra collaboratori di giustizia) saranno i pilastri su cui i giudici scriveranno le sentenze emesse dalla Corte di Assise di Roma, negli anni ’80 e 90, al termine di ben cinque processi: Moro uno/bis, Moro ter, Moro quater, Moro quinquies e cd. processo Metropoli. 

Se la ossessiva tentazione di rincorrere zone d’ombra per svelare i presunti misteri del caso Moro rischia di trasformare in farsa una delle maggiori tragedie della nostra storia, come sostiene lo storico Marco Clementi [4], appare allora molto più utile fermarsi a valutare i documenti di quei processi per comprendere se, ormai giunti a quasi 50 anni dal 16 marzo ‘78, la verità giudiziaria resista, ed in quale misura, alla straordinaria forza della verità storica. 

Dunque, valutare i fatti descritti nei provvedimenti giudiziari non per scovare vuoti narrativi da riempire con ipotesi alternative – come suggeriscono quelli che sostengono che ogni avvenimento di quella primavera è frutto di cospirazioni ordite da forze inafferrabili – ma per trovare soluzioni ad alcune domande in ordine alle quali le sentenze non sempre hanno fornito risposte convincenti.  

Quanti furono i brigatisti coinvolti, complessivamente, nella “operazione Fritz” [5]? Quanti sono stati individuati e processati? Manca ancora qualcuno all’appello? O, forse, il numero degli inquisiti e dei condannati, al contrario, è più che esaustivo ed anzi si rivela eccessivo rispetto alle reali forze messe in campo dalle Brigate Rosse nella primavera ‘78? 

Anzitutto, se aggiungiamo all’elenco dei condannati quello degli imputati prosciolti in istruttoria o assolti nei processi, scopriamo che la magistratura ha complessivamente inquisito oltre 50 persone, forse anche più. Una cifra decisamente spropositata. 

Le sentenze dedicate al caso Moro, accanto ad ampi ed innegabili punti fermi di verità, non sempre ci offrono una immagine nitida delle responsabilità personali benché, alla fine, il processo penale, anche quando si occupa di attività delittuose commesse da organizzazioni, abbia il compito di accertare e sanzionare le condotte degli individui. 

Così, leggendo, in particolare, i provvedimenti giudiziari dei processi Moro uno/bis e Moro ter, per alcuni imputati scorgiamo distintamente luci ed ombre mentre per altri l’immagine è così sfocata da rendere indistinguibili i contorni della responsabilità.      

I fatti storici, cioè gli accadimenti che nei processi diventarono i reati principali contestati a tutti gli imputati (fa eccezione, per un solo aspetto, il processo Moro quinquies), furono sempre quattro: il plurimo, premeditato omicidio degli uomini della scorta (il maresciallo Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci e i poliziotti Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino); il sequestro a scopo di estorsione del presidente della Democrazia Cristiana, dal giorno del rapimento al 9 maggio; il tentato omicidio di Alessandro Marini, un cittadino romano che si trovava casualmente all’angolo tra via Stresa e Via Fani la mattina del 16 marzo e contro il quale venne esplosa una raffica di mitra; l’uccisione premeditata di Aldo Moro avvenuta il 9 maggio nella base di via Montalcini 8 [6]

Se è ampiamente provato, sul piano storico e nei processi, che il piano (annientamento della scorta e rapimento in via Fani) venne messo a punto nel corso di circa due mesi e che i delitti del 16 marzo sono chiaramente premeditati, non è invece scontato definire il perimetro all’interno del quale collocare l’omicidio del 9 maggio, un confine temporale necessario per individuare le responsabilità per un delitto certamente premeditato che, però, non prese avvio il giorno del sequestro. 

Sappiamo che le Brigate Rosse non intendevano, sin dall’inizio, sopprimere la vita del presidente democristiano. 

«Non c’era nulla di programmato rispetto alla sorte di Moro, quindi neanche il tempo della sua detenzione. Si prevedeva che, avendo aperto una complessa campagna politico-militare di cui Moro era il perno politico, i tempi sarebbero stati necessariamente lunghi. C’era anche un altro tipo di operazione a pari livello nel mondo economico…a Milano era già pronto il sequestro di Leopoldo Pirelli», ha raccontato Lauro Azzolini, componente del comitato esecutivo delle BR nel ‘77’/’78 [7]

Infatti, l’azione di via Fani fu costruita per rapire e processare il presidente della Democrazia Cristiana e la possibilità di liberazione del sequestrato, tra marzo ed aprile, fu sempre una opzione concreta e possibile, almeno sino ad un certo momento, opzione chiaramente ricercata ed auspicata dalle BR. Se il prigioniero fosse stato rilasciato a fine aprile in cambio della liberazione anche di una sola persona della lista che conteneva 13 nomi di detenuti o, quantomeno, del riconoscimento politico da parte della Democrazia Cristiana che, in Italia, esistevano prigionieri politici, le BR avrebbero ottenuto un innegabile successo. 

Questa fu la soluzione ricercata insistentemente, soprattutto per iniziativa di Mario Moretti, sino ai primi giorni di maggio, ma senza alcun esito. 

D’altronde, i brigatisti presenti in via Montalcini hanno sempre ricordato che il prigioniero ebbe rapporti con due sole persone (Moretti e Gallinari), che avevano sempre il volto coperto, e che Aldo Moro non si rese mai conto che, nell’appartamento, vivevano Anna Laura Braghetti e Germano Maccari. Queste scrupolose precauzioni furono adottate, appunto, per evitare che il sequestrato, tornato in libertà, potesse fornire informazioni sulla prigione del popolo. 

Sempre Lauro Azzolini ha sostenuto che le BR avevano deciso che, anche se la prigione di via Montalcini fosse stata accerchiata dalle forze di polizia, il prigioniero non doveva essere ucciso ed i brigatisti avrebbero dovuto avviare una trattativa: ottenere garanzie per la propria incolumità in cambio della salvezza del presidente della DC. 

La decisione di uccidere il prigioniero venne, quindi, adottata dal comitato esecutivo delle BR nel periodo successivo alla diffusione del comunicato n. 7 del 20 aprile («il rilascio del prigioniero Moro può essere preso in considerazione solo in relazione alla liberazione di prigionieri comunisti») e del comunicato n. 8 del 25 aprile con il quale si chiedeva la liberazione di 13 detenuti esattamente individuati, richiesta che non ottenne aperture nel mondo politico ed istituzionale e che indusse poi la organizzazione – soprattutto non avendo colto alcun segnale di possibile dialogo dopo la telefonata di Mario Moretti del 30 aprile – ad annunciare, nel comunicato n. 9 del 6 maggio, che le BR si apprestavano ad eseguire la sentenza cui il presidente della DC era stato condannato. Il periodo in cui matura la decisione di uccidere Aldo Moro è dunque, all’incirca, quello che va dagli ultimi giorni di aprile al 9 maggio. Nelle pagine che seguono è possibile comprendere perché questa precisazione, opportuna dal punto di vista storico, è utile anche sul piano giuridico.

Le sentenze dei giudici romani, tutte definitive da moltissimi anni, hanno stabilito che 31 persone sono responsabili per i reati della vicenda Moro. Ma se 27 imputati sono stati condannati sia per fatti di via Fani (uccisione della scorta, tentato omicidio di Alessandro Marini e sequestro di Aldo Moro) che per l’omicidio in via Montalcini, quattro brigatisti sono stati riconosciuti responsabili solo per due dei quattro delitti principali.

In realtà, a contar bene, i condannati dovrebbero essere 32, ma si è determinata una situazione singolare perché la brigatista Rita Algranati, militante irregolare della colonna romana e componente del nucleo che portò a termine l’azione in via Fani, è stata assolta in via definitiva perché, quando venne processata, non era ancora emersa la sua presenza la mattina del 16 marzo né il ruolo che aveva svolto nella preparazione del sequestro.

Per valutare le sentenze non possiamo non partire dalla storia, quella che avviene ben prima che comincino i processi. Dobbiamo tornare al 1977.   

Hanno già studiato alcuni sui movimenti un anno prima, in una sorta di pre-inchiesta, ma, solo alla fine della estate ’77, le Brigate Rosse, scartate definitivamente le iniziali opzioni Giulio Andreotti e Amintore Fanfani, decidono di avviare la complessa operazione che, alcuni mesi dopo, conduce al sequestro di Aldo Moro. Mario Moretti, il membro più autorevole del Comitato esecutivo (formato anche da Rocco Micaletto, Franco Bonisoli e Lauro Azzolini), negli ultimi giorni di settembre/primi giorni di ottobre, incontra la Direzione della colonna romana (composta da Bruno Seghetti, Barbara Balzerani, Prospero Gallinari, Valerio Morucci e Adriana Faranda) in un villino a Velletri, da poco adibito a base del gruppo dirigente brigatista della capitale. Moretti comunica che l’attacco alla Democrazia cristiana avverrà al più alto livello politico possibile, mediante il sequestro del suo Presidente, ed affida alla dirigenza della colonna la elaborazione del piano: osservare i movimenti di Moro e della scorta, scegliere il luogo in cui sequestrarlo e studiare con scrupolo anche il non meno importante percorso al termine del quale il rapito dovrà arrivare nella prigione del popolo. L’unico compito che non viene affidato alla colonna romana è quello della individuazione della abitazione in cui il rapito sarà tenuto prigioniero, aspetto di cui si occuperà personalmente Mario Moretti. 

Le Brigate Rosse romane hanno assunto una completa fisionomia solo nel corso del ‘77, grazie all’iniziale dinamismo di Moretti e dei milanesi Bonisoli e Carla Brioschi, tutti giunti nella capitale, tra fine del ’75 e gli inizi del ’76, per creare una struttura della organizzazione nella città al di fuori della quale è impensabile portare l’attacco al cuore dello stato, cioè, nella visione delle BR, al partito-regime che con lo stato si identifica, la Democrazia Cristiana. Il reclutamento a Roma è stato notevole e nelle BR sono entrati molti giovani con esperienze di lavoro illegale e di azioni armate maturate in altre formazioni della multiforme galassia della sinistra estrema. 

L’obiettivo della azione che prende forma a Velletri è un esponente politico e, quindi, secondo le regole della organizzazione, lo studio del piano richiede il coinvolgimento dei brigatisti che integrano il settore romano della lotta alla controrivoluzione: con Gallinari e Faranda ne fanno parte anche i militanti irregolari Rita Algranati, Alvaro Lojacono, Alessio Casimirri e Raimondo Etro. 

Le BR devono reperire una abitazione sicura che sarà destinata a luogo di prigionia di Moro. Serve, quindi, un prestanome che non attiri sospetti e che non sia conosciuto dalle forze di polizia. Bruno Seghetti presenta a Moretti la sua compagna, Anna Laura Braghetti, che accetta la proposta del dirigente BR di acquistare un appartamento che – questo solo comunica Moretti alla Braghetti – sarà utilizzato per una importante azione delle BR. La donna deve trovarlo nella zona dei Colli Portuensi e, quindi, nel giugno ’77, acquista un appartamento situato al primo piano di un condominio di via Montalcini 8 per una somma di 45 milioni di lire in contanti, denaro proveniente dal sequestro Costa. L’edificio si trova in un quartiere di media borghesia e, ad agosto ’77, Braghetti inizia ad abitare l’appartamento ed a socializzare con gli altri condomini. Quello che presenta come marito, l’ingegnere Luigi Altobelli, è in realtà Germano Maccari, anche lui da poco reclutato nella colonna romana. Braghetti e Maccari non devono svolgere nessun compito particolare, se non quello di abitare la casa ove Moro sarà tenuto prigioniero. Se non è conosciuta dalle forze di polizia, nemmeno i brigatisti romani (con la eccezione di alcuni militanti dell’area Centocelle-Torre Spaccata) conoscono Anna Laura Braghetti e, certamente, non sanno che lei è la proprietaria dell’appartamento che sarà la prigione di Moro.

Pur consapevole che Braghetti è la prestanome scelta dalla organizzazione, anche Bruno Seghetti ignora dove si trovi la abitazione acquistata dalla sua compagna.   

Nella preparazione della “operazione Fritz” le Brigate Rosse mettono in pratica un doppio livello di compartimentazione. Anzitutto, nessun brigatista diverso da quelli che pianificano ed attueranno il piano militare deve sapere cosa avverrà il 16 marzo. Il secondo livello prevede che l’abitazione che diventerà prigione del popolo sia sconosciuta anche ai brigatisti che sequestreranno Moro, fatta eccezione per Moretti e Gallinari. 

Le BR hanno anche un piano di riserva pronto a scattare in caso di emergenza. Se, il giorno scelto per la operazione, le cose si metteranno male (ad esempio, con la uccisione o il ferimento di Moretti e Gallinari), Seghetti cercherà la Braghetti presso il luogo di lavoro della donna ed Aldo Moro, provvisoriamente collocato nella base di via Chiabrera 74, sarà poi subito trasportato a via Montalcini [8].      

Mentre la Braghetti cerca la casa ai Colli Portuensi, si dipanano altre due vicende che con la storia del sequestro, in realtà, non c’entrano nulla, ma che si intrecceranno a questa, a partire da maggio, nel corso delle indagini e del processo. 

Enrico Triaca, divenuto militante irregolare brigatista nel ’76, fitta un locale su indicazione di Mario Moretti e, nel marzo ’77, apre una tipografia in via Pio Foà 31 che servirà per la stampa del materiale della organizzazione [9]. In questo compito lo aiuta Antonio Marini, altro militante irregolare. 

La compagna di Marini, Gabriella Mariani, nel luglio ’77, sempre per incarico di Moretti, acquista, con i soldi del sequestro Costa, una abitazione in via Palombini 19 nella quale vive insieme al compagno. L’appartamento costituisce la base di quello che le BR immaginano possa diventare, nel tempo, un robusto settore della stampa e propaganda.           

I componenti della direzione di colonna studiano i movimenti di Moro e verificano che, spesso, la mattina, si ferma nella chiesa di Santa Chiara in piazza dei Giochi Delfici [10]. In quel momento, le BR ritengono ancora di poter realizzare il sequestro senza uccidere gli uomini della scorta, ma la scelta del rapimento all’interno della chiesa non solo comporta il rischio altissimo del conflitto a fuoco, ma anche quello del coinvolgimento di estranei perché nelle vicinanze esiste una scuola elementare. Circa due mesi prima del 16 marzo, Bruno Seghetti incarica Antonio Savasta, componente della brigata Università, di osservare i movimenti di Moro quando si reca nella facoltà di Scienze Politiche nella quale insegna «Istituzioni di diritto e procedura penale». Tuttavia, la facoltà non è un luogo adatto per una azione armata. Savasta comunica la sua valutazione negativa a Seghetti che, però, decide di compiere personalmente una ulteriore perlustrazione. Poi si arrende alla evidenza. Savasta ha ragione. 

Dopo ulteriori ricognizioni (le svolgono sul campo i dirigenti della colonna), si decide che il rapimento avverrà nella zona di Roma nord, lungo il percorso che Aldo Moro compie abitualmente partendo dalla sua abitazione di via Forte Trionfale. All’angolo tra via Fani e via Stresa, un’auto guidata da Moretti bloccherà la marcia dei due veicoli sui quali viaggiano Moro e gli uomini della scorta. Dopo aver ucciso i poliziotti e i carabinieri, il Presidente della DC sarà condotto a via Montalcini. 

Anche il piano di fuga viene meticolosamente studiato dalla colonna romana, in particolare da Morucci e Seghetti. I brigatisti devono sequestrare un Moro incolume e condurlo sino alla prigione del popolo per processarlo. Un percorso di circa 12 km., dalla Balduina a Roma sud-ovest. E’, quindi, necessario pianificare un tragitto che garantisca le migliori probabilità di successo. Per realizzare l’obiettivo, i brigatisti devono mimetizzarsi durante la fuga, evitando le arterie principali e scegliendo strade secondarie, anche private, per non incrociare auto delle forze di polizia che accorreranno in massa nella zona del sequestro. Inoltre, la mimetizzazione attuata attraverso il cambio dei veicoli, collocati in precedenza lungo il percorso di fuga, serve ad evitare che possibili testimoni possano segnalare il tragitto alle forze di polizia e condurle alla zona ove si trova la prigione del popolo. 

A febbraio, quando la Direzione strategica si riunisce nel villino di Velletri, il piano è stato definito ed è già stato deciso che l’azione avverrà a via Fani. Infatti, i membri della dirigenza nazionale, come ricorda Adriana Faranda che a quella riunione partecipa, discutono, in termini politici, della campagna di primavera ed approvano la risoluzione che sarà poi divulgata nel corso del sequestro. Ma, in quell’incontro, non si discute di ciò che avverrà solo un mese dopo [11].

Alla vigilia della operazione, le brigate della colonna romana (Torre Spaccata, Centocelle, Università, Servizi e Primavalle) ricevono l’indicazione di rubare alcuni modelli di macchine e furgoni. Saranno i mezzi da utilizzare nella azione di via Fani e lungo il percorso della fuga. Alla fine, la maggior parte dei veicoli viene rubata da Seghetti e da altri brigatisti in un megaparcheggio situato sul lungotevere, dietro il mausoleo di Augusto.

L’operazione politico-militare più importante nella storia delle Brigate Rosse sarà portata a termine da Mario Moretti e dai componenti della colonna romana ai quali si affiancheranno Raffaele Fiore, responsabile della colonna torinese, e il milanese Franco Bonisoli, membro del comitato esecutivo. A poche ore dalla operazione che sta per iniziare, il piano che conduce al sequestro di Aldo Moro è conosciuto solo dai componenti del comitato esecutivo e della direzione della colonna romana, dai tre militanti irregolari romani che si troveranno in via Fani, da Raffaele Fiore, dalla coppia Braghetti-Maccari che attende l’arrivo del prigioniero a via Montalcini e, probabilmente, da Raimondo Etro, che sosterrà, molti anni dopo, di aver saputo della operazione da Alessio Casimirri, il 14 marzo. 

In tutto, quindici/sedici persone. Nessun altro brigatista, membro delle strutture nazionali della organizzazione o componente delle brigate romane, conosce in anticipo quello che sta per accadere. 

La mattina del 16 marzo ’78, l’azione militare a via Fani viene portata a termine da 10 persone che svolgono compiti diversi: Rita Algranati, Mario Moretti, Bruno Seghetti, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Franco Bonisoli, Barbara Balzerani, Valerio Morucci, Alessio Casimirri ed Alvaro Lojacono. Uccisi gli uomini della scorta e caricato Moro sulla 132 guidata da Seghetti, il convoglio brigatista attraversa la città. Nel parcheggio sotterraneo della Standa in via Isacco Newton, la cassa in cui è nascosto il prigioniero viene presa in consegna da Moretti e Maccari che conducono, infine, il rapito nella abitazione ai Colli Portuensi, ove resterà sino alla mattina del 9 maggio. Solo Moretti, Maccari, Braghetti e Gallinari conoscono la prigione del popolo. 

Durante i giorni del sequestro, il compito di recapitare i comunicati e le lettere di Moro è affidato esclusivamente alla coppia Morucci-Faranda, che vive nella base di via Chiabrera 74 (i brigatisti romani che la conoscono la chiamano “l’ufficio”), e a Bruno Seghetti. 

Ricevono i documenti dalle mani di Mario Moretti che ha il compito di interrogare il sequestrato e di tenere i rapporti con gli altri membri del comitato esecutivo che incontra, in una prima fase, a Firenze e, poi, in un secondo momento, in una base a Rapallo. Morucci e Seghetti sono i brigatisti che, usando cabine pubbliche, telefonano alle redazioni dei giornali, alle radio libere e alle agenzie di stampa per far trovare i comunicati oppure comunicano con i familiari o con alcuni amici intimi del prigioniero. 

Il 1° marzo ’78, Bruno Seghetti ruba un’auto Renault 4 amaranto nella zona di Piazza Cavour. In quel momento, il veicolo è solo uno dei molti mezzi nella disponibilità della colonna romana, tanto da essere utilizzato, il 19 aprile, per compiere un attentato alla caserma Talamo che ospita l’VIII Battaglione Carabinieri in via Ponte Salaria e che, qualche volta, viene utilizzata come base di lavoro dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa quando si trova nella capitale.

Il 3 aprile ’78, una gigantesca “retata” rischia di cambiare il corso del sequestro. La Questura di Roma stila un lunghissimo elenco di perquisizioni da compiere nelle abitazioni di ex militanti di Potere operaio e di persone che gravitano nell’area della Autonomia. Alcuni nomi risultano da un vecchio controllo, che risale al ’75, di giovani presenti ad una riunione che si era svolta a via dei Volsci. I carabinieri della Compagnia San Pietro suonano al campanello della abitazione dei genitori di Alessio Casimirri a via Germanico 42 ed il padre, Luciano, li conduce nell’appartamento di via del Cenacolo 56 dove il figlio vive con Rita Algranati. La perquisizione non ha un esito positivo, ma l’organizzazione, per sicurezza, “congela” i due membri del fronte di lotta alla controrivoluzione. Nella stessa giornata, i poliziotti si presentano nella abitazione ove è residente Bruno Seghetti, nel quartiere Centocelle. Seghetti, militante regolare legale, vive, però, da un’altra parte, in un minuscolo appartamento della organizzazione situato a Borgo Pio, lo stesso dal quale, la mattina del 16 marzo, lui e Raffaele Fiore sono usciti per recarsi a via Fani. Se la polizia deciderà di continuare ad indagare sul suo conto, esiste il pericolo che gli inquirenti estendano le investigazioni alla compagna di Seghetti, Anna Laura Braghetti, ed arrivino a via Montalcini. Per questa ragione, il brigatista compie una mossa inaspettata e si presenta spontaneamente negli uffici della polizia poiché lui non ha nulla da nascondere e vuole sapere perché lo stanno cercando. La visita produce gli effetti sperati ed i poliziotti, a partire da quel momento, si disinteressano di Seghetti. Tuttavia, il brigatista è costretto a smantellare ed abbandonare la base di Borgo Vittorio 5 [12]

Il 18 aprile, nello stesso giorno nel quale viene diffuso il falso comunicato sul corpo di Moro che si trova nel lago della Duchessa, viene scoperta la base di via Gradoli 96, abitata da Barbara Balzerani e, solo saltuariamente durante il sequestro, da Mario Moretti. La individuazione della base (contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, l’appartamento non è mai stato «la centrale operativa del sequestro Moro»), tuttavia, non può imprimere una svolta alle indagini finalizzate a trovare la prigione del popolo.

Circa dieci giorni prima dell’epilogo della vicenda, Seghetti affida la Renault 4 ad Antonio Savasta che ha il compito di “gestirla”. Poi Seghetti chiede di avere indietro l’auto nel cui bagagliaio, la mattina del 9 maggio, all’interno del box di via Montalcini, Moro viene ucciso da Mario Moretti, che ha al suo fianco Germano Maccari. Moretti e Maccari partono dai Colli Portuensi e, a piazza Monte Savello, vengono agganciati da Seghetti e Morucci insieme ai quali si recano in via Caetani ove l’auto, con dentro il corpo di Moro, viene abbandonata. Valerio Morucci telefona a Franco Tritto, assistente del presidente DC nella facoltà universitaria, per comunicargli il posto esatto ove ritrovare il corpo del presidente della DC. 

Il 17 maggio ‘78, la Polizia scopre la tipografia di via Pio Foà. Dopo essere stato torturato, Enrico Triaca conduce i poliziotti alla base di via Palombini in cui vengono arrestati Antonio Marini e Gabriella Mariani [13]

Anche Teodoro Spadaccini, membro della brigata Università, viene catturato. 

Anna Laura Braghetti, che diventa militante regolare e passa alla clandestinità nell’estate/autunno del 1978, viene arrestata il 27 maggio 1980, ma trascorre ancora molto tempo prima che si scopra il ruolo ricoperto dalla donna nel sequestro. Ancor più tempo occorre per scoprire chi si nasconda dietro il nome Luigi Altobelli. Negli anni ’90, la identificazione di Germano Maccari e la sua confessione chiudono la lunga fase della indagine sui responsabili della vicenda Moro [14].

Quando inizia il processo di primo grado nel 1982, molti responsabili dei fatti di via Fani (Moretti, Seghetti, Gallinari, Fiore, Bonisoli, Azzolini, Micaletto) sono già stati arrestati. Solo alcuni, come Barbara Balzerani, sono in fuga. Su altri (Algranati, Casimirri, Lojacono, Maccari, Etro) non esiste ancora alcun sospetto.

Anche gli accusatori si trovano in carcere.

Morucci e Faranda, dopo aver abbandonato le BR ed aver portato via armi e denaro della organizzazione, sono stati arrestati a Roma il 29 maggio ’79.

Savasta e Libéra, divenuti militanti della nuova formazione Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente, vengono catturati a Padova, il 28 gennaio ’82, mentre, nella città veneta, è in corso il sequestro del generale statunitense James Lee Dozier. Torturati, con altri brigatisti, nelle stanze del reparto celere di Padova, decidono subito di collaborare [15]

Il patrimonio di conoscenze dei giudici del processo Moro uno/bis di primo grado, fondato essenzialmente sulle informazioni fornite da Peci, Savasta e Libéra, è ancora incompleto ed approssimativo e la sentenza ritiene che siano stati provati alcuni fatti, narrati dai collaboratori, che saranno, in seguito, seccamente smentiti da altre risultanze processuali ben più solide.

Ad esempio, illustrando la posizione di Lauro Azzolini, i magistrati scrivono che «Patrizio Peci e Antonio Savasta hanno inchiodato in maniera definitiva il prevenuto alle sue responsabilità sostenendo che costui…fu tra i componenti del commando che il 16 marzo 1978 portò a termine l’eccidio degli agenti di scorta ed il sequestro del parlamentare secondo un piano prefissato». Il processo di appello smentirà questa ricostruzione ed Azzolini, che non si trovava a via Fani, sarà condannato per la vicenda Moro solo in quanto membro del comitato esecutivo. 

Un’altra informazione completamente errata riguarda Faranda che «prese parte di persona alla tragica azione, seguendo i suoi complici sulla Fiat 128 con targa diplomatica che provocò il tamponamento con le vetture dell’On Aldo Moro e con l’Alfetta della Polizia» e Morucci che «secondo i pentiti, scese con Prospero Gallinari dalla Fiat 128 con targa diplomatica, si avvicinò all’autovettura del parlamentare e aprì il fuoco su Ricci Domenico e Oreste Leonardi». 

Saranno proprio i due protagonisti del racconto a chiarire che sulla Fiat 128 che si arrestò all’incrocio tra via Fani e via Stresa c’era solo Mario Moretti e che il brigatista non sparò durante l’azione; che Morucci, vestito da pilota Alitalia, non era sull’auto con Moretti, ma – con Gallinari, Bonisoli e Fiore – si trovava davanti al bar Olivetti e, soprattutto, che Adriana Faranda, la mattina del 16 marzo, si trovava nella base di via Chiabrera 74, in attesa della fine della operazione e del ritorno di Valerio Morucci.

Anche il professore Enrico Fenzi, dissociatosi dalle attività della colonna genovese, contribuì a creare un meccanismo di alterazione dei fatti storici perché, così testualmente si legge nella sentenza di primo grado, «ha attribuito al Nicolotti un ruolo ben più consistente, affermando senza mezzi termini, sulla base delle sue dirette cognizioni, che costui, unitamente a Riccardo Dura, fu inserito nel commando che il 16 marzo 1978 si parò in armi dinanzi alle autovetture su cui viaggiavano il presidente della Democrazia cristiana e gli uomini della scorta». In realtà, le “dirette cognizioni” di Fenzi non erano fondate sulla conoscenza degli avvenimenti perché, come riconoscerà lui stesso, si limitava a formulare delle ipotesi. Infatti, nessun militante della colonna genovese prese parte alla “operazione Fritz” ed i giudici del processo d’appello, dopo aver ascoltato il più credibile racconto di Morucci e Faranda, presero le distanze dai colleghi del primo grado condannando Nicolotti, ma non perché fosse presente a via Fani [16].

La sentenza di appello corresse, dunque, diverse informazioni errate, ma confermò le condanne inflitte in primo grado. Al termine dei tre gradi di giudizio, nel 1985, i brigatisti condannati in via definitiva furono 23: Mario Moretti, Prospero Gallinari, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Rocco Micaletto, Raffaele Fiore, Luca Nicolotti, Cristoforo Piancone, Anna Laura Braghetti, Bruno Seghetti, Barbara Balzerani, Adriana Faranda, Valerio Morucci, Gabriella Mariani, Antonio Marini, Teodoro Spadaccini, Enrico Triaca, Francesco Piccioni, Antonio Savasta, Giulio Cacciotti, Emilia Libéra, Caterina Piunti e Massimo Cianfanelli. 

I giudici ritennero che i delitti di via Fani e via Montalcini fossero addebitabili non solo ai componenti del Comitato Esecutivo e della direzione della colonna romana, ma anche ai membri dei fronti nazionali della organizzazione, in particolare il fronte della lotta alla controrivoluzione, nonché ai militanti della colonna romana che avevano svolto funzioni di organizzazione importanti per la vita e il funzionamento della colonna oppure erano stati impegnati nella attività di propaganda durante il sequestro. 

(continua)

Nella foto lo schizzo della azione di via Fani disegnato da Mario Moretti e consegnato dallo storico Marco Clementi alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro nella audizione del 17 giugno 2015  

Note

[1] Prima che saltasse fuori che la voce era di Mario Moretti, la magistratura ritenne che l’autore della telefonata del 30 aprile ’78 alla famiglia Moro fosse il professor Toni Negri. Addirittura, per quella del 9 maggio ’78 al professor Franco Tritto, fatta da Valerio Morucci, la responsabilità ricadde sul giornalista veneto Giuseppe Nicotri, arrestato nell’ambito della cd. indagine 7 aprile e poi scarcerato dalla magistratura romana il 7 luglio ’79 e scagionato dalle accuse.   

[2] Quando il ruolo di Anna Laura Braghetti nella vicenda Moro era stato già quasi ampiamente disvelato, il 17 giugno 1985, i giudici istruttori romani Rosario Priore e Ferdinando Imposimato, con la presenza degli ex brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, ispezionarono l’appartamento. Morucci fece notare che, sul pavimento in parquet, esisteva una lunga striscia di colore più scuro rispetto a quello del legno residuo. Morucci non era mai stato prima in questa abitazione, ma riteneva che potesse trattarsi del luogo in cui era stato custodito Moro perché in quella stanza poteva essere stata ricavata una prigione larga m. 1,15 circa e lunga m. 4 circa, senza finestre. Inoltre, sosteneva Morucci, la costruzione di questa prigione non avrebbe comportato la eliminazione di un vano, cosa che invece sarebbe accaduta nella stanza attigua.

[3] v. Sentenza-Ordinanza del giudice istruttore Ernesto Cudillo del 15 gennaio 1981.     

[4] v. l’articolo a firma Marco Clementi Il rapimento di Aldo Moro è l’ossessione degli storici da bar sul quotidiano domani del 15 marzo 2024.

[5] Il nome scelto dai brigatisti per definire l’operazione di via Fani, “operazione Fritz”, è frutto della storpiatura della parola “frezza” che stava ad indicare il ciuffo di capelli bianchi presente sulla testa di Aldo Moro

[6] Quando avvennero i fatti di via Fani, il 16 marzo 1978, il codice penale contemplava una sola norma applicabile alla vicenda concreta, cioè al rapimento di Aldo Moro: il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione previsto dall’art. 630 c.p., come modificato dalla legge 14 ottobre 1974 n. 497. La norma puniva il responsabile del reato con una pena massima di 25 anni di reclusione e, soprattutto, non prevedeva l’ipotesi che, durante il sequestro, avvenisse la morte del rapito, fatto questo che continuava ad essere punito dalla norma del codice penale sull’omicidio volontario (art. 575 c.p.). Pochi giorni i fatti di via Fani, il 21 marzo 1978, venne emanato il decreto-legge n. 59 (poi convertito, con modificazioni, nella L. 18 maggio 1978 n. 191) che modificava l’art. 630 Codice penale prevedendo, anzitutto, un aumento della pena sino a 30 anni di reclusione, e, soprattutto, l’ipotesi che, dal sequestro, derivasse la morte del rapito, quale conseguenza non voluta (anni 30 di reclusione) o voluta dal colpevole (ergastolo). Inoltre, con lo stesso decreto-legge, si introduceva nell’ordinamento il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289 bis Codice penale) punito con le stesse pene previste per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione. 

[7] Interrogatorio sostenuto da Lauro Azzolini, il 14 aprile 1987, innanzi alla Corte di Assise di Roma, Pres. Santiapichi, nel corso del cd. processo Metropoli.

[8] L’appartamento di via Chiabrera venne preso in fitto, nel settembre ’76, da Valerio Morucci che usava una falsa identità. Abitato in vari periodi, anche nel marzo ’78, da Morucci e Faranda, venne utilizzato come sede della direzione della colonna romana che, durante i giorni del sequestro Moro, vi svolse alcune riunioni. Nell’appartamento vennero ciclostilati tutti i comunicati diffusi durante il sequestro. La base di via Chiabrera venne abbandonata dopo la conclusione del sequestro Moro.    

[9] La prima tipografia delle BR a Roma era stata avviata da Stefano Ceriani Sebregondi e da Enrico Triaca, nel maggio ’76, in via Renato Fucini n. 2-4, all’interno di un locale preso in fitto da Sebregondi. In seguito, le BR decisero di trasferire la tipografia in un luogo, cioè via Pio Foà, più vicino alla base di via Palombini. Alcuni macchinari che esistevano in via Fucini (un bromografo e una stampatrice A.B. Dik) vennero rinvenuti e sequestrati nella tipografia gestita da Triaca e Marini.  

[10] Era stato Franco Bonisoli, nel ’76, quando abitava nella base di via Gradoli 96 (l’appartamento era stato preso in fitto, nel dicembre ’75, da Mario Moretti che usava il falso nome Mario Borghi), ad accorgersi, mentre rientrava a casa, che una scorta era posizionata davanti la chiesa. Si era avvicinato ed aveva visto che si trattava della scorta di Moro. 

[11] Secondo Bonisoli, che fornisce una ricostruzione dei fatti analoga a quelle della Faranda e di Azzolini, «Nella Direzione strategica del febbraio 1978 non si discusse dell’obiettivo della azione che era in corso, non venne fatto il nome di Moro. Si parlò dell’attacco che doveva avere al suo centro al Democrazia cristiana». La risoluzione della Direzione strategica del febbraio 78 venne diffusa durante il sequestro Moro insieme al comunicato n. 4 del 4 aprile ’78.

[12] La monocamera di Borgo Vittorio 5 era stata presa in fitto da Bruno Seghetti nel settembre ’77.

[13] Sulla vicenda giudiziaria di Enrico Triaca e sul processo di revisione della sentenza di condanna per il reato di calunnia v. dell’autore l’articolo I tormenti e la calunnia”, pubblicato in http://www.questionegiustizia.it il 12 luglio 2023.

[14] Nella sterminata “letteratura” sul caso Moro, si distinguono, sia per l’esplicito rigetto delle suggestioni dietrologiche che per il rigore metodologico nella indagine storica, alcune opere: Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Edizioni Odradek, 2007; Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, DeriveApprodi, 2017; Marco Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Rizzoli 2006; Vladimiro Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Rubettino, 20026; V. Satta, Odissea nel caso Moro, Edup, 2003; Nicola Lofoco, Il caso Moro. Misteri e segreti svelati, Gelsorosso, 2015; Nicola Lofoco, Le alterazioni del caso Moro, Les Flaneur Edizioni, 2017; Gianremo Armeni, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, Tra le righe libri, 2015.

[15] Sulle indagini avviate dopo il sequestro Dozier e sull’uso diffuso della tortura nei confronti dei sospettati e degli arrestati nel periodo 1982/1983, v. dell’autore gli articoli Dovevamo arrestarci l’un con l’altro. Il sequestro Dozier ed altre storie, pubblicato su http://www.questionegiustizia.it, 29 gennaio 2024, e I cani d’Albania, pubblicato su http://www.questionegiustizia.it, 23 luglio 2024. 

[16] Enrico Fenzi, nel febbraio ‘85, scrisse una lettera ai giudici del processo d’appello Moro uno/bis. Il professore genovese precisava, quanto a Micaletto, Nicolotti e Dura da lui accusati nel processo di primo grado, che questa indicazione non aveva «alcun valore oggettivo» in quanto lui non sapeva «nulla sul numero dei brigatisti presenti sulla scena della azione» e che, alla domanda che gli aveva rivolto il Presidente Santiapichi, lui aveva risposto che «tra coloro che avevo conosciuto a Genova, avrebbero potuto esserci, per quanto sapevo del loro ruolo e della loro determinazione ad operare, appunto Micaletto, Nicolotti e Dura». In sintesi, Fenzi non sapeva nulla della operazione Moro ed aveva solo ipotizzato la presenza di brigatisti genovesi a via Fani.

Rapimento Moro, il vicolo cieco del complottismo 2 parte/fine

Pubblichiamo la seconda parte della intervista concessa alla rivista Utopia21 (l’integrale potete leggerla qui) che dopo aver intervistato, lo scorso febbraio 2025, Dino Greco (qui), in passato segretario generale della Camera del lavoro di Brescia e direttore del quotidiano Liberazione, autore del libro Il bivio, dal golpismo di Stato alle Brigate rosse, come il caso Moro ha cambiato la storia d’Italia, Bordeaux edizioni, Roma 2024, ha deciso di proseguire la sua disamina del «caso Moro» su un altro versante storiografico che mette radicalmente in discussione l’ipostazione complottista proposta da Greco. Gian Marco Martignoni ha sentito Paolo Persichetti, autore del volume La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, apparso per DeriveApprodi nel 2022 e precedentemente con Marco Clementi ed Elisa Santalena di, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017. Chi volesse legegre la prima parte può trovarla qui.

Utopia21, marzo 2025
Intervista di Gian Marco Martignoni a Paolo Persichetti

Un capitolo a sé lo merita il lavoro dell’ex senatore Sergio Flamigni, membro delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, che tra i suoi libri ne ha dedicato uno in particolare a Mario Moretti dal titolo più che eloquente «La sfinge delle Brigate rosse». Nel libro sei molti critico, per usare un eufemismo, verso il suo lavoro: perché?
Flamigni era un grigio funzionario della sezione Affari dello Stato del Pci, il ministero dell’Interno di Botteghe oscure. Privo di qualunque latitudine politica è rimasto ottusamente legato alla vecchia propaganda complottista elaborata dal suo partito a metà degli anni 80 per trovare un alibi al fallimento completo della strategia politica messa in piedi nella seconda metà degli anni 70. Quando Ugo Pecchioli, responsabile di quella struttura, in una delle sue ultime prese di posizione, prima di morire, a metà degli anni 90, affermò che ormai era necessaria un’amnistia che chiudesse la pagina della lotta armata perché quel fenomeno aveva concluso il suo ciclo e non aveva più senso tenere in piedi l’apparato di contrasto ideologico-complottista, Flamigni – come accade spesso alle terze linee – non è stato in grado di riformattare il proprio pensiero e dare un senso più proficuo alla propria vita. Il vecchio apparatčik della disinformazione ha continuato il proprio lavoro di intossicazione elaborando, grazie al monopolio delle fonti all’epoca nelle mani solo degli apparati, della magistratura e delle commissioni d’inchiesta parlamentare con il loro circo Barnum di consulenti, un metodo narrativo che avrebbe fatto rabbrividire persino l’Ovra fascista: ignorare i documenti scomodi, manipolarne altri, inventare menzogne, diffondere calunnie. I suoi libri sono una compilazione di questa tecnica disinformativa che nel tempo rivela anche aspetti divertenti: come la riduzione a poche righe o la scomparsa delle pagine dedicate a ricostruzioni che successivamente si sono dimostrate false. Mai una riflessione autocritica o una presa d’atto delle clamorose bufale diffuse in precedenza. Cito alcuni esempi: Flamigni ignora il verbale del 1994 nel quale il teste Alessandro Marini, quello che racconta della moto Honda, spiegava che il parabrezza del suo motorino si era rotto cadendo a terra nei giorni precedenti il sedici marzo e quindi non era vero che fosse stato distrutto dagli spari dei due fantasmi in motocicletta. Mentre si ostina a cercare lo sparatore da destra, non vede le numerose foto del motorino di Marini, parcheggiato sul marciapiede sinistro di via Fani, col parabrezza tenuto da una vistosa striscia di nastro adesivo. Cita ripetutamente una frase di D’Ambrosio, generale amico del colonnello Guglielmi, per insinuare che questi avesse coordinato l’attacco in via Fani, omettendo l’integrità del verbale d’interrogatorio, acquisito finalmente dalla Commissione Moro 2, che smentisce completamente le sue affermazioni. Per anni confonde il ruolo di un notaio che aveva svolto solo la funzione di sindaco supplente, dunque nemmeno effettivo, nella società immobiliare Gradoli proprietaria di alcuni appartamenti, ma non di quello abitato dai brigatisti, con quello di amministratore della stessa società. Quando glielo hanno spiegato ha cambiato obiettivo prendendo di mira Domenico Catracchia, l’amministratore del civico 96, piccolo imprenditore immobiliare privo di scrupoli che affittava seminterrati a stranieri clandestini. Ossessionato dalla presenza di un quarto uomo in via Montalcini, informazione ricevuta durante i colloqui con due brigatisti dissociati, quando emergerà che la sua identità era quella del brigatista Germano Maccari, e non di un «misterioso» agente segreto, sosterrà che ve n’era per forza un quinto, non delle Br ovviamente. Passa al setaccio tutti i proprietari degli appartamenti situati nelle strade che hanno interessato il sequestro, per denunciare i loro nomi quando si tratta di persone ai suoi occhi sospette, ma dimentica di rivelare che accanto al civico 8 di via Montalcini abitava il senatore Giuseppe D’Alema, padre di Massimo. Calunnia Balzerani e Moretti, sostenendo che sono loro ad aver fatto il nome di Maccari, evitando di citare la confessione della Faranda. E mi fermo qui!

Qual è il Il tuo giudizio sul Memoriale Morucci-Faranda, detto che seppur la loro collaborazione mirava ad ottenere degli sconti di pena e una più agevole collocazione penitenziaria, al contempo «ripudiavano le letture dietrologiche degli eventi».
Parliamo di un Memoriale che raccoglie le deposizioni di Valerio Morucci e Adriana Faranda davanti alla magistratura e a cui i due dissociati, poi divenuti collaboratori, per ottenere l’accesso ai benefici penitenziari aggiunsero i nomi dei partecipanti all’azione di via Fani, prima indicati solo con dei numeri. Secondo Flamigni, poi ripreso dalla Commissione Moro 2, si tratterebbe di un testo che avrebbe suggellato un patto di omertà tra brigatisti e Democrazia cristiana per nascondere, «tombare» secondo l’espressione di Giuseppe Fioroni, la verità indicibile sul sequestro. Si tratta nella realtà di un resoconto che nella parte politica valorizza la loro dissidenza contro la dirigenza brigatista. Non si capisce quale interesse avrebbero avuto gli esponenti delle Br a fare proprio un testo a loro ostile. Non solo, oggi sappiamo che del Memoriale Morucci-Faranda vennero messi al corrente Pecchioli e Cossiga che sulla questione si consultarono. Se anche il Pci era della partita, perché il patto occulto riguarderebbe solo la Dc? Inoltre i fautori di questa tesi non sono in grado di fornire informazioni essenziali sui tempi e i luoghi dell’accordo, oltre che sull’oggetto dello scambio: Morucci e Faranda erano nel carcere per pentiti di Paliano, mentre Moretti e compagni si trovavano sparpagliati nelle prigioni speciali. Inesistenti i rapporti tra loro, segnati dalle precedenti rotture traumatiche (Morucci e Faranda rubarono armi e soldi della Colonna romana) e ostilità per le scelte dissociative e collaborative. Flamigni, consapevole di questo vulnus, si inventa che l’accordo si sarebbe materializzato nei giorni finali del sequestro, così la toppa è peggiore del buco. Il rifiuto della trattativa per liberare Moro si sarebbe materializzato nell’accordo per farlo sopprimere: come, dove, quando? E il vantaggio ricavato? I secoli di carcere ricevuti nelle sentenze? Un abisso logico senza risposta. In un altro volume ho ricostruito la dinamica del sequestro e della via di fuga avvalendomi delle testimonianze degli altri partecipanti che in alcuni punti hanno persino corretto dei dettagli, dovuti ad errori di memoria, presenti nella ricostruzione di Morucci.

Alberto Franceschini dopo la sua cattura, avvenuta a Pinerolo nel 1974, ha detto che successivamente le Br si sono macchiate di numerosi delitti, oltre ad aver giudicato Mario Moretti di essere inadeguato a far parte dell’esecutivo nazionale delle Br. Da dove nasce il dissidio tra Franceschini e Moretti?
La figura del rinnegato è un classico antropologico nella storia dell’umanità. La differenza che lo distingue da colui che ripensa in modo critico il proprio passato, fino anche a ripudiarlo, sta nella attribuzione delle responsabilità, nella collocazione del proprio io all’interno del bilancio esistenziale. Il rinnegato fa l’autocritica degli altri, esime se stesso da ogni colpa e trova nell’altrui comportamento tutte le responsabilità. Punti chiave nella vita di Franceschini sono il momento della sua cattura e le ripetute fallite evasioni. Viene arrestato per caso, non doveva stare con Curcio a Pinerolo dove il generale Dalla Chiesa aveva teso una trappola con l’esca Girotto, eppure attribuisce la responsabilità dell’accaduto a Moretti. Va detto che un ruolo centrale nella costruzione delle leggenda nera su Moretti la gioca Giorgio Semeria. Arrestato una prima volta nel maggio del 72, seguendo lui i carabinieri realizzano la retata contro l’intera colonna milanese. Riarrestato e quasi ucciso da un carabiniere nel marzo del 1976 alla stazione centrale di Milano, grazie all’attività di un confidente, Leonio Bozzato, operaio dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera arruolato nella colonna veneta, Semeria una volta in carcere sostiene che dietro il suo arresto e quelli precedenti di Franceschini e Curcio ci fosse sempre Moretti. Quella di Semeria, chiamato «Fiaschetta» dai suoi compagni, è una ossessione costante con cui martella gli altri prigionieri fino a convincerli, tanto da spingerli a chiedere all’esecutivo esterno di verificare la posizione di Moretti. C’è poco di politico e tanto male di vivere nella costruzione di questa diffidenza che si sfalderà poi nel tempo. Franceschini e Semeria si dissoceranno uscendo dal carcere, mentre Moretti è ancora in esecuzione pena dopo 44 anni di detenzione. Ma veniamo agli argomenti sollevati ex-post da Franceschini dopo essersi dissociato ed essere stato riaccolto a braccia aperte dal vecchio Pci emiliano, Rino Serri in testa, ex segretario della Fgci dalla quale egli stesso proveniva. E’ con questa nuova funzione che inizia la sua collaborazione con Flamigni. Nel corso del sequestro Sossi, dopo aver forzato un posto di blocco, spara colpi di mitra contro una macchina che seguiva, senza accorgersi che al suo interno c’era Mara Cagol. L’episodio dimostra come personalmente fosse già pronto al conflitto a fuoco e ipoteticamente a uccidere nonostante le Br all’epoca fossero ancora lontane da una scelta del genere. E’ tra i militanti che scelgono il passaggio alla clandestinità ed è presente quando nell’estate del 1974 si avvia la discussione interna per creare quella nuova struttura organizzativa che poi caratterizzerà il funzionamento delle Br negli anni successivi. Dal carcere si distinguerà per i continui inviti a elevare il livello di scontro all’esterno e chiedere di organizzare evasioni. Richieste che distoglieranno le colonne esterne dal lavoro politico nei posti di lavoro e nei territori. E quanto i tentativi di evasione falliranno, come quello messo in piedi dalla colonna romana dall’isola dell’Asinara, dopo averci lavorato una intera estate, imputerà il fallimento a una mancata volontà politica radicalizzando sempre più le sue posizioni fino a formulare, dopo un durissimo pestaggio subito a Nuoro, richieste di rappresaglia che mettevano in luce un suo squilibrio mentale, come affondare uno dei traghetti che collegavano la Sardegna al continente. Figura instabile e sempre più carica di risentimento, alla ricerca continua di capri espiatori fece del sospetto un rovello ossessivo fino a sfociare in un delirio paranoico durante la stagione delle torture e dei pestaggi praticati dalle forze di polizia sui militanti appena catturati. Con Semeria decretò la caccia ai «traditori», ovvero a quei militanti ai quali erano state estorte dichiarazioni con l’uso della forza. In un clima di caccia alle streghe, dove le divergenze d’opinione, una diversa linea politica, il mancato allineamento alle tesi del «Mega», soprannome con cui amava farsi chiamare con deferenza nelle carceri speciali, veniva immediatamente tacciata di «resa» al nemico, «tradimento» e «infamità», un piano inclinato che portò lo stesso Semeria a macchiarsi dell’omicidio di Giorgio Soldati. Flamigni non avrebbe potuto scegliersi miglior collaboratore.
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Infine, ha destato una certa sorpresa il giudizio assai tranciante di Dino Greco su Rossana Rossanda, accusata rispetto alla sua intervista a Mario Moretti con Carla Mosca di aver costruito un artefatto, rimanendo affascinata dalla figura tutt’altro che cristallina di Mario Moretti. Cosa pensi di questo perentorio giudizio?
Dino Greco contro Rossana Rossanda? Con tutto il rispetto per il mio ex direttore, abbandonerei qualunque idea di confronto tra i due. Capisco che a un «berlingueriano immaginario», come Greco, bruci il giudizio storico di una intellettuale comunista dello spessore di Rossanda. Dico berlingueriano immaginario perché quando lavoravo a Liberazione ne ho visti circolare diversi tipi: quelli che all’epoca erano ancora in fasce e Berlinguer lo hanno conosciuto attraverso l’iconografia postuma, e quelli che negli anni 70-80 erano su altre posizioni politiche ben più estreme, per non dire extraparlamentari. Si trattava dunque di una singolare fascinazione postuma, una reinvenzione del personaggio che si suddivideva in due categorie: i nostalgici del compromesso storico, raffigurati nel recente film di Segre, e quelli che assolutizzavano la svolta dell’alternativa democratica: il Berlinguer dei cancelli alla Fiat e della questione morale, per intenderci. Greco all’epoca era tra i secondi, ma oggi mi pare sia ritornato sui suoi passi. A differenza di lui, Rossanda non ha realizzato una compilazione selezionata di pubblicazioni dietrologiche ma, come si diceva una volta, ha fatto l’inchiesta. E’ andata ai processi, ha letto le carte, ha fatto verifiche, ha incontrato i mostruosi brigatisti, ci ha discusso, si è confrontata. Ha sentito tante voci, persone e studiosi che la realtà delle fabbriche del Nord o della periferia romana conoscevano davvero. Un percorso lungo, maturato nel tempo modificando i pregiudizi ideologici iniziali che ha poi messo da parte. Una conoscenza che le ha permesso di superare anche il giudizio che espresse nel famoso articolo sull’album di famiglia, dove pur riconoscendo la filiazione delle Brigate rosse con la storia del movimento comunista, le rappresentava erroneamente come epigoni dello zdanovismo cominformista e non parte della nuova sinistra post-68. Trascinata dalla polemica con le posizioni di Botteghe oscure rinfacciava al Pci una paternità che invece, sul piano sociologico, politico e culturale, era tutta dentro la storia di quel che era accaduto a cavallo dei decenni 60-70. Dubito che Greco abbia mai letto un documento primario, una carta processuale. Cita la terza relazione della Moro 2 che riassume i lavori del 2017 (la Moro 2 non ha mai prodotto una relazione conclusiva) ma non credo abbia mai letto le relazioni del Ris sul garage di via Montalcini, le analisi splatter sulle macchie di sangue o la perizia acustica. Avrebbe scoperto che i carabinieri riconoscono la compatibilità del luogo e della dinamica, fino ad aver ricostruito la fattezza originaria del box, oggi modificato e ristretto a seguito di alcuni lavori. Per non parlare della nuova perizia tridimensionale della polizia scientifica che tanto ha mandato fuori di testa Flamigni e i membri più dietrologi della commissione parlamentare. La ricerca e la riflessione storica sono altra cosa dalla difesa di una posizione politica, per giunta smentita dalla storia.

2/fine

«Comportamenti senza rilevanza penale», il pm Albamonte chiede l’archiviazione dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Persichetti

Millecentottantasei giorni dopo la lunga perquisizione (era I’8 giugno 2021) condotta nella mia abitazione e conclusasi con il sequestro integrale del mio archivio raccolto in anni di ricerca storica sugli anni 70 e le vicende della lotta armata, di tutti i miei strumenti di lavoro, dell’intera documentazione digitale presente in casa e negli storage online, computer e telefono nonché l’archivio familiare, con materiali di mia moglie e medico-scolastici dei miei figli, è arrivata dagli uffici della procura la richiesta di archiviazione firmata lo scorso 13 settembre dal sostituto procuratore della repubblica Eugenio Albamonte.

Comportamenti privi di rilevanza penale
Il pm che ha condotto l’indagine avviata dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione nel 2019, scrive che «non è possibile qualificare penalmente la condotta del Persichetti», in relazione al reato di violazione del segreto d’ufficio (326 cp) e che «tanto meno si può ritenere probabile» in base agli elementi raccolti «l’esito positivo di un eventuale giudizio».
Quanto invece all’ipotizzato favoreggiamento (378 cp), Albamonte lascia intendere che molto più semplicemente il reato non sussiste poiché «la natura delle informazioni» (alcune pagine della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 del dicembre 2015), che l’8 dicembre 2015 avevo inviato ad Alvaro Baragiola Loiacono, ex brigatista coinvolto nel sequestro Moro, riparato in Svizzera dove ha acquisito la cittadinanza e da questi trasferite a una altro ex, Alessio Casimirri, anch’egli da decenni riparato in Nicaragua, «non appare avere rilievo sulle rispettive responsabilità e non comporta ulteriori incriminazioni rispetto a quelle già comprovate». Detta in modo più chiaro, quelle informazioni erano neutre, prive di rilevanza penale, per altro rese pubbliche appena 48 ore dopo dalla stessa commissione.

Reati prescritti


Il pm conclude la sua richiesta sottolineando che «il reato ipotizzato [favoreggiamento], e altri eventualmente configurabili (violazione di segreto d’ufficio e ricettazione (648 cp) sarebbero stati commessi nel 2015 e quindi prescritti o prossimi alla prescrizione».
Nella richiesta di archiviazione non viene citata una quarta imputazione: l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp) che pure era stata utilizzata nel decreto di perquisizione dell’8 giugno 2021 e firmata dallo stesso sostituto Albamonte e dall’allora procuratore capo Prestipino (incarico poi dichiarato illegittimo dal Tar del Lazio e dal Consiglio di Stato – leggi qui). Capo d’imputazione passe-partout, strumento perfetto per implementare la scenografia investigativa e avvalersi di strumenti di indagine altamente invasivi. A dire il vero l’ipotesi d’accusa associativa non aveva retto alla prima verifica: bocciata dal tribunale del riesame già nel luglio 2021, perché priva delle necessarie condotte di reato, e successivamente lasciata cadere dallo stesso pm. La procura, infatti, si era limitata a enunciare le accuse senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero materializzate. Come se non bastasse, nella indagine aveva fatto capolino anche una quinta imputazione suggerita dallo stesso Tribunale del riesame che al posto del «favoreggiamento», aveva proposto – senza successo – la «rivelazione di notizia di cui sia stata vietata la divulgazione» (262 cp). Cinque capi d’imputazione per una inchiesta che alla fine si era trasformata in una caccia al tesoro alla affannata ricerca del reato che non c’era.

Le ragioni dell’inchiesta
Se il mio comportamento era privo di rilevanza penale, in sostanza non violava la legge, allora per quale ragione la polizia di prevenzione e la procura di Roma hanno portato avanti con tanta ostinazione una simile inchiesta ricorrendo a intercettazioni telematiche e telefoniche, rogatorie internazionali che hanno coinvolto addirittura l’Fbi americana, fino a perquisire la mia abitazione per una intera giornata e svaligiare il mio archivio, strumento fondamentale del mio lavoro di ricerca storica?

Bisognerà attendere il deposito integrale del fascicolo presso l’ufficio del gip per trovare qualche risposta in più. Per ora ci dobbiamo accontentare delle cinque pagine che compongono la richiesta di archiviazione nelle quali il pm Albamonte ricostruisce seppur sinteticamente i passaggi salienti dell’indagine arrampicandosi come può sugli specchi nel tentativo di giustificarne la legittimità. Scopriamo che tutto sarebbe iniziato dopo una rogatoria internazionale promossa dalla procura generale nei confronti di Alessio Casimirri che innesca una indagine del Federal Bureau of investigation degli Stati uniti. Nel marzo 2020 l’Fbi americana fa pervenire alla Direzione centrale della polizia di prevenzione la corrispondenza e-mail intercettata all’ex brigatista: «emergevano – scrive Albamonte – numerosi scambi tra Casimirri e Loiacono». L’attenzione dei funzionari di polizia si concentrava su una mail dell’8 dicembre 2015 che conteneva in allegato alcune fotografie in formato jpeg della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 che Loiacono inviava a Casimirri dopo averle ricevute da me. Bozza che due giorni dopo verrà resa pubblica, senza variazioni, dalla stessa commissione parlamentare.
Le e-mail avevano un contenuto inequivocabile, il contesto era molto chiaro: stavo interloquendo con una fonte orale testimone diretta dei fatti oggetto del mio studio nell’ambito dei lavori preparatori che poi sfociarono nel libro pubblicato nel 2017 con due altri autori, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi editore. Quelle poche pagine le avevo inviate anche ad altri testimoni diretti del sequestro Moro, sempre nell’ambito delle ricerche e dell’attività preparatoria del volume. Circostanza perfettamente nota ai funzionari della polizia di prevenzione che dall’Fbi avevano ricevuto altre mail nelle quali erano presenti alcune pagine delle bozze preparatorie di un capitolo del futuro volume dedicate alla ricostruzione dei fatti di via Fani.
Quando nel 2020 gli inquirenti leggono le mail attenzionate conoscono da ben tre anni il libro. Per questa ragione si dilungano nei loro rapporti depositati nel fascicolo in disquisizioni e raffronti tra il contenuto degli scambi telematici e quanto riportato in alcuni suoi capitoli. Ciò dimostra ulteriormente che gli inquirenti avevano ben chiaro testo e contesto di quei messaggi. Tuttavia l’iniziale e comprensibile attività di intelligence condotta per cercare di capire se in quegli scambi fossero contenute delle rivelazioni penalmente rilevanti che potevano aggiungere novità (la presenza di altre persone non ancora identificate), rispetto alla verità accertata giudiziariamente nella vicenda del sequestro Moro, muta improvvisamente. Una volta accertato che quegli scambi tra i due ex brigatisti, ritenuti «genuini» dagli stessi inquirenti, non cambiavano la verità acquisita nei processi, l’indirizzo dell’inchiesta muta improvvisamente rotta.

Cosa era successo?
L’ipotesi della violazione del segreto d’ufficio aveva perso ulteriore consistenza dopo la deposizione, nel gennaio 2021, dell’ex presidente della commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che aveva chiarito come la «riservatezza» delle bozze (per altro inesistente nel regolamento interno della commissione) era venuta meno al momento della sua pubblicazione, ovvero 48 ore dopo. In quel breve lasso di tempo nessuna «concreta offensività» era emersa – come sottolinea lo stesso Albamonte nella richiesta di archiviazione. Oltretutto lo stesso Fioroni aveva lamentato le continue violazioni della riservatezza e del segreto da parte dei membri della commissione, rilevando come: «elaborati dei consulenti fossero dati in lettura a singoli deputati prima di essere versati alla Commissione, cosa che il Presidente ha più volte stigmatizzato in sede di Ufficio di presidenza. Queste prassi non incidono tanto sul piano formale (perché prima del versamento i documenti, specie se sono elaborati dei consulenti, sono considerati alla stregua di bozze e dal punto di vista della Commissione sono inesistenti), quanto sul piano sostanziale, in quanto potrebbero alimentare flussi di informazioni indebite verso terzi».
Nei suoi tre anni di attività la commissione si era mostrata un vero colabrodo, in almeno sette circostanze erano emerse violazioni del segreto e della riservatezza degli atti, interrogatori e documenti da parte di suoi membri: commissari o consulenti (leggi qui). Circostanze che non hanno mai attirato l’interesse della procura a riprova che non era l’ipotizzata violazione del segreto d’ufficio il vero tema dell’indagine.

La velenosa insinuazione
Durante la sua deposizione Fioroni elabora un «movente» che armerà la polizia di prevenzione e la procura contro il mio lavoro e il mio archivio: secondo l’ex presidente della Moro 2 la commissione nel corso della sua attività avrebbe raggiunto verità indicibili, in particolare nella vicenda di via Licino Calvo e via dei Massimi (ipotesi dietrologiche, in realtà, già elaborate dai primi anni 80 in precedenti commissioni parlamentari e numerose pubblicazioni e che non hanno mai trovato conferme), per questo – a suo dire – ci sarebbe stata un’attività di intelligence per carpire in anticipo queste informazioni e allertare presunti colpevoli non ancora identificati. Si realizza così il cortocircuito tra tesi complottiste e azione investigativa. Con un intento alla volta conoscitivo e punitivo gli inquirenti prendono di mira il mio archivio convinti di potervi scovare quelle verità tenute nascoste che nella mia attività di ricerca avrei potuto raccogliere dalle confidenze degli ex brigatisti. Da qui l’accusa di favoreggiamento e l’iniziale contestazione dell’associazione sovversiva. Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti!

Il baratto della verità
Nella stessa deposizione Fioroni ammise di aver tentato «anche dei contatti informali con il Loiacono tramite alcuni componenti della Commissione». Durante la sua audizione l’allora ministro degli esteri Gentiloni aveva pronunciato una lunga serie di inesattezze sulla complessa posizione giuridica di Loiacono, processato e condannato in Svizzera per alcuni episodi di lotta armata avvenuti in Italia. Condanna scontata completamente ma che l’autorità giudiziaria italiana non ha mai voluto riconoscere in barba al ne bis in idem. Infastidito dalle parole del ministro, Loiacono aveva inviato una rettifica con tanto di documentazione allegata. Fioroni, convinto che dietro quel gesto vi fosse una inconscia volontà di testimoniare, iniziò un lungo corteggiamento per il tramite di un commissario che era in contatto con me. Nelle settimane che precedettero la discussione della relazione del 2015 mi trovai così al centro di un flusso di messaggi tra le parti. Ovviamente non se ne fece nulla a riprova del fatto che Fioroni era un pessimo psicologo.

Qualche tempo dopo io e un’altra persona venimmo convocati in una sede istituzionale per sentirci esporre un messaggio proveniente sempre dallo stesso presidente della commissione Moro 2: ovvero una proposta di baratto tra l’apertura dell’attività d’indagine parlamentare anche sulle torture praticate nel maggio 1978 contro Enrico Triaca e quelle successive dell’82 (il 21 gennaio 2016 era stata depositata in commissione una dettagliata richiesta di audizione di undici testimoni sul tema delle torture) in cambio dell’accettazione da parte di alcuni ex brigatisti, mai pentiti né dissociati coinvolti nel caso Moro, di farsi audire a san Macuto. L’intera vicenda – ci venne detto con tono austero – sarebbe stata monitorata dalla stessa presidenza della Repubblica. Rispondemmo che indagare sulle torture faceva parte delle competenze istituzionali della commissione non sottoponili ad alcuno scambio. Quanto alla convocazione degli ex brigatisti, Fioroni avrebbe potuto chiamarli direttamente o scrivere loro spiegando le sue intenzioni. Infine sul presunto interessamento del Quirinale, dichiarammo che avremmo certamente apprezzato un suo intervento pubblico sul tema.
La cosa allora sembrò finire lì ma quando mi portarono via l’archivio compresi che forse non era proprio andata così.

Un grave precedente
Il fallimento clamoroso di questa inchiesta non deve tuttavia distogliere dalla sua natura pretestuosa e dal rischioso precedente che rappresenta per la libertà della ricerca storica. Il sequestro dei materiali di studio di un ricercatore, l’attacco diretto alla ricerca storica, l’intromissione indebita del ministero dell’Interno e della magistratura nel lavoro storiografico, la pretesa di stabilire ciò che uno studioso può scrivere in un libro, il tentativo di recintare col filo spinato gli anni 70, un periodo ancora caldo nonostante il cinquantennio trascorso, rappresenta una inaccettabile invasione di campo.
Un episodio che è stato denunciato purtroppo solo da un gruppo di studiosi e addetti ai lavori (leggi qui) ma che ha visto la reazione pavida e indifferente del grosso dell’accademia, convinta forse che in fondo la questione restasse confinata solo alla mia persona per il mio passato militante che come tale cristallizza la vita intera, congela ogni percorso, toglie qualsiasi futuro.
Eppure tutti quelli che hanno girato la testa dovrebbero ricordare che chi sequestra il passato prende in ostaggio anche il futuro, ogni futuro persino il loro ammesso che ne abbiano mai immaginato uno.

La decisione finale spetta al Gip

Spetta ora al gip Valerio Savio pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione. Lo stesso gip che già in passato aveva anticipato l’esito dell’indagine sottolineando come mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria» e non si capisse quale fosse la condotta illecita contestata che – scriveva – «ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai». Il giudice dovrà decidere anche sulla sorte della copia forense di tutto il materiale digitale sequestrato e tuttora non si capisce bene se nelle mani della procura o della stessa polizia di prevenzione.

Ancora una domenica bestiale su Rai tre, stavolta
 Report si inventa l’infiltrato della Cia nelle Brigate rosse. In azione il “metodo Mondani”: manipolare i testimoni per deformare la storia


Nella puntata di Report di oggi, domenica 12 maggio 2024, Paolo Mondani intervista lo storico Giovanni Mario Ceci che ha studiato tutti i documenti desecretati delle amministrazioni Usa degli anni 70 e dei primi 80: Dipartimento di Stato, Cia, Security Concil, rapporti dell’Ambasciata americana a Roma. Ricerca poi raccolta in un volume, La Cia e il terrorismo italiano, uscito per Carocci nel 2019.


Nei report desecretati si può leggere che «Nessuno è stato in grado di trovare nemmeno uno straccio di prova convincente del fatto che le Brigate rosse ricevevano ordini dall’estero». L’affermazione era giustificata dal fatto che solo la prova di una interferenza straniera che avesse messo a rischio la sicurezza e gli interessi statunitensi avrebbe legalmente giustificato l’intervento diretto della Cia negli affari interni italiani, più volte richiesto dal governo di Roma a cominciare dallo stesso Aldo Moro pochi mesi prima di essere rapito dalle Brigate rosse.
Nonostante il libro di Ceci, documenti alla mano, sostenga
nquesta tesi, Mondani riesce a censurare l’intero contenuto del volume, ben 162 pagine, capovolgendone il senso.

I documenti raccolti da Ceci dimostrano come la Cia intervenne per reprimere le Brigate rosse, non certo per sostenerle o manipolarle, alla fine del 1981 quando queste rapirono il generale americano James Lee Dozier. L’intervento degli uomini di Langley fu tale che il governo Spadolini non esitò ad autorizzare le forze dii polizia all’impiego sistematico della tortura durante le indagini.



Importanti testimonianze di esponenti delle sezioni speciali antiterrorismo dei carabinieri emersi recentemente hanno dimostrato (leggi qui) che a cercare di avvicinare le Brigate rosse non fu la Cia ma il Partito comunista italiano con l’accordo del generale Dalla Chiesa dopo il gennaio 1979. Si tratta della «Operazione Olocausto», un militante di Botteghe oscure (sede nazionale del Pci), nome in codice «Fontanone», ebbe un ruolo fondamentale nel permettere di agganciare alcuni dirigenti della colonna romana. Altri militanti del Pci fecero da «esche» nelle fabbriche del Nord Italia per permettere la cattura di esponenti brigatisti che cercavano di ricostruire la colonna torinese. L’unico infiltrato ad oggi conosciuto, che riuscì ad entrare nell’organico della colonna veneta delle Br per due anni, 1975-76, fu un operaio di Porto Marghera, Leonio Bozzato, nome in codice «Frillo», arruolato anni prima dal centro Sid di Padova, quando militava in un gruppo marxista-leninista, e successivamente inserito all’interno dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera. Difficilmente ascolterete queste cose nel corso della puntata di Report, se volete saperne di più, oltre al libro diu Ceci si consiglia la lettura di La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Deriveapprodi 2021.

Aldo Moro e l’ambasciatore Usa Richard Gardner

Quando Moro chiese aiuto alla Cia per contrastare le Brigate rosse

Aldo Moro era convinto che il terrorismo non avesse solo un carattere politico ma anche una dimensione internazionale. Pochi mesi prima del suo rapimento, in un incontro avvenuto nello studio di via Savoia con l’ambasciatore degli Stati Uniti Richard Gardner, affrontò la questione sostenendo che il fenomeno della lotta armata era «probabilmente sostenuto dall’Est, forse dalla Cecoslovacchia». Aggiunse che il terrorismo italiano e tedesco erano «profondamente legati» e mossi da un medesimo disegno: «minare le società democratiche sulla frontiere Est-Ovest». Contrariamente a quel che si ritiene oggi, Moro era convinto che lo sviluppo delle azioni dei gruppi armati avrebbe rafforzato gli obiettivi di governo del Pci: «un’escalation incontrollata dell’ordine pubblico» – affermava lo statista democristiano – avrebbe reso impossibile ogni opposizione alle richieste, che provenivano dalle «public demands», di «inclusione» e «partecipazione del Pci al governo per porre fine alla violenza» e «ristabilire l’ordine pubblico». Argomenti che spinsero Moro ad esortare gli Stati Uniti affinché assumessero «un ruolo attivo nel combattere il terrorismo», chiedendo a Gardner una «maggiore assistenza e cooperazione» da parte dell’intelligence statunitense con i servizi di sicurezza italiani» (1). A scriverlo è lo storico Giovanni Mario Ceci nel volume, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019. I report dell’agenzia di Langley, dell’ambasciata Usa a Roma e di altri attori dell’amministrazione statunitense, che l’autore cita nel libro, ribaltano l’attuale vulgata mainstream sugli scenari complottisti che avrebbero portato al rapimento del leader democristiano da parte delle Brigate rosse, sgretolando la convinzione stratificata da decenni di un sequestro sponsorizzato e supervisionato, addirittura con l’apporto diretto di forze esterne, in particolare atlantiche, al mondo brigatista, per impedire l’alleanza tra Dc e Pci e l’entrata di quest’ultimo nel governo. Nell’incontro del 4 novembre del 1977, lo statista democristiano fece capire agli americani che l’unico vero modo che avevano per arrestare la progressione elettorale del Pci e le sue ambizioni governative era intervenire su quelle che, a suo avviso, erano le matrici della sovversione interna italiana, ovvero la strategia di destabilizzazione della società che avrebbe trovato sostegno nelle interferenze sovietiche. Attività che, secondo Moro, non era finalizzata a sabotare l’avvicinamento del Pci all’area di governo ma semmai a favorirla rafforzando la sua immagine di unica forza politica in grado di salvare le istituzioni calmierando le spinte antisistema dei movimenti sociali ed esercitando la sua capacità di forza d’ordine. Questa personale convinzione di Moro, che per altro mutò drasticamente quando dalla prigione del popolo nella prima lettera a Cossiga scrisse di trovarsi «sotto un dominio pieno e incontrollato», era opinione diffusa negli ambienti politici moderati e conservatori italiani e trovava ispirazione in alcune precedenti veline dei Servizi italiani che chiamavano in causa l’operato dei Paesi dell’Est.
Anche il Pci riteneva, ma solo in sede riservata, che vi fosse una qualche interferenza oltre cortina, in particolare dei cecoslovacchi. Sono note le lamentele di Cacciapuoti e di Amendola nei confronti dei “fratelli cecoslovacchi” che sdegnosamente rigettavano l’accusa. I sospetti, dimostratisi infondati, dei dirigenti di Botteghe oscure erano dovuti all’ospitalità che nell’immediato dopoguerra Praga aveva fornito, su richiesta degli stessi comunistin italiani, a diversi esponenti delle milizie partigiane comuniste e dell’organizzazione Volante rossa che non avevano deposto le armi dopo la fine della guerra civile e per questo erano stati perseguiti dalla magistratura. Questo bacino di militanti, il più delle volte coinvolti in azioni di rappresaglia contro ex gerarchi ed esponenti fascisti, nonostante fosse stato esfiltrato dall’apparato riservato del Pci era maltollerato dalla nuova dirigenza di fede togliattiana. Un atteggiamento proiettivo che spinse la dirigenza di questo partito ad avviare una ossessiva campagna, divenuta vincente nei decenni successivi, che ribaltava lo schema complottista attribuendo ogni responsabilità del sequestro Moro all’azione dei Servizi segreti occidentali.

Terrorismo interno o internazinale?
L’amministrazione statunitense prese sul serio le richieste di Moro e G.M.Ceci ne ricostruisce attentamente tutti i passaggi: Gardner volato a Washington riferì la richiesta al segretario di Stato Vance ed al consigliere per la sicurezza Brzezinski, la questione venne introdotta in un memorandum inviato ai membri dell’European Working Group, che si riunì il 9 dicembre 1977, dove ci si chiedeva «che aiuto stiamo fornendo all’Italia in relazione al terrorismo (sia interno sia, se ve ne è, Internationally-inspired)? (2). Tuttavia emerse subito un grosso ostacolo dovuto alla presenza della nuova dottrina di «non interferenza non indifferenza» emanata dall’amministrazione Carter e alle limitazioni, introdotte dal Congresso statunitense a metà degli anni 70, che impedivano al governo Usa di intervenire nelle attività di polizia interna di altri paesi. Dopo le polemiche scatenate dai ripetuti interventi diretti della Cia, come fu per il colpo di Stato contro Allende in Cile, le azioni coperte dell’Agenzia d’intelligence furono sottoposte a restrizioni salvo nei casi in cui vi era un manifesto pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi interessi. Situazione che si prefigurava solo nel caso fosse stato dimostrato che quanto avveniva in Italia avesse una matrice internazionale. L’assenza di questa prova, più volte richiesta alle autorità italiane, impedì un intervento diretto e immediato della Cia, i cui analisti per altro in un report della Cia “centrale” ritenevano di non condividere «la tesi, alquanto popolare in Italia, che il terrorismo sia alimentato all’estero, né tantomeno il suo corollario, ossia che scomparirebbe se malvagi potenze straniere smettessero di immischiarsi», mentre un’analisi di Arthur Brunetti, capocentro della Cia a Roma, realizzata nei giorni precedenti il sequestro Moro ribadiva che le Br «sono un fenomeno nato e cresciuto interamente in Italia» e che «nulla indicava che l’Unione sovietica, i suoi satelliti nell’Europa dell’Est, la Cina o Cuba avessero avuto un ruolo diretto nella creazione o nella crescita delle Br». (3)
Nel bel mezzo di questo lavorìo diplomatico giunse come un lampo la notizia del rapimento del leader democristiano. Le prime analisi portarono Washington a temere che l’azione delle Br potesse estendersi anche ad obiettivi statunitensi, successivamente i numerosi report prodotti dall’intelligence Usa durante il sequestro focalizzarono l’attenzione verso le possibili ricadute sul quadro politico italiano. Gli analisti osservarono con molta finezza le mutazioni intervenute all’interno della Dc e il profondo cinismo che muoveva la rinnovata «rivalità» e le diverse manovre di riposizionamento dei leader democristiani che ambivano alla successione di Moro come capi del partito per «assumere il ruolo di front runner nelle elezioni presidenziali di dicembre». Secondo la Cia, il governo italiano nel corso del sequestro aveva «riportato una vittoria negativa rimanendo fermo», senza tuttavia essere riuscito a colpire militarmente le Br. Alla fine, concludevano gli analisti di Langley sbagliando completamente previsione, era il partito comunista la forza politica uscita rafforzata dall’esito del sequestro, poiché la linea della fermezza l’aveva collocata – a loro avviso – in una «posizione forte», che avrebbe reso impossibile la nascita di governi senza la sua partecipazione. Sul piano operativo, nonostante una richiesta di top priority da parte italiana, la Cia non andò oltre lo scambio di informazioni. Sotto la pressante insistenza di Roma il governo americano si limitò ad inviare un funzionario del Dipartimento di Stato (non un membro della Cia), Steven R. Pieczenik, psicologo esperto di guerra psicologica che giunse a Roma il 3 aprile 1978 (dopo il trezo comunicato brigatista nel quale si annunciava la collaborazione di Moro all’interrogatorio) e operò su mandato del ministro dell’Interno Cossiga all’interno di un “comitato di esperti”, dove erano presenti figure analoghe. La permanenza dell’esperto americano fu molto breve, convintosi della inutilità del suo contributo, rientrò negli Stati uniti il 16 aprile successivo, dopo appena 13 giorni.

Settembre 1978, la Cia si mobilità contro le Brigate rosse
Alla fine l’ostacolo venne superato con un espediente burocratico: riclassificare le Brigate rosse all’interno della categoria del “terrorismo internazionale”. L’8 maggio, il giorno prima della esecuzione di Moro, lo Special Coordinating Comitee del Consiglio nazionale della sicurezza, Nsc, diede finalmente semaforo verde, ritenendo che si potesse «offrire aiuto all’Italia per combattere il terrorismo internazionale», ma quando la decisione venne comunicata alle autorità italiane il corpo di Moro era già stato ritrovato in via Caetani. La circostanza tuttavia non arrestò i propositi statunitensi che nel settembre 1978 giunsero a Roma con l’obiettivo di svolgere un’attività unilaterale di intelligence contro le Br, attivando operazioni di infiltrazione all’interno questa organizzazione. L’ambasciatore Gardner si oppose, raccogliendo le resistenze italiane, sostenendo che questo tipo di attività sarebbe stata compito delle autorità di Roma. Alla fine si raggiunse un compromesso: l’ambasciata americana «avrebbe considerato caso per caso le proposte di reclutamento di persone da infiltrare nelle Br» con la possibilità di decidere autonomamente se «andare avanti da soli o dopo un accordo con gli italiani». Gardner ricorda nel suo libro di memorie che in effetti si registrò davvero «un caso di questo genere» e «la decisone fortunatamente fu di condurre l’operazione in accordo con il governo italiano». (4)

L’operazione Stark
L’unico tentativo conosciuto, per altro del tutto infruttuoso, è quello di Ronald Stark, un cittadino americano arrestato nel 1975 per traffico di stupefacenti e scarcerato nel 1979 con una motivazione redatta dal giudice Floridia in cui si riconosceva la sua collaborazione con la Cia. Il suo compito sarebbe stato quello di avvicinare all’interno delle carceri alcuni brigatisti detenuti. L’operazione non produsse risultati perché già dal 1977 i Br erano stati tutti trasferiti nel carceri speciali e Stark non finì mai in questo circuito. Se l’operazione di infiltrazione prese avvio alla fine del 1978 – come afferma Gardner – per Stark fu impossibile avvicinarli. Dalla documentazione della Direzione generale degli istituti di pena viene fuori che Stark fu rinchiuso nelle carceri di Modena, Pisa, Matera, Rimini e che nell’ultimo periodo della sua detenzione si trovava a Bologna. Prigioni estranee al circuito delle carceri speciali e che dopo il 1977 non accolsero più al loro interno brigatisti. Dalla stessa documentazione risulta che l’unico periodo in cui Stark, condannato per traffico internazionale di stupefacenti, si trovò ristretto nello stesso istituto di pena dove erano anche altri brigatisti fu il 1975 nel carcere di Pisa, poco dopo il suo arresto, tre anni prima che le Brigate rosse entrassero nel mirino dell’agenzia di Langley. Ammesso che fosse lui l’agente provocatore reclutato negli ultimi mesi del 1978, gli americani erano davvero in seria difficoltà se l’unica risorsa messa in campo per la loro strategia era riposta in un improbabile personaggio, un narco trafficante tenuto a debita distanza dai sospettosi brigatisti incarcerati che al massimo si trovarono a condividere, come riferisce Curcio nel suo libro, A viso aperto, il passeggio dell’aria con uno che cercava di attaccare bottone. Il racconto che Curcio fa dell’episodio (Stark gli propose durante il passeggio di organizzare una evasione dal carcere) lascia supporre che lo statunitense lavorasse già da confidente per il Ministero dell’Interno. In effetti Gardner afferma che l’operazione fu condotta di concerto con i Servizi italiani. Risulta, infatti, che funzionari del Ministero dell’Interno ebbero ripetuti incontri con lui nel carcere di Matera: tra questi spicca il nome di Nicola Ciocia, il famoso professor De Tormentis specialista del waterboarding, torturatore di diversi nappisti e brigatisti, tra cui Enrico Triaca, Ennio di Rocco, Stefano Petrella e di diversi componenti della colonna napoletana. I documenti ci dicono che l’unica persona caduta nella rete di questo agente provocatore fu Enrico Paghera, militante di Azione Rivoluzionaria che dopo la scarcerazione venne nuovamente arrestato e trovato in possesso di una cartina relativa ad un campo palestinese in Libano di cui era indicato il nome del responsabile e che risultò fornitagli dall’americano.

Note
1. Nella nota 26, p. 69, del suo volume, GM Ceci indica come fonte un report inviato dall’ambasciata Usa di Roma, Ambassador’s Meeting with Christian Democrat President, from Amembassy Rome to SecState, 7 November 1977, DN:1977ROME18056. Anche lo storico G. Formigoni, ricorda sempre GM Ceci, aveva riferito su questo incontro e sulla posizione di Moro in, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, 2016, pp.325-6.
2. GM. Ceci, p. 69, nota 27, Memorandum from Robert Hunter and Richard Vine to Members of European Working Group, Agenda for Meeting, December 9, 1977, in DDRS.
3. Giovanni Maria Ceci, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019, p. 84.
4. Richard N. Gardner, Mission: Italy. Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma.1977-1981, Mondadori, 2004, p. 234.

L’archivio Flamigni e l’uso pubblico della storia

Sabato 16 marzo introducendo un articolo di Marco Clementi sulla bruciante passione che arde nell’animo degli «storici da bar» ossessionati dal rapimento Moro mi soffermavo su una particolare categoria che arricchisce la folta schiera dei ciarlatani del caso Moro, ovvero i «burocrati della memoria».
A titolo di esempio riportavo un recentissimo episodio accaduto nel corso di una lezione tenuta in una università romana da una nota responsabile di un archivio che si occupa di «terrorismo e anni 70». Non facevo nome e cognome della persona e non citavo con precisione i luoghi dove questa lezione si era tenuta non certo per reticenza, «al fine di meglio manipolare quanto detto», come è stato scritto contro di me, ma per evitare una eccessiva personalizzazione perché quel che conta era il peccato e non il peccatore, come recita un vecchio adagio. Mi interessava attirare l’attenzione sulle parole dette (non sull’autrice di quelle parole) e sui dispositivi burocratici e politici che sono stati realizzati per diffondere una memoria istituzionale su quel periodo ricorrendo ai canoni e strumenti tipici dell’uso pubblico della storia.

Nel frattempo l’autrice di quelle parole ha fatto outing smentendo recisamente quanto da me scritto, ovvero che «in via Fani c’erano, la mattina del 16 marzo, non meno di 30 brigatisti, ovvero quasi tre volte i regolari della colonna romana in attività in quel periodo. Alla richiesta di spiegare come fossero fuggiti dal luogo, visto che le macchine descritte dai testimoni sono sempre e solo state tre e nessun pullman è mai stato avvistato nei paraggi, ha risposto che si erano dileguati a piedi per i prati. Di fronte alla stupefacente risposta (accanto a via Fani non ci sono prati…) qualcuno ha voluto sapere se fosse mai stata in via Fani: la risposta è stata no».

Stiamo parlando di alcune affermazioni fatte dalla signora Ilaria Moroni, direttrice dell’Archivio Flamigni, promotrice e curatrice della Rete degli archivi per non dimenticare (spero di non aver sbagliato nulla nel citare i titoli di merito), che «in collaborazione con la Regione Lazio e l’Università di Roma Tre, offre agli insegnanti delle scuole secondarie di secondo grado un corso di formazione gratuito Non solo “anni di piombo” – L’Italia degli anni Settanta, la politica, le riforme, i terrorismi». Corso che, se ho letto bene, sarebbe alla sua seconda edizione. La signora Moroni, nome che aleggia nella cronaca giudiziaria di questi giorni, sostiene che il corso non sarebbe finanziato dalla regione Lazio. Prendiamo atto per ora delle sue parole, se poi magari può spiegarci cosa significa «collaborazione» e cosa la distingue da un semplice patrocinio le saremmo grati, certo è che nel bilancio 2022 della Regione Lazio l’Archivio Flamigni ha ricevuto per le sue attività un obolo di 60 mila euro.
Ma veniamo al merito delle affermazioni fatte durante la lezione: dopo la smentita della signora Moroni la mia fonte che ha assistito al corso mi ha riconfermato ogni cosa («30 brigatisti in via Fani», «fuga per i prati», «presenza del colonnello Guglielmi», «prima prigione in via dei Massimi»), salvo un punto oggetto di malinteso tra noi due quando mi aveva riferito la prima volta l’accaduto, ovvero che la signora Moroni non aveva mai detto di non essere mai stata in via Fani. Recepito ciò, non ho alcun problema a correggere il mio piccolo errore, ed a scusarmi per questa imprecisione, per la semplice ragione che non mi chiamo Sergio Flamigni, campione dei pesci in barile. Sempre la mia fonte precisa che le affermazioni di cui sopra sono avvenute nella fase finale della lezione durante le domande e risposte provenienti dal pubblico, come per altro avevo già accennato.

A questo punto però davanti alla replica scritta della signora Ilaria Moroni quanto detto nel corso della lezione passa in secondo piano per la semplice ragione che la responsabile dell’archivio Flamigni ribadisce nero su bianco molte delle cose dette, con questo confermando il racconto della mia fonte e la veridicità di quanto avevo scritto. In particolare la signora Moroni conferma quello che secondo la sua personalissima ricostruzione dei fatti sarebbe il numero dei brigatisti coinvolti, circa 30: «nella gestione dell’intero sequestro, vie di fuga e covi compresi, il numero complessivo dovrebbe orientarsi intorno ai 30».

Ho già spiegato che si tratta di un numero abnorme, molto più del triplo dei regolari presenti nella colonna romana dell’epoca. Non c’è qui lo spazio per un adeguato approfondimento, ma è ampiamente noto che a condurre l’inchiesta e realizzare l’agguato fu sostanzialmente la Brigata della “Contro” della colonna romana (che era tutta in via Fani fatta eccezione per Etro e Faranda che ebbero altri ruoli), supportata da alcuni membri della direzione di colonna e della direzione nazionale. E se è vero che nel corso dei 4 processi portati a termine sono state condannate 27 persone, è storicamente accertato che solo 15 di queste hanno avuto un ruolo effettivo a vario titolo nella vicenda, più una sedicesima assolta perché all’epoca dei processi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Gli altri 12 non ebbero alcun ruolo: i 5 della brigata universitaria tirati in ballo perché custodirono la Renault 4; i tre – compreso Triaca torturato dopo l’arresto – legati alla tipografia di via Pio Foà e alla base di via Palombini; due membri del fronte logistico romano e altri due del fronte di massa nazionale totalmente fuori dalla vicenda.
Ventitre della ventisette persone vennero condannate alla fine del primo processo Moro, le altre quattro furono giudicate nei successivi processi grazie alle indicazioni fornite da Morucci e Faranda nel loro memoriale (e in altri verbali), della cui esistenza (il memoriale) sapevano oltre a Cossiga anche il dirigente del Pci Ugo Pecchioli. La signora Moroni dovrebbe saperlo e soprattutto scriverlo, visto che dirige un archivio. Il memoriale oltre a consentire alla giustizia di affibbiare altri tre ergastoli, permise ai suoi autori di ottenere ulteriori sconti di pena, in aggiunta a quelli introdotti dai decreti premiali speciali Cossiga alla fine degli anni 70. La legge sulla dissociazione del 1987 venne varata con l’apporto politico e il contenuto giuridico decisivo del Pci, insieme alle altre forze del fronte dell’emergenza. Corollario di quella legge fu la riforma Gozzini, Mario Gozzini era un indipendente di sinistra eletto nelle liste del Pci. Tutte cose che Ilaria Moroni immagino abbia spiegato durante i corsi di formazione da lei tenuti.

Dopo aver dato i numeri la responsabile dell’archivio Flamigni attribuisce a Mario Moretti cose mai dette, traendo così una conclusione priva di fondamento logico e fattuale: ovvero che a sparare in via Fani dovevano essere in sei. Nel libro con Rossanda, Moretti parla solo di quattro compagni che dovevano fare fuoco (i quattro con le divise dell’aviazione civile nascosti dietro le fioriere del bar Olivetti), due più di quanto normalmente necessario a causa dell’alto rischio di reazione della scorta: due per machina anziché uno. Come si possa arrivare a sei non si capisce. La balistica dice che hanno sparato in tutto 5 persone con sette armi: quattro pistole mitragliatrici e due pistole appartenenti ai 4 Br, più la pistola di un agente. Nessuna fonte di tiro da destra, salvo gli spari del poliziotto della scorta. Il fuoco incrociato evocato dalla Moroni esiste solo nei film dei supereroi. Una volta terminate le raffiche vi fu un aggiramento finale verso destra del brigatista più in alto che sparò con la sua arma personale. Leonardi fu colpito sul lato destro del corpo dopo la torsione del busto verso sinistra, proteso in difesa di Moro. Ma si tratta di cose già dette, ridette, ribadite all’infinito. Un disco rigato. Sinceramente roba noiosa che serve ad aggirare solo le vere domande politiche e storiche che quella vicenda solleva.

Ci sarebbe molto altro da dire: sapere perché per anni il senatore Flamigni ha tenuto nascosto il verbale di D’Ambrosio, citandone solo una brevissima parte che ne travisava il contenuto per rafforzare la sua tesi di un coinvolgimento del colonnello Guglielmi nell’azione di via Fani o rivelare come Flamigni acquisì dalle mani dei fascisti della rivista “Area” il materiale utilizzato per costruire le fake news su via Gradoli. O la figuraccia fatta con il teste Marini scoperto a dire bugie sul parabrezza del suo motorino e sulla moto Honda. Testimonianza di cui Flamigni è stato il più fervente sostenitore per anni. Non abbiamo mai letto una parola che riconoscesse l’errore, ammettesse l’abbaglio. Abbiamo visto soltalto ridursi con passare delle edizioni dei suoi libri il numero di righe e l’importanza dedicata alla vicenda che da centrale si è fatta nella sua narrazione via via più periferica. Per non parlare del quarto uomo di via Montalcini, di cui aveva saputo da una confidenza di due brigatisti dissociati, che lo avevano portato a ritenere si trattasse finalmente della prova della presenza di figure estranee alla Br nel sequestro.

Quando venne fuori l’identità di Germano Maccari, dopo l’iniziale disorientamento Flamigni sostenne che «allora doveva esserci un quinto uomo». Ammettere l’errore, recepire il fallimento di una ipotesi e correggere la propria versione, ripensando integralmente la propria posizione, non appartiene al suo orizzonte culturale, alla sua onestà intellettuale. Tante omissioni di verità e deformazioni dei fatti di cui Flamigni è stato grande maestro nei decenni trascorsi. Ma ci sarà modo e occasione per farlo in modo adeguato.

Concludo rilevando che la signora Moroni segnala ai suoi lettori come io mi sia recato una volta in archivio Flamigni in quel di Oriolo romano. Controllare i miei movimenti deve essere una sua particolare ossessione: ricordo la volta che su fb diede l’allarme perché mi aveva avvistato presso l’Archivio centrale dello Stato. Immagino che questo si spieghi col fatto che la signora Moroni mi consideri più un ricercato che un ricercatore.

Il sequestro Moro e gli storici da bar

I ciarlatani del caso Moro, quelli che Marco Clementi definisce «storici da bar» hanno riempito in questi decenni scaffali di librerie con le loro pubblicazioni, fatto uscire articoli a pioggia sulla stampa (ancora oggi ne sono apparsi un paio), realizzato trasmissioni televisive, Report su tutti ma anche lo scomparso Purgatori non scherzava, dando vita a surreali commissioni parlamentari, ultima quella antimafia che si è chiusa nella passata legislatura con una relazione dell’ex magistrato Guido Salvini, seguita ai lavori della precedente commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni. Tra i ciarlatani non mancano di primeggiare con dichiarazioni alle agenzie membri del governo attuale. Questo fiume di ipotesi mai suffragate, congetture azzardate, ricostruzioni sgangherate – spiega Clementi- resta sempre sul terreno della cronaca, sezionando al millesimo minuti, ore e giorni del sequestro, ripetendosi all’infinito come un disco rigato, eludendo così non solo le smentite ma ancor di più il «tempo storico», le domande di fondo che sole possono aiutare a dare senso e comprensione a quella vicenda.

La burocrazia della memoria
La responsabile di un noto archivio che si occupa di «terrorismo e stragi degli anni 70» ha tenuto nei giorni scorsi presso una università romana un corso di formazione per insegnanti delle scuole secondarie, attività finanziata dalla regione Lazio. L’eminente specialista ha raccontato, in barba alle evidenze storiche fino ad ora acquisite, che in via Fani c’erano, la mattina del 16 marzo, non meno di 30 brigatisti, ovvero quasi tre volte i regolari della colonna romana in attività in quel periodo. Alla richiesta di spiegare come fossero fuggiti dal luogo, visto che le macchine descritte dai testimoni sono sempre e solo state tre e nessun pullman è mai stato avvistato nei paraggi, ha risposto che si erano dileguati a piedi per i prati. Di fronte alla stupefacente risposta (accanto a via Fani non ci sono prati…) qualcuno ha voluto sapere se fosse mai stata in via Fani: la risposta è stata no.
Le istituzioni hanno creato una burocrazia della memoria pubblica cui è stata demandata la funzione di amministrare la produzione pubblica sulla storia di quelli anni, presenziando commissioni che vigilano sulle modalità di apertura degli archivi, sulla gestione di portali informativi e sulla formazione culturale. L’eminente responsabile dell’archivio di cui stiamo parlando, membro a tutti gli effetti di questo apparato, deve aver confuso le 27 persone, condannate a vario titolo per il sequestro nei quattro diversi processi che si sono susseguiti tra gli anni 80 e 90, con i partecipanti diretti all’azione del 16 marzo. Avrà così pensato che tutti e 27 affollavano via Fani e le strade adiacenti quella mattina. In realtà solo 9 di loro sono stati indicati in sede giudiziaria come presenti direttamente sul luogo dell’agguato. Oggi sappiamo che ve ne fu anche una decima, assolta però durante il processo ma condannata comunque per altri fatti. I restanti 17 sono stati ritenuti responsabili per altre ragioni: perché membri dell’esecutivo nazionale o aventi funzioni apicali, oppure perché avevano gestito la custodia del sequestrato nella base-prigione di via Montalcini o ancora perché avrebbero preso parte ad alcune fasi della inchiesta preparatoria. Nessuno di loro era in via Fani. Eppure i ciarlatani del caso Moro possono raccontare impunemente quel che vogliono.

di Marco Clementi, Domani 16 marzo 2024

Non avrà mai fine l’annosa ricerca di una singola prova, una contraddizione, un elemento di dubbio, capace di far crollare come un castello di carte la narrazione non dietrologica sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. Gli storici, si può osservare, dovrebbero essere contenti: la ricerca, infatti, non si può fermare e ogni nuovo apporto non può che arricchire i precedenti. Teoricamente è così. In pratica non sempre questo accade: si pensi al revisionismo attuato in Russia sulla storia sovietica e la figura di Stalin, per fare solo un esempio. Gli storici in questo caso sono stati messi a tacere e la revisione storica è diventa una questione di Stato.
Per quanto riguarda il caso Moro e più in generale la storia delle Br (o se si vuole la sua contro-storia), il dibattito spesso non si svolge tra storici e la cosa che pone una serie di problemi metodologici molto seri. Si potrà obiettare che storcere troppo il naso se un giornalista scrive un libro di storia non è una buona cosa. Infatti, esistono giornaliste e giornalisti che hanno studiato, scritto e analizzato questioni storiche in modo molto professionale, aprendo nuove prospettive di riflessione. Con il caso Moro, però, questo è accaduto molto di rado.

Un popolo di storici e ct
Tutti gli appassionati di calcio si sono sentiti commissari tecnici della nazionale almeno una volta nella vita. Tutti hanno fatto la propria formazione, criticato scelte, convocazioni e cambi, pensato che se ci fossero stati loro in panchina quella partita sarebbe finita diversamente. Peccato che nessuno è stato mai chiamato dalla Federcalcio ad allenare la nazionale. Per allenare serve un patentino, si devono frequentare corsi a Coverciano ecc.. In una parola, bisogna essere professionisti che conoscono il linguaggio del campo e hanno esperienza decennale. Non ci si improvvisa e soprattutto agli improvvisati nessuno dà un lavoro.
Quando capita di discutere di storia al bar (o sui social), è facile perdere. Qualsiasi cosa si dica, infatti, viene ribattuta con riferimenti fumosi e frasi ipotetiche da chi discute non per capire meglio, ma per imporre la sua tesi di partenza. Le argomentazioni, anche le più precise, non sono prese in considerazione. Al limite, non le ascoltano proprio. È così e basta. Rispetto alle fonti (archivi, bibliografie, saggi ecc.) l’interlocutore propone un paio di articoli di giornali o, quando va bene, un libro (che, sebbene pieno di sciocchezze, almeno è un libro). Conosce particolari mai sentiti, ma non è in grado di fare un discorso di ampio respiro per esempio sulla politica estera inglese durante il XIX secolo, sulle relazioni tra Italia e Germania tra le due guerre, sulle fasi della Shoah, sul nazionalismo ecc.

L’uso politico dei misteri
Con il caso Moro avviene la stessa cosa. La produzione saggistica è piena di autori/autrici improvvisati. Hanno letto qualcosa, intuito una pista, trovato qualche riferimento (tralasciando gli altri mille) e si sono messi a scrivere che le cose non sono andate come sembra perché c’era questo e quello e poi la Cia o l’andrangheta, il Kgb o la P2 e dio solo sa ancora chi altri.
Tutte le volte che qualcuno ha preso sul serio queste note e ha cercato riscontri documentali, ha finito per dimostrare la fumosità delle stesse. Che, peraltro, ritornano anche a distanza di anni per cui, dato che i lettori si sono dimenticati (giustamente) che un decennio o un ventennio prima si era già discusso della cosa, i ricercatori sono costretti a ricominciare da capo in un gioco dell’oca infinito dove si ritrovano sempre al punto di partenza. La storia non compie alcun passo in avanti e prevale sempre la cronaca, che seziona una giornata chiave dei 55 giorni in ore, minuti e secondi, ricerca quale funzionario di pubblica sicurezza sia arrivato prima e quale dopo, chi c’era e se non c’era come faceva a sapere ecc. ecc. La storia è colpita al cuore dalla cronaca e gli studiosi sono sommersi e emarginati dalle congetture e dall’uso politico dei misteri.

I tempi storici e quelli della cronaca
Inevase restano le grandi domande del caso Moro, che sono, in ordine sparso, il ruolo dello Stato italiano e la sua preparazione o impreparazione, il ruolo dei partiti, la strategia delle Br e la congruità del rapimento di Moro con la storia passata dell’organizzazione, la concomitanza del processo di Torino, le reazioni internazionali, il ruolo del Vaticano, le reazioni del movimento, quelle del mondo operaio, le opzioni di sviluppo della vicenda, gli spazi per una trattativa, le conseguenze politiche del rapimento (vedi voto di fiducia al IV governo Andreotti che fino alla sera prima il Partito comunista non voleva in quella formazione) e quelle dell’uccisione dell’ostaggio. Ci sarebbero poi i processi, la storia delle commissioni di inchiesta, dell’associazione delle vittime del terrorismo, la legge sui pentiti, il carcere speciale, le torture e poco altro. Una vicenda complessa, ma non un rebus, che ha un inizio, uno sviluppo e una fine.
Storicamente quei 55 giorni hanno smesso di avere conseguenze politiche dopo le elezioni del 1979, quando il Pci uscì sconfitto dalle urne dopo essere stato un anno e otto giorni nella maggioranza di governo. Si aprì l’ultima stagione della prima repubblica che durò dieci anni, con i governi a guida laica per la prima volta dal 1948 e il preambolo di Carlo Donat-Cattin.
Nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, cambiò nuovamente tutto e a livello storico la vicenda Moro non ebbe più nulla da dire. Mani pulite, poi, sconvolse ulteriormente il quadro e Berlusconi mise una pietra tombale sul passato. Il caso Moro continuò a contare per i singoli protagonisti e le loro coscienze, ma su questo versante è giusto non entrare.
A distanza di 46 anni il continuo riemergere di misteri riporta una vicenda storicamente conclusa da decenni sulle prime pagine della cronaca, impedendo il consolidarsi di una discussione storiografica sulla sua importanza. Il che, alla lunga, rischia di tramutare in farsa una delle maggiore tragedie della nostra Storia.


Sequestro Moro, le carte e le testimonianze che smentiscono le dietrologie su via Caetani /terza puntata

A partire dal 2010 alcune inchieste giornalistiche e libri pubblicati negli anni successivi, ripresi recentemente anche da una trasmissione televisiva della Rai, hanno diffuso una ricostruzione alternativa sulle ultime ore della vita di Moro, sulle circostanze della sua morte e del ritrovamento del suo corpo in via Caetani. L’analisi delle indagini condotte all’epoca, i documenti e le testimonianze dimostrano l’infondatezza di queste ricostruzioni dietrologiche

Paolo Morando e Paolo Persichetti, Domani 9 marzo 2024

Questa immagine fotografa la situazione di attesa: lo sportello posteriore destro della Ranault 4 è stato aperto, all’interno è stata verificata la presenza del corpo di Moro. Funzionari di polizia in borghese sono in attesa delle autorità. Davanti alla Renault la Fiat 500 del custode di palazzo Antici-Mattei, più avanti di traverso la Giulia bianca Alfa Romeo della Digos intervenuta per prima sul posto

Che cosa accadde davvero il 9 maggio del 1978 in via Caetani? Le dichiarazioni dell’ex vice segretario del Partito socialista Claudio Signorile a Report del 7 gennaio scorso, in un servizio su nuove presunte verità sulle Brigate rosse e il sequestro di Aldo Moro, hanno riacceso l’attenzione sulle modalità del ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana. Da diversi anni Signorile sostiene che Cossiga (con lui presente) venne informato quella mattina della morte di Moro in largo anticipo rispetto alla telefonata delle Brigate rosse. E lascia intendere intendere che a ucciderlo non furono i brigatisti, per il rifiuto di trattare da parte del governo e dei partiti schierati per la «fermezza», bensì forze straniere che condizionarono l’esito finale del sequestro: una volontà superiore a cui i brigatisti, semplici figuranti di un gioco più grande di loro, dovettero adattarsi. Forse addirittura cedendo l’ostaggio.

I ricordi tardivi
Storici, giudici e poliziotti, abituati a valutare le testimonianze e lavorare con la memoria, sanno bene che i ricordi tardivi dei testimoni rappresentano uno degli aspetti più problematici nella ricostruzione dei fatti, perché troppo esposti al rischio di inquinamento da informazioni e narrazioni circolate nel frattempo. Nelle ore successive al ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani all’interno della Renault 4 color amaranto, digos e carabinieri condussero però serrate indagini sui testimoni passati fin dalle del prime ore del mattino in quella via o che lavoravano nei palazzi adiacenti. Queste testimonianze offrono un quadro esauriente per ricostruire quel che avvenne la mattina del 9 maggio 1978.
La signora Carla Antonini affermò di aver visto alle 8,10, mentre a piedi si recava al suo posto di lavoro, la Renault 4 parcheggiata quasi davanti al portone di palazzo Antici-Mattei dove era impiegata nella discoteca di Stato. La testimonianza venne rafforzata da successive dichiarazioni dell’attrice Piera Degli Esposti, sentita dopo il 2013 nell’indagine aperta per verificare la veridicità delle affermazioni di uno degli artificieri che bonificarono la Renault 4 quel giorno, Vitantonio Raso, secondo cui il cadavere di Moro fu trovato molto prima della telefonata delle Br e Cossiga si sarebbe recato sul posto una prima volta intorno alle 11 del mattino e una seconda dopo la diffusione ufficiale della notizia.
Degli Esposti smentì questa possibilità poiché quella mattina aveva atteso inutilmente, proprio nelle ore indicate da Raso, appoggiata inconsapevolmente sulla R4, il direttore del Dramma antico, i cui uffici si trovavano al terzo piano di palazzo Antici-Mattei. Anche altri testi sentiti hanno confermato questa ricostruzione: Annamaria Venturini della Biblioteca di storia contemporanea, Francesca Loverci e Giuseppe D’Ascenzo, entrambi dipendenti del Centro studi americani situato nello steso palazzo, e Francesco Donato che vi risiedeva come custode demaniale. Tutti e tre percorsero più volte via Caetani quella mattina senza mai scorgere presenza della polizia o assembramenti con personalità politiche.

L’arrivo della polizia dopo la telefonata delle Br
È D’Ascenzo a situare il momento in cui arriva sul posto la prima auto della polizia: era uscito dal lavoro alle 10,15 per rientrarvi alle 11 e uscire nuovamente un quarto d’ora dopo per rientrare alle 12,15 quando si accorgeva di una Alfa Giulia bianca in doppia fila accanto alla Renault 4, con a bordo persone in abiti civili che gli chiesero se ne conoscesse il proprietario. Era la pattuglia della Digos guidata dal commissario capo Federico Vito, che in una relazione di servizio scrive di essere stato avvisato dal brigadiere Mario Muscarà, addetto al servizio intercettazioni telefoniche, che era sopraggiunta una telefonata al professor Tritto in cui si annunciava che «il corpo di Moro si trovava in una Renault targata N…. parcheggiata in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure». Il brogliaccio redatto da Muscarà riferisce l’arrivo della telefonata alle 12,10 e la sua conclusione alle 12,13, oltre al tentativo fallito di individuare la cabina da dove la chiamata era partita.
Il commissario Vito si recava immediatamente sul posto con il brigadiere Domenico D’Onofrio, l’appuntato Angelo Coppola e la guardia Nicola Marucci. «Poiché nel bagagliaio si notava una coperta che ricopriva qualcosa di voluminoso – scrive – ho fatto aprire forzatamente l’auto da un Sergente artificiere ed ho constatato che, sotto la suddetta coperta, si trovava il cadavere dell’On.le Aldo Moro». Altre testimonianze, e soprattutto le foto e le immagini esclusive riprese dalla troupe di Gbr, emittente romana, con il giornalista Franco Alfano che riuscì ad entrare nel palazzo Antici-Mattei e riprendere dall’alto quello che avvenne, mostrano che i tempi di apertura della R4 furono molto più lunghi e laboriosi.

Cucchiarelli e la versione dell’artificiere
In una intervista con Paolo Cucchiarelli e Manlio Castronovo, dopo l’uscita nel 2013 del suo libro La bomba umana, l’artificiere Raso conferma indirettamente la sequenza dei fatti descritta dal commissario Vito. Sostiene, infatti, di essere stato prelevato dalla «volante 23» per essere portato in via Caetani. Non poteva quindi essere sul posto alle 11, se la digos era arrivata solo alle 12,15 e Vito aveva chiesto il suo intervento solo successivamente (accusato del reato di calunnia per queste affermazioni, Raso ha patteggiato la condanna in tribunale).
Non solo: come dimostrano le immagini (e come riferisce il suo superiore Giovanni Chirchetta), Raso non tocca la Renault ma attende rinforzi. Mentre Chirchetta e il sergente Casertano giunsero sul posto dopo Raso. Nel frattempo, sono ormai le 13,35 circa, il custode di palazzo Antici-Mattei avverte gli impiegati delle voci sulla presenza di una bomba nella Renault, così tutti si precipitano all’uscita per spostare le auto.
È ancora il teste D’Ascenzo a riferire con precisione quel che accade: sceso all’ingresso del palazzo nota «che un uomo in borghese, probabilmente un agente di polizia, ha aperto la macchina e dopo aver guardato all’interno è venuto verso di noi dicendo: “È Moro”».

Un funzionario di polizia apre lo sportello della Renault
Chi era quel poliziotto? Tutte le immagini di quel giorno mostrano che lo sportello posteriore destro della R4 fu aperto molto prima che fosse forzato dagli artificieri con le cesoie il portellone posteriore. Un rapporto stilato dal commissario Vito consente di fissare con maggiore esattezza l’orario della prima apertura: si tratta del sequestro avvenuto alle ore 13,20 del borsello di pelle nera presente al suo interno e contenente effetti personali di Moro.
In una audizione del 2 maggio 2017, davanti alla commissione Moro 2, sarà Elio Cioppa a sostenere di avere aperto lo sportello e aver verificato che nel bagagliaio posteriore, sotto la coperta, c’era il corpo di Moro. Cioppa disse di esser arrivato in via Caetani dopo il commissario Vito con una cinquantina di uomini per predisporre il controllo dell’ordine pubblico nella zona. E le foto scattate in via Caetani prima dell’apertura del portellone posteriore e dell’arrivo delle autorità mostrano accanto alla R4 diverse persone in giacca e cravatta, tra cui si riconosce il tristemente famoso Nicola Ciocia, alias dottor De Tormentis, funzionario dell’Ucigos esperto di waterboarding per sua stessa ammissione.

Scatta il piano Mike
Le stesse immagini mostrano che all’arrivo di Cossiga, si può presumere dopo le 13,30, il portellone posteriore non era stato ancora forzato e che il ministro dell’Interno, insieme al capo della Digos Domenico Spinella e al capo della polizia Ferdinando Masone, si sporge sul vetro del lunotto per vedere il corpo di Moro. L’apertura avverrà solo in seguito, quando lo stesso Cossiga, stando agli artificieri, chiederà la bonifica del mezzo. Alle 13,45, come prevedeva il piano Mike, predisposto in precedenza dal ministero dell’Interno in caso di morte dell’ostaggio, venne avvertito il procuratore generale Pietro Pascalino, alle 13,56 il medico legale Silvio Merli e alle 14,02 il perito balistico Antonio Ugolini.

La Renault 4 fu sempre nella mani dei brigatisti
Rubata da Bruno Seghetti il primo marzo del 1978 nella stessa zona dove vennero prese gran parte delle vetture impiegate in via Fani, venne affidata alla brigata universitaria che si occupò di cambiarne la targa, contraffare i documenti, lavarla (il proprietario lavorava nei cantieri edili e la Renault era molto sporca) e spostarla periodicamente. Utilizzato per l’azione contro la caserma Talamo dei carabinieri a Roma, il 19 aprile del 1978, fu richiesta da Seghetti pochi giorni prima del 9 maggio, quando le Brigate rosse avevano deciso di concludere il sequestro. La decisione di giustiziare l’ostaggio e le modalità della sua esecuzione vennero prese l’8 maggio in una drammatica riunione della direzione della colonna romana tenutasi nell’appartamento di via Chiabrera 74, dopo le mancate dichiarazioni di apertura promesse da Fanfani attraverso il suo portavoce Bartolomei.

Il frontalino della Renault venne notato dalla signora Graziana Ciccotti, condomina della palazzina di via Montalcini 8, all’alba della mattina del 9 maggio quando scese nel garage dell’abitazione per andare al lavoro e incontrò sul posto Anna Laura Braghetti, proprietaria dell’appartamento nel quale Moro fu tenuto prigioniero durante i 55 giorni del sequestro.
 Dopo l’uccisione dello statista all’interno del box dove era parcheggiata la Renault, il mezzo fu portato da Mario Moretti e Germano Maccari in via Caetani. All’altezza di piazza Monte Savello, a ridosso del ghetto ebraico, furono “scortati” da Bruno Seghetti e Valerio Morucci, che all’interno di una Simca fecero da staffetta armata nella parte più delicata del tragitto fino a via Caetani, dove la sera prima lo stesso Seghetti aveva parcheggiato la sua Renault 6 verde per preservare il posto dove lasciare la Renault 4. Poco dopo il mezzo fu visto dalle testi Antonini e Degli Esposti. Negli ultimi giorni del sequestro i brigatisti non persero mai il controllo dell’ostaggio.

Sequestro Moro, nuovi testimoni per vecchie bugie – prima puntata

Foto Istituto Luce

C’è una figura che da diversi anni a questa parte riaccende l’attenzione pubblica sui cosiddetti «misteri irrisolti» o sulle presunte «nuove verità» che periodicamente riemergono sul sequestro e l’uccisione del leader della Democrazia cristiana Aldo Moro, avvenuto nel lontano 1978. Si tratta di un particolare tipo di fonte che agita da tempo il dibattito storiografico: il testimone. Non c’è qui lo spazio per introdurre la necessaria distinzione tra colui che è stato attore del fatto e il semplice spettatore, il più delle volte di un singolo momento, di una semplice frazione di quella vicenda. Ci interessa ora solo rilevare l’inevitabile carica suggestiva che la parola del testimone contiene, la forza emotiva che il suo racconto trasferisce sui fatti accaduti, poiché il testimone si presume sia colui che ha vissuto il fatto e raccontandolo lo fa rivivere. Gli storici, ma anche i poliziotti come i giudici, sanno bene quanto si debba trattare questo tipo di fonte con estrema cautela, con gli strumenti più sperimentati del mestiere, tanto più se il nuovo testimone appare, come in questo caso, a decenni di distanza dai fatti o se autori di vecchie testimonianze modificano o arricchiscono di improvvisi – e soprattutto sollecitati – ricordi le loro lontane dichiarazioni. Chi lavora con la memoria sa bene che la sincerità del ricordo non è garanzia di veridicità.

Nuovi testimoni e vecchie bugie
E’ questa una delle caratteristiche più recenti del «caso Moro». Durante i lavori della commissione parlamentare presieduta dal Giuseppe Fioroni si sono cercati in maniera spasmodica nuovi testimoni, in alcuni casi semplici replicanti di racconti fatti da persone nel frattempo scomparse. Un caso emblematico è rappresentato dalla vicenda delle palazzine di via dei Massimi 91, ritenute secondo alcune teorie complottiste un luogo dove fecero tappa i brigatisti con l’ostaggio (addirittura prima possibile prima prigione di Moro), avvalendosi di complicità di matrice atlantica che in quel condominio avrebbero trovato una loro postazione. In questo caso nuovi testimoni, i figli del portiere dell’immobile, Benedetto e Antonino Macerola, hanno riferito confidenze ricevute dal padre defunto che a sua volta le aveva riprese da un’altra persona, il generale del Genio Renato D’Ascia, condomino in una delle palazzine, anch’essa non più di questo mondo.
 Voci, tecnicamente dei de relato di secondo grado non verificabili, in quanto le fonti originarie sono scomparse, sufficienti secondo le relazioni della commissione Moro 2 e l’ex magistrato Guido Salvini, estensore di una relazione sul sequestro Moro per conto della commissione antimafia, sezione VII, nella scorsa legislatura, per sostenere che Moro non sarebbe stato condotto in via Montalcini e il commando brigatista non avrebbe raccontato la verità sui suoi reali movimenti dopo l’assalto di via Fani.

Altri neotestimoni, come l’attore Francesco Pannofino e i giornalisti Rai Diego Cimarra e Alessandro Bianchi, hanno provato a modificare la scena di via Fani, dove avvenne il rapimento del presidente della Dc e l’uccisione dei membri della sua scorta, sostenendo che il bar Olivetti, situato all’angolo della scena dell’agguato e dalla cui terrazza esterna partirono all’assalto i membri del commando brigatista, fosse aperto quella mattina. Per Pannofino era in attività ma chiuso quel giorno per riposo settimanale. Cimarra e Bianchi si sono abbandonati invece in dettagliatissime descrizioni dei baristi e clienti presenti all’interno del locale, tra cui uomini in divisa con l’immancabile accento tedesco nonostante l’esercizio commerciale fosse abbandonato da tempo perché fallito, avesse le serrande tirate giù, i dipendenti licenziati, i contratti della luce chiusi e i libri contabili depositati in tribunale di commercio, come hanno sempre dimostrato i rilievi documentali nonché le innumerevoli immagini riprese quella mattina.

Sostenere con tanta ostinazione che quel bar fosse aperto serviva a dimostrare che i brigatisti avevano per l’ennesima volta mentito, coperti da un patto di omertà con quelle autorità politiche e istituzionali anch’esse coinvolte nella eliminazione dello statista democristiano.

Altri ancora, come la signora Cristina Damiani e Luca Moschini, hanno arricchito le loro precedenti dichiarazioni aumentando il numero dei partecipanti all’agguato, aggiungendo nuovi sparatori e percorsi di fuga a piedi (cf. la relazione scritta dall’ex magistrato Guido Salvini per conto della commissione antimafia), che non trovano conferma nelle deposizioni dei numerosi altri testimoni presenti sulla scena.
«La persona informata sui fatti – ha scritto recentemente il giurista Glauco Giostra – non è una semplice res loquens». La rievocazione di un ricordo è inevitabilmente influenzato dal contesto in cui si produce. La memoria non è una sorta di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato del passato e che il testimone deve soltanto ritrovare. «Il ricordo è materia viva, deteriorabile e plasmabile [..] Un falso ricordo – conclude Giostra – viene sovente indotto da certe ricostruzioni mediatiche».