Le consegne straordinarie degli esuli della lotta armata

Estradizioni, il diritto virtuale italiano

Valentina Perniciaro
L’Altro 16 settembre 2009

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Le uniche volte che il nostro paese è riuscito a prendere alcuni militanti della lotta armata riparati all’estero è stato possibile solo grazie alla frode, ad accordi sottobanco, a manovre che hanno aggirato leggi e trattati internazionali. Nel 1987-88 tre militanti accusati di partecipazione a banda armata arrivarono dopo una poco chiara triangolazione con Spagna e Francia, dove in quel momento Mitterrand affrontava la sua prima coabitazione e ministro dell’Interno, coautore dell’intera operazione insieme a quello italiano, era Charles Pasqua. Personaggio noto per gli intrighi e i metodi spicci affidati ad operazioni coperte dei servizi. Allora la Francia espulse in Spagna i tre italiani, richiesti dalla nostra magistratura per una processo in corso nell’aula bunker di Rebibbia. Nel Frattempo la Spagna aveva negoziato lo scambio dei tre con quello di un militante basco accusato di appartenere all’Eta e da mesi detenuto Rebibbia. In questo modo non solo venne aggirata la dottrina Mitterrand ma lo stesso trattato che regolava la materia delle estradizioni tra paesi europei. Ai tre, per fortuna, andò bene perché nel corso dei processi le loro posizioni si alleggerirono. Alla fine scontarono “solo” alcuni anni di detenzione preventiva. Non è stato così per la prima “estradizione” diretta dalla Francia, quella di Paolo Persichetti nell’agosto 2002. Un polverone mediatico accompagnò l’episodio, volgarmente festeggiato con un brindisi a villa Certosa da Berlusconi e i suoi sodali durante una cena in cui era presente anche mamma Rosa. All’annuncio, dato via telefono dall’allora capo della polizia De Gennaro al ministro degli Interni Beppe Pisanu presente alla festa, si levò un coro di applausi e qualcuno invitò a levare i bicchieri in aria per brindare alla caccia riuscita. Non si trattava di un’estradizione realizzata secondo i crismi dei trattati europei ma di una consegna speciale. Erano gli anni in cui a livello internazionale era entrata in voga la prassi delle extraordinary rendition e da noi Cia e Sismi rapivano Abu Omar, l’Iman di via Quaranta a Milano mentre funzionava a pieno regime l’agenzia di disinformazione di Pio Pompa. Il vecchio decreto d’estradizione che pesava sulla testa di Persichetti, firmato nel 1994 dal primo ministro francese Balladur nel corso della seconda coabitazione (destra al governo e il socialista Mitterrand all’Eliseo), non era più valido perché due delle tre condanne inflitte erano prescritte. Per riaverlo l’Italia imbastì un’enorme montatura giudiziaria esportando a Parigi la pista investigativa che avrebbe dovuto condurre a scoprire gli autori dell’attentato mortale contro Marco Biagi, avvenuto pochi mesi prima. Gli investigatori bolognesi crearono di sana pianta la «pista francese», una pesante campagna stampa venne orientata contro gli esuli ritenuti gli animatori del «santuario parigino della lotta armata». Non c’era nulla di vero. Semmai a Parigi c’era la centrale politica dell’amnistia, una spina nel fianco da sempre mal sopportata dalle autorità e dalla magistratura italiana. Arrestato in serata, nel corso della notte Perichetti venne trasferito e consegnato all’alba sotto il tunnel del Monte Bianco. Viste le accuse indicate nelle rogatorie internazionali e l’inchiesta sull’attentato Biagi che l’aspettava in Italia, Persichetti avrebbe avuto il diritto di dimostrare la propria estraneità nel corso di una nuova e regolare procedura di estradizione, che mai ci fu.

Consegna straordinaria di Rita Algranati

Consegna straordinaria di Rita Algranati

Nel 2004 fu il turno di Rita Algranati e Maurizio Falessi, riparati da anni in Algeria. Vennero consegnati via il Cairo alla Digos dopo un accordo con i servizi algerini. Nessuna procedura d’estradizione, nessun giudice ha mai valutato se le pretese italiane fossero fondate, le accuse di natura politica o meno, i processi coretti. Nessun timbro o decreto ha mai sancito e reso legale quell’episodio. Fu un atto di pirateria internazionale, un’azione di contrabbando di vite umane. Presi e caricati a forza su un volo diretto in un paese terzo, ad attenderli trovarono le autorità italiane che preventivamente avevano concordato il tutto. Per giunta dopo un anno di carcere le condanne di Falessi risultarono prescritte. È arrivata poi la vicenda Battisti. Prima in Francia, dove il grosso della battaglia giudiziaria ruotò attorno alla contumacia. La tesi italiana era che questa non inficiava minimamente il diritto alla difesa, soprattutto perché a detta degli italiani Battisti aveva comunque nominato dalla latitanza un legale di fiducia. In realtà uno dei primi avvocati di Battisti venne arrestato per un certo periodo, mentre la nomina del secondo, si è poi accertato, era frutto di un falso. Tuttavia ancora non bastava. Bisognava convincere i giudici di una chambre d’accusation che seppur ben disposti erano comunque vincolati da leggi e giurisprudenza. Alla fine l’Italia strappò l’avviso favorevole sulla base di una promessa, il varo di una legge che avrebbe consentito alle persone condannate in contumacia di chiedere la riapertura del processo. Non si era mai visto che qualcuno venisse estradato in virtù di una legge che ancora non c’era. Era l’inizio del diritto virtuale all’italiana, la giustizia creativa che seguiva il solco delle evoluzioni della finanza. In effetti, una modifica derisoria dell’articolo 175 del codice di procedura venne poi introdotta, ma questa non ha mai previsto automatismi. È rimasto sempre un collegio di giudici a vagliarne la pertinenza. Così la Francia concesse l’estradizione sulla base dell’ennesimo raggiro: la promessa della riapertura di un processo che non sarebbe mai venuto, prova ne è il fatto che di fronte al Supremo tribunale brasiliano si discute d’ergastolo. Il Brasile ne chiede la commutazione, l’Italia risponde che non ce n’è bisogno perché si tratterebbe di una «pena virtuale». Ma il Brasile si farà fregare come la Francia?


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Caso Battisti: risposta a Fred Vargas

Il Corriere della sera di oggi 31 dicembre 2010 in un articolo di Giovani Bianconi, che prende avvio in prima pagina e poi gira in terza, cita alcuni passaggi di questo testo scritto nell’ottobre 2004, ripreso e sviluppato in uno dei capitoli (le pagine finali del capitolo otto) del libro Esilio e Castigo. Retroscena di una estradizione, La città del sole edizioni. Per completezza d’informazione lo riproponiamo
integralmente in apertura del blog

A scanso d’equivoci
Paolo Persichetti
Carcere di Mammagialla, Viterbo ottobre 2004

Alcune precisazioni sui presupposti politici che hanno contraddistinto le linee difensive condotte dai fuoriusciti italiani davanti alle Chambres d’accusations nel corso degli ultimi vent’anni

Con un lungo articolo apparso su Le Monde del 15 novembre 2004, l’archeologa e scrittrice di romanzi gialli di successo, Fred Vergas, ha esposto tutti i dubbi e le inconsistenze probatorie che hanno caratterizzato le sentenze di condanna da parte della giustizia d’emergenza italiana nei confronti di Cesare Battisti. Verdetti largamente fondati sulle tardive dichiarazioni del superpentito Pietro Mutti (realizzate quando Battisti era già evaso e in fuga in Messico). È a tutti apparso evidente che un così dettagliato ed efficace intervento sarebbe stato molto opportuno nella scorsa primavera, quando di fronte alla Chambre veniva giocata la partita decisiva. Allora nessuno impedì a Battisti di scendere nel merito dei fatti che gli venivano imputati per difendersi anche tecnicamente dalle accuse più gravi. La scelta di non comunicare con la stampa italiana e di farlo in modo alquanto inappropriato con quella francese, è unicamente farina del suo sacco. Al «diritto di… spiegarsi», come affermato nella sua ultima intervista rilasciata alle Iene su Italia uno, ha abbondantemente rinunciato lui stesso in un momento in cui era rincorso da tutti i media, contribuendo non poco alla propria demonizzazione. Una discutibile ma in ogni caso legittima e libera scelta. Proprio per questo sorprende l’attuale atteggiamento del suo entourage ed in modo particolare la parte finale dell’arringa di madame Vergas del 15 novembre, nella quale si lascia intendere che la difesa di merito non sarebbe stata intrapresa prima perché avrebbe potuto «nuocere alla protezione collettiva accordata senza distinzione degli atti commessi», alla «piccola comunità dei rifugiati italiani, protetta da oltre vent’anni dalla parola della Francia», oltre alle ulteriori dichiarazioni riportate su Le Monde del 23 novembre 2004. Piuttosto che adoperarsi per riparare la situazione, sembra che alcuni dei maggiori sostenitori di Battisti cerchino un capro espiatorio su cui scaricare l’errore di linea difensiva. Viene così attribuita alla comunità dei fuoriusciti una oggettiva funzione di condizionamento, un ruolo quasi censorio, che avrebbe vincolato la strategia difensiva al rispetto di una fantomatica «responsabilità collettiva», all’obbligo della difesa politica di principio previa scomunica. persichetti017a0dinu

Quanto è stato più volte riportato da autorevoli quotidiani, che hanno fatto anche menzione di supposti «malumori» di fronte al «nuovo corso» della difesa Battisti, notizie successivamente riprese dalla stessa stampa italiana, impone un necessario chiarimento pubblico riguardo alla politica difensiva adottata nel corso di oltre venti anni dai fuoriusciti di fronte alle chambres d’accusations, al fine di sgombrare il campo da malintesi, equivoci, inesattezze e caricature grottesche.

1. Già nella scorsa primavera, alcuni scrittori sia pur nelle loro generose intenzioni hanno dato vita ad una disastrosa campagna stampa infarcita d’errori, pressapochismi storico-politici e argomenti dilettanteschi sugli anni Settanta e sull’Italia recente, compromettendo notevolmente gli esiti della vicenda Battisti e più in generale fragilizzando lo stesso sostegno di cui hanno sempre usufruito i fuoriusciti italiani. Molti di questi interventi hanno infatti offerto pretesti insperati ai sostenitori delle ragioni dello Stato e della magistratura italiana che, per la prima volta da venti anni a questa parte, sono riusciti a guadagnare terreno benché avessero dalla loro solo argomenti mistificatori della realtà storica e delle vicissitudini giudiziarie di quegli anni. Un contesto sfuggito di mano alla tradizionale linea politica tenuta dai fuoriusciti e improntata ad una rigorosa critica della giustizia d’emergenza ed ai suoi metodi che hanno stravolto il processo penale, capovolto l’onere della prova, eretto la parola remunerata dei pentiti a fondamento delle accuse.

2. Per oltre venti anni, i fuoriusciti hanno sempre rivendicato il principio del rispetto della dottrina Mitterand «per tutti e per ciascuno», senza esclusioni o differenziazioni legate al tipo di reato o d’appartenenza organizzativa contestata. In questo modo si è inteso difendere l’unico criterio oggettivo eguale per tutti. Un minimo comun denominatore politico capace di tradurre su un terreno giuridico la comune appartenenza ad una medesima vicenda storica, al di là delle singole passate differenze di militanza, di cultura politica e d’ideologia. Una posizione che nulla ha a che vedere con formule confuse sul piano politico e assolutamente inconsistenti su quello giuridico, come la cosiddetta «responsabilità collettiva». Principio che per altro Battisti stesso è sempre stato il primo a non rispettare. Innumerevoli sono state, infatti, le occasioni nelle quali egli ha espresso giudizi denigratori – come ribadito anche nella sua ultima intervista dell’estate scorsa – nei confronti di formazioni politiche armate degli anni Settanta diverse dal suo vecchio gruppo d’appartenenza.

3. La nozione di «responsabilità collettiva» può avere pertinenza all’interno di una riflessione etico-politica che investa la ricostruzione storica generale dei movimenti sociali e dei gruppi rivoluzionari che hanno agito negli anni Settanta e Ottanta, oppure per definire la natura etica del legame associativo che ha operato all’interno di ogni singola formazione. Difficilmente una tale nozione può avere valore operativo sul terreno dello scontro giudiziario. La posta in gioco del processo penale è dimostrare la responsabilità personale. Responsabilità di cui la giustizia d’emergenza italiana è addirittura arrivata a fornire interpretazioni largamente estensive, attraverso forme ellittiche di complicità come il concorso morale o psicologico. Appare chiaro, allora, come di fronte ad un’esigenza d’efficacia sia vitale saper tradurre sul piano strettamente giuridico, lì dove se ne presenti la necessità o la possibilità, anche una difesa del corpo singolo, in carne ed ossa, della persona indicata con nome e cognome nella domanda d’estradizione, altrimenti la confusione tra campi che seppur legati restano distinti da codici propri, come la battaglia storico-politica e quella tecnico-giuridica, conduce ad inevitabili catastrofi difensive.

4. Nelle oltre ottanta procedure di estradizione affrontate di fronte alla Chambres, i fuoriusciti ed i loro legali non hanno mai rinunciato, quando se ne presentavano le condizioni, ad introdurre anche la difesa di merito, ritenuta un valore aggiunto nelle argomentazioni difensive. Numerosi – ed anche clamorosi in taluni casi – sono stati gli episodi in tal senso. A nessuno sfugge, infatti, l’enorme valenza politica generale e le numerose ricadute positive sul piano collettivo che possono suscitare la possibilità di smascherare i pentiti, svelare i metodi della giustizia d’emergenza, smontare i teoremi dell’accusa, fornendo l’immagine cruda e reale della giustizia italiana. Indurre a credere, come purtroppo è stato scritto recentemente, che tutto ciò sarebbe stato interpretato dalla comunità dei fuoriusciti come una maniera di «liquidare a poco prezzo il proprio passato» è un atteggiamento irresponsabile, che ha come unico effetto quello di minare l’unità di un gruppo sottoposto ad un durissimo attacco, creando artificiali malintesi e ingiustificate tensioni, oltre a designare i fuoriusciti di fronte all’opinione pubblica come una combriccola di cinici inquisitori.

5. Inoltre, va ricordato che la procedura d’estradizione non è un’anticipazione o un ulteriore grado del processo, legittimato a valutare il merito delle prove a carico o a discarico della persona richiesta dall’autorità statale straniera. Le Chambres d’accusations sono abilitate unicamente a pronunciarsi sulla ricevibilità giuridica delle richieste, analizzandole sotto il profilo della conformità con le norme internazionali e nazionali: convenzione sui diritti umani, convenzione sulle estradizioni, diritto penale e di procedura interno. Per questa ragione le difese hanno sempre dovuto agire dispiegando una strategia fatta di stadi successivi: in primis rispetto dei diritti umani; ostatività dell’estradizione di fronte ad infrazioni di natura politica; assenza di contrasto con i principi di specialità e doppia incriminazione; assenza di contumacia; prescrizione dell’infrazione ecc. In secondo luogo, e sempre se la corte lo consente, la difesa solleva in aula, altrimenti fuori dall’aula, le questioni di merito, come la non colpevolezza. In ultima istanza subentrava la tutela politica prevista dalla dottrina Mitterand.

6. È fuori discussione che la soluzione generale e definitiva al problema dei prigionieri e dei rifugiati possa venire solo dal varo di un’amnistia. Misura che lo Stato italiano ha sempre rifiutato poiché ha trovato nei fuoriusciti un serbatoio di comodi capri espiatori e responsabili di sostituzione. È altrettanto evidente che sollevare di fronte alle Chambres questo argomento ha ben poca efficacia e pertinenza.

7. Benché l’uso del termine «innocenza» risulti improprio per definire la tradizionale difesa tecnica volta a contestare gli addebiti specifici, è evidente che il ricorso ad una tale terminologia da parte dell’attuale difesa di Battisti è più che altro dovuto ad una concessione all’enfasi retorica ed alla semplificazione mediatica. Espedienti che sicuramente non riescono a compensare le innumerevoli falsità e mistificazioni diffuse nei mesi scorsi dai media fautori della sua estradizione. Ciò che invece desta seri dubbi è il tono scelto per giustificare pubblicamente la decisione di passare alla difesa di merito. Quasi che con questa scelta si volesse marcare una differenza individuale con le tradizionali condotte difensive dei fuoriusciti. Un atteggiamento, tanto più sorprendente quanto, in realtà, questa discontinuità non è con la comunità ma con le precedenti convinzioni di Battisti stesso. Stupisce dunque il bisogno di sottolineare una distanza col resto della comunità, come se la diversità fosse d’improvviso divenuta un valore aggiunto. Le cronache degli ultimi anni ci hanno lungamente documentato sulla sorte avuta da strategie difensive costruite sulla enucleazione esasperata del caso individuale rispetto a quello che è stato il sistema dell’emergenza, la catena di montaggio dell’eccezione che ha investito tutti i rifugiati e i prigionieri.

In conclusione, è auspicabile che tutti coloro che hanno una parte in questa vicenda mantengano un atteggiamento più attento e responsabile, improntato all’onesta intellettuale ed al rispetto di chi da decenni si batte contro le estradizioni. Occorre prestare maggiore cura alle affermazioni che vengono immesse nello spazio pubblico, con particolare riguardo all’interesse generale, al destino comune che lega tutti i fuoriusciti.

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Francesco Cossiga: “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”

“La soi-disant justice qui s’est exercée et qui s’exerce encore à votre encontre, même si elle est légalement justifiable, tient politiquement soit de la vengeance, soit de la peur”

Sénat de la République
Francesco Cossiga

à M. Paolo Persichetti
Casa Circondariale Marino del Tronto
Frazione Navicella, 218
63100 Ascoli Piceno

Rome, 27 septembre 2002

Cher monsieur Persichetti,

J’ai lu l’entretien que vous avez accordé à La Stampa (25 septembre 2002), et je vous remercie pour l’attention que vous et vos camarades réservez à mes analyses et à mes jugements.
J’ai combattu durement le terrorisme, mais j’ai toujours estimé que, s’il s’agit bien entendu d’un phénomène politique gravissime et blâmable, il n’en plonge pas moins ses racines dans la situation sociale et politique particulière du pays et non dans un “humus propre à la délinquance”.
Le terrorisme de gauche – qui était aussi le fruit de ceux qui, au sein des partis et de la Cgil, n’avaient pas le courage d’aller jusqu’au bout de leurs opinions ou de leurs actes, qui professaient la “violence” au Parlement et dans “la rue”, mais qui, ensuite, n’ont pas assumé, c’est le moins qu’on puisse dire, la responsabilité des conséquences pratiques de leurs enseignements – naît à mon avis d’une lecture “non historique” du marxisme-léninisme et d’une “mythification” de la Résistance et de la Libération qui, dans le contenu social et politique de la gauche, a échoué parce qu’elle a conduit à la reconstitution d’un “régime des libertés bourgeoises”.
J’estime que l’extrémisme de gauche, qui n’était pas un terrorisme au sens propre (en effet, [les militants] ne croyaient pas qu’on ne pouvait changer la situation politique que par des actes terroristes), mais plutôt une “subversion de gauche”, comme l’avait été à ses débuts le bolchevisme russe, c’est-à-dire un mouvement politique qui, se trouvant dans la situation de combattre un appareil d’État, usait de méthodes terroristes comme l’ont toujours fait tous les mouvements de libération, y compris la Résistance (l’assassinat d’un grand philosophe comme Giovanni Gentile – bien qu’il fût fasciste – alors qu’il marchait tranquillement dans la rue par des résistants des Gap [NdT : Groupes d’actions patriotique, d’orientation communiste] florentins peut être jugé favorablement ou négativement, mais, d’un point de vue théorique, il n’en reste pas moins un acte de terrorisme), en croyant amorcer – et c’est là qu’était l’erreur, ne serait-ce que sur un plan formel – un mouvement véritablement révolutionnaire.
Vous avez été battus par l’unité politique entre la Démocratie chrétienne et le Parti Communiste Italien, et parce que vous n’avez pas su entraîner derrière vous les masses dans une véritable révolution. Mais tout ceci fait partie d’une période historique de l’Italie qui est achevée. Et, dorénavant, la soi-disant “justice” qui s’est exercée et qui s’exerce encore à votre encontre, même si elle est légalement justifiable, tient politiquement soit de la “vengeance”, soit de la “peur”. Ce sont précisément ces mêmes sentiments qui animent nombre de communistes de cette période. Quelle légitimité républicaine croient-ils détenir, quand ils l’ont conquise non par un suffrage populaire ni par des luttes des masses, mais à la faveur de leur collaboration avec les forces de police et de sécurité de l’État ? C’est pour cela que moi, qui ai été pour beaucoup d’entre vous “KoSSiga” [NdT: les deux S sont écrits à la main en calligraphie runique pour évoquer le sigle nazi], voire carrément “le chef d’une bande d’assassins responsable d’avoir ordonné des homicides”, je suis aujourd’hui partisan de clore ce chapitre douloureux de l’histoire civile et politique du pays, ne serait-ce que pour éviter qu’une poignée d’irréductibles ne deviennent de funestes maîtres à penser pour de nouveaux terroristes, ceux qui ont tué d’Antona et Biagi, que, pour les forces de police et pour la Justice, il est commode de chercher parmi vous, parce que vous avez été vaincus politiquement et militairement avec l’aide de la gauche : il serait peut-être plus embarrassant d’aller les chercher ailleurs…
Malheureusement, toutes les tentatives, de ma part ou de la part de certains de mes collègues, de droite ou de gauche, de faire approuver une loi d’amnistie ou d’indulto [NdT: allègement de la peine d’emprisonnement] se sont heurtées surtout à l’opposition de la sphère politique de l’ex-Parti communiste.
J’ai lu qu’on vous a refusé l’usage d’un ordinateur. Honnêtement, j’ignorais qu’un tel appareil pouvait être une arme de guerre ! Au cas où vous en feriez de nouveau la demande et que celle-ci serait de nouveau rejetée, faites-le-moi savoir et je veillerai personnellement à vous le faire parvenir.
Ne perdez jamais votre dignité d’homme, même en prison, lieu qui n’est pas fait ni organisé pour “racheter” les hommes ! Et ne perdez jamais espoir.

Cordialement,
Francesco Cossiga

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Anni Settanta
Francesco Cossiga, “Eravate dei nemici politici, non dei criminali”
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Erri De Luca, lettre à un detenu politique flambant neuf

Francesco Cossiga: “Br, eravate dei nemici politici, non dei criminali”

«Ormai la cosiddetta giustizia che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o vendetta o paura»

 

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Senato della Repubblica
Francesco Cossiga

Roma, 27 settembre 2002

Gentile Signor Persichetti,

ho letto la Sua intervista a La Stampa (25 settembre 2002) e La ringrazio per l’attenzione che Lei e i Suoi compagni riservate alle mie valutazioni e ai miei giudizi.
Io ho combattuto duramente il terrorismo, ma ho sempre ritenuto che certo si trattasse di un gravissimo e deprecabile fenomeno politico, ma che affondava le sue radici nella particolare situazione sociale politica del Paese, e non invece un “humus delinquenziale”.
Il terrorismo di sinistra – frutto anche di chi nei partiti e nella Cgil lanciava la pietra e nascondeva la mano, e che insegnava la “violenza” in Parlamento e “in piazza”, ma non si é poi assunto, tutt’altro, la responsabilità delle conseguenze pratiche degli insegnamenti stessi -, nasce a mio avviso da una lettura “non storica” del marxismo-leninismo e da una “mitizzazione” della Resistenza e della Liberazione che, nel contenuto sociale e politico della sinistra, è fallita perché ha portato alla ricostituzione di un “regime delle libertà borghesi”.
Ritengo che l’estremismo di sinistra, che era non un terrorismo in senso proprio (non credeva infatti che solo con atti terroristici si potesse cambiare la situazione politica), ma era “sovversione di sinistra” come agli albori era il bolscevismo russo, e cioè un movimento politico che, trovandosi a combattere un apparato dello Stato, usava metodi terroristici come sempre hanno fatto tutti i movimenti di liberazione, Resistenza compresa (l’assassinio di un grande filosofo, anche se fascista, che camminava tranquillamente per strada, Giovanni Gentile, da parte di Gap fiorentini si può giudicare positivamente o negativamente, ma da un punto di vista teorico è stato pur sempre un atto di terrorismo) pensando di innescare – e qui era l’errore anche formale – un vero e proprio movimento rivoluzionario.
Voi siete stati battuti dall’unità politica tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, e per il fatto che non siete stati in grado di trascinare le masse in una vera e propria rivoluzione. Ma tutto questo fa parte di un periodo storico dell’Italia che è concluso; e ormai la cosiddetta “giustizia” che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o “vendetta” o “paura”, come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati, non con il voto popolare e con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le Forze di Polizia e di Sicurezza dello Stato. Per questo, io che sono stato per moltissimi di voi: “Cossiga con la K” e con le due [N.d.R. qui viene lasciato uno spazio riempito poi con due “S” runiche, a mano], e addirittura “un capo di assassini e un mandante di assassinii”, oggi sono perché si chiuda questo doloroso capitolo della storia civile e politica del Paese, anche ad evitare che pochi irriducibili diventino cattivi maestri di nuovi terroristi, quelli che hanno ucciso D’Antona e Biagi che, per le Forze di Polizia e per la giustizia, è facile ricercare tra di voi, perché voi siete stati sconfitti politicamente e militarmente con l’aiuto della sinistra: andare a cercarli altrove potrebbe essere forse più imbarazzante…
Purtroppo ogni tentativo mio e di altri colleghi della destra o della sinistra di far approvare una legge di amnistia e di indulto si è scontrato soprattutto con l’opposizione del mondo politico che fa capo all’ex-partito comunista.
Leggo che Le hanno rifiutato l’uso di un computer, che onestamente non sapevo costituisse un’arma da guerra! Qualora Lei lo richieda ancora e ancora glielo rifiutassero, me lo faccia sapere, che provvederò io a farglielo dare.
Non perda mai la Sua dignità di uomo neanche in carcere, luogo non fatto e non gestito certo per “redimere” gli uomini! E non perda mai la speranza.

Cordialmente,
Francesco Cossiga

Signor Paolo Persichetti
Casa Circondariale Marino del Tronto
Frazione Navicella, 218
63100 Ascoli Piceno

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Solo Cossiga ha detto la verità sugli anni 70

Francesco Cossiga, “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”
Anni Settanta

Brasile, rinviata la decisione sull’estradizione di Battisti

Il relatore del Tribunale supremo del Brasile si pronuncia per l’annulamento dell’asilo politico concesso a Battisti e ne chiede l’estradizione a patto che l’Italia commuti l’ergastolo ad una pena non superiore a 30 anni. Il Brasile infatti non riconosce la pena dell’ergastolo abolita dal proprio codice penale dopo l’uscita dalla dittatura fascista

Una richiesta che mette in seria difficoltà l’Italia. Il ministro degli esteri Frattini e quello della Difesa La Russa, che vantavano i meriti del nostro sistema giudiziario immacolato (salvo quando si occupa di Berlusconi), sono in difficoltà. L’Italia infatti non è disposta ad accogliere una richiesta del genere che inevitabilmente, in ragione del principio di eguaglianza del trattamento, aprirebbe un contenzioso sull’abolizione di questa pena, per altro già prevista nel dettato costituzionale

Insomma l’Italia è sempre più in un vicolo cieco

Paolo Persichetti
Liberazione 11 settembre 2009

Nonostante l’euforia con la quale molti quotidiani italiani, Repubblica in testa, hanno dato per certa l’imminente estradizione di Cesare Battisti, dopo l’udienza tenutasi mercoledì scorso davanti al tribunale supremo brasiliano (l’equivalente della nostra corte costituzionale), la complessa partita politico-giudiziaria che si sta giocando attorno alla vicenda è ancora tutta aperta. ALeqM5igDSk4Oj0Y4UD4b8FwQtlVQjYD1A
Dopo 11 ore di discussione la corte si è aggiornata rinviando ogni decisione a data da destinarsi. Il presidente Gilmar Mendes ha accolto la richiesta di sospensione avanzata del giudice Marco Aurélio Mello. Oltre al merito, infatti, sono state affrontate numerose opzioni procedurali. Nel corso del primo giro di votazioni la corte si è spaccata: il relatore Cezar Peluso e altri tre giudici hanno votato per l’annullamento dell’asilo politico riconosciuto dal ministro della giustizia Tarso Gendro. A loro avviso la scelta di concederlo sarebbe stata infondata perché i reati ascritti a Battisti (condannato a due ergastoli per la sua militanza nella lotta armata nei lontani anni 70) non sarebbero politici ma di «dritto comune». Tuttavia, poiché il Brasile dopo la dittatura militar-fascista ha abolito l’ergastolo dal suo codice penale, il relatore ha legato l’eventuale via libera per l’estradizione all’accoglimento da parte italiana di una clausola che prevede la commutazione dell’ergastolo ad una pena non superiore ai 30 anni.
Joaquim Barbosa e altri due giudici hanno invece difeso la concessione dello status di rifugiato, replicando che sarebbe stato assurdo smentire la politicità dei reati attribuiti a Battisti perché riconosciuta dalla stessa giustizia italiana attraverso l’applicazione di specifiche aggravanti di pena. Ai tre, che hanno anche censurato l’arroganza del governo italiano e le dichiarazioni razziste di alcuni ministri nei confronti del Brasile, trattato alla stregua di una repubblica delle banane, si è aggiunta la posizione più sfumata di Mello.
Quattro contro quattro insomma. Mancavano due membri del collegio, il giudice Menezes Direito deceduto da pochi giorni, ferocemente convinto dell’estradizione di Battisti. In attesa che riacquistasse le forze il presidente del tribunale aveva appositamente rinviato per mesi la discussione del caso, con la segreta speranza di potersi avvalere del suo voto. L’altro magistrato, Celso de Melo, si è pilatescamente tirato fuori dalla contesa. Ago della bilancia potrebbe essere il Presidente Mendes che mercoledì ha preferito non votare, sempre che non si decida di escludere dal voto il relatore, come proposto da alcuni. Mendes, uomo della destra e gran rivale di Lula, è uno dei capofila del partito dell’estradizione, molto sensibile alle pressioni del governo italiano. Terminata la pausa di riflessione, se non ci saranno nel frattempo cambiamenti, l’aritmetica farà il suo corso sfavorevole a Battisti. Se permanesse invece una situazione di parità, dovrebbe prevalere il principio del favor rei.
499e6d2fc191c_zoomQuello che stampa, mondo politico ed esponenti della vittimocrazia italiana omettono di raccontare, è che l’eventuale annullamento dell’asilo politico avrà come unico effetto immediato la riapertura della procedura d’estradizione, sospesa proprio in virtù della copertura fornita dallo status di rifugiato. Insomma non vedremo affatto Battisti manette ai polsi arrivare in Italia, per la delusione del ministro Frattini e del suo collega La Russa, che un po’ di diritto penale comparato e qualche convenzione internazionale potrebbero pure studiarli. In ogni caso la decisione finale – sempre che la magistratura non dichiari irricevibile la richiesta d’estradizione (va ricordato che il mancato riconoscimento dell’asilo politico non inficia minimamente la possibilità di rifiutare una domanda d’estradizione) – spetta in ultima istanza a Lula.
Non è chiaro cosa farà il presidente brasiliano, negli ultimi tempi sembra che per ragioni di politica interna e d’opportunità internazionale abbia ammorbidito la sua posizione e si sia fatto più ricettivo rispetto alle posizioni italiane, nonostante la loro fastidiosa invasività. La stessa scrittrice Fred Vargas, nume tutelare di Battisti, si è fatta portavoce nelle ultime ore di questi timori legati al mutare degli equilibri interni al governo brasiliano, alla necessità per Lula di avvalersi del sostegno elettorale di un ministro rivale di Gendro. Certo la scrittrice poteva pensarci prima. È lei una delle responsabili della disastrosa linea difensiva sempre portata avanti. Per l’Italia, comunque vada, la vicenda Battisti sarà una grosso problema. Con la sua ostinata insistenza si è cacciata in un vicolo cieco. Figuraccia internazionale se il Brasile dovesse alla fine negare l’estradizione, confermando il giudizio pessimo che già in sede internazionale viene espresso nei confronti del suo sistema penale e penitenziario. Sono ben sette i paesi al mondo che nel corso degli ultimi decenni hanno rifiutato l’estradizione di militanti politici degli anni 70. Tra questi, oltre alla Francia della dottrina Mitterrand, c’è stata anche la Gran Bretagna. In caso contrario, l’Italia dovrebbe mettere mano alla pena dell’ergastolo per Battisti adeguandosi a quei parametri internazionali di civiltà giuridica che da noi fanno difetto. A quel punto si porrebbe il problema degli oltre 1400 ergastolani d’Italia, e degli altri detenuti politici in carcere da oltre 30 anni. La disponibilità espressa a suo tempo dal ministro Mastella venne travolta dalla reazione della lobby vittimocratica. A differenza del Brasile, il nostro sistema politico non ha avuto la nitidezza di liberarsi delle eredità della dittatura fascista, di cui conserviamo ancora un codice penale addirittura irrigidito dalle leggi dell’emergenza.

Link

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Francesco Cossiga, “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”
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Il nemico inconfessabile, anni 70
Un kidnapping sarkozien

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Il Patto dei Bravi

Tratto da Esilio e Castigo. Retroscena di una estradizione, La citta del sole, 2005


Capitolo II

Il Patto dei Bravi

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È in quel torbido contesto di grave crisi politica e di forte pregiudizio istituzionale che prese forma l’idea di un coup de théatre risolutore. Un gioco di prestigio, un effetto illusionistico, un trompe l’oeil che potesse risollevare le sorti delle istituzioni (e di alcune poltrone), saldando dietro una ritrovata unità emergenziale maggioranza e opposizione, ridando nel contempo lustro e smalto agli investigatori e alla magistratura. Occorreva insomma, subito un colpevole. Un responsabile di sostituzione cui far indossare gli abiti del reo. Un vero capro espiatorio attorno al quale celebrare la catarsi della ritrovata unità nazionale e del trionfo delle istituzioni, il festino di una baldanzosa e tronfia maggioranza che potesse finalmente levare i calici al cielo. Come poi avvenne in una delle dimore estive del premier in Costa Smeralda tra una barzelletta del Cavaliere e una sonata d’Apicella. L’episodio viene così raccontato in una cronaca apparsa sulla Repubblica del 26 agosto 2002:

«La notizia arriva sabato sera a cena, nella villa del premier, e c’è tanta soddisfazione che parte anche un accenno di applauso al tavolo in cui accanto a Berlusconi siedono il ministro Pisanu, il ministro Stanca, con relative consorti, fra il portavoce Bonaiuti, la moglie e la mamma del Cavaliere. Il capo della polizia telefona al titolare del Viminale, e Pisanu dà in diretta l’annuncio: arrestato il brigatista Persichetti, latitante per l’omicidio Giorgieri. La cena a Villa Certosa, che poi si trasformerà in un vertice sulla sicurezza quando Pisanu e Berlusconi si appartano, diventa così un’occasione per festeggiare il successo delle forze di polizia. Soddisfazione che si allarga poi alla pattuglia di una decina di fedelissimi che, attorno alle 23, si presentano a Punta Lada per unirsi alla compagnia: il capo dei deputati europei di Forza Italia Tajani, il vicecapogruppo alla Camera Cicchitto, il responsabile giustizia Gargani, il sottosegretario Viceconte. Per chiudere in bellezza spunta anche la chitarra di Mariano Apicella, musica e canzoni fino a mezzanotte e mezza. Ministro degli Interni escluso: “sono stonato e non ho mai cantato nella mia vita, salvo quando il parroco del mio paese mi scelse per il coro ma solo perché ero arrivato primo al corso di catechismo”».

Il tornaconto sarebbe stato cospicuo per molti: il governo che, vantando uno strepitoso successo, poteva far dimenticare le parole “dal senno uscite” di un suo ministro; i vertici del Viminale che avrebbero potuto così scaricare la loro inettitudine professionale (la burocratica banalità del male?) su un colpevole prefabbricato; la magistratura che sarebbe finalmente tornata all’onore delle cronache potendo imbastire i suoi consueti e deliranti teoremi inquisitori (la «centrale francese»); l’opposizione che avrebbe liberato da una posizione compromettente uno dei suoi uomini più in vista e più ambiziosi.

Una vera soluzione bipartisan, o forse sarebbe più opportuno dire ecumenica, essendo la liturgia rispettata alla lettera grazie alla presenza dell’agnello sacrificale. Fu così che nella fresca alba alpina del 25 agosto 2002 Paolo Persichetti venne scambiato nel tunnel del Monte Bianco. Metafora di un accordo sotterraneo, siglato al di fuori d’ogni trasparenza, nelle stanze buie del potere e per questo concluso nel ventre della terra, lontano dalla luce del sole, distante dal chiarore del giorno, dopo una folle corsa nella notte. Bisognava fare presto, il più presto possibile, prima che la Francia potesse svegliarsi. Mandanti ed esecutori di quel ratto avevano troppe cose da farsi perdonare. Agire in modo furtivo, creare una situazione immodificabile, mettere tutti di fronte al fatto compiuto, erigere un muro che impedisse ogni marcia indietro, era il requisito indispensabile per condurre a termine quell’azione fraudolenta. Un patto tra bravi veniva presentato come un accordo di giustizia, l’anticipazione sinistra di quel che sarà la quotidiana routine dello spazio giudiziario europeo: un mare aperto alle incursioni corsare di pirati e filibustieri di Stato. Per giorni interi le redazioni dei media colmarono l’annoiato vuoto agostano di notizie, trasformando l’episodio in un evento mediatico sottoposto a un proluvio di titoli d’apertura e di commenti. Tromboni e trombette declamarono affrettati giudizi e incaute sentenze, confortati da veline e indiscrezioni diramate con un’accorta regìa. Nulla si è mai sostanziato delle mille chiacchiere, invenzioni, illazioni, brusii e rumori che il cicaleccio inquisitorio aveva sapientemente diffuso per giustificare le sue mosse.

Ma facciamo un passo indietro. Le carte giudiziarie fino ad ora rese note dicono che l’interesse degli inquirenti nei confronti di Persichetti si concentra nel luglio 2002. Il suo rientro in Italia è solo pretestuosamente legato all’esecuzione del decreto d’estradizione riattivato dopo otto anni. All’indomani della sua consegna alle autorità italiane, il ministro degli Interni francese, Nicolas Sarkozy, dichiara (Le Monde del 28 agosto) che «dopo l’assassinio di Marco Biagi il governo italiano ha chiesto ai paesi europei di essere particolarmente vigilanti nei confronti dei vecchi membri delle Brigate rosse». Le autorità francesi hanno acconsentito alla consegna di Persichetti credendo di agevolare le indagini sull’attentato Biagi che secondo la procura di Bologna convergevano sulla sua persona. Prova ne è la richiesta di intercettazione telefonica e di individuazione del 25 luglio, nella quale si afferma che esistono «sufficienti elementi indiziari per ipotizzare che Persichetti Paolo e Oreste Scalzone siano attualmente inseriti nel sodalizio eversivo che ha rivendicato l’omicidio del prof. Biagi»[1], e la successiva richiesta di rogatoria del 23 agosto, precedente di un giorno all’arresto. Altra circostanza determinante è la presenza al momento del fermo di una funzionaria della digos aggregata al “gruppo di lavoro su Marco Biagi”[2]. Paradossalmente, non essendo stata constata alcuna irregolarità al momento della cattura ed essendo solare la sua vita francese, l’unica possibilità che restava per proseguire l’indagine era il ripescaggio del vecchio decreto d’estradizione firmato da Edouard Balladur nel settembre 1994[3].

Un provvedimento fino allora mai eseguito anche per l’intervento diretto del presidente della Repubblica francese François Mitterand, che nel gennaio 1995 richiamò l’attenzione del guardasigilli Pierre Méhaignerie sull’inusuale durata della detenzione di Persichetti in una procedura d’estradizione (14 mesi passati nella maison d’arrêt della Santé)[4], ribadendo indirettamente quanto affermato in un discorso tenuto di fronte alla Lega dei Diritti dell’Uomo, il 20 aprile 1985: «Ho detto al governo italiano che[…] questi italiani erano al riparo da ogni sanzione per via d’estradizione»[5]. Ed è qui che emerge la prima clamorosa irregolarità di tutta la vicenda: la violazione dell’articolo 14 della convenzione europea sulle estradizioni, meglio conosciuto come “principio di specialità”. Secondo questa norma, «la persona estradata non può essere perseguita, giudicata, arrestata per un qualsiasi fatto anteriore alla sua consegna, diverso da quello che ha dato luogo all’estradizione»[6]. Per poter sottoporre Persichetti ad una indagine sull’attentato Biagi e dunque fargli subire quell’infinita serie di atti procedurali invasivi della sfera personale, come i ripetuti sequestri, i relativi accertamenti, gli interrogatori, l’iscrizione nel registro degli indagati con l’inevitabile corollario di inasprimenti penitenziari, l’autorità giudiziaria italiana avrebbe dovuto emettere contro di lui un nuovo mandato d’arresto internazionale, sostanziandolo con cospicui elementi di prova, e sulla base del quale poter chiedere un’estensione dell’estradizione. La Francia a questo punto, però, avrebbe dovuto valutarne il fondamento. Tutto ciò, ovviamente, non è mai avvenuto anche perché le norme internazionali sono diventate carta straccia; perché la magistratura italiana non ha mai avuto in mano il benché minimo indizio da presentare ad una giurisdizione straniera.

La Francia conosceva le reali intenzioni degli italiani ma sarebbe stato imbarazzante esigere una nuova richiesta di estradizione di fronte a un dossier vuoto. Una volta investita, la magistratura d’oltralpe avrebbe potuto esprimere parere negativo, mettendo in difficoltà il governo di destra appena installato. E così l’estradizione per un residuo pena vecchio di quindici anni è servita da copertura ad un tacito accordo tra Stati che ricorda molto da vicino l’omertà dei patti mafiosi.


[1] La richiesta d’intercettazione e analisi del traffico telefonico pregresso viene giustificata nei termini seguenti, in un rapporto della DIGOS di Bologna, Cat.A4/02/DIGOS/3^sez., del martedì 23 luglio 2002: «Nell’ambito delle indagini di cui all’oggetto, questo ufficio ha focalizzato l’attenzione investigativa sui brigatisti latitanti che hanno trovato rifugio in Francia. Gli approfondimenti investigativi esperiti hanno consentito di individuare, oltre ai noti DI MARZIO Maurizio e SCALZONE Oreste, per i quali è già stata richiesta l’autorizzazione all’intercettazione del traffico telefonico diretto dall’Italia alle rispettive utenze francesi, anche il brigatista PERSICHETTI Paolo, in oggetto generalizzato, attualmente latitante[…]. Il PERSICHETTI, appartenente alle BR-UdCC, condannato per l’omicidio GIORGIERI, è soggetto storicamente legato a SCALZONE grazie al quale è riuscito a rifugiarsi in Francia. Come già segnalato nelle precedenti note, dai servizi tecnici attualmente in atto è emerso che il sopramenzionato Oreste SCALZONE è risultato essere in contatto con l’utenza intestata a un noto pregiudicato bolognese [trattasi di un suo vecchio amico, ex militante di Potere operaio, finito in carcere negli anni 70. N.d.A.].

La circostanza segnalata sembra rivestire particolare interesse investigativo, considerato che sembra ragionevole ipotizzare che l’evento criminoso oggetto di indagine possa essere stato consumato solo con l’ausilio di persone gravitanti nell’ambiente eversivo bolognese, che verosimilmente devono aver fornito l’appoggio al gruppo di fuoco[…].

Nell’ambito di tale attività investigativa si è appreso che PERSICHETTI Paolo ha la disponibilità di un’utenza cellulare francese[…], tramite la quale probabilmente mantiene i contatti con le persone a lui collegate e residenti in Italia. Premesso quanto sopra:

– ritenuto che vi siano sufficienti elementi indiziari per ipotizzare che PERSICHETTI Paolo e SCALZONE Oreste siano attualmente inseriti nel sodalizio eversivo che ha rivendicato l’omicidio del prof. BIAGI;

– Atteso che con il traffico pregresso dell’utenza cellulare in uso al PERSICHETTI si potrà verificare se lo stesso abbia mai fatto ritorno in Italia e quali contatti abbia comunque avuto in occasione dell’omicidio del Prof. Marco BIAGI[…]».

L’autorità giudiziaria dispone il decreto d’intercettazione il successivo giovedì 25 luglio 2002. L’intercettazione prende avvio venerdì 26 luglio.

Il 24 luglio una seconda nota Digos precisa meglio i termini della questione: «Di seguito alla richiesta d’intercettazione di cui all’oggetto, si comunica che l’ufficiale di collegamento della DCPP (Direzione centrale della polizia di prevenzione) a Parigi ha segnalato che il governo francese ha mutato l’orientamento riguardo alla posizione del brigatista latitante PERSICHETTI Paolo, colpito da ordine d’esecuzione pena[…]. Provvedimento per cui era già stata concessa l’estradizione, tuttavia mai eseguita a causa di direttive del Ministero di Grazia e Giustizia che di fatto ne impedivano la materiale esecuzione. Alcuni giorni orsono, tuttavia, lo stesso ministero francese ha ufficialmente fatto conoscere che non si opporrà all’esecuzione del provvedimento restrittivo, e alla successiva consegna all’Autorità Giudiziaria italiana, del predetto PERSICHETTI, qualora questi venga localizzato e catturato in territorio francese».

In un rapporto del 9 gennaio 2003, a firma del commissario capo della Divisione nazionale antiterrorismo della polizia francese, Fréderic Veaux, indirizzato al giudice istruttore Jean-Louis Bruguiere, subdelegato per la rogatoria internazionale del 23 agosto e 26 settembre 2002, inviata dalla procura di Bologna, viene ulteriormente chiarita quest’ultima circostanza. Si spiega, infatti, che il decreto d’estradizione emesso dalle autorità francesi il 7 settembre 1994 è stato: «reso applicabile dalla decisione del ministro della Giustizia, guardasigilli, il 18 luglio 2002». Dunque, cinque giorni prima del decreto d’intercettazione disposto dalla procura di Bologna. Ora un tale provvedimento, di natura complessa, non può che aver richiesto un intenso lavorio di preparazione e contatti ad alto livello, tra le due autorità e i rispettivi uffici tecnici di collegamento.  Un’attività che deve aver preso del tempo, forse delle settimane. Insomma Persichetti era sulla linea di mira degli inquirenti da molto prima, a dimostrazione del fatto che il suo coinvolgimento nelle indagini non è stato la conseguenza di risultanze investigative ma di un manifesto pregiudizio accusatorio.

[2] Di fronte ai tre anni d’impasse che avevano caratterizzato l’inchiesta D’Antona, l’uccisione di Biagi spinge i vertici del ministero dell’Interno a mutare strategia. Le indagini non vengono più affidate alla digos competente per territorio, ma viene costituita una speciale squadra investigativa mista, denominata «gruppo di lavoro su Marco Biagi», composta da personale delle digos di Bologna e Milano, a cui vengono aggiunti uomini delle squadre mobili provenienti anche da altre città, sotto la direzione di un funzionario ritenuto un uomo di fiducia del capo della polizia.

[3] Impegno confermato, il 4 marzo 1998, dal primo ministro Lionel Jospin in questi termini: «Il mio governo non ha l’intenzione di modificare l’atteggiamento tenuto dalla Francia fino ad ora. Per questo non ha dato e non darà seguito ad alcuna domanda d’estradizione dei fuoriusciti italiani che sono venuti nel nostro paese[…] a seguito di atti di natura violenta d’ispirazione politica repressi nel loro paese».

[4] In una lettera del 17 gennaio 1995, inviata a l’abbé Pierre che gli aveva segnalato la vicenda, François Mitterand si esprimeva in questo modo: «Lei ha voluto attirare la mia attenzione sulla situazione del Signor Paolo Persichetti. Convengo, con lei, che la durata della sua incarcerazione raggiungerà molto presto un anno e mezzo, allorché essa non può essere assimilata ad una detenzione provvisoria, trattandosi di una procedura d’estradizione in corso d’esame. Ho dunque chiesto al Guardasigilli di seguire con particolare attenzione questa situazione, affinché si dia luogo ad una stretta applicazione delle regole nazionali e internazionali che vigono sulla materia». Nel sistema giudiziario francese le procure della Repubblica dipendono gerarchicamente dal ministero della giustizia. Per questo motivo l’avocat général, ovvero il pubblico ministero d’aula presente nel corso delle numerose udienze della chambre d’accusation che si occupò della procedura d’estradizione, assunse un atteggiamento rigidissimo, sulla base di specifiche indicazioni scritte, inviate dalla Chancellerie del ministero della Giustizia, che traducevano la nuova linea politica del governo Balladur: accettazione completa della richiesta d’estradizione italiana, incluso per la prima volta anche il reato associativo; opposizione sistematica alla rimessa in libertà, nonostante l’imputato soddisfacesse di gran lunga tutte le garanzie richieste, come un lavoro e un’abitazione. In un tale contesto l’intervento di Mitterand fu un elemento di compensazione e d’equilibrio nei confronti delle pressioni politiche sfavorevoli a Persichetti. Lo zelo e l’identificazione con la politica oltranzista dell’esecutivo conservatore era tale che l’avocat général reagì in modo furibondo all’annuncio della missiva del presidente della Repubblica

[5] Impegno confermato, il 4 marzo 1998, dal primo ministro Lionel Jospin in questi termini: «Il mio governo non ha l’intenzione di modificare l’atteggiamento tenuto dalla Francia fino ad ora. Per questo non ha dato e non darà seguito ad alcuna domanda d’estradizione dei fuoriusciti italiani che sono venuti nel nostro paese[…] a seguito di atti di natura violenta d’ispirazione politica repressi nel loro paese».

[6] La norma della convenzione non preclude solo la possibilità di pregiudicare la libertà personale, ma anche ogni altra eventuale intenzione di «perseguire e giudicare», in assenza di una esplicita e specifica estensione dell’estradizione alle nuove imputazioni. L’impossibilità di perseguire e giudicare implica il divieto di adempiere ad atti istruttori, siano essi preliminari o successivi, dunque anche la semplice iscrizione nel registro degli indagati, i relativi decreti di perquisizione e di sequestro, anche se realizzati attraverso l’ausilio di rogatorie internazionali, le ricognizioni, gli interrogatori sotto qualsiasi forma. La norma internazionale prevale su quella nazionale, e ciò a maggior ragione all’interno di quello “spazio giudiziario europeo” che ha come ambizione di giungere ad una omogeneizzazione delle norme e delle prassi giudiziarie. Esigenza che, a quanto pare, vale solo se contra reo. Nel codice di procedura penale italiano, infatti, l’interpretazione del principio di specialità, appare in netto contrasto con quanto prescrive il testo della convenzione europea sulle estradizioni, del 13 dicembre 1957. L’articolo 699 legittima la possibilità di condurre indagini, e dunque di poter realizzare una vasta gamma di atti coercitivi e invasivi sulla persona. Secondo la norma italiana, infatti, ad essere vietata è unicamente «la restrizione della libertà personale o l’assoggettamento ad altre misure restrittive».

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Vedi Paolo…
24 agosto 2002
Erri De Luca, la fiamma fredda del rancore
La polizia del pensiero
Storia della dottrina Mitterrand
Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu
La fine dell’asilo politico
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Il Nemico inconfessabile, sovversione e lotta armata nell’Italia degli anni 70
Il nemico inconfessabile, anni 70
Un kidnapping sarkozien
Bologna, l’indagine occulta su Persichetti e il caso Biagi
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Paolo Giovagnoli, lo smemorato di Bologna
Negato il permesso all’ex Br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto

Vedi Paolo…

Tratto da Esilio e Castigo, retroscena di una estradizione, La città del sole, 2005

I passati rivoluzionari faticano a diventare storia.
Adagiati nel limbo della rimozione periodicamente vedono
schiudersi le porte dell'inferno che risucchia brandelli di vita,
trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d'epoche finite che
rimangono ostaggio dell'uso politico della memoria.
Non un passato che torna ma un futuro che manca

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Era una calda sera d’estate quella del 24 agosto 2002 e l’Italia aveva urgente bisogno di recuperare uno di quei giovani maledetti degli anni ribelli per offrirlo in pasto all’opinione pubblica. Una grossolana impostura, escogitata con l’intento di fornire l’immagine truccata di un brillamte successo operativo dopo l’attentato mortale contro un collaboratore del governo. Marco Biagi era stato ucciso pochi mesi prima da un piccolo gruppo che aveva riesumato dal museo della storia una delle ultime sigle della lotta armata. Un Paese distratto e annoiato, persino futile, conquistato dall’avidità dell’oblio, impaurito dalla possibilità di sapere, era stato scosso dal frastuono di quegli spari improvvisi. Irritato dal brusco risveglio aveva rovistato furiosamente in un passato ormai sconosciuto. Cercava in spazi e tempi lontani i responsabili di quei colpi senza radici. Attribuiva al passato quella che era una surreale imitazione figlia del presente. Cercava nelle figure di ieri dei colpevoli per l’oggi.

Capitolo V

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Additare al pubblico una figura da crocifiggere, un capro espiatorio su cui riversare la brigatista_persichetti_260802colpa, è parso nel settembre 2002, la soluzione più comoda, l’espediente più facile. E maledetti allora quelli che non si fossero allineati e che da sempre rompevano le righe, come Erri De Luca che conosceva molto bene i fuoriusciti. In una «Lettera a un detenuto politico nuovo di zecca», pubblicata sul Manifesto del 5 settembre, scriveva: «Vedi Paolo, questi poteri hanno bisogno di te[…] di lotta armata si sa tutto, ma si finge di non sapere ancora fino in fondo, per mantenere il fascino in un’opera al nero che ancora sobbolle[…] Tu quarantenne sei quanto di meglio offre il mercato. Sei la selvaggina allevata nella semiprigionia dell’esilio francese[…] Di recente mi hanno chiesto con sincero stupore come mai avevo scritto la prefazione al libro di Scalzone e tuo, Il Nemico inconfessabile. Oggi le parole, i libri tornano ad avere il rispettabile peso del sospetto, e una prefazione può già fornire il brivido del reato associativo. Oggi mi sento associato ai residui penali degli anni Settanta e Ottanta molto più di prima e molto più di una prefazione».

Lo «stupore» a cui accennava De Luca virò presto all’odio. Un illividito Mario Pirani, dal giornale faro di ogni emergenza, sputò fiele. «Ex-BR e ‘cretini’ di ieri e di oggi», titolava un suo fondo apparso sulla Repubblica del 9 settembre. L’articolo era una filippica contro il ritorno dei «pessimi maestri dediti ad inquinare la capacità di giudizio di larghe schiere delle nuove generazioni». Esulcerato per un editoriale di Le Monde uscito in quei giorni e schierato in difesa della dottrina Mitterrand, nel quale si ricordava che «la classe politica italiana era ricorsa ad una serie di leggi eccezionali che limitavano gravemente le libertà costituzionali», Pirani rispondeva ai giornalisti d’Oltralpe citando il titolo di un articolo, «Le crétin Kanapa», scritto da Togliatti negli anni Cinquanta per sbarazzarsi dei continui attacchi che dall’Humanité gli lanciava un esponente del Pcf francese, adepto dell’ortodossia staliniana, tale Jean Kanapa per l’appunto. In verità, Togliatti non fece altro che scopiazzare la formula, divenuta famosa in Francia, con la quale tempo prima Jean-Paul Sartre aveva liquidato il suo ex-allievo trasformatosi in un pedante adepto dello zdanovismo: «Le seul cretin, c’est Kanapa!». Con tutta evidenza sbagliavano entrambi per difetto, perché di cretini ce ne sono stati almeno due. I lettori non avranno certo difficoltà a capire dove si annida tuttora il secondo.

La cosa non sfuggì alla polizia di prevenzione che inviò l’articolo di De Luca alla Digos romana. Quest’ultima lo segnalò addirittura al procuratore capo Italo Ormanni e al suo sostituto Salvatore Vitello. Ma il grottesco non aveva ancora raggiunto il culmine. La risposta che Persichetti invia a De Luca dalle pagine dello stesso quotidiano, il 13 settembre, suscita allarme al Viminale. Era la prima sortita pubblica dopo l’estradizione, per questo attorno alle sue parole c’era molta attenzione. Decisiva in proposito è la fotocopia di quella lettera presente negli atti dell’inchiesta preliminare. Vi si scorgono le sottolineature del funzionario addetto alla rassegna stampa. Nessuno dei passaggi dedicati alle «professioni e carriere dell’emergenza» sfugge al suo tratto di penna. Ma lasciamo la parola a Persichetti che dopo una premessa arriva al punto:

«Hai ragione Erri, hanno bisogno delle nostre apparenze. Hanno bisogno dei nostri corpi per calzarci addosso i panni dei responsabili di sostituzione che hanno ritagliato per noi. Siamo alle conseguenze del dopo 11 settembre[…], il nemico si è fatto impalpabile, agita ombre, scuote paure, per questo il ricorso a capri espiatori può avere una funzione rassicurante. Dopo Napoli e Genova, dopo Bolzaneto e la Diaz, i vertici della polizia sono stati travolti dal discredito. Le polemiche sulle scorte mancate hanno bruciato un ministro degli Interni e trasformato questori e dirigenti dell’antiterrorismo da inquirenti in indagati. Sotto schiaffo le professioni della specialità e le carriere dell’emergenza hanno dovuto reagire. Da questa bassa cucina è nata la mia estradizione.
Caro Erri, non provo dolore; ancora meno rancore. Osservo i loro gesti come guardassi dei minerali. In fondo hanno bisogno di noi come il vampiro ha bisogno della sua vittima, come il drogato del buco. Ma dalla loro parte c’è solo la forza triste della dipendenza priva d’ogni autonomia e potenza. Senza il collo della sua vittima il vampiro muore. C’è uno scarto che ci rende superiori. Noi non abbiamo bisogno di loro, dobbiamo solo scrollarceli di dosso. Ho letto su un giornale che il capo delle guardie pretoriane avrebbe telefonato per annunciare la mia cattura addirittura nel pieno d’una festa. Pare che abbiano immediatamente brindato e cantato. Sembrava una scena da basso impero, di quelle descritte nel Satyricon. Prima di congedarmi e tornare all’allegro brusio della mia cella affollata, vorrei dire ai potenti e potentati di turno[1]: stiamo tornando uno a uno[2] ma non è il caso di rallegrarvene troppo. Non scenderemo muti nel gorgo, siatene inquieti. La storia sta di nuovo accelerando.»

E qui accade qualcosa di molto particolare che mostra come i piccoli Fouché[3] del Viminale, che stavano spulciando quel testo con la lente d’ingrandimento, concepiscono il loro ruolo all’interno di quello che dovrebbe essere uno Stato di diritto. Stizziti dall’impietoso ritratto che usciva da quella prosa sferzante, vi ravvisano un imperdonabile peccato di superbia, un crimine di lesa maestà, un vero e proprio delitto linguistico. Per questo l’allora dirigente della digos romana, Franco Gabrielli, viene incaricato di segnalare alla procura il passaggio finale della lettera che, nessuno si avvede, è palesemente ispirato a una poesia di Cesare Pavese e non a un comunicato delle br. Parafrasi invertita di «scenderemo nel gorgo muti»[4], verso che il poeta aveva scritto in uno dei suoi momenti di disperazione.

In quel delirante frangente l’assenza di rassegnazione viene letta come una minaccia, un messaggio obliquo, un avvertimento mafioso, un invito alla vendetta lanciato a supposti complici, insomma un’ammissione indiretta della propria colpevolezza. Qualcosa di simile alla “prova diabolica” tanto cara al mondo superstizioso dell’inquisizione. Un classico sospetto proiettivo rivelatore non della natura dell’inquisito ma dell’animo torbido di colui che lo lancia, svelando in questo modo ciò che sarebbe stato capace di pensare e dunque di poter fare. Decisamente le frequentazioni letterarie possono rivelarsi pericolose. Il successivo 14 settembre, Persichetti viene impacchettato («preso per il collo» dicono i carcerati) e spedito in isolamento nel carcere di massima sicurezza di Ascoli Piceno, dove resterà per cinque mesi. Qui il 14 novembre riceve una strana lettera anonima, o meglio siglata in modo tale da consentire al misterioso mittente di essere identificato, «qualora decidessi di scriverle ancora». L’anonimo si presentava sotto le vesti di una «studentessa romana di medicina», informatissima sul suo passato giudiziario benché dichiarasse d’aver avuto solo «14 anni» all’epoca in cui egli incappava nel suo primo arresto (1987). L’autore o l’autrice del testo mostrava di avere buone conoscenze anche su vicende più recenti: «la dottrina Mitterand – affermava – era stata confermata da Jospin all’indomani degli accordi di Shenghen e quindi doveva continuare ad essere rispettata per tutti». Nelle quattro pagine stampate con inchiostro verde s’alternavano toni diversi che miravano a convincere il recluso, sprofondato da alcuni mesi nella solitudine dell’isolamento, a «chiedere la grazia e collaborare con la giustizia». Il testo anonimo interloquiva con una sua intervista rilasciata al quotidiano la Stampa del 25 settembre:

«Lei, in quell’intervista, criticava anche le leggi del pentitismo e della dissociazione. Però sedire qualcosa che non disse all’epoca del suo arresto può aiutarla ad uscire dal carcere quanto prima, perché non farlo? La libertà dovrebbe essere una priorità assoluta per un detenuto. Tradire qualche compagno, o, meglio ancora i mandanti di quell’omicidio (facendo così cosa gradita alla vedova Giorgieri), non sarebbe un vero tradimento ma un passo verso il reingresso nella società civile. Per lei gli anni da brigatista sono un periodo finito, nel senso che poi non si è più dedicato ad azioni terroristiche, ma questo non basta. Non basta cambiare rotta, bisogna chiudere i conti col passato, rivelandolo integralmente e soprattutto bisogna condannarlo, ammettere d’aver sbagliato. Mi rendo conto che cambiare strada sia una condanna implicita di quella che si percorreva precedentemente, ma queste cose si devono fare in modo esplicito per essere creduti fino in fondo. Non bastano le interviste a testimoniare di avere una nuova vita, di essere persone nuove, ci vogliono fatti concreti. Sempre in quell’intervista, lei auspicava un’amnistia per tutti voi ex-brigatisti. Io non so se questo è giusto, ma comunque lei sa perfettamente che il suo è un auspicio utopistico. Non ci sarà mai l’amnistia. L’Italia è un paese in cui i terroristi rossi finiscono in galera e ci rimangono e quelli neri o vengono processati dopo vent’anni oppure si godono la vita in Giappone[5]. Le questure, infatti, hanno sempre protetto quelli che seminano il terrore in nome di ideali non comunisti. La cosa è indicativa dello strapotere che le varie armi hanno ed hanno sempre avuto nel nostro Paese. In nome di tutto ciò, pertanto, io la invito, Persichetti, a sfruttare tutte le possibilità che la nostra legislazione le concede per uscire dal carcere al più presto.»

Strano paese l’Italia dove le studentesse di medicina portano lunghi baffi e parlano la lingua dei commissari di polizia. Eccentriche anche quelle domande tanto insistenti su un processo che, essendosi concluso con delle condanne, a rigor di logica avrebbe dovuto definire in modo soddisfacente la verità giudiziaria. Non era certo responsabilità degli imputati, se le motivazioni della sentenza d’appello, che aveva capovolto il giudizio ben più mite emesso dalla corte d’assise di primo grado, erano risultate talmente fragili e poco approfondite, come non mancarono di osservare gli stessi magistrati di Cassazione. Nove persone furono condannate per complicità nell’attentato Giorgieri. Tre di loro si trovavano già in carcere al momento dell’accaduto, detenute da circa due mesi. Altre due, Daniele Mennella e Claudio Nasti, collaboratori di giustizia, vennero lautamente ricompensate per le accuse infarcite di de relato, supposizioni personali, imprecisioni e falsi riconoscimenti, rivolte ai coimputati[6]. I pentiti, tra arresti domiciliari, accesso ai benefici e alle misure alternative, scontarono pochi mesi di carcere. Curioso appariva allora quell’invito a confessare retroscena e circostanze che, a norma di legge, avrebbero dovuto costituire il presupposto della condanna. «Se vuoi uscire devi confessare, fornendo in questo modo quelle prove in grado di legittimare la sentenza per cui sei stato condannato». Più o meno era questo il succo del ragionamento, o forse sarebbe meglio dire il patto infimo, che l’anonimo proponeva nella sua lettera. L’abominio totalitario invadeva quella cella sporca e spartana, una sentina della terra piena di graffiti lasciati da chi in quel luogo era stato sottoposto a lunghe quarantene per spurgare ataviche dipendenze con le droghe, oppure aveva scontato ruvide punizioni. Allungato sulla branda ripiegò i fogli anonimi e riprese in mano il libro che aveva ricevuto proprio in quei giorni. S’immerse di nuovo nella lettura di quelle pagine che descrivevano l‘angosciosa fuga di un uomo braccato dalla feroce soldatesca dei principi luterani che avevano represso nel sangue la rivolta dei contadini anabattisti di Münzer, alla quale anch’egli aveva partecipato. Allora s’accorse di una frase che prima aveva trascurato: «Cercano i reduci. Annientarli, spingerli a confessare ciò che non hanno neanche avuto il tempo di pensare».[7]


[1]D’improvviso il testo si riempie di sottolineature orizzontali e verticali.

[2] I giornali avevano pubblicato una lista di 12 estradandi dalla Francia pronti per la consegna.

[3] «De la merde dans un bas de soie», diceva di lui Napoleone che non per questo disdegnava d’impiegarlo per ogni vil bisogna.

[4] Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino, 1961.

[5] Il riferimento è a Delfo Zorzi, processato e assolto dall’accusa di aver deposto la bomba che esplose il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana, a Milano. Zorzi da decenni vive in Giappone, dove ha acquisito la nazionalità e avviato una fiorente attività economica.

[6] Come avvenne anche nei confronti dello stesso Persichetti: «L’elemento accusatorio potrebbe essere costituito dalle dichiarazioni di Mennella – scrivevano i giudici della corte d’assise nella loro sentenza – ma a ben vedere, le affermazioni del predetto “collaboratore” non sono costanti[…] Nell’interrogatorio del 31 maggio 1987 (due giorni dopo l’arresto), il Mennella non ha fatto riferimento al Persichetti. Nello stesso giorno, sottoposto ad ulteriore interrogatorio non ha riconosciuto il Persichetti in una foto mostratagli che effigiava, invece, proprio il Persichetti. Ha dichiarato, inoltre, di avere incontrato Locusta a Corso Vittorio insieme ad un altro giovane che non conosceva. Nell’interrogatorio del 2 giugno 1987 ha ribadito di avere incontrato Locusta a Corso Vittorio, non parlando di Persichetti come accompagnatore del Locusta. Ha poi rettificato per quanto riguarda la foto n° 4, dicendo anche di conoscere Persichetti perché partecipante all’inchiesta Giorgieri. Nell’interrogatorio del 5 giugno 1987 ha raccontato degli incontri con la Gioia dopo l’omicidio Giorgieri, non facendo riferimento al Persichetti. Al dibattimento ha dichiarato di aver conosciuto solo di vista il Persichetti nel marzo 1987 e di non averlo più visto. Quest’ultima affermazione è in contrasto con l’altra secondo la quale l’avrebbe incontrato a Corso Vittorio con Locusta. È probabile che per le contraddizioni sopra evidenziate, il Mennella non ricordi esattamente sulla posizione di Persichetti anche per aver detto che lo stesso Persichetti si faceva chiamare col nome di battaglia “Eugenio” e per averlo subito negato su precisa contestazione del Persichetti». (pp. 361-362 della sentenza della 3a corte d’assise di Roma, 14 dicembre 1989).

[7] Luther Blisset, Q, Einaudi 2000.


Per approfondire
Il Patto dei bravi
24 agosto 2002
Erri De Luca, la fiamma fredda del rancore
La polizia del pensiero
Storia della dottrina Mitterrand
Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu
La fine dell’asilo politico
Vendetta giudiziaria o soluzione politica?
Il caso italiano: lo stato di eccezione giudiziario
Giorgio Agamben, Europe des libertes ou Europe des polices?
Francesco Cossiga, “Eravate dei nemici politici, non dei criminali”
Francesco Cossiga, “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”
Tolleranza zero, il nuovo spazio giudiziario europeo
Il Nemico inconfessabile, sovversione e lotta armata nell’Italia degli anni 70
Il nemico inconfessabile, anni 70
Un kidnapping sarkozien
Bologna, l’indagine occulta su Persichetti e il caso Biagi
Paolo Giovagnoli, quando il pm faceva le autoriduzioni
Paolo Giovagnoli, lo smemorato di Bologna
Negato il permesso all’ex Br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto

Tranquilli! Vincenzo Guagliardo dopo 33 anni resta in carcere

L’ultimo ricatto congeniato dai tribunali di sorveglianza contro i progionieri politici

di Mario Dellacqua
L’Altro, 24 luglio 2009

Questa storia non mi da pace, non interessa quasi nessuno e non ci posso fare niente. Quando Vincenzo Guagliardo è sparito nella lotta armata, non me ne sono accorto. Ero distratto. Quando ne è uscito passando attraverso il carcere -ora sono una vita di 33 anni –  ero ancora più distratto e le sue foto sul giornale dietro le sbarre smuovevano al massimo la mia curiosità, ma finiva lì. Poi vennero i suoi libri. Li ho letti e ne ho parlato su queste ospitali colonne. Venne anche la dimessa lotta solitaria, sua e di sua moglie Nadia Ponti, per ottenere il diritto all’affettività in carcere, U2030250condotta con implacabile serenità, anche a costo di rinunciare ai benefici di una legislazione che premiava i detenuti a condizione che esprimessero atti di contrizione, esibizioni pubbliche di pentimento, richieste spettacolari di perdono. La giustizia italiana non concesse i benefici e neppure l´affettività, perché l´umanità del trattamento carcerario prescritta dalla Costituzione si accontenta di considerare i detenuti ancor meno di animali rinchiusi in uno zoo. Vincenzo e Nadia continuarono a rivendicare la loro dignità di persone senza pretese e rifiutarono persino di tentare la via della spettacolarizzazione massmediatica del loro caso. Scelsero la via del silenzio che reputarono la forma di mediazione più consona alla tragedia della quale erano stati corresponsabili.
Perciò i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Roma respinsero nel settembre scorso la prima istanza di liberazione condizionale: Guagliardo era colpevole della “scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime”.
Ma un incontro era avvenuto nel 2005, come Sabina Rossa ha testimoniato in un libro uscito ben prima che la figlia dell’operaio comunista ucciso a Genova nel 1979 diventasse parlamentare del Pd. Semplicemente avvenne senza chiamare Bruno Vespa (senza la benedizione televisiva del quale anche i fatti accaduti sono revocati), perché Vincenzo e Nadia non volevano che un così drammatico faccia a faccia apparisse “merce strumentale a interessi individuali, simulazione e perciò ulteriore offesa.” L’onorevole Rossa, anzi, si rivolse spontaneamente al magistrato di sorveglianza, riferì dell´avvenuto colloquio, chiese la liberazione dei due detenuti e presentò addirittura una proposta di legge che non subordinava la concessione della condizionale alla imponderabile verifica pubblica della sfera interiore del detenuto come prova dell’autenticità del ravvedimento. Ma i giudici non si sono accontentati e ad aprile hanno respinto per la seconda volta la richiesta di Guagliardo. Non bastano più i contatti con le persone offese: ora si decide che essi assumono “valenza determinante” solo se “accompagnati dall´esternazione sincera e disinteressata”. Poco importa se Sabina Rossa, la figlia della vittima, ha chiesto la liberazione del condannato all’ergastolo dopo 33 anni di carcere: la sua è una “manifestazione isolata non rappresentativa delle persone offese”. guagliardo_di_sconfitta
Anche noi anarchici siamo tenuti a rispettare la giustizia e le sentenze di uno Stato che non amiamo, ma nessuno ci toglierà dalla testa che “il tema del perdono -come scrive il giornale comunista Liberazione del 15 aprile scorso – o meglio la mediazione riparatrice o riconciliatrice, attiene alla sfera privata, non a quella dello Stato. ” Lo Stato democratico, se non vuole diventare Stato etico, non dovrebbe spoliticizzare il pubblico e politicizzare il privato: piuttosto dovrebbe, come stabilisce la Costituzione, misurare se le pene inflitte – che non devono essere contrarie al senso di umanità – hanno raggiunto l’obiettivo della rieducazione del condannato al quale devono sempre tendere (art. 27). La lotta di Nadia e Vincenzo continua con esemplare e magistrale serenità: essa non cancella l’inamovibile tormento, ma lo scioglie e lo distribuisce sotto forma di una domanda e di un’offerta di umanità che colpisce e turba anche i distratti come me, sempre impegnati in cose più importanti, che non so quanto siano effettivamente più importanti.

Link
Ancora ergastolo per Vincenzo Guagliardo
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Sabina Rossa, “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”
Sabina Rossa,“Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre”
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Anni 70
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Link sulle torture contro i militanti della lotta armata

1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati
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Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture