Mammagialla morning

Ore 6.30: gli uccelli già cinguettano fuori. Sono scomparse le cornacchie, mi domando perché. Apro la finestra. Un’ape proveniente dalle arnie del carcere è venuta a morire sul davanzale. Il loro ciclo vitale è di soli 60 giorni. Una ventina trascorsi allo stato larvale nella celletta dove la regina ha depositato le uova, i successivi 40 vissuti da operaia, con mansioni diverse. Prima la pulizia delle celle, poi la produzione di cera, quindi accudendo la regina madre, infine occupandosi dell’interno dell’arnia dove c’è sempre qualcosa da fare come produrre propoli per saldare ermeticamente gli spifferi d’aria o mummificare i corpi estranei. Solo dopo questa dura corvee viene finalmente il diritto all’agognata avventura: le missioni esterne. Scorazzare tra prati e fiori, raccogliere polline e nettare, produrre miele, avvistare altri campi, partire in avanscoperta, scovare nuovi ripari per gli sciami che decidono d’andar via quando una nuova regina vuole fondare famiglia altrove. E quando arriva l’ora fatale dopo tanto lavoro, prima che la stanchezza vinca completamente, c’è il viaggio finale, l’ultimo volo, quello funerario. Nata in una cella la povera ape non poteva che trovare il proprio letto di morte in un’altra.
La colazione è già sul ripiano marrone appeso al muro. Sollevo il panno che ricopre lo scaldalatte e m’accorgo che lo yogurt non è venuto. Ieri sera ho atteso troppo e il latte deve aver perso la giusta temperatura. Pazienza. Con i biscotti è buono lo stesso.
Ascolto i notiziari del mattino rigorosamente rete per rete, poi le rassegne stampa televisive e radiofoniche. Alla fine spengo tutto. Di nuovo silenzio. La sezione dorme ancora. Che pace! È il momento migliore della giornata. Passa il carrello dell’infermeria. Come sempre cigola troppo. C’è chi aspetta la terapia. Più tardi arriva il latte caldo dell’amministrazione. Solita trattativa per averne di più, se avanza.
Sono le otto e trenta, da un po’ sto leggendo l’arretrato di giornali che mi sovrasta. Già sono partito con le forbicine chicco che non tagliano nemmeno la carta. Conservo alcuni articoli di “terza pagina”. La guardia apre le celle, c’è il lavorante che raccoglie la spazzatura. Non c’è ancora la posta del giorno prima (in questo carcere tutto viene consegnato con almeno 24-48 ore di ritardo).
Sono quasi le 9. È il momento di prepararsi per scendere all’aria. Oggi ci tocca il campo di calcio. Finalmente usciamo. Solita caciara. Battute, risate, occhi gonfi, visi assonnati. Il terreno è un po’ pesante. Ieri ha diluviato. Incontro Luciano e passeggiamo parlando per una ventina di minuti, quindi incomincio a fare la mia corsa. È dura, ma lentamente arrivo a scaldarmi e trovo finalmente il fiato. Concludo con un paio di scatti da una estremità all’altra del campo. Smetto. Recupero l’ossigeno e mi avvicino ad un gruppo che fa ginnastica. Mi aggrego. Facciamo gli addominali. Serie da venti. Nessun problema. Poi un po’ di flessioni. Qualche problema. Si avvicina il russo.
Iuo fare luotta libera. Io insegnare te luotta.
Vabbé, se proprio ci tieni!
Come faccio a dirgli di no? Rischio di sembrare scortese. Poi con quell’accento meglio assecondare. Così fino alla dieci e mezza scopro la differenza tra greco-romana e libera. Mi spiega alcune prese. In genere con Milseu mi capita di fare scherma pugilistica. Quella la conosco bene. Nonostante gli anni passati ho conservato sufficiente dimestichezza.
Salgo in sezione giusto in tempo per la doccia. C’è diversa gente. Solite chiacchiere. Arriva Valerio. Ora ha il pizzetto. Era un po’ che non lo vedevo. È di Sezze romano, “l’ultimo degli Angioini” – racconta. Ha una buona proprietà di linguaggio. Sicuramente proviene da una famiglia benestante. Deve aver frequentato il liceo da ragazzo. Forse ha commesso un reato in famiglia. Un parente ucciso probabilmente. Qualcuno dice il padre. Sta in cella con Pino, carcerato da undici anni. Tutti e due con problemi psichiatrici. Pino percepisce una pensione d’invalidità perché schizofrenico. Ha sbudellato un vicino durante una lite sotto l’ingresso della sua casa popolare a Rebibbia. L’altro giorno aveva il ballo di san vito alle mani.
Cos’hai Pino?
Il prete mi ha detto che è morta mia moglie. Sarà vero?
E quando te lo ha detto?
Ieri, ma non è la prima volta. Che dici, sarà vero?
Beh, se non è la prima volta, dev’essere vero.
Anche se eravamo divorziati, mi dispiace. Era la madre dei miei figli.
Pino pare completamente perso. Di lui non si cura nessuno. Ho scritto a qualche associazione, senza risultati. Quando uscirà a fine pena, tra non molto, non avrà nemmeno un letto dove andare a dormire. La famiglia l’ha abbandonato perché lui aveva abbandonato loro. Pino è incapace di qualsiasi cosa. Non sa leggere, non sa parlare. Immagino la scena della sua scarcerazione. Immobile davanti al portone col sacco di plastica nero in mano. Si guarda davanti senza sapere cosa fare, dove andare. Cercherà di raggiungere l’ufficio postale dove sono depositate alcune migliaia di euro. Gli arretrati della sua pensione d’invalidità. Ogni tanto viene e mi chiede:
Ma sei sicuro che quando esco ci saranno i soldi della pensione?
E magari se li farà pure rubare da qualche altro disperato. Dove andrà Pino quel giorno? Sotto quale ponte? Nella hall di quale stazione? Quanto resterà vivo, Pino?
Nel 1576 a Sezze sono sbarcati i marziani!
Mi giro per non mostrare che sto ridendo. Valerio adesso parte con una delle sue. Tempo fa sosteneva che sotto la griglia che raccoglie gli scarichi della doccia c’erano le trote.
Le trote?
Si, le trote. Non le senti? Ascolta.
E noi ascoltavamo protesi con l’orecchio.
Beh, allora se le magnamo! E mica le lasciamo qui! Aspetta che mo’ vado a pijà la canna…
Il periodo ittico ora pare terminato. Siamo all’era astrale.
Una volta ho visto un’astronave. I primi marziani sono scesi a Sezze, poi è arrivato Nakamoto, lo scienziato giapponese con lo skateboard e ha salvato il mondo. Ha creato l’istituto scientifico spaziale. Così a Sezze c’è l’università.
In sezione incrocio Cheng, detto “Liso flitto” perché cucina un ottimo riso cantonese e perché non conosce la erre. Sembra uscito dai fumetti. Parla proprio come fanno i cinesi con i dentoni nelle nuvolette dei cartoni animati.
Liso flitto ride sempre. Ma anche quando sembra allegro è incazzato. Domenica al passeggio dell’una mi ha raccontato la sua ultima lite. C’è voluto un po’ per decifrare, ma alla fine ho capito. Gli hanno messo in cella un detenuto che pare sia omosessuale. Si dice che l’abbiano preso col sorcio in bocca… ma in carcere si dice sempre troppo.
Liso flitto allora è molto incazzato con la Direzione per quello che ritiene un affronto alla sua onorabilità.
Io non volele flocio in cella. Mio paese non succede questo. Flocio con flocio, non mischia. Io denunciale se lolo tenele flocio in mia cella.
Aspetta Cheng, non è mica così semplice. Non puoi essere razzista. Non puoi denunciare uno perché è omosessuale. Lui avrà anche il diritto di essere frocio.
No, non in mia cella.
Scusa Cheng, mica ti ha messo le mani addosso. Si comporta bene, no? È un bravo ragazzo?
Cosa? Lui toccale mio culo? Se lui provale, lui molto. Io non potele dolmile la notte con flocio. Io dovele gualdale semple. Io pallato con bligadiele. Io detto: mio palese altla cultula. Divelso da Italia. Flocio con flocio, altlo con altlo. Non mischia. Io volele mia cultula lispettata.
E cosa ti ha risposto?
Lolo stlonzi, plendele pelilculo.
Pule lolo floci? Ho detto, cercando una battuta non so quanto felice.
Io salito cella, preso sgabello e lotto testa.
Quindici giorni di cella di punizione e Cheng è ritornato in sezione, dopo aver risolto il problema del cocellante.

Ps: Liso flitto è uscito con l’indulto del 2006 ed è tornato dalla famiglia. Pino terminata la pena ha trovato ad aspettarlo fuori dalla porta del carcere un operatore volontario (sollecitato dai suoi compagni detenuti) che lo ha accompagnato in un centro di accoglienza dove è stato momentaneamente ospitato. Preso in cura dal Centro di igiene mentale ha avuto il tempo di una piccola disavventura. Uscito dal centro di accoglienza dopo la sua prima notte di libertà, si è incamminato per le strade del centro storico di Viterbo dove ha perso l’orientamento fino a perdersi. Nel panico più assoluto e timoroso di avvincinarsi a chiunque per chiedere aiuto, ha passato la notte sulla panchina di un giardino pubblico. All’alba si è nuovamente incamminato riuscendo finalmente a trovare la sede del Cim. Ora vive in una comunità di accoglienza. Pare stia bene. L’ultima volta che ho avuto notizie di Valerio era ancora al Mammagialla.

Brasile-Italia e caso Battisti: Tarso Gendro 2 – Frattini 0

Il ministro Tarso Gendro domina la partita di calcio Brasile-Italia.174714811_0773b7fb46 Dopo soli 13 minuti il primo goal, con un raddoppio dopo altri 14. Robinho ubriaca l’intera difesa italiana, dribla tutto quello che gli si para davanti, fa passare la palla tra le orecchie degli azzurri e infila Buffon. Il Brasile stravince a ritmo di samba per 2 a 0 contro Frattini e la schiera di politicanti che volevano giocare col lutto al braccio.

Quanto alla polemica innescata dalla proposta avanzata da diversi esponenti di An di non giocare la partita, La Russa dichiara: “era meglio non giocarla vista la figuraccia che ha fatto l’Italia”. Intagasparrinto il relatore del tribunale federale supremo brasiliano non accoglie la richiesta italiana di annullamento preliminare dell’asilo politico concesso a Battisti. Ora il ministro della Giustizia Tarso Gendro e la difesa di Battisti hanno 10 giorni per deporre delle contro memorie in risposta a quella depositata dallo Stato italiano.

Link
Caro Lula, in Italia di ergastolo si muore
Storia della dottrina Mitterrand
Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu
La fine dell’asilo politico
Dalla vendetta giudiziaria alla soluzione politica
Il caso italiano: lo stato di eccezione giudiziario
Un kidnapping sarkozien
Brasile: niente asilo politico per Cesare Battisti
Il Brasile respinge la richiesta d’estradizione di Battisti, l’anomalia è tutta italiana
Scontro tra Italia e Brasile per l’asilo politico concesso a Battisti

Tarso Gendro: “L’Italia è chiusa ancora negli anni di piombo”
Crisi diplomatica tra Italia e Brasile per il caso Battisti richiamato l’ambasciatore Valensise
Stralci della decisione del ministro brasiliano della giustizia Tarso Genro
Lo sputo in faccia
Testo integrale della lettera di Lula a Napolitano
Caso Battisti: una guerra di pollaio
Dove vuole arrivare la coppia Battisti-Vargas?
Risposta a Fred Vargas
Corriere della Sera: la coppia Battisti Vargas e la guerra di pollaio



Le torture nell’Italia 1982: l’arresto del giornalista Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia

Materiali tratti da “Le Torture Affiorate”, Sensibili alle foglie 1998
Fonte: baruda.net/della-tortura/

Pier Vittorio Buffa: “Il rullo confessore” in L’Espresso 28 febbraio 1982

Dalla perizia del medico legale Mario Marigo, 3 febbraio 1982 Padova. Tracce di tortura compiuta con elettrodi sui genitali di Cesare Di Lenardo, militante dell Brigate rosse in carcere da 29 anni. “Qualcuno prese in mano il mio pene dalla parte anteriore e vi avvicinò qualcosa, forse un filo, attraverso il quale ricevetti una scarica elettrica. La stessa cosa fu ripetuta ai testicoli e all'inguine”.


“All’ora di pranzo scendevano in piccoli gruppi, si sistemavano ai tavoli del ristorante Ca’ Rossa, proprio davanti al distretto di polizia di Mestre, e prima di pagare il conto chiedevano al proprietario dei pacchi di sale, tanti. Poi pagavano, e con la singolare ’spesa’ rientravano al distretto per salire all’ultimo piano, dove c’era l’archivio. In quei giorni, subito dopo la liberazione del generale Dozier, le stanze di quel piano erano off limits: vi potevano entrare solo pochi poliziotti, non più di tre o quattro per volta, insieme agli arrestati, ai terroristi. Lì dentro, dopo il trattamento, un brigatista è stato costretto a rimanere sdraiato cinque giorni senza avere più la forza di alzarsi, da lì uscivano poliziotti scambiandosi frasi del tipo “L’ho fatto pisciare addosso”. “Così abbiamo finalmente vendicato Albanese” [Il funzionario ucciso dalle B.R.].
Quest’ultimo piano era infatti diventato -secondo alcune accuse e deposizioni di cui parleremo- il passaggio obbligato per i circa venti terroristi arrestati nella zona.
Non hanno subìto tutti lo stesso trattamento, ma per alcuni di loro l’archivio del distretto di polizia di Mestre ha significato acqua e sale fatta bere in grande quantità, pugni e calci per ore, per notti intere. Sono fatti, questi, dei quali si sta cominciando a discutere anche all’interno del sindacato di polizia. La voglia di picchiare aveva infatti totalmente contagiato gli agenti di quel distretto ( molti erano venuti per l’occasione anche da fuori, da Massa Carrara, da Roma) che quando il 2 febbraio è stato fermato un ragazzo sospettato di un furto in un appartamento (non quindi di terrorismo) lo hanno picchiato per un paio d’ore per poi lasciarlo andare via quando si sono accorti che era innocente. Secondo le denunce, la violenza della polizia contro le persone arrestate per terrorismo si sta poco a poco estendendo, come un contagio.
Molte sono ormai le testimonianze raccolte dai magistrati sui trattamenti riservati agli arrestati da polizia e carabinieri. Molte e circostanziate. Il ministro dell’Interno Virginio Rognoni ha già smentito tutto in Parlamento.
Ma dalla lettura dei verbali emerge l’esistenza di un sistema di pestaggio, con i suoi passaggi prestabiliti, i suoi locali appositamente allestiti, i suoi esperti. Cerchiamo di illustrarlo basandoci su sei denunce presentate in diverse città: Roma, Viterbo, Verona. Quelle di Ennio di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai, Nazareno Mantovani e Gianfranco Fornoni, tutti accusati di terrorismo.
Il primo passo è l’isolamento totale in locali che il detenuto non può identificare e senza che nessuno ne sappia niente. Il 12 gennaio scorso una voce anonima ha telefonato allo studio di un avvocato romano: “La persona arrestata in via Barberini si chiama Massimiliano Corsi, è di Centocelle; avvertite la madre, date la notizia attraverso le radio private, lo stanno massacrando di botte.” Solo dopo due o tre giorni si seppe ufficialmente che Corsi era stato arrestato. Il totale isolamento, il cappuccio sempre calato sul viso, le mani strettamente legate dietro la schiena sono la prima violenza psicologica. Poi le

Il Ministro degli Interni Rognoni

Il Ministro degli Interni Rognoni

minacce di morte (”Ti possiamo uccidere, tanto siamo in una situazione di illegalità” avrebbero detto a Stefano Petrella) la pistola puntata alla tempia e il grilletto che scatta a vuoto come in una macabra roulette russa (Nazareno Mantovani).
Per arrivare alle violenze fisiche il passo è breve: tutti dichiarano di aver preso calci e pugni subito dopo l’arresto, ma poi si arriva alla descrizione di sevizie vere e proprie, di torture. Sigarette spente sulle braccia (Di Rocco). Acqua salatissima fatta ingerire a litri, sempre con lo stesso sistema: legati a pancia in su sopra un tavolo, con mezzo busto fuori e quindi con la testa che penzola all’indietro ( Di Rocco, Petrella e Mantovani). Calci ai testicoli (racconta Fornoni: ‘Con certe pinze a scatto hanno effettuato diverse compressioni sui testicoli, minacciando di evirarmi’). Tentativi di asfissia con vari sistemi. Misteriose punture: il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica ha constatato la presenza di “un segno di arrossamento con escoriazione centrale” sul braccio destro di Di Rocco.
Dopo giorni e giorni di trattamento di questo tipo gli arrestati vengono condotti davanti al magistrato e alcuni verbali sono ricchi di dettagliate descrizioni, fatte dai giudici, dello stato fisico dei detenuti: Di Rocco aveva il polso destro sanguinante per via della manetta troppo stretta, cicatrici fresche in varie parti del corpo.
Lino Vai si è tolto una scarpa davanti al giudice mostrandogli le “spesse croste ematomiche” presenti sul dorso dei piedi. Due istruttorie per accertare la verità sono già iniziate; una a Viterbo, dopo la denuncia di Fornoni, e una a Roma, iniziata dopo le deposizioni di Petrella e di Di Rocco dal sostituto procuratore Niccolò Amato che ha disposto le perizie. In attesa che queste indagini si concludano, c’è chi ha già chiesto al ministro Rognoni di avviare un’indagine amministrativa e chi sostiene che lo stato democratico non può fare della violenza fisica e psicologica uno strumento di lotta. […]

NOTA INFORMATIVA: A seguito della pubblicazione dell’articolo sopra riportato, Pier Vittorio Buffa, il 9 marzo 1982, viene arrestato su ordinanza emessa dalla Procura della Repubblica di Venezia, con l’imputazione “del reato p. e p. dell’art. 372 C.P. perché deponendo innanzi al procuratore della Repubblica di Venezia, Cesare Albanello, taceva in parte ciò che sapeva intorno alla fonte da cui apprese le notizie riportate nell’articolo ‘Il rullo confessore’ apparso sul settimanale L’Espresso del 28 febbraio 1982 e del quale egli era autore” [N. 520/82 del Reg. Gen. del Procuratore della Repubblica di Venezia]

SIULP di Venezia, Comunicato, 10 marzo 1982
“Il Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia di Venezia esprime profondo stupore e rammarico per l’arresto del
giornalista de L’Espresso Pier Vittorio Buffa, rifiutatosi di rivelare la fonte di alcune notizie da lui riportate nell’articolo comparso sul numero del 28/02/82 del settimanale suddetto. In proposito si fa rilevare che le voci di maltrattamenti durante siulp_logo_colori_copygli interrogatori di persone arrestate nell’ambito delle indagini sul terrorismo sono giunte al sindacato. Il sindacato dei lavoratori della polizia, pur condividendo il convincimento di quanti ritengono ingiustificabili tali pratiche, esprime la propria preoccupazione per l’orientamento delle inchieste in corso che tendono alla individuazione di responsabilità di singoli appartenenti alle forze dell’ordine, non tenendo conto del clima che ha suscitato tali episodi, e di cui molti devono sentirsi direttamente o indirettamente responsabili.
Non v’è dubbio infatti che tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese, impedendone il pacifico sviluppo. Il sindacato auspica che le indagini siano indirizzate a rompere il clima di timore venutosi a determinare fra gli appartenenti alle forze dell’ordine più direttamente impegnate nelle difficili indagini e che potrebbero risultare coinvolti in tali episodi. Si auspica inoltre che si punti a far sì che tali pratiche restino un caso isolato determinato da una particolare contingenza.
Allo scopo di dare un contributo per fare la necessaria chiarezza in tale direzione, il sindacato di Venezia, in sintonia con la segreteria nazionale, ha inviato un telegramma al magistrato dott. Albanello per un incontro urgente.

NOTA INFORMATIVA. L’11 marzo 1982, una delegazione del Sindacato di Polizia Siulp di Venezia, deponendo davanti al PM, libera il giornalista Pier Vittorio Buffa dal vincolo del segreto professionale, e pertanto egli, in sede di interrogatorio, indica nel capitano Riccardo Ambrosini e nell’agente Giovanni Trifirò le due persone che gli hanno dato le informazioni relative all’articolo. Riportiamo di seguito il dispositivo della sentenza che lo assolve: “Visti gli art. 479 c.c.p. e 376 c.p., assolve l’imputato perchè il fatto non costituisce reato perché non punibile per avvenuta ritrattazione. Ne ordina l’immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa.”

Dopo questo comunicato una riunione con il questore e tutti i dirigenti della questura di Venezia stila un comunicato in cui si chiede che i poliziotti che hanno scagionato il giornalista de L’Espresso siano trasferiti perchè ‘la loro presenza provocherebbe uno stato di tensione e amarezza in tutto il personale’.
Qui sotto alcune dichiarazioni del capitano Filiberto Rossi, uno dei quadri dirigenti del Saplogo-sap (il Sindacato Autonomo di Polizia): ” Non ci sono state torture ai terroristi arrestati. Se qualche episodio di violenza fosse avvenuto, sarebbe un fatto isolato. I responsabili, una volta accertata la loro colpa, dovrebbero essere puniti secondo la legge. Nella polizia non ci sono aguzzini o squadre speciali, ma solo persone normali e padri di famiglia. […]
La lotta al terrorismo da parte della polizia è sempre stata condotta nei limiti della legalità. Non bisogna dimenticare che su 1300 terroristi in carcere, soltanto alcuni hanno denunciato di aver subìto violenze. E queste denunce possono essere strumentali, posso essere state fatte per giustificarsi con i loro complici.
I poliziotti non ammettono che si possa ricorrere alle torture, ma non si possono certo trattare i terroristi con i guanti bianchi. Noi siamo convinti della necessità di esercitare pressioni psicologiche
.”

Link
1982, dopo l’arresto i militanti della lotta armata vengono torturati
Proletari armati per il comunismo, una inchiesta a suon di torture

Il lavoro in carcere, ferie, salario, previdenza. Turelare i diritti anche in prigione

La polemica sul mancato riconoscimento della pensione Inps a Curcio attira l’attenzione sulle condizioni di lavoro dietro le sbarre

Paolo Persichetti
Liberazione
21 gennaio 2009

«Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione». Lo scrive Harry G. Frankfurt nella prima riga di un brillante saggio uscito in Italia nel 2005, edito dalla Rcs e per l’appunto copj131 inequivocabilmente intitolato, Stronzate. Vacue scemenze infestano i dibattiti televisivi, le pagine dei giornali, soprattutto la politica, per dimostrarlo Frankfurt ricorre a dotte riflessioni su Wittgenstein, Pound, Agostino. Molto più modestamente (siamo in Italia e di più non è possibile ricavare), a noi tocca fare i conti con Borghezio (il ciccione nazista che gli immigrati di Colonia hanno rispedito a casa a calci nel sedere), Gasparri (quello col pensiero flatulescente), Carlucci (quella del Festivalbar), Bertolini (chi è?).
Questi «onorevoli politici», a 25 mila euro al mese e vitalizio assicurato, hanno intasato le agenzie di compiaciute e sarcastiche dichiarazioni sul mancato riconoscimento della pensione Inps a Renato Curcio (l’ex fondatore delle Br che da anni ha terminato di scontare la condanna). Pure alcuni familiari delle vittime si sono lasciati trascinare in questo stupidario. Cosa era successo?
Curcio si trovava a Pesaro, centro sociale Oltreconfine. Stava presentando uno degli ultimi libri della sua casa editrice, Sensibili alle foglie. Un giornalista si avvicina e gli chiede se ormai è prossimo alla pensione, lui risponde che nonostante avesse lavorato una vita in carcere, l’Inps non gli ha riconosciuto alcun diritto alla pensione perché gli istituti di pena dove è stato recluso non hanno mai versato i contributi o questi erano bassissimi. Insomma una truffa bella e buona. Poi aggiunge che non può avere diritto nemmeno alla pensione sociale perché la moglie percepisce un reddito troppo alto. Tutto qui. Nessuna protesta, nessuna lamentela. Solo una breve considerazione, per giunta sollecitata, di una persona che fa il suo lavoro senza chiedere nulla a nessuno. La pensione, come sanno tutti detenuto2quelli che lavorano, non è certo una gentile concessione dello Stato, un regalo o un premio del Padrone, ma il dovuto che il lavoratore vede ritirare ogni mese dal proprio stipendio, debitamente rivalutato secondo indici stabiliti per legge. Si chiama sistema per “ripartizione”. È roba sua insomma, prestata alle casse previdenziali che in questo modo sostengono quel po’ di welfare ancora in piedi. Tuttavia anche le polemiche più inutili e strumentali possono servire. Questa vicenda apre uno scorcio sul mondo opaco delle carceri, sulla fragilità dei diritti dei detenuti che lavorano. La disavventura accaduta a Curcio non è un fatto isolato. Il carcere ha bisogno dei suoi detenuti perché sia autosufficiente e si riproduca ogni giorno, affinché le aree comuni della prigione, corridoi, uffici, passeggi, laboratori, matricola, infermeria, caserma, siano sempre pulite e le cucine sfornino una colazione e due pasti al dì e i guasti elettrici, idraulici vengano subito riparati. Negli istituti di pena ci sono anche officine, tipografie, falegnamerie, rilegatorie, che servono a fabbricare suppellettili per altre carceri, blindati, cancelli, mobilio per i tribunali e i ministeri, registri, formulari per gli uffici. Le prigioni non potrebbero funzionare senza i carcerati. Pochi lo sanno, i più non arrivano nemmeno ad immaginarlo, ma il carcere vive del lavoro dei suoi ospiti rinchiusi. Non potrebbe farne a meno. Diventerebbe ancora più antieconomico se dovessero essere assunti degli esterni, senza contare i problemi per la sicurezza. Il miglior modo per metter a terra un carcere, infatti, è lo sciopero dei «lavoranti». Impresa ardua, riuscita solo in pochi casi. Ma quando i lavoranti si fermano, la direzione negozia subito. Proprio per questo il lavoro è una risorsa strategica del governo carcerario, gestito con oculato clientelismo e paternalismo. Non solo il lavoro dei detenuti è sotto operatori-cucina1
tutela costituzionale ma esistono normative che ne regolano modalità e diritti. L’articolo 20 della legge penitenziaria stabilisce che «il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato», organizzazione e metodi «devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale». La durata delle prestazioni lavorative «non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e, alla stregua di tali leggi, sono garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa e previdenziale».
Ed è in ragione di questa normativa che negli ultimi anni i detenuti hanno avviato delle vertenze di fronte alla magistratura del lavoro. Con la sentenza n.158 del 2001, la Corte Costituzionale ha ribadito il diritto alle ferie e la loro remunerazione in caso di mancato usufrutto. Allo stesso modo l’associazione Papillon, grazie ad una sentenza pilota del 1993, ha ottenuto l’equiparazione delle mercedi (salario) al contratto collettivo nazionale del comparto corrispondente alla mansione lavorativa svolta. Altre battaglie sono state realizzate per il riconoscimento dell’assegno di disoccupazione. Il carcere è un grande cantiere sempre in funzione, sarebbe ora che i sindacati (Cobas e Cgil) vi aprissero degli sportelli per formare sindacalmente i detenuti e creare osservatori sui diritti del lavoro.

«Le misure alterantive al carcere sono un diritto del detenuto»

L’intervista: parla Alessandro Margara

Paolo Persichetti, Liberazione 4 gennaio 2009

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Tratto da Scarceranda 2009

Ricorre in questi giorni il decennale della morte di Mario Gozzini (2 gennaio 1999). Esponente del cattolicesimo di sinistra, cresciuto accanto a Giorgio La Pira ed Ernesto Balducci, fu senatore della Sinistra indipendente durante la stagione del catto-comunismo e primo firmatario della legge 663, del 1986, che ripristinò, ampliandola, la riforma penitenziaria varata nel 1975 (legge 334), ma la cui applicazione era stata sospesa negli anni dell’emergenza antiterrorismo e che – impropriamente – porta da allora il suo nome.
In realtà alla stesura del testo avevano contribuito in molti: il giurista socialista Giuliano Vassalli, allora presidente della commissione Giustizia (il cui vice era proprio Mario Gozzini), Raimondo Ricci, giurista e avvocato comunista, e Domenico Gallo, professore di diritto penale di area cattolica. Quella “riforma della riforma” varata e poi bloccata 11 anni prima, sotto la spinta e al prezzo di una durissima stagione di lotte carcerarie, non raccoglieva soltanto l’assenso dell’intero «arco costituzionale» (tutte le forze politiche presenti in parlamento, fatta eccezione per i fascisti del Msi), l’impulso dei ministri della Giustizia che si susseguirono durante l’iter parlamentare (i democristiani Martinazzoli e Rognoni) ma anche il contributo di figure riformatrici della magistratura di sorveglianza, come Mario Canepa e Giancarlo Zappa, degli allora dirigenti del dipartimento

La misura alternativa più antica del mondo...

La misura alternativa più antica del mondo…

dell’amministrazione penitenziaria, Nicolò Amato e Luigi Daga, nonché – come ricordò spesso lo stesso Gozzini – dell’area della detenzione politica legata alla dissociazione dalla lotta armata. Approvata nell’ottobre del 1986, e nata inizialmente per abolire le limitazioni imposte dalla legislazione d’emergenza, la nuova legge si trasformò in una vera e propria rivisitazione dell’ordinamento penitenziario introdotto nel 1975, superandone in alcune parti prudenze e timidezze. Restò tuttavia marcata dall’impostazione premialistica, con un forte approccio moralistico a sfondo cattolico che pochi mesi dopo si tradusse nella terza legge sulla «dissociazione dalla lotta armata» del febbraio 1987.
22 anni dopo la sua entrata in vigore, proviamo a tracciare un bilancio sulle luci e le ombre di un dispositivo che ha indubbiamente modificato il carcere, mutato il rapporto con la pena attenuandone (di quanto?) l’impostazione afflittiva, recependo (fino a che punto?) il dettato dell’articolo 27 della costituzione, cambiando la relazione tra la società esterna e il mondo della reclusione. Ne parliamo con Alessandro Margara che è stato magistrato di sorveglianza a Firenze, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (messo prematuramente alla porta dal controriformatore Oliviero Diliberto, il ministro della Giustizia che reintrodusse i Gom accogliendo le pressioni provenienti dai sindacati della polizia penitenziaria), ed oggi è presidente della fondazione Michelucci di Fiesole.

La legge Gozzini è sotto attacco. In parlamento sono stati calendarizzati diversi disegni di legge (ddl Berselli e altri) che ne prevedono l’abolizione. La destra ne ha fatto un suo cavallo di battaglia mentre la sinistra, travolta dal giustizialismo, non sembra molto interessata a fare resistenza.

Rispetto al testo iniziale, questa legge ha già subito ripetute modifiche. Nel clima d’emergenza antimafia del 90-92 subentrarono delle restrizioni (limiti all’accesso e carcere duro) contro i reati legati alla criminalità organizzata. Nel 1998 ci fu invece una estensione in favore dei reati minori, con pene non superiori ai 3-4 anni (legge Simeone).

E’ vero che i benefici penitenziari contribuiscono ad accrescere il numero dei reati, come sostengono i fautori della certezza della pena?
Questa tesi è smentita da dati ufficiali del Dap. La ricerca più esauriente è del 2006 e dice che nell’arco dei 7 anni precedenti, nel periodo che va dalla fine del 1999 al 2005, la recidiva di chi ha usufruito delle misure alternative o dei benefici penitenziari ha avuto un tracollo, appena lo 0,30%. Nei 5 anni successivi alla fine della pena scende invece al 19% per chi ha ottenuto i benefici, mentre sale al 68,5%, cioè più di tre volte tanto, per chi ne è stato escluso. Ciò dimostra che la pena inflessibile è il vero incentivo a delinquere.

Ma ci sarà pure qualche ombra?
Certo, c’è sempre una parte di rischio dovuta ad errori di valutazione. Ma anche qui i dati ci dicono che le revoche delle misure alternative arrivano appena al 4%. Attenzione, le revoche sono originate da problemi di condotta indisciplinata, di mancato rispetto delle prescrizioni (per esempio ritardi, allontanamenti non autorizzati ecc.). Molti di questi sono tossicodipendenti che trasgrediscono il programma terapeutico stabilito. In realtà soltanto nello 0,14% dei casi, l’1 per mille, sono stati accertati nuovi reati.

Molti studi di settore dimostrano che i tribunali di sorveglianza ricorrono ad una interpretazione impropria della recidiva per i tossicodipendenti. Dove per recidiva non si intende più la realizzazione di un nuovo reato ma la semplice ricaduta nel consumo di droghe.
Per definizione clinica quello della tossicodipendenza è un percorso di recupero segnato da ricadute, tant’è che per il testo della legge la semplice assunzione di stupefacenti non è di per sé una ragione di revoca. L’insuccesso momentaneo del programma non dovrebbe quindi provocare revoche automatiche. Purtroppo qui è intervenuto l’irrigidimento della Fini-Giovanardi.

Nella realtà quotidiana degli uffici di sorveglianza le revoche sono pressoché automatiche, mentre l’ammissione alle misure alternative, anche in presenza dei requisiti previsti e del parere favorevole degli operatori e dei direttori del carcere, resta sottomessa alla valutazione personale del magistrato. L’assenza di automatismi non è forse uno dei limiti strutturali della legge?
Bisogna distinguere tra testo della legge e indirizzo delle magistrature di sorveglianza. Nella “faticosa valutazione” del giudice c’è ovviamente una certa discrezionalità, ma non deve essere una discrezionalità vuota. Permessi, semilibertà, misure alternative sono strumenti di esecuzione ordinaria della pena. È testuale che non si tratta di “benefici” e che esiste dunque un diritto alla concessione. Nella sentenza numero 282, del 1989, la corte costituzionale afferma che le misure alternative non sono una concessione “graziosa” ma un diritto da applicare quando ne ricorrano le condizioni.

Si può dire che da alcuni anni si è affermato nei tribunali di sorveglianza un atteggiamento culturale che tende a sabotare la Gozzini utilizzando le contraddizioni presenti nella legge?
Quando un giudice comincia ad obiettare troppo fuoriesce dalla sua funzione. In questo caso siamo di fronte all’assunzione di un ruolo, quello di difensore della pena, che il magistrato di sorveglianza non ha. La legge gli assegna un altro ruolo, quello di gestore della pena.

Eppure una nuova leva di giudici sembra agire quasi come un quarto grado di giudizio.
Quando accade è un comportamento extra legem. Non compete loro una valutazione del fatto processuale già giudicato dai giudici della sentenza. La pena è già il riassunto di quello che la condanna ha detto.

Il fatto che molti magistrati di sorveglianza vengano dalla procure antimafia è una cosa casuale o dettata da una strategia ben precisa finalizzata a costruire collaboratori di giustizia (pentiti) in ambito carcerario?
Mi sembra un giudizio temerario. Credo che ciò si spieghi soprattutto con l’incombere in un certo periodo della legge Castelli sulle carriere dei magistrati.

L’applicazione flessibile della pena, che ispira la filosofia della Gozzini, ha tra i suoi risvolti anche il fatto che la pena sia divenuta una sorta processo permanente.
Questo è un tema cruciale nelle filosofie del sistema penale. Nel quadro del nostro ordinamento, dove permangono pene lunghe come l’ergastolo, la corte costituzionale ha stabilito, nel 1974, che l’esecuzione deve essere flessibile. C’è un diritto soggettivo della persona detenuta che dopo un certo tempo ha diritto alla verifica del proprio percorso. Ovviamente la flessibilità espone al rischio di arbitrarietà. Ma senza la flessibilità non vi sarebbe sistema e la ricchezza delle valutazioni nel tempo diventa liberatrice. Se il sistema funziona.

Ergastolo: Per dire basta parte lo sciopero della fame

primaDal 1 dicembre 2008 settimama dopo settimana i detenuti delle carceri italiane scioperano contro il “fine pena mai”

Paolo Persichetti
Liberazione- supplemento Queer domenica 30 novembre 2008

Al 30 giugno 2008, secondo i dati presenti sul sito del ministero della Giustizia, le persone condannate all’ergastolo in via definitiva erano 1415 (1390 uomini e 25 donne). La stragrande maggioranza di loro, oltre 500, sono sottoposte al regime del 41 bis, il cosiddetto “carcere duro”, recentemente oggetto di ulteriori misure restrittive. Circa il 4,5% dell’intera popolazione reclusa. Una percentuale diluitasi negli ultimi tempi a causa dell’esplosione degli ingressi carcerari che hanno portato il numero delle persone detenute a 58.462. Con un impressionante entra-esci di 170 mila persone che non restano più di 10 giorni (rilevamento del 25 novembre), perché le infrazioni contestate non giustificano la custodia in carcere senza una condanna definitiva o non hanno retto al vaglio della magistratura. Cifre ormai prossime alla soglia d’implosione (quota 63 mila) che verrà raggiunta, secondo le proiezioni avanzate dagli stessi uffici statistici del ministero, nel prossimo mese di marzo.
I detenuti rinchiusi da oltre 20 anni sono 1648, tra questi 56 hanno superato i 26 anni e 37 sono andati oltre i 30. Il record riguarda un detenuto rinchiuso nel carcere di Frosinone con ben 39 anni di reclusione sulle spalle. Quelli che hanno già superato i 10 anni arrivano a 3446. Oltre 23 mila sono i reclusi che scontano pene che vanno da pochi mesi ad un tetto di 10 anni. Un detenuto su 5 subisce una sanzione superiore a 10 anni, quelle che normalmente vengono definite “lunghe pene”. L’unica industria che non risente della crisi, che non rischia licenziamenti, cassintegrazioni o mancati rinnovi di contratti a termine, è quella del carcere.

La fabbrica della penalità va a gonfie vele. E già gli avvoltoi della speculazione edilizia si sfregano le mani all’idea che verranno costruite nuove carceri e dismesse quelle in centro città. La riqualificazione di aree centro-urbane, ottenute in cambio della costruzione di scadenti penitenziari costruiti nello sprofondo di periferie dimenticate anche da dio, poi rivendute sul mercato a prezzi stellari al metro quadro, è lo scambio indecente promesso dal governo alle grandi imprese private che si occupano di lavori pubblici. Fatta eccezione per l’immediato dopoguerra, nella storia dell’Italia repubblicana non c’è mai stato un numero così alto di “fine pena mai” come quello attuale. Nel 1952 il loro numero si attestava a 1127 per scendere progressivamente fino a toccare i minimi storici nel corso degli anni 70, dove anche il numero dei reclusi in termini assoluti precipita a circa 35 mila. La stagione delle lotte carcerarie, i progressi civili e sociali del decennio che ha più dato libertà, fanno precipitare i tassi d’incarcerazione senza che il paese fosse afflitto da sindromi ansiogene. Le lotte sono sempre state il migliore viatico per curare le isterie sociali e impedire al potere di fare uso della demagogia della paura. Nel 1982 si tocca la cifra più bassa dal dopoguerra, appena 207. Ma durerà poco, molto poco. In quegli anni la giustizia d’eccezione gira a pieno regime e di lì a poco tempo cominceranno a fioccare centinaia di ergastoli sfornati nel corso dei maxi processi dell’emergenza antiterrorista. 336 sono quelli erogati fino al 1989 nei processi per fatti di lotta armata di sinistra. A partire dal 1983 la curva torna ad inalzarsi. pioloqueer
Siamo negli anni della svolta reganiana, quelli della “rivoluzione passiva” del neoliberismo, della deregolazione economica che prevede come suo corollario l’intruppamento e l’ingabbiamento dei corpi, elaborato con la disciplina della tolleranza zero. Il tasso d’incarcerazione comincia a salire per esplodere a partire dal decennio 90, con tangentopoli che apre il varco al populismo penale. Nel corso degli ultimi 25 anni il numero degli ergastolani è passato da 226 agli oltre 1400 attuali. In molti paesi europei l’ergastolo è stato abolito: è il caso di Spagna, Portogallo, Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Albania, Polonia e Ungheria. Nei paesi dove invece è ancora formalmente presente, di fatto è disapplicato da normative che introducono tetti massimi di detenzione e la possibilità di modulare la pena accedendo in tempi ragionevoli alla liberazione condizionale. In Grecia è ammessa la liberazione condizionale dopo 20 anni; in Austria, Germania, Svizzera e Francia dopo 15 anni, salvo che in sede di condanna il tribunale non stabilisca per ragioni di gravità del reato contestato un periodo incomprimibile superiore. In Olanda è possibile avanzare richiesta dopo 14 anni; in Norvegia 12; in Belgio dopo 1/3 della pena e in Danimarca dopo 12 anni. A Cipro dopo 10 anni, in Irlanda dopo 7 anni. L’Italia prevede la possibilità di avanzare richiesta di liberazione condizionale solo una volta maturati 26 anni di reclusione. Uno dei tetti più alti d’Europa ed anche una delle soglie più difficili da superare. In realtà le nuove normative in vigore hanno reso l’ipotesi di una scarcerazione sotto condizione puramente virtuale. Con la pena dell’ergastolo vengono puniti una serie di reati contro la persona fisica e la personalità dello Stato, in sostanza omicidi, reati di natura politica o a legati all’attività della criminalità organizzata, sottoposti al regime del 4 bis e 41 bis della legge penitenziaria. Normative che introducono come requisito per l’accesso ai benefici l’obbligo della “collaborazione”, rendendo lettera morta il dettato costituzionale e tutta la retorica riabilitativa e risocializzante prevista nell’ordinamento.L’ergastolo è dunque più che mai una pena eliminativa.
Il primo dicembre i detenuti delle carceri italiane torneranno a far sentire la loro voce sul modello di quanto è accaduto poche settimane fa nelle carceri greche, quando un massiccio movimento ha costretto il governo a negoziare. Uno sciopero della fame nazionale darà l’avvio ad una staffetta che si suddividerà nelle settimane successive regione per regione fino al 16 marzo 2009. Convegni, assemblee e attività di sostegno alla lotta degli ergastolani si terranno nelle città coinvolte dallo sciopero. Una battaglia difficile di questi tempi, ma necessaria. Chi si ferma è perduto.

Il calendario della campagna si trova sul sito: http://www.informacarcere.it/campagna_ergastolo.php

La Francia rinuncia all’estradizione di Marina Petrella

Sarkozy recupera la dottrina Mitterrand

Paolo Persichetti

Liberazione 14 ottobre 2008


Il presidente della repubblica francese Nicolas Sarkozy ha chiesto al suo primo ministro François Fillon di ritirare il decreto di estradizione firmato il 3 giugno 2008 nei confronti di Marina Petrella, l’ex brigatista riparata in Francia nel 1993. È quanto comunicato nella giornata di domenica da una nota dell’Eliseo, dopo che il Journal du dimanche aveva anticipato la notizia.
L’annullamento del decreto chiesto dal capo dello Stato francese è stato possibile grazie all’applicazione della «clausola umanitaria», iscritta in calce alla convenzione europea sulle estradizioni del 1957, firmata proprio a Parigi. La notizia era nell’aria da tempo. Infatti, nonostante la scarcerazione per motivi di salute avvenuta lo scorso mese di agosto e il ricovero presso l’ospedale psichiatrico saint-Anne di Parigi, le condizioni della Petrella non erano affatto migliorate. Arrestata nei locali del commissariato di Argenteuil nell’agosto 2007, dove era stata convocata per delle questioni amministrative, le sue condizioni d salute erano progressivamente precipitate.
In una intervista rilasciata al quotidiano Le Figaro del 30 settembre, il suo avvocato Irène Terrel spiegava che solo da poco la sua cliente aveva accettato di alimentarsi con una sonda, cessando così di perdere peso. Tuttavia il suo quadro clinico perdurava molto grave, come spiegavano i medici. Lo stesso Sarkozy ha avuto modo di precisare che prima di prendere la decisione finale ha parlato col medico curante della Petrella, il professor Rouillon. Il primario del servizio medico che ha accolto l’esule italiana ha ribadito che la profonda depressione di cui è sofferente è tale da mettere in pericolo la sua sopravvivenza.
Nell’intervista, l’avvocato Terrel lasciava intendere di aver riscontrato «una volontà politica di avanzare nella soluzione del caso». L’esito positivo della vicenda è stato preannunciato mercoledì scorso all’interessata dalla consorte di Sarkozy, Carla Bruni, insieme alla sorella, Valeria Bruni Tedeschi, entrambe personalmente impegnate nella soluzione del caso, ma solo sabato 11 la notifica ufficiale è pervenuta direttamente in ospedale.
Nonostante le autorità di Parigi abbiano più volte ribadito che la scelta di rinunciare all’estradizione sia stata dettata «unicamente dalle condizioni di salute» della Petrella e che si tratti dunque di una scelta singolare, è innegabile la portata politica che la decisione riveste. Al di là del gossip che circonda alcuni aspetti della vicenda e delle ragioni umanitarie che si attagliano al caso specifico, la rinuncia all’estradizione rappresenta una svolta significativa che ripristina la situazione antecedente al 2002. Dopo due anni di presidenza Sarkozy ha stabilizzato il suo potere. L’opposizione è ben lontana dall’insidiarlo, nel frattempo ha interamente riformato il comparto della sicurezza. Eliminati i renseignements généraux, che l’avevano danneggiato, a capo della polizia, dei servizi interni ed esterni, ha piazzato uomini fidati. Difficile che si riapra il dossier dei rifugiati italiani senza il suo accordo. In passato invece non aveva esitato ad utilizzarli per farsi strada. È stato Il primo ad infrangere con successo la dottrina Mitterrand.

Al di là delle polemiche ciò che in Italia non si riesce a comprendere è il fatto che in Francia l’asilo è un valore costituzionale iscritto nella tradizione giuridica, dalla costituzione del 1789 a quella della quinta repubblica. Che in Sarkozy si fosse fatta strada una consapevolezza diversa del problema, più politica e meno strumentale, lo si era capito già dai passaggi della lettera a Berlusconi in cui chiedeva a questi di farsi latore della domanda di grazia per la Petrella. La distanza pluridecennale dai fatti contestati, 27 anni, venivano letti come un tempo sufficiente lungo per storicizzare un’epoca di conflitto, quale che fosse il giudizio portato su di essa.
Resta da capire quanto il clima sia cambiato in Italia. Non ci sono state fino ad oggi reazioni ufficiali del governo. «Gli italiani sono stati sempre tenuti al corrente, non credo ci sia mai incomprensione quando c’è una ragione umanitaria», ha spiegato lo stesso Sarkozy. Reazioni sono venute da alcune associazioni delle vittime e sindacati di polizia vicini alla destra. Tra le fila della politica reazioni sparpagliate un po’ su tutti i fronti per censurare la rinuncia all’estradizione, in buona compagnia con quanto dichiarato in Francia dalla vicepresidente del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, che ha ironizzato sulla decisione. Ad ognuno gli amici che merita.

Alì Juburi, morto di sciopero della fame

Quando in galera è il tuo corpo che diventa il luogo della rivolta

Paolo Persichetti
Liberazione
13 Agosto 2008

La vicenda di Alì Juburi, il detenuto iracheno quarantaduenne morto lunedì scorso a causa di uno sciopero della fame intrapreso per protesta contro una condanna che considerava ingiusta, è una di quelle notizie che troviamo confinate nelle brevi dei grandi quotidiani nazionali o che al massimo riempiono lo spazio di un articolo della stampa locale. Vite che scivolano via nell’indifferenza generale, sospiri persi nelle distrazioni di una estate afosa. Le cronache ci dicono che si trattava probabilmente di una persona sorpassata dagli eventi, triturata dai meccanismi di un dispositivo burocratico-punitivo che non riabilita ma macera le esistenze, soprattutto quando sono fragili.
Arrestato a Milano, rinchiuso a san Vittore, subito dopo la condanna di primo grado gli è toccato il destino dei tanti stranieri ospiti delle nostre carceri: lo sfollamento. Le grandi carceri giudiziarie funzionano così. I detenuti appena condannati vanno via per lasciare posto ai “nuovi giunti”. Qualcuno ce la fa a restare perché c’è sempre una piccola sezione penale pronta ad accogliere i raccomandati, quelli che hanno un mestiere utile al carcere (muratori, idraulici, elettricisti) e gli asserviti alla custodia. I residenti finiscono nei “penali” della città, se esistono, o nelle carceri della provincia. I più sfigati vengono distribuiti nella regione. Una norma del regolamento penitenziario salvaguarda il diritto di prossimità al luogo di residenza dei familiari, l’istituto di assegnazione non deve distare oltre i 300 chilometri. Così c’è scritto… Il criterio non vale per le categorie speciali, come i detenuti in 41 bis, gli Eiv.
Gli stranieri (una volta si diceva “forestieri”, parola migliore che indica soltanto la provenienza da fuori, non l’estraneità, la diversità), che nella stragrande maggioranza dei casi sono soli, vengono sbattuti, “tradotti” (altro termine della burocrazia penitenziaria) nei quattro angoli del paese. Da una città del Nord a causa di uno sfollamento si può arrivare anche in Sicilia. Juburi era finito a Vasto, sul litorale abbruzzese. Condannato ad appena un anno e tre mesi era rimasto in carcere. Non risulta che avesse recidive, non aveva altre condanne e si protestava innocente per quella che aveva subito. Secondo la legge avrebbe potuto essere fuori. Per gli incensurati che incorrono in pene inferiori ai due anni è prevista la condizionale. Il pacchetto sicurezza, che per alcuni reati detti di «particolare allarme sociale» modifica questa norma, è stato approvato solo più tardi. Juburi deve essere incappato in un giudice che ha anticipato i tempi, uno di quelli che annusano con particolare solerzia la direzione del vento. Sicuramente non aveva avvocato, non poteva permettersene uno bravo. Avrà avuto un legale assegnato d’ufficio che senza parcella non si è minimamente interressato al suo caso. Per lui nessuna misura alternativa.
Se sei straniero non vale. È più facile che ti condannino perché su di te pesa un pregiudizio sfavorevole. Magari ti manca il permesso di soggiorno e hai una residenza al nero che non puoi certificare. Allora non ti resta che accettare il carcere e aspettare che passi. Potresti fare una richiesta di rimessa in libertà, ma non lo sai, non parli bene la lingua, non conosci le leggi, ti chiedono solo di rispettarle. Hai solo doveri ma non diritti. Magari sei sfortunato e non incontri nessuno che vuole o può aiutarti. Nessuno che si sofferma a parlarti, che ti chiede da dove vieni, perché sei lì. Sei solo un paria, uno dei tanti buttati in fondo a una cella. Non capisci cosa succede e perché ce l’hanno tanto con te che volevi solamente vivere, mangiare, vestirti, avere una donna, dei figli. No, per te non vale. Allora ti monta la rabbia, una rabbia che ti torce le budella, ti prende lo stomaco, ti fa digrignare i denti. Vorresti urlare al mondo quell’assurda situazione, ma oltre le mura del carcere c’è solo campagna. Una bella campagna che ti ricorda la tua terra. Gli alberi da frutto, gli ulivi. Ricordi quando eri bambino e correvi tra i campi di grano. Invece ora apri gli occhi e vedi solo sbarre e cemento mentre la vita scorre ritmata dal rumore di grosse chiavi d’ottone. Fuori non c’è nessuno, solo il vento. La rabbia allora fa il cammino inverso, ritorna in te, s’impadronisce del tuo corpo, lo usa come un’arma. Diventi il luogo della lotta, lo strumento della protesta. Non hai altro. Hai solo quel corpo e lo usi.
Un filosofo che conosce quelle parole che tu non sai la chiama la «nuda vita». Tu fai della nuda vita il mezzo della rivolta. Non accetti quel che succede. Smetti di mangiare. I primi giorni senti freddo, tanto freddo. Brividi atroci lacerano le tue ossa, la notte il cuore batte fortissimo, ti prende l’affanno. Poi senti come una febbre che ti brucia la pelle. Il corpo divora se stesso. Il tuo peso precipita ma già non senti più il morso della fame. Lo stomaco si è chiuso, le forze mancano, ma basta stare fermi e coperti. Le ore passano nel dormiveglia. Ormai sei nella vertigine e non sai più tornare indietro.
Dicono che sia un mezzo di lotta nonviolenta. Che fesseria! Non c’è forma più violenta di uno sciopero della fame, di un corpo che divora se stesso. Autofagia. Altri si mutilano, si tagliano a fettine. Sfregiano la propria pelle con cicatrici idelebili. Rughe che parlano di dolore. Piaghe vive, zampilli di sangue che sporcano i muri tra urla eccitate e fuggi fuggi generale. Un modo di richiamare l’attenzione, segno di fragilità, di disperata voglia di comunicare senza avere gli strumenti giusti per farlo. Nel 2007 (fonte Antigone) gli atti di autolesionismo recensiti sono stati 3687. Circa duemila in meno del 2004, grazie agli effetti dell’indulto. Comunque l’8,14% della popolazione detenuta. La triste storia di Alì Jaburi insieme a queste cifre cifre ci dice che il carcere è il problema, non la soluzione.

Il detenuto Alì, lasciato morire di fame

di Piero Sansonetti, Liberazione 13 Agosto 2008

Alì Juguri era un cittadino iracheno, arrestato in Italia per il tentato furto – pare – di un telefonino. Detenuto da molti mesi aveva iniziato uno sciopero della fame durissimo. Carcere di Vasto, carcere dell’Aquila, poi in ospedale. Si dichiarava innocente. Il tribunale, in primo grado, lo aveva giudicato colpevole e lo aveva condannato a un anno e qualche mese. Non sappiamo perché Alì non avesse ottenuto la condizionale e la scarcerazione. Non sappiamo come fosse stata impostata la sua difesa.
La storia di Alì Juguri (la leggerete a pagina 2) è una storia semplice e come tutte le cose veramente semplici è importante. È una storia di carcere, di pena certa – come si dice oggi – di sistema giudiziario. E poi, soprattutto, come avete capito, è una storia di morte. Perché Alì è morto, due giorni fa, nell’ospedale de L’Aquila. Da tre mesi era ricoverato lì perché aveva deciso di non mangiare più dal momento che non trovava nessun altro modo per proclamare la sua innocenza, per protestare contro le istituzioni e cercare giustizia. Noi non sappiamo quasi niente della vita di questo iracheno di 42 anni. Sappiamo che è entrato in carcere a Milano una decina di mesi fa, che non ha avuto una buona tutela giudiziaria perché gli avvocati che lo hanno “assistito” non hanno provato nemmeno ad ottenere per lui la condizionale, e perché dopo la condanna di primo grado è stato “frullato” via come tanti suoi simili, stranieri, dal carcere milanese, per sovraffollamento, e mandato a Vasto. Da Vasto a l’Aquila.
C’è qualcosa, nella sua storia, che – come una lente di ingrandimento – ci permette di osservare questo sistema giudiziario elefantiaco, obeso, burocratico. E’ un sistema giudiziario che deve rispondere a tre «potenze», a tre «caste»: i giudici, la politica e l’opinione pubblica. Tre «caste» in lotta perenne tra loro e in grado di condizionarsi, danneggiarsi, aiutarsi. Il «patto» tra queste tre potenze è sempre in bilico, e tiene sempre in bilico gli equilibri della politica italiana. Ma sempre trova un suo equilibrio. Basato su che cosa? Sulla necessità dei giudici di mantenere il proprio potere, sulla necessità dei politici di proteggere se stessi e le classi dominanti, sulla necessità dell’opinione pubblica di ottenere promesse di giustizia, di punizione dei colpevoli o presunti, di vendetta.
La chiave che permette questo equilibrio è quella del garantismo temperato. In che modo? Impastandolo con il giustizialismo, sulla base di una netta distinzione di classe: garantismo discreto per i ceti più solidi, per i politici, per gli stessi giudici, per chi è in grado di pagare; severità e sospensione dei diritti per i più deboli. Specie per quelle fasce di popolazione universalmente riconosciute come «estranee»: per esempio gli stranieri, o i piccoli delinquenti, i tossicodipendenti, le prostitute.
Questo «patto» per la giustizia è quello che ha sempre impedito la riforma della giustizia. Ha permesso, con aggiustamenti successivi, di non toccare nessun privilegio e di scaricare sulla parte più debole della società il prezzo.
Alì ha pagato questo prezzo. Alì, che probabilmente era innocente – e certamente lo era fino al pronunciamento della Cassazione – ma è che è morto, non sappiamo per la responsabilità di chi, senza poter ottenere giustizia. E senza suscitare grande scandalo, visto che ieri era quasi impossibile trovare notizie su di lui: il mondo dell’informazione non è affatto interessato, e nel mondo politico gli unici a muoversi, al solito, sono stati i radicali (interrogazione Bernardini-Turco: grazie).
Oggi non si grida allo scandalo per uno che muore da detenuto. Si grida allo scandalo per l’indulto, perché ogni tanto c’è qualche disgraziato che torna sulla via del delitto (anche se le cifre ci dicono che statisticamente chi ha goduto dell’indulto torna a delinquere in misura tre volte inferiore rispetto a chi esce dopo aver scontato tutta la pena). Ma il vero scandalo dell’indulto è che non è servito a molto. Le carceri sono di nuovo piene, e sono piene di persone – moltissimi stranieri – accusate di reati per i quali la carcerazione potrebbe non essere necessaria. Lo scandalo è che l’indulto avrebbe dovuto essere un piccolo passo, e poi ci sarebbe dovuta essere l’amnistia e poi la riforma. E invece la finta guerra tra politica e magistratura rende impossibile tutto questo. Finché noi non riusciremo a indicare in questo patto tra i due “poteri” il colpevole per la mancata giustizia, continueremo ad essere vittime di un antipolitica che è il cemento dell’alleanza ipocrita e gaglioffa tra i poteri, e del loro dominio incontrastato.

La Francia ha deciso di scarcerare Marina Petrella

Finisce l’incubo dell’ex Br, in pessime condizioni di salute

di Paolo Persichetti

Liberazione 6 agosto 2008

Dopo una battaglia di 11 mesi e 24 giorni, dopo che il corpo stesso di Marina Petrella è sceso in lotta deciso ad affrontare l’estrema resistenza, quello sciopero della vita che la stava lentamente spegnendo, ultima disperata vendredi_28_mars_5 evasione dal fine pena mai, la chambre d’accusation della corte d’appello di Versailles ha deciso ieri la sua scarcerazione per ragioni di salute. L’ex militante delle Br da oltre un decennio rifugiata in Francia grazie alla protezione della dottrina Mitterrand è stata rimessa in libertà sotto controllo giudiziario.
Non potrà lasciare il territorio francese, dovrà sottoporsi alle cure mediche necessarie nell’ospedale saint- Anne di Parigi, dove era stata ricoverata il 23 lugio scorso. Se il suo stato di salute lo consentirà, una volta dimessa dovrà sottostare all’obbligo di domicilio presso l’abitazione familiare e firmare periodicamente presso il commissariato di zona. «Questo risultato è solo un primo passo», ha dichiarato la figlia Elisa Novelli, nata in un carcere speciale italiano all’inizio degli anni 80 e in prima fila nella battaglia contro l’estradizione della madre. «Il nostro impegno proseguirà con la richiesta al presidente Sarkozy di ritirare il decreto applicando la clausola umanitaria prevista nella convenzione europea sulle estradizioni», ha poi concluso. Ora la piccola Emma, la seconda figlia della Petrella nata in Francia, potrà rivedere la madre. Forse non subito viste le condizioni di salute dell’esiliata italiana arrivata a pesare 39 kg. «L’ho trovata estremamente indebolita, si direbbe che sia invecchiata di 20 anni. Mi ha guardato negli occhi e mia ha detto: “lo sai che sarà dura, ma avranno soltanto il mio cadavere. Non porteranno via nient’altro”», ha raccontato Hamed ad una radio parigina, il compagno che aveva finalmente potuto rendergli visita per la prima volta dopo tre mesi.
La decisione era nell’aria da alcuni giorni, dopo il cordoglio suscitato dalla scomparsa di uno degli avvocati di Marina Petrella, Jean-Jacques De Félice, figura storica del foro di Parigi sempre in prima fila nella difesa dei sans papiers e dei senza tetto, membro del comitato di difesa dell’Fln ai tempi della guerra d’Algeria. A smuovere le acque è stata anche la ferma presa di posizione del professore Frédéric Rouillon, titolare della cattedra di psichiatria presso l’università René-Descartes che in passato aveva denunciato la presenza di gravi errori nelle scelte terapeutiche impiegate sulla fuoriuscita. Sulle pagine del quotidiano Libération del primo agosto, il responsabile del servizio dove la Petrella è in cura, aveva spiegato che il ricovero d’urgenza della paziente era avvenuto disattendendo quanto previsto dalla legge. Per questo motiva domandava una sua rapida scarcerazione affinché potesse essere sottoposta ad un trattamento terapeutico efficace. Non c’è stata, quindi, nessuna particolare sorpresa quando nella serata di lunedì 4 agosto le agenzie hanno diramato la notizia che il giorno successivo sarebbe stata discussa la rimessa in libertà, su richiesta della stessa procura generale che annunciava anche il suo orientamento favorevole alla scarcerazione.
Se è vero che questa decisione non influisce minimamente sulla proseguio della procedura d’estradizione, il Consiglio di Stato deve infatti ancora pronunciarsi sul ricorso sospensivo depositato dall’avvocato Irène Terrel, tuttavia segnala un evidente cambio di rotta del potere politico francese.
Un cambio di strategia che si era già palesato con le dichiarazioni rese dal presidente della repubblica francese a conclusione del vertice del G8 in Giappone e con l’invio di una lettera al primo ministro Berlusconi, nella quale si chiedeva al governo italiano di farsi latore di una domanda di grazia presso il Quirinale. Gli argomenti esposti da Sarkozy sono andati col tempo affinandosi dopo la confusione iniziale. Soprattutto l’ospite dell’Eliseo ha insistito ripetutamente sull’insensatezza di sanzioni penali, per giunta infinite, che restano ancora pendenti a distanza di decenni dai fatti incriminati.
Che Sarkozy sia in qualche modo tornato sui suoi passi, lo dimostra anche la politica globale messa in campo negli ultimi tempi sull’intera materia dei residui penali dei conflitti politico-sociali che hanno segnato la fine del Novecento. È di questi giorni, infatti, la concessione della liberazione condizionale a Nathalie Ménigon, membro di Action directe in semilibertà da un anno, arrestata nel 1987 e condannata a diversi ergastoli. Dopo Joëlle Aubrun, liberata a seguito delle sue gravi condizioni di salute e deceduta nel frattempo, e Jean-Marc Rouillan, messo in semilibertà da alcuni mesi, Sarkozy ha deciso la chiusura degli «anni di piombo» francesi. Tutti i militanti legati alla stagione della lotta armata svoltasi in Francia tra la fine degli anni 70 e gli anni 80 sono stati concentrati nell’istituto penitenziario di Fresnes, nella periferia sud di Parigi, dove è presente il Centro d’osservazione nazionale incaricato di valutare la pericolosità sociale dei detenuti prima che questi vengano ammessi al regime di prova della semilibertà e successivamente in libertà condizionale. Sono altre le emergenze che preoccupano il presidente francese. Le nuove politiche securitarie si indirizzano ormai contro i migranti, i residui penali del Novecento rappresentano solo una zavorra anche per la visibilità sociale dei vecchi militanti incarcerati, sostenuti da una parte della società civile che ne chiede da tempo la scarcerazione. Solo in Italia il passato divora il futuro e si nutre di vendette senza fine. Come è accaduto per Rita Algranati estradata nel 2004 per scontare l’ ergastolo.