Il Berlinguer falso alla mostra del Berlinguer vero

All’ex mattatoio di Testaccio a Roma si è tenuta la mostra organizzata dall’associazione Enrico Berlinguer, patrocinata dall’assessorato alla cultura del comune e dalla Fondazione Gramsci

Era lì in bella mostra, esposto su un enorme tavolo che raccoglieva un centinaio di pubblicazioni dedicate a lui, Enrico Berlinguer, segretario del partito comunista italiano dal 1972 al 1984. Si tratta di un famoso falso editoriale, apparso nel 1977, a nome di Enrico Berlinguer, ma preso ancora oggi per vero, tanto da trovarsi mischiato con gli altri volumi scritti o dedicati al segretario del Pci. Titolo: Lettere agli eretici. Epistolario con i dirigenti della nuova sinistra italiana, Einaudi, Nuovo Politecnico 99, Febbraio 1977, 120 pagine. Testo scritto, poi si scoprì, da un situazionista torinese, PierFranco Ghisleni che sbeffeggiò in questo modo il segretario del più grande partito comunista d’Occidente, l’ultimo dei grandi segretari indiscussi, magnetici, amati dal popolo comunista. Crollato sul campo di battaglia, colpito da un’emorragia celebrale devastante durante un comizio a Padova, di fronte alla folla che gli chiedeva di smettere mentre bianco in volto, sofferente e con i conati di vomito si aggrappava al microfono per concludere il suo discorso. Una morte tragica ed eroica davanti al suo popolo che lo trasformò in un mito e portò oltre un milione di persone in strada al suo corteo funebre e il Pci a scavalcare per la prima ed unica volta la Dc alle elezioni, anche se erano solo le europee. Tutto questo era raccontato nella esposizione, ricca di materiali documentali e iconografici, organizzata dall’associazione amici di Berlinguer ma pensata soprattutto per i nostalgici.

Ma torniamo al noto falso che colpisce ancora e confonde chi se lo trova tra le mani, come gli espositori stessi. Perché di falsi esposti ve ne erano altri, ma stavolta presentati come tali: il falso numero dell’Unità del lunedì pubblicato dal Male, la micidiale rivista satirica fondata nel 1977 da Pino Zac con Vincino, Angese, Jacopo Fo, Pazienza, Pasquini, Saviane, Perini, il grafico Fascioli e Vincenzo Sparagna, col titolo a caratteri cubitali, «Basta con la DC», che tanti militanti fece sognare e sperare. Un successo di vendite enorme che la diceva lunga su quanto fosse poco amato dalla base del partito il patto scellerato con la Democrazia cristiana, quel «compromesso storico» pensato proprio da Berlinguer, rivelatosi una fallimentare strategia che lo stesso segretario provò a mettere nel cassetto all’inizio degli anni 80 senza riuscire veramente a convincere buona parte dell’apparato del suo partito, ormai non più partito di lotta ma solo di sottogoverno, adagiato sulle comode poltrone delle giunte degli enti locali: comuni, province, regioni e municipalizzate. L’ex ambasciatore Usa, Gardner, scrisse nelle sue memorie che nel 1979 lunga era la fila di parlamentari a amministratori del Pci che attendevano davanti all’ingresso della sua residenza a Villa Taverna. Il console statunitense di Milano dedicò a quel Pci un lungo rapporto realizzato dopo una serie di incontri con l’apparato intermedio, il ventre del partito. Inchiesta realizzata per accertare quanto fosse veritiero e profondo il mutamento antropologico che aveva attraversato quella forza politica.

La lettera agli eretici, scritta dal falso Berlinguer fu un abile e gustoso détournement che incarnava lo spirito irriverente del movimento del ’77, sbeffeggiava il Pci definito «partito dell’intelligenza cinica» ma anche esponenti politici e intellettuali in polemica con Botteghe oscure e a cui sono indirizzate le lettere. Ci sono un po’ tutti i filoni politici, culturali che animavano il conflitto politico all’estrema sinistra nel 1977: i radicali, con Marco Pannella a cui è dedicato il primo capitolo, seguono Adele Faccio e Angelo Pezzana, quest’ultimo tra i fondatori del movimento omosessuale Fuori, quindi è il turno del critico cinematografico Goffredo Fofi, segue un esponente della lotta armata in carcere, definito mister X, Andrea Valcarenghi di Re nudo, Antonio Negri per l’Autonomia e gli Indiani metropolitani per i creativi, vittime della loro stessa irriverenza. Un universo variegato che all’epoca agitava la spazio sociale a sinistra del Pci, suscitando incubi, tormenti e dolori di pancia ai suoi dirigenti.

Si scatenò subito una caccia all’autore misterioso, Einaudi presentò denuncia e Giulio Bollati che all’epoca lavorava in Einaudi replicò su Tuttolibri dando del reazionario all’autore senza nome, «Identikit di un falsario». La risposta di Ghisleni apparve in un libricino, Il Caso Berlinguer e la Casa Einaudi. Corrispondenza recente, a firma di Gianfranco Sanguinetti, peraltro indicato da Bollati come uno dei sospetti autori del falso (lo trovi qui).
Questa storia avrebbe meritato un pannello dedicato all’interno della mostra. Ma così non è stato. D’altronde perché stupirsene in un’epoca che ci ha abituato a non distinguere più il falso dal vero (vedi qui un esempio preso da un sito ipercomplottista caduto nel tranello. Ovvio, altrimenti non sarebbe stato complottista, www.iskrae.eu).

Il caso Moro e Report, quante bugie. Signorile e l’artificiere di via Caetani si smentiscono a vicenda

di Paolo Morando, Domani 11 gennaio 2024

Davvero l’ex esponente socialista e l’allora ministro degli interni Francesco Cossiga seppero della morte di Moro diverse ore prima del rinvenimento del suo cadavere in via Caetani?

Davvero Claudio Signorile e l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, il 9 maggio 1978, seppero della morte di Aldo Moro diverse ore prima del rinvenimento del suo cadavere in via Caetani?
È solo uno dei tanti elementi del servizio di Report di domenica scorsa sul rapimento e l’uccisione dello statista democristiano da parte delle Brigate rosse, ma è forse quello più suggestivo, tra le miriadi di dubbi, zone d’ombra e presunti misteri su cui dopo decenni si discute ancora oggi, a oltre 45 anni dai fatti.
Tutto ruota attorno a una questione sostanziale: quell’agguato, quel rapimento e quell’uccisione furono tutta farina del sacco brigatista? Oppure vi fu chi “diresse” (o “facilitò”) quell’operazione? E, seguendo questa ipotesi, chi? Servizi segreti, P2, Cia, Kgb, Mossad: da questa maionese impazzita nessuno è stato lasciato fuori. Ma la giustizia ha da anni chiuso la partita, attraverso più processi. E neppure le due inchieste ancora aperte a Roma, condotte dalla procura ordinaria e da quella generale, sembrano fare passi in avanti.
Nel frattempo si è fatto strada un inesauribile filone di pubblicazioni in controtendenza con quanto è stato appurato nelle Corti d’assise. E oltre ai processi ci sono le commissioni parlamentari d’inchiesta. A una prima, specifica, istituita nel 1979 e che chiuse i propri lavori nel 1983 (gli atti sono contenuti in centotrenta volumi, ognuno dei quali composto mediamente da svariate centinaia di pagine), in anni recenti se n’è aggiunta una seconda, la cui documentazione pure consta di migliaia di carte.
Anche commissioni d’inchiesta istituite su altri temi (stragi, P2, Mitrokhin, Antimafia) di Moro si sono lungamente occupate. Aggiungete a tutto questo più opere cinematografiche, una moltitudine di inchieste giornalistiche sulla stampa o in tv, romanzi di para-fiction, opere teatrali… E poi i dibattiti in rete, in cui si discute senza sosta su particolari più o meno rilevanti della vicenda.

La perizia balistica del 2016 che Report non cita
Lo spazio non consente di riprendere qui punto per punto le mille suggestioni di Report, basate principalmente sui lavori della commissione Moro 2, quella presieduta da Giuseppe Fioroni.
Nella trasmissione, a un certo punto, è però stato detto che mai sono state eseguite perizie balistiche aggiornate rispetto a quelle di oltre quarant’anni fa. Lo si diceva a supporto dell’ipotesi secondo cui a sparare il 16 marzo 1978 in via Fani non sarebbero stati solo quattro brigatisti (Fiore, Morucci, Gallinari e Bonisoli), ma anche un altro paio, finora sconosciuti.
E che lo avrebbero fatto non da sinistra, come nella ricostruzione fin qui accreditata, bensì da destra. Ebbene, proprio la Moro 2 si è invece giovata nel 2015 di una perizia balistica compiuta dalla polizia scientifica. E i risultati, che avvalorano la versione brigatista, sono stati recepiti nella stessa relazione del presidente Fioroni conclusiva dell’attività di quell’anno.

Dubbi sull’uso di una moto nell’azione. Le bugie del testimone Marini e il parabrezza mai attinto da colpi di mitraglietta
Non solo. Sempre nella relazione, si sottolineano «due acquisizioni» raggiunte dalla polizia scientifica: «La prima riguarda la scoperta che il parabrezza di Marini non è stato attinto da colpi d’arma da fuoco come finora si è creduto».
E si tratta di quell’ingegnere a bordo di uno scooter che sarebbe stato preso di mira da due motociclisti in fuga da via Fani: vicenda del tutto destituita di fondamento, come lo stesso Marini dovette ammettere in un verbale ancora nel 1994. Il che, per inciso, pone in discussione l’esistenza stessa di quella motocicletta, della cui presenza in via Fani parlarono solo tre degli oltre trenta testimoni a suo tempo messi a verbale.

Nessun superkiller
Ancora, sempre citando Fioroni: «Il secondo punto acquisito dalla polizia riguarda la messa in crisi dell’idea che a via Fani abbia operato un super killer. È vero infatti che vi fu una bocca di fuoco che sparò da sola quarantanove colpi, ma è stato dimostrato che ciò avvenne con una precisione non particolarmente elevata (da quell’arma soltanto sei colpi andarono a bersaglio, attingendo l’agente Iozzino)».
Altro che super killer. Il fatto che poi quella perizia sia stata «oggetto di un’attenta analisi critica da parte di alcuni componenti della Commissione», come scrive Fioroni, conferma una volta di più che anche elementi scientifici possono servire per tirare l’acqua al proprio mulino.

La prigione di Moro fu una sola
Altra questione ampiamente analizzata da Report: davvero Moro è stato tenuto prigioniero nell’appartamento di via Montalcini 8? È stata citata una mezza dozzina di possibili covi alternativi, dei quali pure si parla da anni. Si può però davvero pensare che le Brigate rosse abbiano spostato l’ostaggio più volte nella Roma militarizzata di quelle settimane? Ma soprattutto: perché farlo se davvero le Br erano protette da entità indicibili?

Signorile da Cossiga e la questione dell’ora
Si diceva però di Signorile. La sua presenza nell’ufficio di Cossiga la mattina del 9 maggio è circostanza da tempo nota. Ma davvero al ministro la notizia della morte di Moro arrivò molto prima della telefonata con cui Morucci, alle 12.13, diede notizia al professor Tritto, assistente di Moro, che lo statista era stato ucciso e di dove si sarebbe potuto ritrovare il corpo? Rivedendo Report, ci si accorge che a dire «le 9.30-10» non è Signorile, bensì l’intervistatore.
Signorile peraltro lo lascia parlare senza interrompere, quindi di fatto conferma. Se così fosse, lo capite, si aprirebbero scenari vertiginosi – pure sviluppati da Report – su cui da anni la cosiddetta dietrologia non si è risparmiata. Qui il punto riguarda la validità delle testimonianze orali, soprattutto quelle di coloro avanti con l’età e rese a tanti anni dai fatti su cui la memoria viene sollecitata.
Inoltre, l’impossibilità di riscontrare tali testimonianze con tutti i protagonisti (in questo caso Cossiga). Anche perché l’orario dell’alert al ministro – si scopre rileggendo le tante dichiarazioni di Signorile – è ballerino. Come pure la rilevanza che diede alla questione l’esponente socialista.
Già nel 1980 (commissione Moro 1) Signorile raccontò quella mattina, collocando l’avviso a Cossiga della morte di Moro alle 11: orario inconciliabile con i fatti accertati. Nessuno dei parlamentari però pensò di chiedergli maggiori dettagli sul punto (e della commissione faceva parte pure il comunista Sergio Flamigni, da sempre capofila di chi non crede alle versioni “ufficiali”), probabilmente pensando che Signorile con quell’orario intendesse quello dell’appuntamento con Cossiga al Viminale.
Davanti alla Corte d’assise di Roma invece, nel 1982 in un lungo interrogatorio come testimone, Signorile non sfiorò minimamente la questione di quello strano orario. E anche nel 1999, davanti alla commissione Stragi (quella presieduta da Pellegrino), nuovamente nessun accenno: eppure non si trattava di una questione banale.
Poi, nel gennaio 2010 ne riparlò in una intervista all’Ansa: «Dopo pochi minuti che ero nella sua stanza, erano le 10 e mezzo-11, sentiamo l’altoparlante della centrale operativa, annunciare che la nota personalità era stata ritrovata al centro di Roma», disse a Paolo Cucchiarelli (autore di più libri a cui si è ispirato il servizio di Report). Non risulta che Cossiga abbia smentito.
Ma neppure che qualcuno ne abbia mai chiesto conferma all’allora senatore a vita. Tre anni più tardi (ma attenzione: Cossiga nel frattempo era morto, nell’agosto 2010), parlando con l’Huffington Post, Signorile tornò sulla questione: e collocò invece a mezzogiorno l’allarme a Cossiga. Mentre nel 2020, in una lunga intervista al Corriere della Sera (e l’intervistatore era Walter Veltroni), ecco ancora una volta il racconto di quella mattinata al Viminale. Ma senza alcun riferimento (e relativo sospetto) all’orario in cui Cossiga fu avvisato.
Nel frattempo Signorile era stato sentito anche dalla commissione Moro 2, il 12 luglio 2016: «Io vi sto testimoniando la telefonata vera, quella cioè della questura che chiama il ministro dell’Interno», disse. E all’allora senatore Miguel Gotor, che indicava come orario le 11, rispose: «Più o meno a quell’ora, sì».

L’artificiere Raso e Signorile si smentiscono a vicenda
Va detto che nel 2012 era stato pubblicato un libro di memorie dell’artificiere che intervenne quella mattina in via Caetani, Vitantonio Raso, il quale ha sostenuto di essere arrivato lì tra le 10.30 e le 10.45. E di aver parlato con Cossiga, che era già presente in strada. Peraltro non c’è traccia di sue relazioni di servizio.
Le affermazioni di Raso, per inciso, contrastano con quelle di Signorile: se Cossiga stava già in via Caetani, come poteva essere alla stessa ora con Signorile al Viminale? La procura di Roma, comunque, a suo tempo incriminò Raso per calunnia. E della cosa non si è più sentito parlare.
Che cosa ci dice tutto questo? Quanto meno che quell’orario non è riscontrato (né è più riscontrabile).

Gli orari della centrale operativa dei carabinieri
D’altra parte, il registro delle comunicazioni telefoniche della legione Roma dei Carabinieri di quel giorno attesta alle 13.50 il rinvenimento del cadavere nella R4 rossa, alle 13.59 la sua identificazione e dalle 14.01 in poi l’informazione a tutte le autorità, a partire dalla Presidenza della Repubblica. Ce n’è insomma abbastanza per prendere la cosa (assieme a molte altre) con tutte le molle possibili.

La domenica bestiale di Rai 3, Sigfrido Ranucci trasforma Report in una fabbrica di bugie sul sequestro Moro

Con un pressante battage pubblicitario diffuso sui social Sigfrido Ranucci e i suoi della trasmissione Report, un format d’approfondimento televisivo prodotto da Rai tre che attinge spesso al mondo opaco delle fonti riservate, propone per la prossima domenica 7 gennaio 2024 una inchiesta sulle verità che sarebbero rimaste fino ad oggi nascoste sul sequestro del leader democristiano Aldo Moro, avvenuto nel marzo del 1978 da parte delle Brigate rosse. Ranucci promette grandi novità ma dai promo che annunciano la trasmissione e da quanto lui stesso ha scritto nella sua pagina Fb di nuovo sembra esserci ben poco, comprese le improponibili fake news sostenute dall’ex giudice Imposimato nella sua fase senile e che smentiscono quanto da lui fatto e scritto durante l’inchiesta e nei decenni successivi:

Argomenti infinite volte analizzati, scansionati, scarnificati durante cinque inchieste giudiziarie più altre due ancora in corso, quattro processi e relativi gradi di giudizio, quattro commissioni parlamentari, infinite inchieste giornalistiche, la memorialistica dei protagonisti, una sterminata produzione bibliografica, film, opere teatrali, blog e siti internet. Una mole gigantesca di parole, argomenti, ipotesi, suggestioni, congetture, fatti accertati e inventati, bugie, verità e menzogne, una sorta di aleph infinito e introvabile che mai è approdato a dimostrare il contrario di ciò che è realmente accaduto in quei 55 giorni e in quei diciannove anni, dal 1969 al 1988: il sequestro fu opera delle Brigate rosse, le Brigate rosse erano composte solo da operai, studenti, donne, giovani delle periferie urbane, meridionali migrati nel settentrione, le lettere di Moro erano di Moro, la fermezza, il rifiuto della trattativa chiesta prima da Moro e poi dalla Brigate rosse fu una decisione scellerata e autolesiva delle forze politiche, Dc e Pci in primis.
Rievocare aspetti già chiariti, come i pochi nastri registrati dell’interrogatorio poi distrutti per tutelare la voce di chi faceva domande e discuteva con Moro (Moretti) e dopo pochi giorni non più utilizzati perché Moro scriveva tantissimo, senza bisogno di essere sollecitato, o la falsa informazione sulla mancata pubblicazione dell’interrogatorio, sequestrato in realtà dai carabinieri il primo ottobre 1978 in via Monte Nevoso a Milano, quando ancora era in fase di editing.
Tirare in ballo l’assenza di una macchina blindata, che Moro non aveva perché non aveva incarichi istituzionali (e che non avrebbe fermato i brigatisti) e i protocolli di sicurezza non erano aggiornati facendosi così cogliere impreparati, tanto che dopo il sequestro furono vagliati in sede Nato dando luogo a un aggiornamento delle misure di sicurezza studiate proprio sull’esempio dell’attacco subito in via Fani (tutto ciò è documentato negli archivi resi accessibili negli ultimi anni e pubblicato anche in un libro), è solo la prova della inconsistenza di una inchiesta che cerca il sensazionalismo senza avere dalla propria parte solide fonti.
Per non parlare delle affermazioni del povero Scotti, ex esponente di una corrente Dc (i nuovi dorotei della «corrente del golfo» travolta da inchieste giudiziarie per i rapporti molto stretti con la camorra, il voto di scambio, corruzione e affarismo) da sempre contraria alla politica di Moro, suo avversario di partito, che appare ridicolo nell’evocare un Moro antiatlantista, proprio lui che tra i capi di governo fu uno di quelli che più di ogni altro fece uso del segreto di Stato, gli omissis, per coprire i tentativi di golpe, i dossieraggi contro gli avversari politici, le compromissioni dei servizi segreti (che sapeva maneggiare benissimo) negli anni dell’atlantismo più eversivo che volle coprire più che difendere, animato da un profondo conservatorismo delle istituzioni.
Richiamare il ruolo di Kissinger quando l’amministrazione Usa non era più in mano a Nixon, dopo lo scandalo Watergate, ma al democratico Carter con Vance e Brzezinski a governare la politica estera e la sicurezza nazionale. Oppure citare perizie dei carabinieri (del tutto inesistenti) che smentirebbero l’esecuzione di Moro nel garage di via Montalcini, con tanto di testimone che vide il frontalino della R4, come ha fatto Ilaria Moroni, la presidente della Fondazione Flamigni, una delle agenzie più attive nella intossicazione dei fatti e nella produzione di fake news, allorché le prove di tiro e acustiche nonché gli studi sulle macchie di sangue svolte dal Ris, su richiesta della Cm2 nel garage di via Montalcini, sui vestiti di Moro e sulle foto che ritraggono la Renault4, dove venne ucciso e fatto ritrovare, hanno dimostrato la piena compatibilità col racconto dei brigatisti (Moretti, Braghetti, Maccari, Gallinari).
Quel poco che abbiamo visto in questi giorni è già sufficiente per ritenere che quella di domani, davanti alle bufale propinate da Report e ripetute da Sigfrido Ranucci, sarà una domenica bestiale.

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Moro, le bufale senza fine. Domenica su Report

di Frank Cimini

«Aldo Moro non può essere stato ucciso in via Montalcini e poi portato in via Caetani». Questo dice Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni, nella puntata di Report che andrà in onda domenica prossima 7 gennaio di cui è stato anticipato il contenuto in un trailer che riguarda la presentazione del libro scritto dall’ex ministro Vincenzo Scotti e dall’economista Romano Benini sulla politica di Aldo Moro.
«Sorvegliata speciale» è il titolo. «Le reti di collegamento della Prima Repubblica» il sottotitolo del pomo che racconta l’avversione degli Stati Uniti e soprattutto di Henry Kissinger per la politica di Moro.
Scotti spiega che il segretario di Stato americano era nettamente contrario a che Moro assumesse responsabilità specialmente in relazione a Israele e Medio Oriente. Cose trite e ritrite sulle quali si discute da ormai mezzo secolo ma che servono per riproporre tutta la dietrologia possibile e immaginabile sulla strage di Via Fani e sul caso Moro.
Le perizie che dimostrerebbero che Moro non fu ucciso in via Montalcini di cui parla Ilaria Moroni non esistono, non hanno nulla da spartire con gli atti di ben cinque processi. Ma la dietrologia non finisce mai, le bufale continuano.
E per la fondazione Flamigni, dal nome dell’ex senatore Sergio Flamigni che fu l’antesignano dei misteri inesistenti, le bufale sul caso Moro si sono rivelate da sempre un affare a causa della consistente mole di finanziamenti pubblici dal ministero della Cultura.
40 mila euro il 9 gennaio del 2019, 38 mila euro il 15 aprile, 2000 euro il 15 ottobre. Vanno aggiunti 40 mila euro il 20 maggio dall’istituto centrale per gli archivi, 3491 euro il 7 agosto dall’Agenzia delle Entrate. Dal ministero 49.157 euro il 22 giugno, 8300 euro il 29 dicembre. Poi ancora altri soldi successivamente.
Per carità tutto regolare, tutto secondo la legge. Il primo febbraio del 2021 l’archivio viene trasferito presso lo spazio Memo per gentile concessione della Regione Lazio con visita e complimenti del governatore Zingaretti.
Per carità tutto regolare, tutto secondo la legge. Il primo febbraio del 2021 l’archivio viene trasferito presso lo spazio Memo per gentile concessione della Regione Lazio con visita e complimenti del governatore Zingaretti.
Dietrologia e complottismo vengono incoraggiati. Ogni 16 marzo, ogni 9 maggio, a dire che bisogna ‘cercare la verità’ è per primo il Presidente della Repubblica e del Csm a discapito dei processi dove sono state escluse responsabilità diverse da quelle delle Brigate Rosse.
Si tratta di esiti processuali ignorati dalle commissioni parlamentari e dalla procura di Roma che continuano la caccia alle streghe. Tra gli intervistati da Report c’è l’ex procuratore generale Luigi Ciampoli, che si vanta di aver indagato lo psichiatra Steve Pieczenik inviato in Italia dal dipartimento di Stato Usa.
L’accusa era di concorso nell’omicidio Moro. Non si sa che fine abbia fatto. Adesso c’è il pm Eugenio Albamonte a continuare la caccia e non ha ancora deciso cosa fare dell’inchiesta chiusa da tempo sul ricercatore indipendente Paolo Persichetti, che il gip aveva definito “indagine senza reato e chissà mai se ci sarà”.
La sensazione è che questa dietrologia, nel paese dove la Cassazione ha appena accusato il centro sociale Askatasuna di “pensare alla lotta armata”, serva non tanto per il passato quanto per governare oggi agitando un fantasma che con la realtà attuale c’entra zero.

* da Giustiziami.it

Le stragi dimenticate

Anniversari – A 54 anni di distanza, la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 è ormai un episodio dimenticato nella memoria pubblica. Al suo posto i solenni rituali commemorativi che cadenzano il cerimoniale istituzionale hanno edificato una nuova topolatria che celebra il 9 maggio 1978 per rappresentare il sacrificio versato ai valori legittimi. Quel momento drammatico che ha segnato il destino di una generazione indicando quale fosse il livello di violenza che gli apparati statali erano disposti a mettere in campo pur di impedire ogni cambiamento nel Paese è stato derubricato nella gerarchia degli eventi. Non è un caso se l’iniziale paradigma antifascista che ispirava il progetto costituzionale sia stato soppiantato da un nuovo mito fondativo: il paradigma antiterrorista che ostracizza gli anni 70, il decennio della sovversione sociale

Paolo Persichetti
Antifanzine Dicembre 2023


Se nell’estate del 1964 l’obiettivo del cosiddetto «piano Solo», la minaccia golpista ispirata dall’allora presidente della Repubblica Antonio Segni, era quello di esercitare una fortissima pressione sulle forze politiche che stavano dando vita ai governi del primo centro-sinistra, la stagione stragista iniziata cinque anni più tardi prenderà di mira direttamente la rivolta degli studenti del 1968 e le mobilitazioni operaie dell’«autunno caldo».

Le minacce di svolta autoritaria


Si tratta di una prima sostanziale differenza che separa la stagione del secondo dopoguerra, in particolare quella che prende avvio negli anni 60 caratterizzata da una lenta ma progressiva avanzata elettorale delle sinistre, il rafforzamento della opposizione parlamentare sostenitrice della necessità di profonde riforme di struttura, dall’apparizione sul finire del decennio e nei primi anni del successivo di un fortissimo ciclo di lotte sociali da cui scaturisce un nuovo spazio politico anticapitalista e rivoluzionario. Ad essere prese di mira sono queste nuove forme radicali di autonomia sindacale e politica, di autorganizzazione nei posti di lavoro (gruppi di studio operai-tecnici-studenti, comitati unitari di base, assemblee autonome) cresciute attorno alle vertenze per il rinnovo dei contratti, che si aprono nel maggio 1969, per saldarsi con l’attivismo degli studenti politicizzati davanti ai cancelli delle fabbriche dando vita all’«autunno caldo». Un enorme sommovimento di gruppi sociali, di giovani sradicati dalle loro terre d’origine influenzato da una rinnovata cultura politica marxista, dalla stagione delle lotte anticoloniali e dalla controcultura proveniente dagli Stati Uniti.

Il «piano Solo»


Nella prima metà degli anni 60 era bastato agitare la presenza di «piani di contingenza» nei quali si prospettavano misure d’eccezione per la tutela dell’ordine pubblico, come il «piano Solo» appunto, della cui realizzazione era stato incarircato il capo di Stato maggiore dell’esercito, generale dei carabinieri De Lorenzo, e nei quali si prevedeva l’internamento di «enucleandi», ovvero esponenti politici, parlamentari e sindacali della sinistra, il controllo dei punti nevralgici e di comando del Paese attraverso le brigate meccanizzate dei carabinieri che nella estate del 1964, tra la festa del 2 giugno e quella del 150esimo anniversario dell’Arma di metà giugno, erano confluite in massa nella Capitale insieme a reparti speciali e tecnici della comunicazione, per piegare il Partito socialista – dopo le dimissioni del primo governo Moro – e spingerlo durante le trattative per il nuovo esecutivo a un accordo al ribasso con la Democrazia cristiana rinunciando a riforme di struttura più importanti e incisive.

La stagione delle bombe


Nel 1969 a farsi sentire non saranno più le minacce di golpe, l’«intentona», come venne definita nella pubblicistica per distinguerla dal «pronunciamento» o da un «golpe» vero e proprio, o il «tintinnar di sciabole», secondo l’espressione utilizzata dal socialista Pietro Nenni, ma le bombe fatte esplodere con una strategia iniziale ben precisa: quella della false flag, ovvero con l’obiettivo di attribuirne la paternità ai gruppi della estrema sinistra secondo un copione consolidato che trae origine da alcuni principi militari codificati nei manuali della «guerra rivoluzionaria», la controguerriglia o guerra non ortodossa, oggi si direbbe «ibrida». Teorizzata nei manuali di alcuni ufficiali francesi che l’avevano sperimentata in Indocina, per poi impiegarla nella guerra d’Algeria ed esportarla nei regimi dittatoriali sudamericani, questa nuova dottrina, diffusa negli ambienti della destra europea da Yves Guérin-Serac, capitano dell’arme française in Indocina e in Algeria, militante dell’Oas, l’Organizzazione armata segreta che si oppose all’indipendenza algerina e dichiarò guerra a De Gaulle, fu discussa nel maggio del 1965 in un convegno sulla guerra rivoluzionaria promosso dall’Istituto Alberto Pollio, emanazione dell’ufficio Relazioni economiche industriali del Sifar, che si tenne a Roma all’hotel Parco dei Principi, radunando il gotha del neofascismo italiano ed esponenti dei Servizi poi coinvolti nella stagione delle bombe e delle stragi.

I gruppi neofascisti, infiltrati, manipolati o conniventi con strutture importanti degli apparati dello Stato e delle sedi Nato presenti in Nord Italia (il Comando delle forze terrestri alleate del sud Europa, Ftase, di Verona), deponevano bombe sul territorio nazionale (solo nel 1969 la cellula padovana di Ordine nuovo ne piazzò una ventina, tra esplose e inesplose) mentre polizia e carabinieri indirizzavano immediatamente le indagini verso i gruppi anarchici o le formazioni della nuova sinistra extraparlamentare. 
E’ una lista lunghissima che inizia molto probabilmente con le due bombe inesplose trovate davanti alla Rinascente di Milano nell’agosto e poi nel dicembre del 1968 per proseguire il 25 aprile con l’esplosione davanti alla fiera campionaria e alla stazione centrale di due ordigni a bassa intensità, «bombe carta» destinate a fare danni e suscitare terrore senza uccidere. Le prime indagini per mano della commissario Luigi Calabresi imboccarono subito la pista anarchica. Tra l’8 e il 9 agosto esploderanno altri 8 congegni esplosivi molto simili sui treni delle vacanze presso le stazioni di Chiari, Grisignano, Caserta, Aviano, Pescara, Pescina, Mira e ancora Milano stazione centrale e Venezia santa Lucia, altre due restarono inesplose, con un bilancio finale di 10 feriti. Bombe inesplose per problemi tecnici vennero ritrovate il 21 maggio e il 19 agosto davanti la Corte di cassazione e la procura generale della repubblica di Roma, il 24 luglio all’interno del tribunale di Milano e il 28 ottobre davanti alcuni edifici giudiziari di Torino. La scia proseguirà fino alla tragico pomeriggio del 12 dicembre dove nel giro di 53 minuti esploderanno tre bombe a Roma: la prima in una sede della banca nazionale del lavoro, la seconda a piazza Venezia e la terza all’Altare della patria, senza fare morti. Una bomba inesplosa venne trovata in piazza della Scala a Milano mentre un altro ordigno, stavolta molto potente, confezionato per uccidere, esplose all’interno della banca nazionale dell’agricoltura, in piazza Fontana, causando 17 morti e 88 feriti.

12 dicembre 1969, la strage dimenticata


Sul piano giudiziario e storico è ormai accertato che dietro quegli ordigni c’era la cellula padovana di Ordine nuovo che faceva capo a Franco Freda e Giovanni Ventura. Una struttura infiltrata dal Sid, sigla dei Servizi segreti dell’epoca. La loro responsabilità giudiziaria nella strage più cruenta, quella di piazza Fontana è stata fissata in modo definitivo soltanto nel 2005, in una sentenza di Cassazione dopo una lunga serie di pronunciamenti contraddittori e all’esito di nuove indagini e acquisizioni documentali e testimoniali. Ma nel 2005 Ventura era morto e Freda, protetto dal ne bis in idem poiché assolto in via definitiva in precedenza, non si è visto comminare alcuna sanzione penale. Per la lunga scia di attentati invece i due furono condannati fin dal primo grado a 15 anni di reclusione. Giudici e storici non hanno ancora trovato una risposta soddisfacente sulle ragioni che portarono i due nazifascisti a decidere la strage interrompendo la lunga serie di attentati più o meno dimostrativi realizzati prima del 12 dicembre. Intelligence e servizi di polizia erano al corrente dei progetti e delle azioni dinamitarde realizzate della cellule ordinoviste. La lunga serie di attentati con bombe a basso potenziale era funzionale alla creazione di un clima di tensione e paura nel Paese che, secondo i suoi ideatori e ispiratori, avrebbe dovuto suscitare una domanda d’ordine, l’introduzione da parte del governo di misure d’eccezione, una svolta autoritaria che avrebbe allineato l’Italia alle dittature portoghese e spagnola e al golpe dei colonnelli greci del 1967, oltre a consentire la repressione delle forze della sinistra estrema su cui veniva fatta ricadere la responsabilità concreta e morale delle bombe e la messa in mora delle organizzazioni ufficiali del movimento operaio. 
Si è ipotizzato che l’insofferenza e la frustrazione verso l’indecisione delle autorità di governo democristiane nel varare un giro di vite autoritario avrebbe spinto la cellula ordinovista a inalzare autonomamente il livello di violenza passando alla strage. In ogni caso gli apparati statali erano talmente compromessi che dovettero correre ai ripari: l’intera struttura dell’Ufficio affari riservati, l’intelligence della polizia, si precipitò nella questura di Milano per depistare fin da subito le indagini indirizzando l’inchiesta verso gli ambienti anarchici. Una forzatura violenta della verità che costò la vita a Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico fermato dal commissario Calabresi, trattenuto e interrogato illegalmente in questura per giorni e fatto precipitare dalla finestra degli uffici della polizia politica

Dall’antifascismo all’antiterrorismo 


A distanza di 45 anni, quella che viene ritenuta la madre di tutte le stragi, un momento drammatico di svolta che ha segnato il destino di una generazione di giovani militanti e che indicava chiaramente quale fosse il livello di violenza che gli apparati statali erano disposti a mettere in campo pur di impedire ogni cambiamento nel Paese, è ormai un episodio dimenticato nella memoria pubblica. Al suo posto i solenni rituali commemorativi che cadenzano il cerimoniale istituzionale hanno edificato una nuova topolatria che celebra il 9 maggio 1978 per rappresentare il sacrificio versato ai valori legittimi. Non è un caso se l’iniziale paradigma antifascista che ispirava il progetto costituzionale sia stato soppiantato da un nuovo mito fondativo: il paradigma antiterrorista che ostracizza gli anni 70, il decennio della sovversione sociale e delle lotta armata di sinistra.

1970, il golpe rientrato



Il cosiddetto «golpe Borghese», ideato da Junior Valerio Borghese, già capo della decima Mas di stanza a La Spezia durante la Repubblica sociale mussoliniana e fondatore nel dopoguerra del Fronte Nazionale, venne avviato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 (ingresso nell’armeria del ministero dell’Interno) ma poi fermato dallo stesso perché – si ipotizza – fossero venuti meno gli appoggi promessi. Questo golpe mancato appare direttamente connesso con la stagione delle bombe del 1969 di cui probabilmente voleva essere il corollario. E’ bene sottolineare che all’inizio del decennio Settanta ai settori industriali più avanzati, come la Fiat e Pirelli, non giovava affatto una svolta politica autoritaria ma piuttosto una situazione di crescita keynesiana con politiche economiche concertate con l’opposizione politica. Insomma i progetti golpisti non erano graditi, molto più interessante per gli interessi industriali apparirà il progetto di «compromesso storico» avanzato dal segretario del Pci, Enrico Berlinguer, tre anni dopo.

Strategie della tensione e rappresaglie fasciste senza una regia unica


La lunga stagione delle bombe, delle stragi, dei tentati golpe e degli organismi paralleli è passata alla storia sotto il nome di «strategia della tensione». Definizione che alcuni studiosi riconducono a un articolo apparso subito dopo la strage di piazza Fontana sull’Observer. Secondo altri, in realtà, prendeva origine da una frase di Aldo Moro sulla «strategia dell’attenzione», rivolta all’opposizione e pronunciata durante il congresso della Democrazia cristiana il 29 giugno del 1969, rivisitata durante i comizi dell’estrema sinistra dopo la strage. Nonostante l’indubbio successo e l’efficacia della definizione che ha ispirato una intensa pubblicistica e una convinzione ideologica ampiamente diffusa, la nozione ha sempre presentato numerose criticità accentuate con l’approfondimento delle conoscenze storiche. Oltretutto, col passar dei decenni, si è rafforzata l’interpretazione dietrologica del concetto fino ad estremizzarne la periodizzazione cronologica: estesa agli albori della Repubblica, con la strage di Portella delle ginestre avvenuta nel 1947 in Sicilia per mano degli uomini di Salvatore Giuliano, fino alle bombe mafiose del 1992-93 passando per la strage alla stazione di Bologna dell’agosto 1980.

Una narrazione «consolatoria» che riscrive il primo cinquantennio repubblicano sotto il segno di un unico disegno criminale dominato da forze occulte, poteri invisibili, complotti, minacce e crimini eversivi che avrebbero ostacolato la compiuta maturazione democratica del Paese. Lettura destinata a giustificare, in particolare, l’insuccesso della strategia politica attuata dal Pci nel corso degli anni 70 e successivamente l’avvento della stagione commerciale e politica berlusconiana.

Una lettura storicamente infondata poiché gli eventi citati non hanno le stesse caratteristiche, non rispondono a una medesima strategia, non sono coordinati tra loro, hanno attori diversi e si svolgono in fasi storiche e politiche molto differenti. Se la strage di piazza Fontana e le bombe del 1969 hanno molti elementi in comune con la strage di Peteano del maggio 1972 (autobomba che provocò la morte di tre carabinieri attirati in una trappola), i successivi eventi stragisti presentano aspetti diversi. Per Piazza Fontana e Peteano, realizzate entrambe da cellule odinoviste, le indagini si indirizzarono subito contro anarchici e Lotta continua coprendo i veri autori degli attentati, le cui attività erano ben note ai Servizi e alla forze di polizia. 


La strage di Gioia Tauro del luglio 1970 appare invece un episodio legato al contesto della rivolta di Reggio Calabria, egemonizzata dall’estrema destra. L’attentato che danneggiò la linea ferroviaria dove sfrecciava la Freccia del sud, provocando 6 morti e 77 feriti, e che vide il coinvolgimento di tre esponenti di Avanguardia nazionale, fu seguito da una intensa campagna di attentati dinamitardi. Ben 44, avvenuti tra il luglio 1970 e il l’ottobre 1972, contro le infrastrutture della rete ferroviaria.

La bomba alla questura e l’enigma Bertoli


Nel maggio del 1973 Gianfranco Bertoli, un personaggio dalla storia indecifrabile e dalla personalità borderline, lanciò una bomba a mano all’interno della questura di Milano durante la cerimonia di commemorazione del commissario Calabresi, ucciso l’anno precedente in un agguato mai rivendicato ma dalla magistratura attributo a distanza di decenni a una struttura coperta di Lotta continua. L’attentato mirava alla vita del ministro dell’Interno Mariano Rumor, che era sul posto per scoprire un busto dedicato alla memoria del funzionario di polizia, solo che alcune defaillances personali di Bertoli gli impedirono di centrare per tempo il bersaglio. L’ordigno, una bomba ananas a frammentazione, fece comunque 4 morti e 52 feriti. Bertoli ha sempre rivendicato la sua militanza anarchica, identità che mantenne coerentemente nei lunghi decenni di carcere collaborando persino con alcune riviste libertarie e intrattenendo una lunga corrispondenza con il teorico dell’anarcoinsurrezionalismo Alfredo Maria Bonanno. Prima di lanciare la bomba, l’anarchico o presunto tale aveva soggiornato in un kibbutz israeliano anche se il collaboratore di giustizia Carlo Digilio, ordinovista componente della rete veneta di informatori dei servizi segreti americani (nome in codice «Erodoto»), riferì in una fase successiva che a ospitarlo e armarlo erano stati alcuni membri di Ordine nuovo che lo avevano utilizzato per vendicarsi di Rumor, a cui rimproveravano di non aveva dichiarato lo stato di emergenza quando era presidente del consiglio. Una versione che tuttavia non resse alle verifiche giudiziarie. Negli anni cinquanta Bertoli era stato anche un confidente del Sifar all’interno del Pci (nome in codice «Negro»). Attività che non durò molto a causa della bassa qualità delle informazioni da lui fornite. Ancora oggi non è chiaro chi sia stato veramente Bertoli: un anarchico scapestrato che voleva vendicare la morte di Pinelli o un borderline manipolato dagli ordinovisti?

Poco precedente a quello di Bertoli è il tentativo di attentato sulla linea ferroviaria Genova-Roma, realizzato il 7 aprile del 1973 dal neofascista Nico Azzi che rimase ferito mentre preparava un ordigno esplosivo nel gabinetto del treno dopo essersi fatto notare dai passeggeri con una copia di Lotta continua in mano. Azzi era un militante della Fenice, un circolo milanese di orientamento ordinovista che faceva capo a Giancarlo Rognoni

Le stragi del 1974, una vendetta per lo scioglimento di Ordine nuovo


La strage di piazza della Loggia avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974 durante un comizio del Comitato antifascista locale (8 morti e 102 feriti) si distinse immediatamente dai precedenti episodi perché l’obiettivo colpito rivelava fin da subito la matrice politica neofascista degli esecutori. Dopo un lungo e travagliato iter giudiziario la Cassazione ha confermato la condanna finale di due ordinovisti: Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, quest’ultimo confidente del Sid di Padova col nome in codice «Tritone». Sono tuttora in corso altri due procedimenti contro gli ordinovisti veronesi Marco Toffaloni, all’epoca minorenne e che avrebbe materialmente deposto l’ordigno, e Roberto Zorzi.

Nel novembre del 1973 il movimento politico Ordine nuovo era stato sciolto dal ministro dell’Interno Taviani sulla base della condanna emessa dal tribunale di Roma per ricostituzione del disciolto Partito nazionale fascista. A causa di questo fatto, nel luglio del 1976 Pierluigi Concutelli, capo militare della struttura clandestina di Ordine nuovo, uccise a Roma Vittorio Occorsio, il pubblico ministero che aveva sostenuto l’accusa contro i dirigenti del gruppo neofascista.
 L’attentato di Brescia come quello successivo sul treno Italicus, nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 all’interno del tunnel Valdisambro (18 morti e 48 feriti), rivendicato da «Ordine nero» in un volantino che parlava di vendetta per la morte di Giancarlo Esposti, un fascista sanbabilino ucciso dai carabinieri sugli altipiani reatini il 30 maggio precedente, erano una chiara rappresaglia contro la messa al bando di Ordine nuovo.


Creato nei primi mesi del 1974, Ordine nero raccoglieva transfughi del disciolto Ordine nuovo, di Avanguardia nazionale e del Fronte nazionale rivoluzionario, struttura prevalentemente toscana. Fu protagonista dell’ultima stagione stragista caratterizzata da un’aperta dichiarazione di guerra contro lo Stato accusato di tradimento verso una esperienza politica, eversiva e golpista, che gli apparati avevano lungamente sostenuto, foraggiato, ispirato e manipolato. Nulla a che vedere dunque con i precedenti episodi che miravano ad attribuire alla sinistra la paternità degli eccidi con l’obiettivo di scatenare una risposta autoritaria dello Stato.

Ordine Nero e le bombe del 1974

Lungi dall’essere una ulteriore puntata della strategia della tensione questi due sanguinosi attentati, parte di una campagna più ampia avviata nel gennaio del 1974 a Silvi Marina, vicino a Pescara, dove una bomba fallì nel colpire l’ennesimo treno, appaiono piuttosto il segno sanguinoso della sua fine, la conseguenza dell’abbandono precipitoso e rovinoso da parte degli apparati statali che l’avevano utilizzata. Il 9 febbraio un altro ordigno venne ritrovato inesploso su un treno merci diretto da Taranto a Siracusa. A marzo un’esplosione fece saltare una rotaia nei pressi di Vaiano, vicino Prato, dove avrebbe dovuto passare il treno Palatino. La strage mancata fu rivendicata con un volantino di Ordine Nero ritrovato a Lucca. Ad aprile fu colpita la casa del popolo di Moiano, in provincia di Perugia. Nel complesso furono fatti esplodere tra Milano, la Toscana e Savona, oltre una decina di ordigni, culminati nell’attentato compiuto sulla linea ferroviaria di Terontola, il 6 gennaio 1975, a cui segui lo smantellamento del Fronte nazionale rivoluzionario di cui facevano parte Luciano Franci, Mario Tuti, Marco Affatigato, Andrea Brogi e Augusto Cauchi. Gruppo che ebbe contatti anche con Licio Gelli, al quale, secondo testimonianze di alcuni pentiti, Cauchi aveva chiesto un finanziamento per la sua attività politica.

La magistratura indaga sui progetti di golpe


Tra il 1973 e il 1974 vengono a galla, grazie a diverse inchieste condotte dalla magistratura, una serie di progetti di golpe di segno politico diverso anche se tutti caratterizzati dalla tentativo di scongiurare il «pericolo comunista». Non è possibile approfondire in questa sede una questa materia dagli intrecci estremamente complessi, ci limitiamo ad accennare brevemente alla indagine sulla «Rosa dei venti», portata avanti dal giudice istruttore Tamburino, e da cui emergeva traccia della presenza di strutture «parallele» interne agli apparati statali coinvolte nelle attività golpiste e stragiste. Testimone centrale nella ricostruzione di questa rete, siapur tra contraddizioni e reticenze, sarà il generale dell’esercito Amos Spiazzi. In anni più recenti la ricerca storica ha focalizzato meglio quanto avvenuto: accanto alla struttura Nato europea Stay behind, che in Italia aveva preso il nome di Gladio, apparato di difesa «non ortodosso» gerarchicamente dipendente dai comandi Nato, approntato per fare fronte ad una eventuale invasione militare delle truppe de patto di Varsavia e composto essenzialmente da membri della ex brigata Osoppo, partigiani bianchi antifascisti e anticomunisti, di cui si scoprì l’esistenza nella estate del 1990, dopo la vicenda del «piano Solo» venne messa in piedi una seconda struttura che dipendeva gerarchicamente dal ministero della Difesa. Si trattava dei Nuclei per la difesa dello Stato, apparato misto composto da membri selezionati degli uffici informativi dell’esercito, dei Servizi, dei carabinieri e di civili di dichiarata fede neofascista. Tra i membri di questa struttura disciolta nel 1973 vi erano molti ordinovisti. 

Un’altra inchiesta riguarda il Movimento armato rivoluzionario di Carlo Fumagalli e Gaetano Orlando. Fumagalli era un ex partigiano bianco legato ai Servizi inglesi. Ferocemente anticomunista organizzò una struttura clandestina armata con un forte insediamento in Valtellina, dove realizzò una serie di attentati dinamitardi contro tralicci dell’alta tensione che alimentavano le città e le industrie del Nord Italia. L’intenzione era quella di fronteggiare una eventuale offensiva di piazza o una vittoria elettorale dei comunisti. Nonostante il suo iniziale posizionamento antifascista, Fumagalli non disdegnò l’alleanza con i gruppi ordinovisti in vista di un colpo di stato.

L’esperienza più interessante appare tuttavia quella che venne definita il «golpe bianco», portato avanti da Edgardo Sogno, un altro ex partigiano della brigata Franchi, badogliana, liberale e anticomunista. Sogno aveva progettato in pieno agosto 1974 un «golpe liberale», un colpo di mano istituzionale di stampo presidenzialista, sul modello gollista della quinta repubblica francese che forte dell’appoggio dei vertici militari e istituzionali avrebbe dovuto sciogliere il parlamento, liberarsi del ventre molle democristiano ritenuto corrotto e irriformabile, creare un sindacato unico, internare le opposizioni di sinistra e di estrema destra, abolire l’immunità parlamentare e istituire un Tribunale speciale.

Agosto 1980, stazione di Bologna, una strage in cerca di movente



Sentenze e pubblicistica iscrivono la strage alla stazione centrale di Bologna del 2 agosto 1980, che fece 85 (forse 86) morti, e 200 feriti, come l’ultimo episodio della strategia della tensione anche se nell’ultima sentenza, quella di primo grado contro l’ex avanguardista Paolo Bellini, ritenuto insieme a Fioravanti, Mambro e Cavallini, appartenuti ai Nar, uno dei responsabili della strage, sulla scorta di un’ampia pubblicistica complottista si sostiene che la strategia della tensione sia proseguita fino alla stragi di mafia del 1992-93. In realtà nessuna delle tante sentenze è mai riuscita a indicare chiaramente un movente certo e convincente, tanto che solo nelle ultime motivazioni dei verdetti pronunciati contro Cavallini e Bellini ci si addentra sull’argomento, identificando come mandante la P2 di Licio Gelli, nel frattempo defunto, che avrebbe agito per rafforzare la propria capacità ricattatoria all’interno di equilibri occulti di potere. Una ipotesi tra le tante, per altro completamente sganciata dalle logiche della strategia della tensione enunciate in passato.

Nel 1980 la situazione internazionale stava rapidamente mutando: nel maggio dell’anno prima in Inghilterra era salita al governo la tory Margaret Teatcher, un anticipo della cosiddetta controrivoluzione neoliberale che si imporrà definitivamente con l’insediamento alla Casa Bianca del conservatore repubblicano Ronald Reagan. In Italia il clima politico e sociale era profondamente mutato rispetto ai primi anni 70. Si era avviata la stagione del riflusso, il compromesso storico era stato sconfitto, il Pci aveva avviato il suo declino elettorale, il movimento operaio e gli altri movimenti sociali erano sulla difensiva, in forte difficoltà sotto i colpi delle profonde ristrutturazioni del sistema produttivo. L’estrema sinistra in crisi. Non esisteva più il «pericolo comunista» che aveva ispirato la stagione stragista dei primi anni 70. Nella seconda metà del decennio il Pci aveva dato ampia prova di moderatismo, aveva sorretto le istituzioni di fronte all’offensiva della sinistra armata con molto più impegno di altre forze politiche. Non vi erano più ragioni per ricorrere ad una strage di tale portata, la più grande in Europa prima di quella di Madrid del 2004, provocata da Al Quaeda. Anche se sappiamo che gli attentatori non avevano previsto conseguenze così catastrofiche dovute alla presenza di un treno sul primo binario che respinse l’onda d’urto facendo crollare l’edificio dove era situata la sala d’attesa di seconda classe. Per questo motivo si è anche guardato a eventuali ragioni internazionali, come la vicenda di Ustica o il posizionamento dell’Italia nel Mediterraneo. L’aporia giudiziaria rappresentata dall’assenza di un movente valido ha facilitato l’offensiva giornalistica della destra che ha tirato in ballo la cosiddetta «pista palestinese». Ipotesi di comodo, smentita dalla recente desecretazione del carteggio Sismi-Olp, agitata dalla destra con l’intento di riscrivere il paradigma delle stragi e liberare i fascisti e i loro eredi politici dalle responsabilità avute nella precedente stagione delle bombe e dei massacri. Questo tentativo di strumentalizzazione tuttavia non esime dal porsi le giuste domande sul reale movente di quel massacro.

L’attività della commissione Moro 2 finisce davanti ai giudici della corte europea di Strasburgo

Lunedì 4 DICEMBRE, ORE 16 presso Associazione della Stampa Estera via dell’Umiltà 83c, 00187 Roma la giornalista Brigit M. Kraatz presenterà il suo ricorso contro lo Stato italiano per averla sistematicamente calunniata in due relazioni parlamentari, Pellegrino (Comm su stragi e terrorismo) e Fioroni (Comm Moro 2) e nella recente sentenza di condanna contro Bellini per la strage di Bologna

Quando nel 2014 il democristiano Giuseppe Fioroni, allora parlamentare del Pd, si insediò alla presidenza della seconda commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro non pensava certo che l’attività della sua commissione sarebbe finita sotto giudizio davanti alla corte europea di Strasburgo.
Gli auspici erano ben altri: l’inevitabile gloria politica che gli sarebbe venuta per aver “finalmente disvelato” – come prometteva – la verità sul sequestro dello statista democristiano catturato dalle Brigate rosse nel marzo 1978 e ucciso dopo 55 giorni perché il suo partito, la Dc, insieme al Pci, non vollero trattare, e il conseguente inarrestabile slancio politico per la sua ulteriore carriera istituzionale.
Niente di tutto questo è accaduto. La Commissione si è persa in un labirinto infinito di ipotesi complottistiche senza esiti e senza produrre una relazione finale. Al fallimento politico della sua missione parlamentare si sono aggiunte polemiche e una serie di querele per calunnia contro alcuni suoi membri. L’onta finale è stata la stroncatura politica che ha messo fine alla carriera parlamentare di Fioroni. Ed oggi, come se non bastasse, arriva anche il ricorso davanti alla corte di giustizia europea di Strasburgo, presentata dalla signora Birgit M. Kraatz, una giornalista tedesca molto nota in Italia tra gli anni 70 e 90, corrispondente delle maggiori testate giornalistiche della Germania e della Tv pubblica Zdf. Una giornalista che per un intero trentennio ha coperto l’informazione politica italiana intervistando tutti i maggiori esponenti politici della penisola: segretari di partito, figure di primo piano dell’industria e della economia.
Come abbiamo già raccontato in passato (vedi qui, qui, qui e qui), il nome della signora Kraatz è indicato nell’ultima relazione che chiudeva il terzo anno di lavori della commissione come esponete di una formazione sovversiva tedesca, il «movimento politico 2 giugno» (Bewegung 2 Juni), responsabile di varie azioni armate e del rapimento dell’esponente della Cdu Peter Lorenz nel febbraio del 1975. Una intensa attività investigativa è stata condotta da diversi consulenti della commissione Moro 2 per assecondare questa tesi, un incidente clamoroso, una gaffe gigantesca ostinatamente ripetuta nonostante tutte le evidenze mostrassero il contrario. L’identità politica artefatta attribuita alla giornalista Kraatz serviva a dimostrare che Aldo Moro nei momenti successivi al sequestro sarebbe stato condotto nel complesso residenziale di via dei Massimi 91, nel quartiere della Balduina vicino alla zona del rapimento, dove all’epoca viveva anche Kraatz, per sostarvi in quella che sarebbe stata la sua prima prigione e successivamente essere trasferito.

Nulla di tutto questo è mai avvenuto, come mai la giornalista Kraatz è appartenuta al «movimento politico 2 giugno». Una calunnia contro la sua persona utile ad alimentare una gigantesca fake news. A ribadirlo ci sono due documenti della Bka, la Bundeskriminalamt, l’Ufficio della polizia criminale, ovvero la più alta autorità di polizia tedesca, che in due diverse occasioni su sollecitazione della signora Kraatz e dei suoi legali ha precisato la più totale estraneità della donna con le vicende della formazione politica sovversiva «2 giugno». I due documenti sono stati inviati, tra il febbraio e l’ottobre 2018, alla Commissione con richiesta di correggere quanto affermato nella relazione finale. Brigit M. Kraatz ha anche scritto all’allora presidente della Cm 2 Fioroni e a tutte le più alte cariche dello Stato, i due presidenti della camere e il Presidente della Repubblica, senza mai ottenere risposta e senza che la sua richiesta di correzione ottenesse soddisfazione. Oltre al danno si è infine aggiunta una beffa clamorosa: nelle motivazioni della sentenza di primo grado che condannava all’ergastolo il neofascista, legato ai “Servizi”, Paolo Bellini per la strage di Bologna, il nome della Kraatz è stato indicato nuovamente come esponente del «movimento 2 giugno». Non solo le sue richieste di correzione non sono mai state prese in considerazione, ma la calunnia è stata reiterata, estesa fino ad esser inclusa in una sentenza, sigillo di una nuova “verità giudiziaria” che va ad aggiungersi a quella politico-parlamentare. Due verità che tuttavia contrastano con quella storica.
Tra l’altro, solo in questi giorni, dopo le richieste pressanti della Kraatz e un articolo che dencunciava la vicenda (qui), i documenti della polizia tedesca che scagionavano la giornalista, inizialmente scomparsi dall’archivio della commissione, sono “improvvisamente riapparsi”. Il savraitendente all’archivio storico della Camera dei deputati, dottor Paolo Massa, ha comunicato che i due documenti e la lettera all’allora presidente Fioroni sono stati ritrovati nella sezione corrispondenza della Commissione anziché in quella documentale dove sono raccolti tutti i documenti prodotti o acquisiti dalla Commissione. Una collocazione che li ha invisibilizzati nonostante l’importanza del loro contenuto, impedendo ai ricercatori – che si avvalgono del portale dove è caricata la documentazione – non solo di poterli leggere ma di conoscerne l’esistenza. Una esistenza decisiva che inficia completamente quanto sostenuto nella terza relazione della Commissione a proposito del ruolo che avrebbe avuto il sito di via dei Massini 91.
Il ricorso davanti alla Corte europea di Strasburgo solleva una questione rilevante e dalle possibili conseguenze molto importanti per lo Stato italiano. Non si tratta solo di ripristinare l’onorabilità di una persona, tacciata di essere stata altro da quella che era effettivamente; in ballo ci sono le procedure che conducono alla costruzione delle “verità politiche deliberate” all’interno delle Commissioni parlamentari e del loro rapporto con la verità storica.
Il tema è quello della intangibilità delle asserzioni contenute nelle relazioni parlamentari una volta deliberate con il voto dei commissari e del parlamento. Se delle successive acquisizioni storico-documentali vengono a smentire quanto affermato all’interno di queste relazioni perché mai queste non possono essere corrette?

La cella di Gramsci

Archivio – Visita ai luoghi nei quali Gramsci trascorse la sua vita da recluso

Nonostante l’immunità parlamentare, l’otto novembre del 1926 Antonio Gramsci veniva fermato e arrestato insieme a tutti gli altri parlamentari del gruppo comunista. Tre giorni prima erano stati varati alcuni provvedimenti «per la sicurezza e la difesa dello Stato», ulteriore tappa delle norme «fascistissime» progressivamente approvate dal dicembre 1925 e che avevano dato forma allo Stato totalitario: sciolti tutti i partiti e le associazioni che si opponevano al regime; soppressi tutti i giornali d’opposizione; abolito il diritto di sciopero, istituito il confino di polizia per i dissidenti; introdotta la pena di morte per chi avesse attentato alla vita dei reali e del Duce; istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, lo stesso Mussolini assunse l’interim dell’Interno.
I comunisti si erano fatti trovare largamente impreparati di fronte alla svolta autoritaria tanto che alla fine del 1926 circa un terzo degli effettivi del partito erano in carcere. Condotto in un primo tempo nella prigione romana di Regina Coeli, Gramsci fu assegnato al confino di Ustica ma subito poi trasferito nel carcere di san Vittore a Milano per l’istruttoria. Nel maggio del 1928 fu condannato, nel corso del maxi processo al gruppo dirigente del Pcd’I, a una pena di reclusione poco superiore a vent’anni. Assegnato al carcere di Portolongone fu trasferito per ragioni di salute nella prigione di Turi, in Puglia. In seguito ai provvedimenti di amnistia e di condono per il decennale fascista, la sua condanna fu ridotta a 12 anni e 4 mesi. A causa di un aggravamento delle sue condizioni di salute, dopo diverse richieste nel 1933 viene trasferito in una clinica a Formia. Il 25 ottobre 1934 ottiene la libertà condizionale, che al contrario di oggi non prevedeva il «ravvedimento» da parte del detenuto. Nei mesi successivi si trasferisce a Roma, presso la clinica Quisisana, per un lungo periodo di degenza. Riacquisita la piena libertà nell’aprile 1937, muore il 27 dello stesso mese a causa di un’emorragia cerebrale.

Nessuno nel carcere di Turi dimenticherà il detenuto 7047

l’Unità 27 aprile 1950
Pagina 3
Domenico Zucaro

Turi aprile – Un po’ appartata e quasi isolata dai giardini pubblici se ne sta la casa penale di Turi, dove per più di cinque anni rimase «ristretto» Antonio Gramsci.

[…]

Indietro nel tempo
Sono passate le nove del mattino. E’ l’ora migliore per la visita. Due guardie carcerarie mi fanno entrare. Avverti la presenza di un qualche cosa che domina su tutta la vita di un penitenziario, dal momento che ti senti chiudere il grosso portone alle spalle. Allora non ti rimane che seguire i movimenti dell’agente-portinaio, numero uno, poi del secondo, di tutti gli altri infine. Entriamo cosi nel regno del «Regolamento». Sfoglio il grosso libro matricola. Giro le pagine e si va indietro nel tempo: a me interessa il numero 7047 che era quello di Antonio Gramsci durante la detenzione in questa casa penale.

[…]

Una dura odissea
Nello stesso imbarazzo mi sono trovato quando ho preso contatto con altre cose che riguardano direttamente Gramsci e sono ancora qui vive. Allora da tutto l’insieme ho avuto una nozione delle sue sofferenze, della condizione in cui per 5 anni e 4 mesi ha vissuto Gramsci in questo penitenziario.
Antonio Gramsci pare fosse stato assegnato in un primo tempo al penitenziario di Portolongone per scontare la pena di 20 anni e 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Alla richiesta del pm Isgrò, secondo il quale il cervello di Gramsci per vent’anni non avrebbe dovuto funzionare, il Presidente del Tribunale Speciale, Generale Saporiti, aderì in pieno ed aggiunse una pena accessoria di L. 6.200 di mutui e 3 anni di vigilanza, come risulta dal foglio matricolare.
Invece, date le sue condizioni di salute, Gramsci ebbe per destinazione Turi. Così il 19 luglio 1928 insieme a due detenuti comuni lombardi, condannati per appropriazione indebita e falso, vi giunse dopo una traduzione durala più di 15 giorni.
Questo trattamento indiscriminato metteva Gramsci sullo stesso piano dei detenuti comuni mentre ai detenuti politici in condizione di salute precaria spettava la traduzione diretta. A Gramsci fu riservato sempre il trattamento peggiore nei suoi trasferimenti da un carcere all’altro: lunghe soste su binari morti, viaggi su carri bestiame in pieno inverno e cosi via. Soltanto nel trasferimento da Turi a Civitavecchia gli fu consentila la traduzione più comoda. Difatti sul foglio matricolare, il 19 Novembre 1933 è la data di trasferimento, e sti sa che fu preso in forza lo stesso giorno dalla Casa Penale di Civitavecchia. Allora Gramsci era già in condizioni di salute disperate.
Il carcere di Turi nella classificazione degli stabilimenti di pena viene considerato come casa di cura per detenuti infermi. Ma non vedo come possa in buona fede essere sostenuta una tale distinzione, non so se e sufficiente per questo una misera infermeria sprovvista quasi di ogni specie di attrezzatura e la presenza saltuaria di un medico.

Il compaesano di Gramsci
I detenuti politici avevano un cortile tutto per loro, diviso dai «comuni», a mezzo di un doppio muro, tra cui corre una specie di camminamento. Qui Gramsci veniva nelle ore stabilite dal regolamento e s’incontrava con gli altri compagni che allora erano una cinquantina. E forse anche lui aspettava ansioso «l’ora dell’aria», come sempre hanno fatto e fanno t detenuti. Di questi ce n’è ancora uno. E’ l’ergastolano Faedda che vedeva tutti i giorni Gramsci. Quest’uomo ora ha 73 anni ed è nativo di Bazanta, paese vicino ad Ales, luogo di nascita di Gramsci.
Faedda nel 1928 è stato lo scopino del Teatro dei «politici» – : cioè faceva pulizia nelle celle, portava il vitto giornaliero ai detenuti e così lasciava pacchi, libri, riviste, ccc. Mi dice che allora per questi servizi riceveva dall’Amministrazione 14 lire al mese. Ma tutti i «politici» gli regalavano sempre qualcosa in natura. Quando al mattino entrava nella cella di Gramsci lo trovava già al lavoro e spesso faceva con lui una chiacchierata in dialetto sardo. Se poi era di buon umore, ben volentieri Gramsci scherzava con lui – Mi batteva la mano sulla spalla e mi diceva: «Coraggio Faedda, presto andremo via da qui» – racconta Faedda – Non gli chiedevo nulla, ma lui mi regalava o una pagnotta di pane o del vino o del formaggio. Una volta mi diede due sigari.

I ricordi del secondino
La guardia scelta Vito Semerano – anche lui ha conosciuto Gramsci – presta servizio in questo penitenziario da 23 anni; attore faceva il turno nel braccio «politici», al primo piano. Forse Semerano è stato l’uomo che he avuto il maggior rispetto in questo luogo per Gramsci. E questa considerazione mi viene suggerita da un particolare che Semerano mi racconta.
Ci troviamo davanti alla porta della cella di Gramsci e lui mi parla delle sofferenze negli ultimi tempi di Gramsci per il suo stato grave di salute. Specialmente il sistema nervoso doveva essere molto scosso e non poteva dormire. So che per regolamento la luce nell’interno della cella deve rimanere sempre accesa durante lo notte.
– A una certa ora la spegnevo – mi dice Semerano. Era lui infatti di sorveglianza durante la notte; quando poi era di turno durante il giorno spesso entrava in cella e trovava Gramsci al tavolo di lavoro.

Attività instancabile
– Copiava sempre dai libri – mi dice – e mi chiederà i quaderni per scrivere. Quando ne aveva riempito uno, me lo consegnava ed io lo passavo al direttore. Una volta bollale le pagine, veniva depositato in magazzino. Gramsci preferiva depositare i suoi quaderni per evitare che nelle perquisizioni venissero sciupati. Qualche volta si faceva comprare dell’inchiostro fuori dal carcere perché migliore.
Chiedo, a Semerano quanti quaderni consumasse in un mese; lui ricorda che arrivava a portargliene anche una quindicina. Gli dico che adesso quei quaderni sono già usciti in parte stampati in diversi volumi e comprendono tutta l’opera che Gramsci ha scritto in questa cella. Semerano mi sorride e mi fa appena sentire la sua voce: – Avevo compreso che erano molto importanti! –. Semerano ricorda ancora che alla partenza da Turi furono riempite quattro casse di libri e manoscritti.
La lapide di marmo murata sulla facciata dei penitenziario serve soltanto per dare una nozione al pellegrino di passaggio, perché la maggior parte dei turesi ha nella memoria la propria immagine di Gramsci. Molti ricordano i tempi in cui Tania, cognata del recluso, aveva preso alloggio nel piccolo albergo Lauretta. Allora, per diverso tempo, e alle volte anche per più di un mese, mi dicono, la s’incontrava sovente nelle strade e alcuni osavano interrogarla con gli occhi, altri invece o le facevano visita o la invitavano a casa, perché Tania era sempre sola. Doveva essere anche vigilata dalla polizia, ma questo pericolo per i turesi contava fino a un certo punto di fronte ai doveri dell’ospitalità. – Non si poteva lasciare una donna sola nel dolore – mi dice qualcuno.
Forse allora nessuno di qui aveva mai visto Gramsci, eppure non si faceva die parlare di lui. Al centro di ogni commento stava il fatto importante dell’epoca; si tratta del rifiuto di Gramsci a inoltrare domanda di grazia.
Ma già da come aveva impostata e poi portata a conclusione la sua ragione di essere rapporto al mondo e agli uomini, Gramsci era entrato nell’immagine popolare con tutti i caratteri del simbolo: Maestro, Liberatore, Martire, e così è scritto anche sulla lapide di marmo all’ingresso.
Sulla lapide è scritto anche: – In questo carcere – visse in prigionia – Antonio Gramsci – Maestro Liberatore Martire – che ai carnefici stolti – annunciò la rovina – alla Patria morente –
la salvazione – al popolo lavoratole la vittoria».

I documenti desecretati smentiscono la destra sulla strage di Bologna

Le informative del capocentro Sismi a Beirut e la fine della pista palestinese sulla strage di Bologna. Su Domani la sintesi della inchiesta in più puntate che potete trovare su questo blog (qui la prima), condotta da Paolo Morando e Paolo Persichetti sui 32 cablogrammi e appunti desecretati nei mesi scorsi. Le carte dimostrano che la trattativa sui lanciamissili sequestrati a Ortona era stata risolta già il 2 luglio 1980 (un mese prima della strage del 2 agosto), accogliendo le richieste del Fplp. Si sbriciola il movente alternativo alle sentenze giudiziarie che hanno condannato i neofascisti dei Nar, costruito dalla destra in questi ultimi anni sulla strage

di Paolo Morando e Paolo Persichetti, Domani 11 marzo 2023

Il 2 luglio del 1980 le richieste del Fronte popolare per la liberazione della Palestina erano state accolte. E le minacce, ventilate nei mesi precedenti, di attentati contro obiettivi italiani non avevano più ragion d’essere. Lo raccontano i cablogrammi dell’allora capocentro del Sismi a Beirut, Stefano Giovannone, documenti da anni al centro di una dura polemica mossa da chi ne chiedeva la desecretazione, sostenendo che lì ci fossero le prove di un legame tra la strage di Bologna e la vicenda di Ortona, di cui si dirà. E dunque una versione alternativa alle sentenze di condanna passate in giudicato dei tre neofascisti dei Nar, Mambro, Fioravanti e Ciavardini, da sempre contestate dalla destra.
Invece non è così. Quelle carte, ora liberamente consultabili all’Archivio Centrale dello Stato, non avvalorano affatto un movente del genere, come da anni si sente invece ripetere dai tanti fautori (politici, storici, giornalisti, ricercatori) della cosiddetta “pista palestinese”, archiviata già nel 2015 dai magistrati bolognesi. E anzi, se lette in parallelo con precisi passaggi giudiziari, dimostrano che la trattativa sottotraccia tra l’Italia e i palestinesi si era conclusa con successo già un mese prima della strage alla stazione. Sono carte che dunque non consentono tentativi politici di riscrittura della storia.

Ricostruzioni fuorvianti
Tutto trae origine dal sequestro di due lanciamissili Sa-7 Strela privi di armamento e dall’arresto, appunto a Ortona in Abruzzo nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979, di tre autonomi del collettivo del Policlinico di Roma (Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Luciano Nieri) che li trasportavano: li tradì un controllo casuale dei carabinieri. Inconsapevoli del contenuto della cassa, erano stati chiamati in aiuto in extremis da Abu Anzeh Saleh, militante del Fplp, pure lui arrestato poco dopo. La vicenda è al centro delle informative di quel periodo di Giovannone, carte visionate (con obbligo di riservatezza) da alcuni membri della Commissione parlamentare d’inchiesta Moro 2 già dal 2016. Venendo meno all’impegno, il senatore del centrodestra Carlo Giovanardi, sostiene da anni che in quelle carte è scolpita la verità sulle stragi di Ustica e Bologna: in particolare un cablo del 27 giugno 1980, in cui si annunciava da parte del Fplp la ripresa dell’iniziativa contro obiettivi italiani.
Nel giugno scorso il Comitato consultivo (istituito presso la Presidenza del Consiglio) che vigila sulle attività di desecretazione e versamento dei fondi archivistici delle Direttive Prodi, Renzi e – ultima – Draghi dell’agosto 2021, ha deciso di togliere il segreto e versare all’Archivio Centrale dello Stato il carteggio, peraltro già visionato dai magistrati romani impegnati sulla vicenda di Ustica. E come recita la relazione del Comitato, datata 12 ottobre 2022, è stato fatto proprio per rispondere «all’esigenza di escludere ricostruzioni fuorvianti del tragico evento, spesso oggetto di strumentalizzazione».

Richieste accolte
Il fascicolo, di 32 documenti, riporta in copertina il titolo “Vicenda Giovannone-Olp”. E non contiene alcun elemento che possa ricondurre alle stragi di Ustica e Bologna. Quei documenti dimostrano invece che la crisi dei lanciamissili palestinesi fu negoziata con grande abilità dal colonnello Giovannone e risolta già un mese prima dell’attentato alla stazione, con il rinvio del processo d’appello, venendo incontro alle richieste palestinesi.
Il processo fu addirittura rinviato altre due volte (novembre 1980 e giugno 1981, per poi finalmente tenersi a gennaio 1982): questa fu infatti la strategia individuata dal governo, e concordata con i palestinesi, per consentire la scarcerazione nell’agosto del 1981 di Saleh, grazie al superamento dei limiti di custodia cautelare.
Successivamente le condanne vennero ridotte per tutti e quattro gli imputati nel corso del processo d’appello: esattamente come richiesto dal Fplp. I palestinesi non hanno dunque mai avuto alcuna ragione per rompere gli accordi presi nel 1973, cioè il cosiddetto “Lodo Moro”.

Caso risolto
Le informative di Giovannone da Beirut vanno di pari passo con l’andamento processuale della vicenda di Ortona. Ed è una lettura inequivocabile. Lo spazio non consente qui di dettagliare il contenuto dei 32 documenti: i lettori potranno trovarlo da oggi sul blog Insorgenze.net (prima puntata), in un’inchiesta in più puntate.
L’appunto del Sismi datato 2 luglio 1980, lo si è detto, è quello che sancisce la soluzione della crisi. È attribuibile al generale Armando Sportelli, nome in codice “Sirio”, che riceveva le informative da Beirut. L’appunto, «per il signor direttore del Servizio» (il generale Giuseppe Santovito), riferisce i diversi interventi compiuti da Giovannone, a nome dello stesso Santovito, sul capo di gabinetto del ministro della Giustizia, il 15 maggio, il 30 giugno e l’1 luglio.
E qualcuno nel frattempo si mosse. Scritto a matita, sul documento si legge infatti: «Visto dal DS [Direttore del Servizio] il mattino del 2 luglio 1980. Processo rinviato». Era avvenuto proprio quella mattina, fu spostato a novembre: come chiedevano i palestinesi. Il caso era quindi stato risolto.

La verità che manca
La soluzione della crisi con l’Fplp fu insomma il frutto di una sofisticata strategia procedurale: le continue richieste di rinvio avanzate dalla difesa, sostenute dall’azione di moral suasion del governo (attivato dal Sismi) sulla magistratura, avevano consentito l’allungamento dei termini di custodia preventiva dei tre autonomi, ma non di Saleh, il cui avvocato non aveva mai presentato alcuna richiesta in merito.
Una mossa che fa supporre che la difesa del palestinese fosse a conoscenza delle trattative. Nell’ultimo documento del carteggio, il trentaduesimo del 19 agosto 1982 inviato al Cesis, il Sismi attesta che l’ultimo attentato palestinese «risale al 17 dicembre 1973» (cioè la strage di Fiumicino) e che i transiti di armi non erano previsti nell’accordo originario, che riguardava solo la “neutralizzazione” del territorio italiano.
In questi giorni, peraltro, qualcuno ha già sostenuto che quel passaggio del documento altro non sarebbe che una excusatio non petita. Mentre l’assenza, nelle carte di Giovannone ora desecretate, di documenti del periodo tra il 2 luglio 1980 (quando la crisi di Ortona si era risolta) e il 25 settembre dello stesso anno, indicherebbe la sparizione di altri cablo.
Quasi una estrema linea del Piave, dopo che per anni è stato sostenuto che in quelle informative stava una verità indicibile sulla strage, mentre ora si sa che non è così. Perché è vero che il totale delle carte di Giovannone comprende 250 documenti, ma lo è altrettanto che i 32 ora versati all’Archivio Centrale dello Stato – come sanno bene proprio quei parlamentari che visionarono l’intero carteggio – ne costituiscono il fulcro.

Nessun legame
La citazione delle informative di Giovannone, in questi anni, si è sempre arrestata sulla soglia del 27 giugno 1980: circostanza curiosa, visto che i commissari della “Moro 2” avevano invece potuto consultarli tutti, anche quelli successivi. Ma evidentemente non conveniva citarli.
Tanto che nessuno rilanciò un altro appunto del Sismi del 15 giugno 1981, diffuso nel luglio 2020 su una testata online: citando Giovannone, si attestava infatti che, a quella data, non si doveva fare «più affidamento sulla sospensione delle operazioni terroristiche in Italia e contro interessi e cittadini italiani, decisa dal Fplp nel 1973».
Sospensione che quindi continuava a reggere, nonostante il tira e molla sulla questione Ortona (si era all’ennesimo rinvio del processo d’appello), dimostrando che le minacce non si erano concretizzate. Mentre dalla strage di Bologna era passato quasi un anno. Una prova dunque contro la tesi di un legame tra la vicenda dei missili e la bomba alla stazione.

Tesi smentite
Lo scorso 22 luglio, a dare notizia della desecretazione, era stato Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna: «Doveva esserci la verità completa sulla cosiddetta pista palestinese, ma non c’è niente», disse. Non lo prese sul serio Enzo Raisi, ex deputato di Alleanza nazionale, bolognese: «Mente sapendo di mentire», replicò, sostenendo che «i documenti veri», quelli letti dai membri della “Moro 2”, erano «atti del 1980, dai missili Strela alla strage alla stazione».
E sono appunto quelli ora consultabili, che arrivano addirittura fino all’agosto 1982. Quando le carte di Giovannone, ormai quasi quattro anni fa, finirono al centro della polemica sulla strage di Bologna, disse la sua anche Giorgia Meloni. E sostenne che «la rivelazione dei documenti del Sismi di Beirut relativi all’estate del 1980 conferma la necessità e l’urgenza della desecretazione dei documenti relativi alla strage di Bologna e al “Lodo Moro”. Lo scorso 2 agosto, ancora a capo solo di un partito, affermò invece che «gli 85 morti e gli oltre 200 feriti meritano giustizia, per questo continueremo a chiederla insieme alla verità». Neppure lei s’era accorta che Draghi aveva già desecretato il dossier. Chissà che cosa dirà il prossimo 2 agosto.

Archivio Persichetti, dopo 16 mesi per il Gip «l’imputazione ancora non c’è ma l’inchiesta continua»

«L’accusa ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai» è questo il passaggio decisivo che riassume la sostanza di un’inchiesta che ha messo sotto accusa la libertà di ricerca storica. Lo scrive il Gip del Tribunale di Roma Valerio Savio in chiusura del provvedimento in cui si nega per il momento la riconsegna delle copie forensi, ovvero il clone digitale del mio archivio sequestrato ormai 16 mesi fa: «rilevato ancora come non si pongano questioni in ordine alla riservatezza dei dati, tuttora coperti da segreto investigativo; laddove per altro profilo ogni questione di “utilizzabilità“ dei dati medesimi è semplicemente prematura e allo stato non importabile, in assenza di una imputazione che tuttora potrebbe ancora non essere mai formulata».

La procura inizialmente aveva contestato il reato associativo
Il 9 giugno del 2021 una nutrita truppa di poliziotti di tre diversi servizi della polizia di Stato aveva occupato il mio appartamento con un mandato di perquisizione e sequestro dei miei strumenti di lavoro: l’archivio di materiali storici raccolto in anni di ricerche, computer, tablet, telefoni, pendrive, hard disk e schede di memoria di ogni tipo. Sotto la guida di funzionari della Polizia di prevenzione, gli agenti della Digos e della Polizia postale in realtà portarono via anche l’intero archivio di famiglia: cartelle scolastiche e cliniche dei miei figli di cui uno disabile, l’archivio amministrativo, l’intero archivio fotografico della mia compagna. Le imputazioni iniziali, mosse dalla Procura della repubblica e dalla Procura generale, erano l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp), rapidamente evaporata dall’inchiesta, e il favoreggiamento (378 cp).

La giostra delle accuse
Nel corso dell’inchiesta si sono succedute ben 5 imputazioni: prima della perquisizione l’indagine si era aperta ipotizzando una violazione di segreto d’ufficio (prima imputazione), successivamente lievitata in associazione sovversiva a scopo di terrorismo (seconda imputazione) e favoreggiamento (terza imputazione). Nel luglio del 2021 il Tribunale della libertà, sollevando dubbi sulle precedenti incolpazioni, evocate – a suo dire – «senza indicare precise condotte di reato», suggerì una nuova accusa: «violazione di notizia riservata» (quarta imputazione), che si sarebbe consumata l’8 dicembre 2015, quando attraverso la posta elettronica avevo inviato alcuni stralci della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro 2. Testo che sarebbe stato pubblicato dall’organo parlamentare meno di 48 ore dopo e sul quale non era mai stato posto alcun segreto, nemmeno funzionale. Pagine destinate a un gruppo di persone coinvolte insieme a me nel lavoro di preparazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse (leggi qui), poi uscito nel 2017 con Deriveapprodi (Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera). Nell’ottobre successivo, cioè un anno fa, il Gip scrisse in uno dei suoi provvedimenti che, in realtà, mancava «una formulata incolpazione anche provvisoria» (leggi qui). Insomma le uniche certezze dell’indagine erano il sequestro del mio archivio, le intercettazioni della posta elettronica, ma non l’esistenza di un reato per cui tutto ciò avveniva. A quel punto la procura sposando la richiesta di incidente probatorio sul materiale sequestrato, avanzato in precedenza dal mio avvocato, si attestò nuovamente sull’accusa di favoreggiamento (quinta imputazione).

La perizia accerta l’assenza di materiale riservato ma la procura non si arrende
A fine aprile 2022 il perito del tribunale dopo aver clonato i 27 supporti sequestrati estrae 725 elementi attinenti all’indagine: 589 pdf, 117 immagini, 1 video, 13 files testo e 5 folder, per buona parte scaricati dal sito di un ex membro della Commissione Moro (i (https://gerograssi.it/b131-b175/#B131). In nessuno di essi è presente materiale riservato. Per la procura è un clamoroso buco nell’acqua (leggi qui) ma nonostante ciò il pm si oppone alla riconsegna dell’archivio e il Gip lo appoggia. La procura chiede alla Polizia di prevenzione di analizzare il materiale estratto dal perito e a fine maggio dispone la riconsegna dei 23 supporti nei quali il perito non aveva trovato elementi attinenti all’indagine ma trattiene le copie forensi.

La Procura riconsegna il materiale sequestrato ma trattiene le copie forensi dell’archivio
Nel frattempo la Polizia di prevenzione analizza il materiale individuato dal perito e il 9 luglio 2022 invia una informativa alla pubblico ministero Albamonte, titolare dell’indagine, nel quale «si da riscontro dei contenuti dei file estrapolati dal perito nel corpo dell’incidente probatorio». In seguito a questa informativa il 26 luglio il pm dispone la riconsegna dei due telefonini, del tablet e del computer e dello spazio cloud ancora sequestrati ma anche in questo caso trattiene le copie forensi, ovvero il clone digitale dell’intero materiale presente nei quattro supporti, «in quanto – scrive il pm – costituiscono necessario compendio del fascicolo fino alla sua definizione e risultano tutt’ora utili ad approfondire le indagini circa la provenienza del materiale riservato trovato nella disponibilità del Persichetti».

Un’inchiesta senza più reato
L’avvocato Francesco Romeo chiede la visione dell’informativa della Polizia di prevenzione che aveva provocato l’improvviso cambio di atteggiamento della Procura ma la Procura oppone un rifiuto. A quel punto solleva un nuovo ricorso contro la decisone del pm per riavere le copie forensi dell’intero materiale portato via il 9 giugno 2021. L’impugnazione viene discussa lo scorso 30 settembre, per il Gip nonostante «l’assenza di una imputazione», che addirittura «potrebbe non essere mai formulata», le copie forensi dell’archivio devono restare in mano alla procura fino alla conclusione dell’indagine. Con buona pace della libertà di ricerca storica.

Quando il passato non è mai quello degli altri

Recensioni – alcuni mesi nella lotta armata e oggi ricercatore indipendente, ha appena pubblicato un nuovo libro sul caso Moro che entra a piedi uniti in un dibattito che negli ultimi tempi si è segnalato soprattutto per il riemergere di letture complottiste. A Paolo Persichetti il passato continua a chiedere il conto

Paolo Morando, Domani 24 maggio 2022

Oltre trent’anni fa, nel 1991, è stato condannato in via definitiva a 22 anni e mezzo di carcere per partecipazione a banda armata (le Brigate rosse – Unione dei comunisti combattenti) e concorso morale in omicidio (il generale dell’aeronautica Licio Giorgieri, ucciso in un agguato a Roma il 20 marzo 1987).
Nel frattempo, dopo che in primo grado era stato assolto, era riparato in Francia, come tanti altri ex militanti delle formazioni armate. E a Parigi si era ricostruito una vita come studioso, laureandosi e conseguendo un dottorato in Scienze politiche, fino a insegnare come docente a contratto all’università. A Paolo Persichetti il passato è tornato però a chiedere il conto la sera del 24 agosto 2002, quando la polizia francese lo ha fermato per poi consegnarlo a notte fonda ai colleghi italiani, in un rendez-vous degno dei migliori film di spionaggio: sotto il traforo del Monte Bianco.
Era stato arrestato una prima volta nel 1993, opponendosi però all’estradizione con successo, grazie a un pronunciamento dell’allora presidente francese François Mitterrand, che ha confermato la validità della propria “dottrina”. Persichetti ha terminato di pagare il conto alla giustizia italiana nel 2014, quando è stato scarcerato definitivamente. Ma già dal 2008 era in semilibertà e aveva iniziato a collaborare prima con Liberazione, l’allora quotidiano di Rifondazione comunista, poi con il Manifesto, Il Garantista, Il Rifomista e il Dubbio.

Il lavoro da storico
Si può dire che oggi Persichetti è uno storico di riconosciuto valore? Si dovrebbe poterlo fare, non fosse altro per la sua curatela di una importante Storia delle Brigate rosse in tre volumi (finora è apparso solo il primo). Si può dubitare della sua impostazione di studioso, per forza di cose caratterizzata dalla precedente militanza? Anche questo è possibile, ma senza dimenticare che la ricerca storiografica vive di contrapposizioni, di revisionismi e contro revisionismi (nel senso nobile del termine, sia chiaro), di confronto tra idee. Ma sempre sulla base di documenti. E Persichetti, da questo punto di vista, è un formidabile cane da tartufo: il suo lavoro di studioso lo dimostra.
Il suo ultimo libro “La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro”, pubblicato in questi giorni da Derive Approdi entra tra l’altro a piedi uniti in un dibattito, quello su via Fani e i 55 giorni dello statista nella “prigione del popolo”, che negli ultimi tempi si è segnalato soprattutto per il riemergere di letture complottiste che da sempre covano sotto la cenere.
E d’altra parte la pubblicistica in materia è sterminata. Il libro di Persichetti è un ottimo strumento per orientarsi con un minimo di cognizione di causa in un quello che è diventato un autentico ginepraio, sulla base di una vulgata sfornita di prove che ormai sembra essersi fatta inespugnabile. Al punto che in una sentenza importante come quella che, tre anni fa, ha condannato all’ergastolo l’ex Nar Gilberto Cavallini per la strage di Bologna, si parla scorrettamente del covo di via Gradoli come della prigione di Aldo Moro. Un mero lapsus dell’estensore, certo, in una sentenza di oltre 2mila pagine altrimenti formidabile, ma è un lapsus che la dice lunga su quanto in questi anni è avvenuto e continua ad avvenire.

Il passato che ritorna
Lo stile di Persichetti, autore di una memorabile inchiesta giornalistica sempre su Bologna (l’incredibile tentativo da destra di addossare la colpa dell’attentato a un giovane di sinistra vittima della bomba, Mauro Di Vittorio, tesi che l’ex brigatista ha contribuito a confutare), è spesso arrembante. E infatti qualche grana gliel’ha procurata. Ad esempio una querela da parte di Roberto Saviano, a cui però il giudice ha dato torto.
Ma il peggio doveva ancora venire. Ed è venuto dal passato, se così si può dire. Come il postino del celebre film, infatti, la giustizia per Persichetti ha suonato due volte: ormai un anno fa, la procura di Roma gli ha sequestrato l’intero archivio, il telefonino, il pc e ogni altro apparecchio elettronico (e pure il “cloud”), nell’ambito di un’inchiesta che lo vedrebbe come “favoreggiatore” di latitanti coinvolti nel sequestro Moro. Ma inizialmente lo si accusava anche di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (e il capo di imputazione è stato modificato addirittura cinque volte). Appunto: il passato che non passa.
La vicenda è ampiamente ripercorsa nel suo libro appena uscito, che sfida il mainstream fin dalla prefazione, firmata dalla filosofa Donatella Di Cesare (incorreggibile Persichetti!). E il sequestro citato, guarda caso, ha a che fare con il sequestro Moro. O meglio: con l’ultima (e contestatissima) commissione parlamentare d’inchiesta, ai cui materiali riservati – così la procura – Persichetti avrebbe attinto. La partita giudiziaria è ancora in corso, con lo studioso che da tempo chiede senza successo di poter tornare in possesso di quel materiale: anche perché, al di là della contestazione delle accuse specifiche, la procura si è portata via anche l’intera documentazione sanitaria relativa a suo figlio disabile. E davvero non si capisce che cosa questo possa avere a che fare con un’inchiesta per terrorismo.

L’ultima beffa
Nei giorni scorsi c’è stata una novità, ed è significativo che sia arrivata proprio nei giorni in cui il nuovo lavoro di Persichetti è approdato in libreria: giustizia a orologeria, verrebbe a dire, ma una volta tanto a favore dell’accusato. Sul blog Insorgenze, animato dallo stesso Persichetti, si dava infatti conto (capirete presto il perché del tempo imperfetto) della relazione tecnica richiesta dal gip sul materiale sequestrato.
E si apprendeva che non c’era nulla di riservato, ovvero di materiale dolosamente trafugato e poi diffuso: l’elenco di pdf, immagini, video e quant’altro è certosino e tutto ciò che proveniva in origine dalla commissione Moro Persichetti se lo è procurato utilizzando fonti aperte, soprattutto il sito dell’ex membro della stessa commissione Gero Grassi, per giunta dopo la chiusura dei lavori dell’organismo. E visto che Persichetti sa come va svolto il lavoro di storico, ecco che la relazione glielo riconosceva, attestando come altra grande parte del materiale arrivi dal Fondo Moro depositato all’Archivio centrale dello stato nell’ambito della direttiva Prodi. Che Persichetti ha dunque diligentemente consultato. Visto però che non c’è due senza tre, ecco l’ultima beffa: cioè il gip che in sostanza decide di non dare seguito all’esito della perizia e, invece di disporre la restituzione almeno parziale del materiale sequestrato, rimanda l’intero fascicolo alla procura, azzerando di fatto mesi di battaglia giudiziaria mossa da Persichetti.
Il quale sabato scorso, via Facebook, ha risposto così: “A seguito degli ultimi sviluppi giudiziari legati al sequestro del mio archivio sono venuti meno anche i residuali spazi di agibilità che mi erano rimasti. Allo stato attuale non esiste più lo spazio minimo per svolgere anche il più ridotto lavoro di tipo storiografico e di ricerca. Non esistono più le condizioni obiettive e la serenità che un ricercatore deve sempre avere per condurre con serietà e misura il proprio lavoro. Pertanto sono sospese tutte le presentazioni del libro La polizia della storia che nonostante la situazione e con grande sforzo ero riuscito a portare a termine. Sono sospesi tutti i miei account social e non risulterà più accessibile al pubblico il blog insorgenze.net”.

Uno stratagemma del potere
Tornando al libro, non aspettatevi benzina sul fuoco delle complotterie. Al contrario. Sul caso Moro, ad esempio, Persichetti smonta una diceria di lunga data: la presenza di una moto Honda di grossa cilindrata in via Fani, da sempre smentita da tutti i brigatisti che presero parte al rapimento, presenza invece dimostrata – così si è sempre detto – dal fatto che dai due motociclisti in sella alla Honda partirono raffiche di spari contro il parabrezza di un motorino.
Ebbene, in un verbale del 1994 il possessore di quel motorino raccontò diversamente la dinamica della rottura del proprio parabrezza, che già era tenuto assieme con del nastro adesivo: avvenne per la caduta del mezzo dal cavalletto (che era parcheggiato all’incrocio tra via Fani e via Stresa: lo attesta una foto scovata in rete dallo stesso autore nel 2014) dopo l’agguato brigatista. “Questa foto – scrive Persichetti – metteva definitivamente a tacere la versione dei colpi sparati dalla Honda contro Marini e che avrebbero distrutto il parabrezza, facendo anche crollare la versione della moto con i brigatisti a bordo che avrebbe partecipato al rapimento e di cui il parabrezza infranto sarebbe stata la prova inconfutabile”.
La vis polemica è evidentemente connaturata a Persichetti, visto che si toglie anche lo sfizio di documentare diverse “violazioni” del segreto compiute proprio da componenti della Commissione Moro. Ma il cuore del suo lavoro sta tutto in queste parole: “L’idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraversano le strade e i luoghi di lavoro è il segno di una malattia della conoscenza. Attraverso la dietrologia si vuole veicolare l’idea che dietro ogni ribellione non c’è l’agire sociale e politico di gruppi umani ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere”.

Il buco nell’acqua della Procura di Roma, nell’archivio di Persichetti nessun documento riservato

E’ arrivata finalmente la relazione tecnica realizzata sul mio archivio di lavoro sequestrato l’8 giugno 2021 (vedi qui e qui). Nel gennaio scorso il Gip aveva disposto la duplicazione dei dati presenti nei dispositivi sottoposti a sequestro e aveva chiesto di individuare al loro interno i «documenti provenienti dalla Commissione di inchiesta relativa al sequestro dell’On. Moro presieduta dall’On. Fioroni, delimitando tale ricerca al periodo 2/10/2014 – 31/3/2018», periodo di attività della Commissione parlamentare. Indagine finalizzata a cercare la prova della presenza di materiale riservato proveniente dalla Commissione Moro 2, che – secondo l’ipotesi avanzata dalla Procura dopo una rocambolesca serie di cambi di accusa – avrei utilizzato per favorire alcuni latitanti coinvolti nel sequestro Moro.
In 23 dei 27 device e altri supporti di archiviazione sequestrati dalla Polizia di prevenzione, supportata da Digos e Polizia postale – è scritto nella perizia – «non sono stati rinvenuti elementi riferibili alla richiesta del Pm». Circostanza ovvia, alcuni di questi contenevano solo materiale di pertinenza familiare.
Nei 4 supporti restanti sono stati estratti nel complesso 725 elementi: 589 pdf, 117 immagini, 1 video, 13 files testo e 5 folder.

Tra i 589 pdf ci sono:
1 libro in doppia copia e 2 copie di un mio articolo apparso su il Dubbio del 24 ottobre 2017 dal titolo, «La bufala del Br Alessio Casimirri salvato dai servizi»;
585 documenti scaricati da fonte aperta, in buona parte dal sito dell’ex membro della Commissione Moro 2, Gero Grassi (https://gerograssi.it/b131-b175/#B131). Pdf scaricati dal 18 maggio 2018 in poi, ovvero tre mesi dopo la chiusura dei lavori della Cm2 e la declassificazione degli atti stessi. Un numero ristretto di pdf proviene invece dal portale della Commissione attivato successivamente, messo a disposizione di studiosi e cittadini che volevano fare richiesta di documenti prodotti dalla Commissione. I restanti pdf riguardano le schede di registrazione delle audizioni svolte dalla Commissione che si trovano sul sito di Radio Radicale.

Le 117 immagini sono così suddivise:
46 foto della bozza preparatoria della relazione finale del primo anno di lavori della Commissione, resa pubblica il 15 dicembre 2015. Tra le 46 immagini quasi la metà, 20, sono doppioni presenti in un cellulare attivato pochi mesi prima del sequestro. Queste immagini, da cui sarebbe scaturita l’indagine dopo una intercettazione di alcune mail, erano già in mano agli inquirenti al momento della perquisizione, non costituiscono per tanto alcuna novità.
2 immagini doppione dello schizzo dell’azione di via Fani realizzato da Mario Moretti, depositato in commissione Moro 2 dallo storico Marco Clementi al momento della sua audizione, il 17 giugno 2015 e citato nel libro a cui ho preso parte, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017.
15 immagini di una relazione del Sismi inviata alla prima Commissione Moro. Documentazione presente nella Direttiva Prodi raccolta in Archivio centrale dello Stato.
1 immagine della lettera di Mario Moretti inviata alla Cm2, già citata nel libro sopra indicato.
1 immagine di una camicia con frontespizio «Telefonate anonime», proveniente dalle buste del Fondo Moro – Direttiva Prodi presente in Archivio centrale dello Stato.
1 video del responsabile Ris carabinieri che presenta la relazione tecnica sulle perizie svolte per conto della Cm2, facilmente reperibile in rete.
5 folder contenenti la documentazione raccolta in Archivio centrale dello Stato.
6 documenti testo formato pages con gli indici del contenuto delle buste da me visionate all’interno della Direttiva Prodi, fondo Moro, presso l’Archivio centrale dello Stato.
7 documenti formato word con doppioni di articoli vari.

Nessun documento riservato
Appare superfluo sottolineare l’assoluta irrilevanza giudiziaria del materiale individuato. Al momento della perquisizione avevo inutilmente spiegato quale fosse il contenuto del mio archivio, indicando le cartelle contenenti i documenti della Commissione Moro 2, invitando i funzionari di polizia a verificare come i pdf fossero agevolmente scaricabili dal sito di Gero Grassi e dal portale della Commissione.

Nonostante il nulla investigativo prodotto da questa indagine da 336 giorni si protrae il sequestro capzioso del mio archivio storico e familiare, dei telefoni cellulari, del computer e del cloud. Appare sempre più chiaro che l’obiettivo di questa inchiesta era quello di portare un attacco diretto alla libertà di ricerca storica, lanciare un monito all’agibilità storica indipendente. Apparati e magistratura hanno invaso un nuovo territorio rivendicando il monopolio della conoscenza del passato, osteggiando e imbavagliando ricostruzioni che sfuggono alle logiche processuali.

Ne discuteremo giovedì 12 maggio presso la biblioteca, hub culturale Moby Dick, a Roma-Garbatella, dalle ore 18.00 nel corso della presentazione di La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Deriveapprodi, maggio 2022.