La colonna sonora di via Fani. Nuovi documenti smontano la storia della Honda e le fantasie del supertestimone Marini

Esclusiva – da pochi giorni è nelle librerie Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, Tra le righe libri, aprile 2015. Un saggio da non perdere assolutamente se volete liberarvi il cervello da decenni di scorie complottiste. L’autore, Gianremo Armeni, ha trovato documenti ignorati per decenni da magistrati, membri delle commissioni d’inchiesta, complottisti d’ogni risma e colore, mettendo in luce come i dietrologi hanno impunemente arrangiato le loro ricostruzioni deformando la realtà. La storia torna a prendersi la sua grande rivincita. Ecco come andarono veramente le cose in via Fani

Paolo Persichetti
Il Garantista, 23 aprile 2015

armeni-copertina-moro16 marzo 1978, via Fani. Le tre vetture del commando brigatista con Moro a bordo stanno risalendo via Stresa. La scena dell’assalto, ormai alle loro spalle, è avvolta da improvviso silenzio, una sorta di tempo sospeso dopo il crepitìo degli spari, il rombo dei motori e lo strepitìo delle gomme che partono in accelerazione.
Un minuto, forse due e sul posto arriva una volante con a bordo gli agenti Di Berardino e Sapuppo. Si mettono immediatamente in contatto via radio con la centrale operativa per fornire le prime informazioni. Mentre gran parte dei testimoni prendono coraggio e si avvicinano ai corpi riversi all’interno delle vetture colpite, uno di loro punta diretto verso i poliziotti. La sua è un’ansia di parola, è convinto di aver visto tutto, di sapere ogni cosa, lui deve dire, indirizzare subito le indagini. Quel che è accaduto si invera nel suo racconto, egli ne è il depositario. Inizia così il vangelo dei misteri del caso Moro, attraverso il verbo primigenio dell’ingegner Alessandro Marini che, contrariamente a quello che si è voluto lasciar credere fino ad oggi, non ha mai illuminato di verità la storia del rapimento Moro, a cominciare da quel che è realmente accaduto quella mattina: la corretta dinamica dell’assalto brigatista; la presunta funzione attiva svolta da una moto Honda durante le fasi del rapimento; i presunti colpi sparati da uno dei passeggeri contro il parabrezza del suo motorino.
Tutto sommato dettagli difronte alla vicenda politica del rapimento, alla portata storica dell’episodio, al rilievo internazionale che esso ha avuto. Nonostante ciò questi aspetti hanno assunto un rilevo centrale, sono divenuti l’architrave originario della dietrologia sul rapimento, oggetto di una sterminata pubblicistica complottista, di ripetute indagini giudiziarie e processi, dell’attività ultradecennale di ben due commissioni d’inchiesta parlamentare e della recente costituzione di una terza, ma soprattutto hanno reso senso comune la superstizione del complotto.

11 Motorino01 copiaTrentasette anni dopo Gianremo Armeni, una laurea in sociologia, collaborazioni con Limes, un libro su Dalla Chiesa, un volume dedicato alle regole della lotta clandestina, Vademecum del brigatista, e un romanzo d’iniziazione sul nucleo storico delle Brigate rosse, fa piena luce sulla inattendibilità del super testimone con un saggio spietato appena uscito nelle librerie, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro (Tra le righe libri, aprile 2015, 16 euro).
Quella di Armeni è innanzitutto una grande prova di metodologia storica. Alla stregua di quelli che considera i suoi maestri, Giovanni Sabbatucci, Marco Clementi e Vladimiro Satta (quest’ultimo autore della prefazione), per districarsi dal ginepraio di ricostruzioni cospirazioniste fondate nella migliore delle ipotesi su presupposti che fanno capo al metodo indiziario e deduttivo, dove il soccorso delle prove è carente o inesistente, le fonti trascurate, travisate, omesse o peggio manipolate, Armeni è andato alla ricerca dei fatti, alla sorpresa che riserva l’incontro sempre imprevedibile con le fonti. Cinque anni di lavoro, una ricerca imponente che non trova eguali sulla materia: oltre alle monografie sulla vicenda Moro, ha studiato l’intero complesso di carte processuali e istruttorie che hanno dato corpo ai cinque processi sul rapimento, documentazione conservata presso l’aula bunker di Rebibbia. Per ben tre volte ha riletto i 130 volumi della commissione Moro e scandagliato con maniacale attenzione l’intero filone “caso Moro” della commissione Stragi. Un lavoro mastodontico che non ha tradito le aspettative: cercando «l’ago nel pagliaio», come lui stesso scrive, ha scovato tre documenti fondamentali più altre circostanze che radono al suolo la tesi della funzione attiva della moto in via Fani, gli spari contro il parabrezza del motorino di Marini, mettendo in serio dubbio il corretto operato di alcuni giudici istruttori, sostituti procuratori, presidenti di corte d’assise e membri delle commissioni d’inchiesta che hanno avuto un ruolo nell’accreditare la storia della moto.

8 Motorino nastrato-1 copiaNe fuoriesce un’autopsia implacabile di quella che è la genesi del discorso dietrologico: basta riandare ai minuti successivi dell’agguato quando l’ingegner Marini si avvicina ai poliziotti della volante per raccontare loro di aver visto una moto seguire la Fiat 132 che portava via Moro. Armeni ricostruisce nel dettaglio il percorso compiuto da quella prima e originaria informazione, subito registrata nei brogliacci della centrale operativa che dirama a tutte le volanti l’avviso di ricerca di quella misteriosa Honda, mai vista da nessuno degli altri testimoni che assistono lungo via Stresa alla fuga del commando brigatista. Il brogliaccio della centrale operativa e il successivo rapporto dei due agenti, che riprende le parole di Marini, finisce in una relazione di sintesi che il questore De Francesco invia in quelle prime ore alle massime autorità dello Stato. Nel testo si cita la presenza di una moto senza riferirne la fonte. Nel 2002, uno dei consulenti della commissione Stragi, Silvio Bonfigli, scova la relazione del questore e la pubblica in un libro scritto insieme a Jacopo Sce, Il delitto infinito. Ultime notizie sul sequestro Moro, Kaos edizioni. Prende forma così la leggenda della presenza, certificata da un’autonoma acquisizione della polizia, di una moto nell’azione di via Fani. Informazione – sostengono gli autori – di cui la magistratura non avrebbe tenuto conto aderendo invece alle smentite dei brigatisti. Falso anche questo perché alla fine del primo processo Moro, tra le condanne inflitte contro i componenti del commando che agirono quella mattina, ce ne fu una per complicità nel tentato omicidio dell’ingegner Marini assieme ai due presunti passeggeri della moto mai identificati. Ma che importa, il presupposto della dietrologia è ignorare le refutazioni alimentando una mondo di verità parallele, una controrealtà virtuale che mescola senza scrupoli credenze, suggestioni, incantesimi, malafede e menzogne, spesso a scopo di lucro.

4. Motorino 1 copiaAnche la verità giudiziaria non è da meno: da decenni sentiamo arguire che moto e spari contro Marini sono realtà storica poiché lo ha stabilito un giudicato processuale. Ma se il magistrato deve attenersi a questa regola, lo storico ha la felice libertà di ribaltare l’assunto rimettendo al centro l’indagine sui fatti realmente accaduti, lasciando sullo sfondo le chiacchiere di una sentenza che si è limitata a trascrivere, per altro in parte, una delle tante versioni di un testimone. Questa regola aurea della buona ricerca storica conduce Armeni a nuove sconcertanti scoperte, come la falsa storia della presunta inversione effettuata dolosamente dalla magistratura, quella relativa alla posizione occupata dai due centauri sulla moto, un aspetto questo che ha veicolato l’ennesima ipotesi di complotto; oppure i ripetuti cambi di versione forniti dal supertestimone nelle sue 11 deposizioni, che lo portano persino a cambiare il colore della moto e mettere in dubbio che qualcuno gli abbia sparato. Ritrattazioni mai attenzionate dalle roccaforti cospirazioniste. Anche qui il libro riserva la sorpresa di un documento eccezionale, sottolineato con inchiostro rosso presumibilmente dalle autorità giudiziarie dell’epoca.

Ciao MariniOsservato da vicino Marini è un vero vaso di Pandora: il 16 marzo riferisce d’aver visto la moto ma solo il 5 aprile, 20 giorni dopo, racconterà degli spari contro di lui. Ecco perché – nota Armeni – la polizia scientifica non poté sequestrare il parabrezza del motorino, lasciato incustodito in via Fani la mattina del 16 marzo (come è possibile vedere in alcune foto pubblicate su questo blog), che ritraggono un ciclomotore con il parabrezza nastrato accanto al muretto, sul lato sinistro del marciapiede da dove era sbucato il commando brigatista). Nel settembre successivo, sentito dal giudice istruttore Imposimato, torna sull’episodio e fornisce una fantasiosa mappa dell’agguato. I membri del commando raddoppiano e stranamente manca il cancelletto inferiore. Non c’è la donna armata che pure altri testimoni indicano. In sede processuale ribadirà di non aver mai visto la donna che presidiava l’incrocio tra via Fani e via Stresa.
Moro: Honda con due persone anche in Armeni non molla la presa, viviseziona le parole dell’oracolo Marini fino ad accorgersi di un dettaglio rimasto inosservato: secondo il supertestimone il passeggero della moto avrebbe impiegato il braccio sinistro per esplodere i colpi di pistola diretti contro di lui. Una singolare incoerenza che assomiglia tanto ad un lapsus rivelatore: Marini, infatti, si sarebbe dovuto trovare sul lato basso di via Fani, quindi a destra della moto al momento del suo passaggio. Anche qui Armeni mette in crisi la ricostruzione ufficiale ripescando una testimonianza, sempre ignorata, che solleva forti dubbi sulla posizione dichiarata dall’ingegnere sul motorino quella mattina, per offrirci alla fine una ulteriore chicca che chiude il cerchio sulla natura vertiginosa del personaggio. Il lettore capirà, allora, perché l’autore abbia scelto come titolo del suo saggio, Questi fantasmi, una delle più celebri commedie di Eduardo di Filippo, l’artista napoletano convocato sulla scena del rapimento Moro dallo stesso Marini.

Iter parabrezza 1Uno dei pezzi forti del libro è la documentazione, scovata in un particolare ufficio giudiziario, che ricostruisce la storia del parabrezza, fulcro dell’intera narrazione dietrologica. Si scopre che Marini, dopo averlo sostituito, ne aveva conservato solo due frammenti (circostanza assai singolare per un reperto di quella importanza), presi in consegna dalla Digos il 27 settembre 1978. Da quel giorno rimarrà chiuso nell’ufficio corpi di reato, dove lo spedisce il giudice istruttore Imposimato senza mai farlo periziare fino alla sua distruzione il 9 ottobre 1997. Non risponde al vero, dunque, la relazione del senatore Luigi Granelli, membro della commissione Stragi, che il 23 febbraio 1994 inspiegabilmente scrive di una perizia e di un colpo d’arma da fuoco che avrebbe attinto il Iter parabrezza 2parabrezza. In realtà il reperto non era mai uscito dal deposito dei corpi di reato e la sua esistenza era del tutto ignorata dai periti, come lamenterà uno di essi difronte ai giudici. Soltanto il 31 marzo 1994 e il successivo 17 maggio la magistratura si accorgerà della sua esistenza. Il reperto viene prelevato per non più di 24 ore, quando il pm Marini (omonimo del supertestimone) lo sottoporrà in visione al suo ex proprietario, il quale riconoscendolo rivela con estremo candore che non furono dei colpi di pistola a danneggiarlo ma una caduta del ciclomotore dal cavalletto nei giorni precedenti il 16 marzo (vedi qui, il Garantista del 12 marzo 2015).

Dep Marini 0 1994Dep Marini 1994Quanto basta per concludere che la funzione attiva della Honda nel rapimento è un ectoplasma processuale, che la magistratura giudicante volle inizialmente accreditare per mettere nel cassetto due ergastoli supplementari, divenuta in seguito uno dei cavalli di battaglia delle teorie complottiste a scapito anche della stessa corporazione togata che non avrebbe certo immaginato un giorno di essere all’origine di tanti danni. Nonostante ciò il procuratore generale Antonio Marini si è recentemente opposto all’archiviazione dell’inchiesta, ed ha riconvocato tutti i membri del commando brigatista presenti in via Fani, convinto che la fantomatica moto sia ricomparsa nel 1983 per compiere il ferimento di Gino Giugni, rivendicato dalle Br-pcc.

Ha fatto bene, allora, Gianremo Armeni a portare il colpo conclusivo alla fine del suo saggio. Partendo da alcuni studi sulla memoria uditiva, più affidabile di quella visiva, e dalla constatazione che tutti i testi hanno assistito solo ad alcune sequenze dell’azione, mentre la percezione dei rumori è rimasta ininterrotta, ha ricostruito con un esperimento innovativo la colonna sonora dell’assalto in via Fani. L’esito della prova è di una efficacia sorprendente: riemerge la traccia coerente del «fragore degli spari» e del momento preciso in cui essi hanno avuto termine. L’esame non lascia più spazio alle interpretazioni, alle ipotesi, alle suggestioni: la storia si riappropria di ciò che le era stato sottratto. Finita l’azione cala il silenzio, i testimoni si affacciano, rialzano la testa, escono dai loro momentanei ripari, scopriamo allora che è venuto il tempo di separare la storia dalla farsa.

Postscritum: una volta provato che nel modulo operativo del commando brigatista non era presente alcuna moto, e che nessun’altra ha interferito nell’azione, la questione della Honda diventa superflua. Tuttavia, poiché l’indagine di Armeni non smentisce affatto il passaggio di una motocicletta quella mattina (ne circolano migliaia a Roma ogni giorno), resta legittima la curiosità del lettore sul momento esatto in cui essa si è affacciata sulla scena. Armeni con estremo rigore ricostruisce anche questo, correggendo alcune ricostruzioni circolate in passato. Gli elementi per scoprirlo c’erano già tutti, bastava rimontare i pezzi con un po’ di logica scevra da retropensieri, pregiudizi e strumentalizzazioni. Chi c’era sopra? Questo è stato già scritto (vedi qui). Ora leggete il libro, poi ne riparleremo.

Per saperne di più
Rapimento Moro, la ricostruzione dell’azione di via Fani disegnata da Mario Moretti
Ecco la prova che nessuno sparò al motorino di Marini in via Fani
La leggenda dei due motociclisti che sparano e il tentativo di cambiare la storia di via Fani
Su via Fani un’onda di dietrologia. Ecco chi c’era veramente sulla Honda

La dietrologia nel caso Moro
1a puntata – Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia
2a puntata  – Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol
3a puntata – Via Fani e il fantasma del colonnello Guglielmi
4a puntata – La leggenda dei due motociclisti che sparano e il tentativo di cambiare la storia di via Fani
5a puntata – Nuova commissione d’inchiesta, De Tormentis è il vero rimosso del caso Moro
I dietrologi dell’isis su Moro
La falsa novità dell’audizione di monsignor Mennini. Il confessore di Moro interrogato già 7 volte
Povero Moro ridotto a “cold-case”
Perché la commissione Moro non si occupa delle torture impiegate durante le indagini sul sequestro e l’uccisione del presidente Dc?
La vicenda Moro e il sottomercato della dietrologia ormai allo sbando

Armeni pag 12

 Armeni pag 13

Nuova commissione d’inchiesta, De Tormentis è il vero rimosso del caso Moro – 5a e ultima puntata

Concludiamo il nostro piccolo viaggio sui falsi misteri costruiti attorno al sequestro Moro raccontando come il diversivo dietrologico venne impiegato per coprire l’impiego delle torture. Potete leggere qui le puntate precedenti, (1), (2), (3), (4)

Paolo Persichetti
Il Garantista 15 marzo 2015

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«La teoria del complotto è la sottigliezza degli ignoranti». Prendo questa citazione dal libro di Daniel Pipes, Il lato oscuro della storia, (Lindau). Non sempre però l’ossessione del grande complotto affonda le sue radici nella superstizione. Se il cospirazionismo moderno trae origini da teorie politiche che, intrise di controriformismo cattolico, rifiutano la modernità e trovano il loro testo fondatore nell’opera dell’abbé Barruel, avversario del rivoluzione francese, la modernità con il suo corpus di ideologie apologetiche del capitalismo non ne è certo esente. A dire il vero l’intero Novecento fa fatica a liberarsi dai veleni del complottismo che pervadono razzismi, nazionalismi e totalitarismi fascisti e nazisti. E se non è affatto condivisibile la tesi di Popper, che vede nelle teorie critiche ispirate dal marxismo solo delle culture del sospetto nemiche di un idealismo razionalista esente da qualunque pecca, è vero anche che anarchismo, socialismo e comunismo non sono riuscite a sottrarsi al virus complottista.
jpg_2178052Oggi però la crisi del pensiero forte e il balbettio delle teorie politiche danno alimento ad una diversa stagione che vede nelle teorie del complotto un appiglio consolatorio, un riempitivo del vuoto di pensiero. Tanto che se un tempo i complotti erano figli di un pensiero ossessivo, oggi sono solo ossessioni prive di pensiero. Il pregiudizio dietrologico ha avuto però anche applicazioni più strumentali: un esempio di questo utilizzo può essere rintracciato agli albori dell’affaire Moro. La vicenda Triaca, con la quale concludiamo il nostro piccolo viaggio nella dietrologia che circonda la storia del sequestro del presidente della Dc, e stata un esempio di diversivo complottista finalizzato a coprire l’impiego delle torture.
La sera del 17 maggio 1978, Enrico Triaca, il militante che gestiva la tipografia delle Brigate rosse di via Pio Foà a Roma, venne preso in consegna da una squadra travisata di poliziotti che dalla caserma di Castro Pretorio, dove era finito dopo l’arresto avvenuto in mattinata, lo condussero in un luogo segreto. Torturato durante la notte, sotto la guida esperta del professor De Tormentis, soprannome affibbiato al funzionario dell’Ucigos Nicola Ciocia che comandava la squadra speciale del ministero degli Interni esperta negli interrogatori non ortodossi, a Triaca furono estorte alcune informazioni che portarono alla scoperta di una base brigatista, all’Aurelio, e all’arresto di due altri militanti. IMG_0475
Il clamore suscitato dal rinvenimento, avvenuto appena una settimana dopo il ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani, creò qualche problema agli inquirenti in difficoltà nello spiegare come si era arrivati alla macchina da scrivere a testina rotante con cui era stata redatta la risoluzione strategica del febbraio 1978. Mancava una confessione ufficiale, e legale, perché quelle informazioni erano state strappate con la tortura dell’acqua e sale. Si tentò di correre ai ripari sottoponendo a Triaca una deposizione “spontanea”, ma il funzionario incaricato, Michele Finocchi, fece degli errori ed in ogni caso la data in calce era sempre successiva al ritrovamento della base. I conti non tornavano e bisognava Ciociatenere coperti i metodi illegali impiegati anche perché, nel frattempo, Triaca, ritrovate le energie psicologiche, stava per denunciare il trattamento subito. Cosa che avvenne il 19 giugno davanti al procuratore capo Achille Gallucci che per rappresaglia tentò di tappargli la bocca denunciandolo per calunnia.
In quegli stessi giorni sui giornali cominciarono a filtrare strane ricostruzioni che dipingevano il tipografo delle Br come un personaggio poco chiaro, una «inquietante figura» in contatto con la questura durante il sequestro, scrive la Mazzocchi sulla Stampa del 19 giugno; un «infiltrato», sostiene il Messaggero del 17, che avrebbe condotto di persona la polizia nella base di via Palombini. Lo steso giorno Paese sera titola, «Il tipografo delle Br aveva amici nella Ps», ma Repubblica batté tutti: «C’è un informatore nella colonna romana», mentre nell’occhiello sollevava interrogativi sulla presenza di una «fonte confidenziale» che avrebbe portato agli arresti e rivelò che Triaca al momento della perquisizione aveva nel portafoglio due biglietti omaggio per sale cinematografiche rilasciati dal terzo distretto di polizia.
ComplottoI biglietti, come accerterà l’indagine condotta dalla Digos (n.050714 del 17 giugno 1978), provenivano dalla moglie di un funzionario di polizia che li aveva regalati al personale di una sartoria di cui era cliente, e nella quale lavorava anche la sorella di Triaca che li aveva ceduti al fratello. La “fonte confidenziale” invece c’era, ma Triaca e i suoi compagni ne avevano solo fatto le spese. Anche sulle origini di questa “spiata”, che il 28 marzo segnala il nome di Spadaccini insieme ad altre persone, si è speculato a lungo. Nel libro Doveva Morire di Ferdinando Imposimato e Sandro Provisionato (Chiarelettere), si afferma che si sarebbe trattato di un informatore già impiegato in precedenza contro i Nap, conosciuto in codice come “fonte cardinale”. Questa informazione non trova conferme. Secondo Triaca la segnalazione sarebbe venuta da ambienti del partito comunista del Tiburtino, zona di origine degli arrestati. Uno di loro, Giovanni Lugnini, dopo la scarcerazione ricevette le scuse di un militante della sezione locale del Pci in lacrime. Anche sui tempi dell’indagine, che si concluse il 17 maggio, 50 giorni dopo, ci sono state illazioni e polemiche. La commissione Pellegrino condusse delle verifiche per accertare se davvero gli arresti furono ritardati per favorire l’eterodirezione del sequestro. Il senatore Sergio Flamigni all’epoca, e recentemente Ferdinando Imposimato che fu giudice istruttore e interrogò Triaca ignorando la sua denuncia delle torture, hanno sposato questa tesi; smentiti tuttavia dai risultati della inchiesta condotta dalla commissione. Non ci furono ritardi, dopo lunghi pedinamenti le indagini si concretizzarono solo il primo maggio. Quel giorno Spadaccini fu visto incontrare per la prima volta Triaca. Si viene a scoprire così l’esistenza della tipografia. Il successivo 7 maggio partono le richieste di perquisizione che dovevano scattare il 9 mattina. I provvedimenti contengono una correzione a mano che li posticipa di tre giorni, ma il ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani fa saltare l’operazione che verrà realizzata solo il 17 maggio con tanto di interrogatorio a base di acqua e sale. Repubblica
Si arriva così alla storia della stampatrice presente nella tipografia brigatista di via Pio Foà 31, nel quartiere di Monte Verde vecchio a Roma. I macchinari utilizzati per stampare la famosa risoluzione della Direzione strategica del febbraio 1978 risultarono, infatti, provenienti da stock ministeriali in disuso. La stampante AB-DIK260T apparteneva in origine al raggruppamento unità speciali di forte Braschi, dove aveva sede il Sismi, mentre la fotocopiatrice AB-DIK 675 proveniva dal ministero dei trasporti. Per i dietrologi fu una manna, lo smoking gun tanto agognato. Per anni è stato uno dei loro cavalli di battaglia finché la seconda commissione Moro presieduta dal senatore Pellegrino decise di condurre una propria istruttoria che mise la parola fine sulla vicenda. Acquistata nel 1972 presso la ditta Nebuloni & Picozzi dal ministero della difesa per la cifra di 10 milioni e 500 mila lire, e attribuita al Rus di Forte braschi, la stampatrice fu posta in disuso già nel settembre 1975. Nel novembre successivo venne destinata al magazzino del genio militare per essere venduta ad una ditta rottamatrice ma alla fine del 1976 fu sottratta e venduta illecitamente dal tenente colonnello Federico Appel del Rus al cognato Renato Bruni per sole 30 mila lire. Questi la consegnò come saldo di un debito a Paolo Tomasello che all’inizio del 1977 la cedette a Stefano Noto, un tecnico della Nebuloni & Picozzi che arrotondava lo stipendio riparando vecchie macchine. Tramite un annuncio sul Messaggero Noto la rivende per 3 milioni di lire (provenienti dal sequestro Costa) a Stefano Ceriani Sebregondi ed Enrico Triaca che stavano allestendo la tipografia delle Br. Un percorso simile riguarda la fotocopiatrice acquistata nel 1969 dal ministero dei trasporti. Insomma, una tipica storia italiana di peculato e appropriazione indebita finita per alimentare le più insulse teorie dietrologiche, cinicamente utilizzate per coprire il warterboarding denunciato da Triaca. Altro che misteri, le torture – riconosciute recentemente anche dalla corte di appello di Perugia – sono la vera questione irrisolta del caso Moro. La nuova commissione avrà intenzione di indagare?

5/fine

Le altre puntate
Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia – 1a puntata
Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol – 2a puntata
Via Fani e il fantasma del colonnello Guglielmi – 3a puntata
La leggenda dei due motociclisti che sparano e il tentativo di cambiare la storia di via Fani – 4a puntata

Per saperne di più
La dietrologia nel rapimento Moro

Dietrologie torture

La leggenda dei due motociclisti che spararono e il tentativo di cambiare la storia di via Fani – 4a puntata

Da quei primi novanta secondi in cui, la mattina del 16 marzo 1978, le Brigate rosse riuscirono a neutralizzare la scorta e portare via il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, il tentativo di cambiare la storia di via Fani non è mai cessato. Oggi raccontiamo la lunga storia delle parole inaffidabili dell’ingegner Alessandro Marini, da sempre ritenute una delle testimonianze più attendibili e ancora oggi utilizzate per dare corpo alle letture cospirazioniste del sequestro. La leggenda dei due motociclisti che sparano e di un parabrezza che va in frantumi restano uno dei pezzi forti attorno al quale si dipana la narrazione dietrologica.  Leggi qui le precedenti puntate (1), (2), (3)

Paolo Persichetti
Il Garantista 12 marzo 2015 (versione integrale)

13 Motorino03 copiaUna moto Honda di grossa cilindrata con due persone a bordo passò davvero in via Fani la mattina del 16 marzo 1978? Se la risposta è affermativa, chi c’era sopra quel mezzo? Due brigatisti mai identificati o due ignari motociclisti piombati nel luogo sbagliato al momento sbagliato? Oppure, come sostengono i dietrologi, i centauri erano uomini dei servizi in appoggio al commando brigatista? La questione tiene banco da anni e recentemente è tornata d’attualità dopo una campagna sensazionalistica ripresa dai media. Un clamore che ha provocato prima l’avocazione dell’inchiesta, ferma da tempo, e poi la richiesta di archiviazione formulata dal pg Luigi Ciampoli (ne abbiamo parlato sul Garantista del 1 marzo 2015). Ora il gip, Donatella Pavone, accogliendo il ricorso del nuovo procuratore generale Antonio Marini (fortemente polemico con il suo predecessore), ha deciso la riapertura delle indagini. Un ping pong tra magistrati della procura segnato da rivalità, sgambetti e divergenze. Se l’attuale pg, “protempore”, Marini si mostra sempre convinto della presenza della motocicletta e che a bordo vi fossero due brigatisti rimasti impuniti, l’ex pm Franco Ionta, lo scorso 3 marzo, di fronte alla nuova commissione parlamentare d’inchiesta ha manifestato grosse perplessità.
Dal punto di vista storico e politico, se si accertasse che la moto passò e che era guidata da due brigatisti rimasti ignoti, non cambierebbe nulla. La questione rivestirebbe solo un residuale interesse giudiziario. Tuttavia i brigatisti hanno sempre smentito l’impiego di una motocicletta quella mattina. D’altronde a cosa sarebbe servita? Non certo per confermare l’imminente arrivo del convoglio che a volte sceglieva itinerari alternativi, perché la moto sarebbe dovuta rimanere troppo vicina alla scorta di Moro col rischio di insospettirla. Per questo le Brigate rosse scelsero una soluzione più discreta, impiegando una giovane militante in cima a via Fani con un mazzo di fiori in mano. Agitandoli, avrebbe dato il segnale. Una presenza talmente discreta che nessuno dei 34 testimoni la notò, e furono gli stessi brigatisti a indicarla quando, ritenuto concluso il ciclo politico della lotta armata, intesero favorire un lavoro di storicizzazione di quelle vicende.
Era superfluo anche l’impiego di una staffetta mobile per verificare che la strada fosse sgombera da presenze inopportune. Il declivio di via Fani consente una visibilità ottima a chi è più in basso. D’altronde intralci improvvisi ci furono, come la 500 che procedeva troppo lentamente, sorpassata dalla 128 giardinetta dei Br e poi con una manovra un po’ avventata dalla scorta di Moro. Il rischio di variabili era stato preso in considerazione, come la possibilità che una qualche vettura anticipasse la giardinetta di Moretti e il convoglio, piazzandosi davanti a tutti all’altezza dello stop. In quel caso l’assalto sarebbe stato portato qualche metro più in alto, all’altezza del furgone del fioraio Spiriticchio. Furgone al quale vennero bucati i pneumatici la sera prima perché non fosse presente quella mattina.
Infine, è al di fuori di qualsiasi schema d’azione brigatista ipotizzare che due militanti a cavallo di una moto si potessero fare strada con le armi in pugno, allertando chiunque li avesse visti e vanificando così quell’effetto sorpresa che forniva loro la supremazia militare, per poi sparare come dei cowboy, addirittura nemmeno contro la scorta di Moro ma verso un inerme testimone.
Come se non bastasse, tutti i mezzi impiegati durante l’azione sono stati abbandonati dopo un breve tragitto, ma della moto invece non si è mai trovata traccia. Non è pensabile immaginare che i due militanti delle Br abbiano attraversato la città su quel mezzo, segnalato da alcuni testimoni, senza mai effettuare un cambio. Pur non avendo risolto queste contraddizioni, la sentenza conclusiva del primo processo Moro, che riunisce le inchieste Moro e Moro bis, stabilì che quella moto ci fu, che sopra c’erano due militanti delle Brigate rosse che spararono ad un testimone, l’ingegner Alessandro Marini, fermo all’incrocio sul lato basso di via Fani. Almeno questo dichiarò il teste perché le perizie balistiche non confermarono mai la presenza di spari nella sua direzione. Insomma i giudici si fidarono ciecamente delle parole di Marini e condannarono anche per concorso in tentato omicidio tutti i componenti del commando brigatista, ritenendo che ve ne fossero altri due ancora da scovare e consegnare all’ergastolo.

Collocazione dei testimoni in via Fani (via Fani 9.02)

Collocazione dei testimoni in via Fani (Fonte via Fani 9.02)

La presenza della moto fu confermata solo da tre testimoni: Luca Moschini che mentre attraversa perpendicolarmente l’incrocio di via Fani, prima che scattasse l’azione, avvista una Honda di colore bordeaux accanto a due avieri (due Br) che stanno sul marciapiede antistante il bar Olivetti. Non vede armi e non sente sparare; l’ingegner Marini, per il quale invece l’Honda è di colore blu, partecipa all’assalto e addirittura sfreccia dietro la 132 blu che porta via Moro; il poliziotto del reparto celere Giovanni Intrevado che colloca il passaggio della motocicletta ad azione conclusa. Il 5 aprile 1978 riferisce di una moto di grossa cilindrata con due persone a bordo che gli «sfrecciò vicino» quando era già sceso dalla sua 500 e correva verso le tre macchine ferme. All’epoca non scorge armi e descrive i due a volto scoperto. Solo nel maggio 1994, sollecitato sulla questione, fa mettere a verbale che i due a bordo della moto procedevano lentamente guardandosi attorno e ricorda qualcosa che assomigliava al caricatore di un mitra posizionato verticalmente tra i due passeggeri, anche se «l’uomo che sedeva dietro teneva le braccia avvinte al guidatore». Circostanza che contrasta apertamente con la scena descritta dall’ingegner Marini, il quale alterna la posizione del passeggero col passamontagna: nella prima deposizione era quello posteriore che gli avrebbe sparato; nella seconda è il guidatore. Nel 1994 non è più sicuro e rimanda a quanto detto negli anni precedenti. Intrevado e Marini, che pure sono entrambi fermi allo stop, non si accorgono mai uno dell’altro. Nessuno degli altri 31 testimoni scorge la moto, durante l’assalto o subito dopo, come per esempio il giornalaio Pistolesi o il benzinaio Lalli. Nemmeno Conti, che dalla sua abitazione alle 9.02 chiama per primo il 113 e avverte che hanno colpito l’auto di Moro.
Domanda: quando è passata la moto? Siccome le tre testimonianze non sono sovrapponibili, stabilirlo è dirimente, perché solo se è passata durante l’azione si può ritenere, senza ombra di dubbio, che la moto facesse parte del commando. Se invece è passata prima, o dopo, non si ha più alcuna certezza. Fino ad oggi la magistratura ha sottovalutato queste divergenze cronologiche dando credito alla versione dell’ingegnere sul motorino.
Ma davvero Marini è così attendibile? In realtà, la sua affidabilità fu già messa in discussione dalla corte d’appello del primo processo Moro, che qualificò la sua testimonianza di «ricostruzione “a posteriori” del fatto». Le deposizioni di Marini hanno tutte una caratteristica particolare: oltre a confondere e sovrapporre le varie fasi dell’assalto brigatista, moltiplicandone i partecipanti, tendono a ricostruire la sequenza degli eventi con una forte carica egocentrica che viene a situarlo al centro di un episodio che ha cambiato la storia.
Il 16 marzo 1978 egli riferì del passeggero posteriore di una moto Honda blu munito di passamontagna che avrebbe esploso dei colpi contro di lui, perdendo un caricatore a terra che poi disse di aver indicato agli investigatori.

Marini 2

Marini 2.1

Il 26 settembre successivo dichiarò: «La persona che viaggiava sul sellino della “Honda”, dietro il conducente, sparò alcuni colpi di arma da fuoco dei quali uno colpì anche la parte superiore del parabrezza del motorino rompendolo. Io non sono stato colpito perché nel frattempo istintivamente mi ero abbassato. Conservo ancora a casa i frammenti del parabrezza che mantengo a disposizione della giustizia».
1. Caricatore e cappello copiaPerò del caricatore di cui parla Marini non si è mai vista traccia. L’unico caricatore ritrovato in via Fani, e ritratto nelle foto accanto al berretto da aviere, è quello del mitra che aveva in mano Raffaele Fiore. Il solo dei quattro del commando che doveva fare fuoco che non riuscì a sparare un solo colpo perché la sua arma si inceppò per due volte, anche dopo il cambio di caricatore, come attestano le perizie balistiche e conferma lo stesso Fiore nel libro di Aldo Grandi, L’ultimo brigatista (Bur).
Caricatore copiaIl 17 maggio 1994 l’ingegner Marini, sentito nuovamente dalla procura che stava conducendo nuove indagini, fa una rivelazione che ribalta completamente la storia dei colpi di pistola esplosi dalla Honda: «Riconosco nei due pezzi di parabrezza che mi vengono mostrati, di cui al reperto nr.95191, il parabrezza che era montato sul mio motorino il giorno 16 marzo 1978. Ricordo in modo particolare lo schoch che io stesso ho apposto al parabrezza che nei giorni precedenti era caduto dal cavalletto incrinandosi. Prima di sostituirlo ho messo momentaneamente questo schoch per tenerlo unito. Ricordo che quel giorno, in via Fani, il parabrezza si è infranto cadendo a terra proprio dividendosi in questi due pezzi che ho successivamente consegnato alla polizia». Dunque non sono più i colpi di pistola ad aver distrutto il parabrezza.

Dep Marini 0 1994Dep Marini 1994

Dep Marini 2 1994

4. Motorino 1 copiaTra le tante foto che ritraggono via Fani subito dopo l’assalto brigatista, in alcune si può scorgere, proprio dietro l’Alfasud beige della digos parcheggiata sul lato sinistro della via, un motorino accostato al muretto che separa il bar Olivetti dalla strada con un parabrezza nastrato che assomiglia moltissimo alla descrizione fatta da Marini, il quale nella deposizione del 1994 non ricordava «quando sono andato a ritirare il motorino che avevo lasciato incustodito all’incrocio con via Fani e via Stresa». E’ il suo?
Se, come dice l’ingegner Marini con 16 anni di ritardo, il parabrezza era già incrinato prima di quella mattina, e si danneggia ulteriormente perché impaurito dall’assalto armato lascia cadere il motorino, viene meno l’unico labile indizio richiamato fino a quel momento come prova dei colpi sparati dalla Honda contro di lui. E crolla la versione della Honda con i brigatisti a bordo che avrebbero partecipato al rapimento. 8 Motorino nastrato-1 copiaBoxer nastrato

9 Motorino nastrato-2 copia

12 Motorino02 copiaSe così stanno le cose, l’attuale procuratore generale, Antonio Marini, che ha ripreso in mano le indagini, ha una grande opportunità: fornire un decisivo contributo alla verità approfittando dell’occasione per chiedere la revisione delle condanne per tentato omicidio dell’ingegner Marini emesse nel primo processo Moro.
Appare sempre più chiaro che su quella moto c’erano persone ignare di quel che stava accadendo, passate nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Eliminare l’ipoteca penale costituita del coinvolgimento nel rapimento e l’uccisione dei cinque uomini della scorta permetterebbe, a chi quella mattina si trovò lì per puro caso, di ammettere che, senza volerlo, transitò dentro la storia che stava cambiando.

4/continua

Le altre puntate
 5a puntata

I dietrologi dell’Isis su Moro

Che cosa è la dietrologia, o meglio quel format mediatico intitolato “i misteri del caso Moro” cha da quasi 40 anni ci viene propinato? Una antistoria, anzi una distruzione della storia, ci spiega Francesco Piccioni in questo fulminante articolo: «per alimentare la misteriologia bisogna far strage di prove, equiparandole ai sospetti, alle domande, alle idiozie, mescolando il tutto in un calderone bollente e più volte centrifugato, al punto che nulla conta più nulla. Tranne la volontà del cuoco, che accende il fuoco quando vuole e indica agli attoniti spettatori questo o quel componente che viene portato in superficie dal suo mestolo e poi rapidamente scompare nella sbobba. Siamo al masterchef della Storia, in cui è sempre ammesso un nuovo pirla che porta un nuovo componente o – sempre più spesso, visto quanto tempo è passato – semplicemente un pezzo già usato e dimenticato. Ribollito»

Francesco Piccioni
Contropiano 10 marzo 2015

I dietrologi dell'Isis su Moro

Leggendo le cronache avventurose – sul piano mentale – della nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro di Aldo Moro, ad un certo punto mi è passata davanti l’immagine dell’Isis che distruggeva i resti della civiltà assira. Che c’entrano dei benestanti e benpensanti parlamentari con dei tagliagole che distruggono il passato per affermare il loro eterno presente (secondo loro) dettato da un dio?
La forma mentis, direi.
Il format mediatico intitolato “i misteri del caso Moro” ha quasi 40 anni, assicura a tutti gli interpreti qualche minuto di successo, un portafoglio gonfio, a volte persino una poltrona da parlamentare. Fin qui tutto bene, è la banalità dell’imbrancarsi in un gregge guidato da pastori con mano ferma.
Il problema è che per alimentare la misteriologia bisogna far strage di prove, equiparandole ai sospetti, alle domande, alle idiozie, mescolando il tutto in un calderone bollente e più volte centrifugato, al punto che nulla conta più nulla. Tranne la volontà del cuoco, che accende il fuoco quando vuole e indica agli attoniti spettatori questo o quel componente che viene portato in superficie dal suo mestolo e poi rapidamente scompare nella sbobba. Siamo al masterchef della Storia, in cui è sempre ammesso un nuovo pirla che porta un nuovo componente o – sempre più spesso, visto quanto tempo è passato – semplicemente un pezzo già usato e dimenticato. Ribollito. Che so, “la moto Honda”…
L’audizione dell’ex viceparroco di Santa Lucia, amico di Moro, ora nunzio apostolico in Gran Bretagna è stata un capolavoro di dimostrazione di quanto vado dicendo. Presentata – immancabilmente – come l’evento che avrebbe “permesso di fare chiarezza su uno dei punti più oscuri della vicenda”, si è aperta con il placido prete costretto a premettere che era l’ottava volta che veniva chiamato a deporre sulla stessa cosa. La seconda, davanti a una commissione parlamentare. Non proprio una “prima”… Nella vicenda storica il suo ruolo era stato decisamente minore: allora giovane prete, era stato destinatario di alcune lettere scritte da Moro, perché le girasse alla famiglia. Non serve essere degli esperti in sequestri di personaggi di spicco per sapere che in questi casi la famiglia è sottoposta a controlli stringenti, “blindata” da uomini armati che filtrano ogni spillo in entrata o in uscita dall’abitazione. Un giovane prete senza alcun potere, un collega di università (come il prof. Tritto) o altri personaggi simili diventano una buona “intermediazione” per mandare lettere. Non c’erano i social network, allora; e presumibilmente nessun brigatista li avrebbe usati visto che sono “tracciati” in ogni passaggio. Su di lui era stato sparso uno dei tanti “misteri” della dietrologia, addirittura per bocca di Francesco Cossiga. Che aveva ipotizzato – non saprei dire se a mo’ di battuta mal riuscita o soprassalti di rimorso per piste non seguite – che quel giovane prete fosse stato a sua volta sequestrato per un giorno, portato nella prigione di Moro e lì avesse impartito l’estrema unzione. Sette interrogatori o audizioni non erano bastate a convincere nessun dietrologo che lui, in via Montalcini, non c’era stato. Ed anche ieri, al termine dell’ottava audizione ha commentato tristemente “non penso di aver convinto nessuno”. Lo si può capire. Qualsiasi protagonista di quella vicenda – i brigatisti, Cossiga, l’archivista della stessa commissione stragi, storici, poliziotti e magistrati, ecc – abbia provato a mettere la parola fine su uno qualsiasi dei misteri è stato rapidamente derubricato a “opinione” fra le tante, probabilmente falsificata ad arte, comunque irrilevante. Finendo rapidamente tra i tanti componenti della sbobba che ogni tanto riprende a bollire.Leggiamo come ricorda don Mennini quei giorni:

Ci venne indicato un sacerdote dei pallottini con presunte doti di sensitivo: fu lui ad indicare su una mappa un punto dell’Aurelia. Ne parlai con il professor Tritto (assistente di Moro, ndr) e lui disse che era importante, che dovevamo dirlo al ministro e ottenne un appuntamento. Fummo ricevuti al Viminale dove ci tennero a bagnomaria per 3 o 4 ore, ogni tanto Cossiga entrava e chiedeva a Tritto se era possibile avere qualche indumento di Moro, qualche scritto, ipotizzando pure il coinvolgimento del sensitivo consultato nel caso dell’omicidio di Milena Sutter”. Era un clima “poco esaltante”, “ogni tanto veniva il capo di gabinetto che parlava di una fila di persone importanti che chiedevano biglietti omaggio per lo spettacolo pasquale dell’Opera. A me fu rimproverato di non aver informato la polizia del contatto telefonico con le Br, ma non volevo rischiare di bloccarlo, volevo solo essere utile a una persona alla quale volevo bene e fare nel mio piccolo tutto quello che potevo. E poi, quello che ho visto quel giorno al Viminale mi era bastato..  Tornato a casa, parlando con i miei dissi ‘se le cose funzionano così, Moro può salvarlo solo la Madonna o la Provvidenza’”.

Cioè nessuno. La dietrologia si regge sull’idea che la Storia sia governata da una Spectre onnipotente e onnisciente, che ordisce complotti e sa come intervenire ogni volta che si rischia siano scoperti. La Spectre è insomma un dio oscuro, contro cui il “vero fedele” può soltanto esercitare il rifiuto di tutto ciò che sfugge all’idea di “mondo regolato” che deriva dalla parola del “vero dio”. L’Isis della dietrologia è questa bestia qui, che distrugge tutto – passato, prove, credibilità, ecc – per affermare soltanto la sua esistenza e pretesa di dominio. Anche Moro subì, ancor vivo e prigioniero, lo stesso trattamento: le lettere che scriveva non erano “moralmente ascrivibili” a lui. Tanto da dichiararlo “pazzo” quando, obliquamente e moderatamente, scriveva parole non concilianti con qualche notabile del suo stesso partito iscritto al nuovo e infame “partito della fermezza”. Il partito della dietrologia è una filiazione diretta del “partito della fermezza”. E’ stato messo in piedi dagli stessi uomini, dagli stessi partiti. Vomita merda da quasi 40 anni e ha avvelenato i pozzi a cui si abbeverano i cervelli. Non c’è più – o quasi – un giornalista capace di distinguere una bufala clamorosa da un’ipotesi allettante; e in ogni caso una prova è per loro irriconoscibile. Non esiste, non può esistere un punto fermo, una verifica definitiva – da laboratorio – di quel che è falso e di quel che è vero. Non ci sono testimonianze, né carte, né riscontri che possano mettere in crisi il “mistero”. Non c’è perché non ci deve essere, finirebbe il gioco… Guardiamo ancora dall’audizione di ieri. Grande sorpresa – sia tra i parlamentari della commissione che tra i giornalisti mandati a seguire l’audizione – quando don Mennini ha ricordato che il papa, l’allora Paolo VI, aveva fatto preparare 10 miliardi di lire per un eventuale riscatto in denaro. Una “rivelazione”? Ma se il rifiuto del riscatto compare addirittura in uno dei nove volantini delle Br emessi durante il sequestro… Era ipotesi avanzata su tutti i giornali di quelle settimane, oggetto di “dibattito” tra esperti, politici, giornalisti, specie dopo la richiesta ufficiale di scambiare Moro con 13 prigionieri politici. Tutto cancellato, tutto dimenticato. Solo il “mistero” ha diritto ad esistere, picconando reperti, statue, storie, prove… Continuerà così in eterno, fin quando qualche bastardo vi troverà un guadagno.

Fonte: http://contropiano.org/interventi/item/29576-i-dietroogi-del-isis-su-moro

La falsa novità dell’audizione di monsignor Mennini. Il confessore di Moro è già stato interrogato 7 volte

I lavori della nuova commissione d’inchiesta parlamentare sulla vicenda Moro sembrano dei minestroni riscaldati e pure insipidi. L’audizione di monsignor Mennini è stata spacciata come una svolta voluta da papa Bergoglio che avrebbe autorizzato l’attuale nunzio apostolico in Gran Bretagna a rivelare finalmente chissà quali segreti. In realtà don Mennini in passato, tra interrogatori davanti alla magistratura e audizioni di fronte alle precedenti commissioni d’inchiesta, è stato già ascoltato 7 volte. Al giornalista Antonio Padellaro smentì di essere mai entrato nella casa di via Montalcini dove era trattenuto Moro per confessarlo. Una congettura diffusa da Francesco Cossiga che non si dava pace del fatto che la sua polizia non era mai riuscita a beccare sul fatto i postini delle Br e i loro canali di comunicazione. Mennini, in realtà, fu messo sotto controllo a partire dal 22 aprile 1978, quando si scoprì che nei giorni precedenti aveva consegnato delle lettere di Moro alla famiglia. Pubblichiamo di seguito una ricostruzione molto autorevole realizzata dal sito cattolino Aleteia delle dichiarazioni di Mennini fatte davanti alle varie autorità: magistratura, commissioni parlamentari e stampa, nel corso dei decenni passati. Come si può leggere non è affatto vero che il nunzio si sia mai sottratto alle convocazioni e abbia utilizzando come scudo la sua immunità diplomatica. Una maldicenza messa in giro in perfetta malafede dalla solita vulgata dietrologica

 

Chiara Santomiero 7 marzo 2015
Fonte http://www.aleteia.org (http://www.aleteia.org/it/politica/articolo/la-verita-sul-caso-moro-5226074065600512)

Domani, lunedì 9 marzo, davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro si terrà l’audizione di mons. Antonio Mennini. Non sarà la prima volta che parla del suo ruolo

Mennini aula bunker Rebibbia

Don Mennini nell’aula bunker del processo Moro

Riuscirà mons. Antonello Mennini, attuale nunzio apostolico in Gran Bretagna, a sollevare alcuni dei veli che pesano sul caso Moro? E’ quanto viene auspicato dalla nuova Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, che lo attende per un’audizione lunedì 9 marzo a Palazzo S. Macuto. “Ci aspettiamo – ha affermato il presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni – un contributo di conoscenza da parte dell’uomo che più di tutti fu spiritualmente vicino ad Aldo Moro. Tanti i punti che potrà affrontare: il suo ruolo in quei giorni, i suoi contatti, l’impegno enorme di Paolo VI ad avviare una trattativa per restituire Moro vivo al Paese e alla sua famiglia e perché questo tentativo non andò in porto” (AdnKronos 27 febbraio).
Mennini, figlio di un importante funzionario della banca vaticana dello Ior, formatosi dai gesuiti del collegio Massimo, era nel 1978 vice parroco a Santa Lucia e in rapporti di confidenza e amicizia con Moro che, dalla sua prigione, lo indicò come “postino” per recapitare alcune lettere.
La convinzione circolata con frequente convinzione nei 37 anni trascorsi dal 16 marzo 1978, il giorno in cui il corpo senza vita del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro fu ritrovato nella famosa Renault rossa in via Caetani a Roma, è che l’allora trentenne don Antonello si sia recato nella “prigione del popolo” in cui le Brigate Rosse detenevano lo statista per recargli il sacramento della Confessione prima che fosse ucciso.
Allo stesso modo si è affermata la convinzione che don Antonello sia stato sottratto in fretta e furia dal Vaticano al confronto con le autorità giudiziarie che investigavano sul caso Moro e infilato in un incarico diplomatico dopo l’altro affinchè non potesse rispondere alle domande sul suo coinvolgimento nella vicenda. Almeno su questo punto, però, è possibile riscontrare una evidenza diversa.
Don Mennini partì per la sua prima destinazione in Uganda, nel 1981, cioè ben tre anni dopo la tragica conclusione del caso Moro. E in, realtà, fu sentito tra procure, corti d’assise e commissioni parlamentari almeno 7 volte. Basta consultare, tra l’altro, l’indice degli atti della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (http://www.archivioflamigni.org/doc/indice-atti-commissione-moro.pdf) istituita nel 1979.
Il 2 giugno del 1978 Mennini fu sentito dalla Procura della Repubblica di Roma e il 12 gennaio 1979 il Tribunale di Roma lo esaminò in merito a “confessione di Moro”. Nel febbraio del 1979 il sostituto procuratore di Roma, Domenico Sica, volle nuovamente ascoltarlo dopo la pubblicazione nel gennaio di quell’anno di un articolo sul Corriere della Sera a firma del giornalista Antonio Padellaro sempre in merito alla presunta confessione avvenuta nella prigione della BR. Padellaro, ex alunno del Massimo come Mennini, aveva chiesto al vice parroco di Santa Lucia se davvero si fosse recato da Moro e questi aveva risposto: “Magari avessi potuto farlo! Purtroppo non mi è stata data la possibilità di offrire consolazione a una persona che mi onorava di affetto e amicizia”.
Il 22 ottobre del 1980 Mennini testimoniò davanti alla Commissione d’inchiesta su via Fani. Il 21 settembre 1982 fu convocato, ma non ascoltato, davanti alla Corte di Assise di Roma dove si svolgevano i procedimenti riunificati Moro uno e Moro bis con la presidenza del giudice Severino Santiapichi. Di lui, però, aveva parlato davanti alla stessa Corte nell’udienza del 19 luglio la vedova di Aldo Moro, la signora Eleonora Chiavarelli. Al presidente Santiapichi il 28 settembre Mennini inviò una lettera informando che stava ripartendo per il servizio diplomatico in Uganda ma restava a disposizione.
Il servizio diplomatico (consigliere di nunziatura in Uganda e Turchia, nel 2000 nunzio apostolico in Bulgaria, dal 2002 presso la Federazione Russa e successivamente anche in Uzbekistan, quindi dal 2010 nel Regno Unito) non impedì a Mennini di tornare davanti dalla Procura di Roma che indagava per il Moro ter nel settembre del 1986 e davanti alla Corte d’Assise per il Moro-quater, di nuovo con il presidente Santiapichi, nel 1993.
Forse è per questo motivo che Mennini richiesto di una nuova audizione dalla cosiddetta seconda Commissione Moro, la “Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”, istituita nel 1988, inviò una lettera al presidente Giovanni Pellegrino per chiedere, “rispettosamente” come si legge, alla Commissione di fare riferimento alle precedenti deposizioni rese alle autorità sia parlamentari che giudiziarie che confermava e rispetto alle quali non aveva nulla da aggiungere. In ogni caso, non trincerandosi dietro lo status di cittadino del Vaticano e “il ruolo ivi ricoperto” come è stato spesso riportato.
“Un comportamento quest’ultimo – afferma la relazione della Commissione parlamentare – che la Commissione non può omettere di valutare almeno a livello indiziario, per affermare dotata di probabilità, sia pur non elevata a certezza, l’ipotesi che tra la famiglia Moro e le Brigate Rosse si fosse stabilito un cosiddetto ‘canale di ritorno'”. Cioè che le lettere dello statista fatte arrivare all’esterno possano avere avuto una risposta diretta e non solo attraverso i mass media. Una lettera indirizzata da Moro a Mennini, ma che il sacerdote non ricevette, e trovata tra le pagine dattiloscritte scoperte nel covo di via Monte Nevoso a Milano nel 1990, sembrava suggerire questa direzione.
Secondo Francesco Cossiga, nel 1978 ministro dell’Interno, Don Mennini entrò nel covo Br e lo confessò durante i 55 giorni. “Ho sempre creduto – affermò Cossiga- che don Antonello, allora suo confessore, abbia incontrato Moro prigioniero delle Br per raccogliere la sua confessione prima dell’esecuzione dopo la condanna a morte. Come ministro dell’Interno allora mi sentii giocato. Mennini ci scappò. Seguendolo avremmo potuto trovare Moro. Ma ancora oggi il Vaticano è riuscito a fare in modo che Mennini non potesse essere interrogato mai da polizia e carabinieri. Avevamo messo sotto controllo telefonico e sotto pedinamento tutta la famiglia e tutti i collaboratori. Ci scappò Don Mennini. Io credo che le Br gli abbiano permesso di recarsi nel covo per incontrare e confessare Moro. Almeno lo spero. Anche se Moro non ne aveva certo bisogno”.
In realtà il telefono di don Mennini, come risulta da un rapporto della Digos agli atti del processo Moro, era già sotto controllo il 22 aprile 1978, cioè il giorno dopo aver consegnato alcune lettere fattegli recapitare da Moro e precedute da due telefonate del sedicente professor Nicolai, alias il brigatista Valerio Morucci: una il 20 aprile e una, di controllo, la mattina del 21 aprile.
In questi anni monsignor Mennini ha mantenuto il riserbo sulla vicenda che lo ha coinvolto: “Sono sempre stato molto discreto quanto al rapporto che avevo con l’onorevole Moro – ha confermato al giornalista Gian Guido Vecchi -. In tante vicende, vuoi in Italia che altrove, la curiosità della gente, non di rado alimentata dai media, è spesso spinta in una ricerca quasi ossessiva di segreti, misteri non chiariti, fatti taciuti, per cui non ci si contenta mai di stare alla realtà dei fatti verificati e storicamente provati. Va quasi da sé che la tragica scomparsa dell’onorevole Moro, cui possiamo associare tante altre persone vittime innocenti della barbarie del terrorismo, resta una ferita ancora aperta: soprattutto, credo, nel cuore dei suoi famigliari, di quanti gli erano più vicini e lo hanno sinceramente amato, come pure di coloro che si sono trovati a dover compiere delle scelte terribili” (Corriere della Sera 27 dicembre 2010).

Per ulteriori approfondimenti
Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia  /1a puntata
Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol /2a puntata
Via Fani e il fantasma del colonnello Guglielmi /3a puntata

Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia /1a puntata

Da sempre priva di riscontri la vecchia dietrologia cerca conforto nelle nuove tecnologie. Domenica 22 febbraio la polizia scientifica ha effettuato una scansione laser del luogo dove Aldo Moro venne sequestrato 36 anni fa.
Questo è il primo di un ciclo di interventi dedicato ai lavori della nuova commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia cristiana. Leggi le puntate successive (2a e 3a)

Paolo Persichetti
Il Garantista 28 febbraio 2015

10995657_816482041732693_2140707097252357948_nIl tratto di strada che il 16 marzo 1978 vide alcuni operai scesi dalle fabbriche del Nord dare l’assalto, insieme a dei giovani romani di varia estrazione, al convoglio di auto che trasportava il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, non trova pace.
Quella mattina, lungo via Fani si erano dati appuntamento in dieci: un tecnico, un contadino, una assistente di sostegno, diversi studenti, un artigiano, un paio di disoccupati, alcuni operai, un commerciante. Il più anziano aveva 32 anni, la più giovane 20. Erano le Brigate rosse, intenzionate a sferrare un attacco senza precedenti al «cuore dello Stato».
A distanza di 36 anni questo fatto storico non è ancora accettato dai cultori del complotto, anzi dei ripetuti complotti di diversa natura e colore, tutti assolutamente reversibili, che nei tre decenni ormai alle spalle si sono succeduti in perfetta antitesi tra loro.
E’ per questo che domenica scorsa l’incrocio tra via Fani e via Stresa, situato nella zona nord di Roma, è stato sottoposto a scansione laser da alcuni tecnici della polizia scientifica che in questo modo tenteranno di far rivivere i fatti di quella mattina di 36 anni fa attraverso alcuni software tridimensionali in grado di elaborare e verificare tutti i dati balistici, peritali e testimoniali raccolti all’epoca delle indagini e dei processi.
Lo ha deciso la terza commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento del leader 10986837_10204730816563878_2601269910022609904_ndemocristiano, insediatasi in ottobre. Dopo tanta dietrologia i commissari hanno pensato di ricostruire sotto forma di realtà virtuale la scena del rapimento. Quanto alla fine possa risultare attendibile una ricostruzione del genere, che integra dati raccolti in epoche lontane e con tecniche ormai sorpassate rispetto all’odierna tecnologia forense, per ora non ci è dato sapere. Il teatro dell’azione fu largamente inquinato dall’invasione di funzionari e vertici delle forze dell’ordine, fotografi e giornalisti che calpestarono i reperti. Addirittura una vettura della Digos, un’Alfasud beige, piombò sulla scena dell’attentato e fu parcheggiata sul lato del marciapiede dove era partito il commando. Si può facilmente ipotizzare che i suoi pneumatici abbiano fatto schizzare, o comunque spostato, diversi reperti, in particolare i bossoli. Ma in fondo, questo è l’aspetto meno importante: dei nuovi rilievi – sempre che risultino attendibili – non possono che confortare quanto è già noto da tempo.
Significativo, invece, è il dato politico che esprime questa iniziativa, mirata «a stabilire – come ha dichiarato il presidente della nuova commissione d’inchiesta, Giuseppe Fioroni – l’oggettività di alcuni fatti sulla base di una certezza: non c’è corrispondenza tra il racconto dei 55 giorni e alcune chiare circostanze».

Sul lato baso della foto è visibile l'alfasud della Digos

Sul lato baso della foto è visibile l’alfasud della Digos

Cinque processi, decine e decine di ergastoli erogati insieme centinaia di anni di carcere, due commissioni parlamentari, le testimonianze dei protagonisti, alcuni importanti lavori storici, non hanno scalfito l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico che da oltre tre decenni alligna sul caso Moro e l’intera storia della lotta armata per il comunismo, quando in realtà è proprio questa ostinazione negazionista il nodo che ha trasformato in un “caso” l’azione di via Fani.
Fa paura ancora oggi cercare risposte alle vere domande che quei 55 giorni sollevano: come prevalse la linea della fermezza? Perché Dc e Pci, in un reciproco gioco di ricatti e sospetti, rimasero irremovibili sulla posizione del rigor mortis? Perché gli uomini di Moro, ben piazzati dentro la Dc e nei gangli dello Stato, non fecero nulla, o ben poco, per agevolare la sua liberazione? Perché il Pci sabotò ogni tentativo di trattativa, anzi denigrò le lettere dell’ostaggio dichiarando che non erano farina del suo sacco, se è vero che Moro era ritenuto la pedina decisiva per portare a termine la strategia del compromesso storico? Le culture politiche di questi due grandi partiti furono poi così all’altezza degli eventi? Non è lì dentro che si dovrebbe scavare senza riverenze e scrupoli per capire?
Invece ancora oggi c’è chi prova ad offuscare l’intelligibilità di quell’evento, come ha fatto recentemente lo storico, ora parlamentare e membro della nuova commissione Moro, Miguel Gotor, restio ad accettare l’idea che dei giovani operai e borgatari romani si fossero organizzati al punto da sfidare lo Stato lasciando il corpo di Moro nel cuore della toponomastica del compromesso storico, «della lotta politica e della guerra fredda» (episodio reiterato con il sequestro D’Urso), a due passi da via delle Botteghe oscure (allora sede nazionale del Pci) e piazza del Gesù (sede nazionale della Dc).
Per Gotor, se le Brigate rosse volevano raggiungere quell’obbiettivo propagandistico, «lo avrebbero lasciato in una discarica della periferia con nella destra una copia dell’Unità e nella sinistra una copia del Popolo, e non si sarebbero mai e poi mai assunte tutti quei rischi incredibili».
Dunque Moro doveva finire nell’immondizia perché ciò che muove dalle periferie non può che sfociare nelle discariche, è quanto mostra di pensare il braccio destro di Bersani, dando prova di un forte pregiudizio classista venato di populismo anticasta. La storia successiva ci dice che a mettergli l’Unità in tasca non furono le Brigate rosse ma l’autore del monumento che gli venne dedicato a Maglie, in Puglia, mentre la sola idea che le periferie dell’epoca potessero appostarsi sotto i Palazzi della politica e dell’economia suscita ancora negli esemplari odierni del ceto politico quegli stessi brividi freddi che l’aristocrazia versagliese provò di fronte ai sanculotti che mettevano a ferro e fuoco l’ancien régime.
Si comprende perché la dietrologia, ora nella sua veste tridimensionale, oltre ad essere un redditizio affare per l’industria editoriale e la pubblicistica da marciapiede, si presta come balsamo consolatorio, diversivo che consente di evadere i quesiti più imbarazzanti, le responsabilità più pesanti. Quanti su questa fondamentale rimozione hanno costruito la loro fortuna, le loro carriere negli anni di quella Seconda repubblica nata sul funerale di Moro?

Via Fani, Le nuove frontiere della dietrologia

Le torture degli altri

Un reato a geometria variabile. Per la procura della repubblica di Roma c’è tortura solo se le sevizie avvengono oltre i confini nazionali. In Italia è semplice abuso d’autorità. Ecco la storia del doppio binario impiegato dalla magistratura inquirente di fronte al caso dell’uruguaiano Jorge Nestor Fernandez Troccoli, ex capitano della marina uruguayana e ex capo del Fusna (servizi segreti della marina militare), messo sotto accusa dal pubblico ministero Giancarlo Capaldo per le sue responsabilità nella tortura e successiva scomparsa di sei cittadini italo-uruguayani militanti antidittatura, avvenuta nel 1977, e del funzionario dell’ucigos Nicola Ciocia che nel maggio 1978 torturò Enrico Triaca (episodio sancito in via definitiva da una sentenza della corte d’appello di Perugia) e nel 1982 decine di altri arrestati per appartenenza alle Brigate rosse

di Francesco Romeo
Il Garantista 10 dicembre 2014

Troccoli

Jorge Nestor Fernandez Troccoli

Il reato di tortura nel nostro codice penale non c’è, non ha ancora trovato posto. I casi di tortura, invece, ci sono da sempre.
Alla Procura di Roma, sono convinti che gli episodi di tortura siano tali solo quando riguardano fatti che accadono o sono accaduti al di fuori dei nostri confini: si sa, noi italiani siamo brava gente.
Capita, così, che la procura capitolina abbia chiesto il rinvio a giudizio del cittadino uruguaiano Nestor Troccoli accusato di aver commesso negli anni 70’ diversi omicidi di militanti di organizzazioni di opposizione politica alle giunte militari argentina ed uruguaiana e di sequestro di persona a scopo di estorsione per avere arrestato, senza alcun provvedimento dell’autorità legittima, un numero indeterminato di persone per i loro presunti rapporti con queste organizzazioni e per averle sottoposte a detenzione illegale e tortura, al fine di estorcere loro indicazioni sull’identità di altri partecipanti alle citate organizzazioni, sui nomi di battaglia, sulla localizzazione e sulla partecipazione degli stessi a presunte azioni sovversive. In assenza del reato di tortura si è contestato, comunque, un reato gravissimo e, si è detto chiaramente che la tortura era finalizzata all’estorsione di informazioni: nomina sunt essentia rerum.

Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, di spalle dietro Francesco Cossiga

Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, di spalle dietro Francesco Cossiga

A Perugia, lo scorso anno la Corte di Appello di quella città ha pronunciato una sentenza, passata in giudicato, con la quale ha revocato la condanna per calunnia nei confronti di Enrico Triaca, militante delle Brigate rosse, tratto in arresto pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro.
Enrico Triaca, dopo essere stato arrestato era finito nelle mani di una squadra “coperta” della polizia italiana, denominata “i cinque dell’ave maria” e sottoposto alla tortura del waterboarding (allora chiamata “algerina”) per ottenere informazioni su altri componenti l’organizzazione armata; un mese dopo l’arresto, Triaca aveva denunciato al magistrato di essere stato torturato ed aveva ritrattato le dichiarazioni rese; per tutta risposta fu tratto a giudizio per direttissima per il reato di calunnia (caso unico nella storia processualpenalistica italiana) e condannato. Seguendo il filo nero costituito dalla pubblicazione di libri, servizi televisivi ed interviste giornalistiche si è individuato il dirigente di quella struttura della polizia italiana soprannominato “dottor de tormentis” e, si è dimostrato che era stato lui a dirigere il waterboarding praticato su Enrico Triaca.
La Corte di Appello di Perugia ha accertato che quella squadra della polizia capitanata dal dottor de tormentis, utilizzò la tortura nel caso di Enrico Triaca ed anche in altre occasioni ed ha trasmesso gli atti alla procura di Roma per valutare quali reati emergessero a carico del dott. de tormentis, al secolo Nicola Ciocia, segnalando che anche se fosse maturata la prescrizione, il Ciocia vi avrebbe potuto rinunciare.
Alla procura di Roma, dopo aver letto la sentenza della Corte di Appello di Perugia, hanno pensato che, tutto sommato, il waterboarding quando viene praticato all’interno dei confini nazionali, non rientra nell’ambito della tortura e, anzi, nemmeno la si deve nominare. Così, nei confronti di Ciocia è stata formulata l’accusa di abuso d’autorità sulle persone arrestate art. 608 del codice penale per aver: “sottoposto a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata” così recita la norma (Triaca era stato sottratto ai poliziotti che lo avevano arrestato, dalla squadra di de tormentis). Il “waterboarding”, dunque, è una misura di rigore tutta italiana, mica tortura. Ciocia non ha rinunciato alla prescrizione ed il procedimento si è avviato sul binario procedurale che lo condurrà in archivio.
Balza agli occhi l’asimmetria della procura capitolina nel trattamento riservato ai due casi di tortura e, non perché Troccoli forse sarà giudicato (per gli omicidi, non per i sequestri di persona prescritti) e, Ciocia non lo sarà, ma per quel riflesso, quasi pavloviano, per quale ci siamo indignati e, ci indigniamo ancora per il waterboarding a Guantanamo e per le torture ad Abu Grahib, ma chiudiamo gli occhi e giriamo la testa dall’altra parte se le stesse cose accadono a casa nostra, non riusciamo nemmeno a nominarle: si sa, noi italiani siamo brava gente, del reato di tortura non ce n’è bisogno.

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«A via Fani c’eravamo solo noi delle Brigate rosse». Raffaele Fiore smentisce il settimanale “OGGI”

di Marco Clementi e Paolo Persichetti

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L’intervista manipolata

«In via Fani quella mattina del 16 marzo 1978 c’eravamo solo noi delle Brigate rosse e il convoglio di Moro. Punto». Raffaele Fiore al telefono è perentorio. Operaio, dirigente della colonna torinese, era tra i nove che quella mattina neutralizzarono la scorta e rapirono il presidente della Democrazia cristiana, il “partito regime” per una buona parte dell’opinione pubblica di allora. Condannato all’ergastolo, dopo 30 anni di carcere ha ottenuto la liberazione condizionale. Ora lavora in una cooperativa.
Quando gli telefoniamo sta scaricando un furgone: «sentiamoci tra una mezz’oretta – mi dice – che mi siedo in ufficio e parliamo con più calma».
La dietrologia sulla vicenda Moro è tornata alla carica negli ultimi tempi con la storia della moto Honda guidata dai Servizi, della presenza (presunta) del colonnello Guglielmi, ufficiale del Sismi, in via Fani e ancora prima, poco più di un anno fa, con il libro dell’ex giudice istruttore Ferdinando Imposimato che riprendeva le rivelazioni di un ex finanziere sulla mancata liberazione dell’ostaggio in via Montalcini, e subito dopo per le dichiarazioni di un artificiere sul ritrovamento del corpo del presidente democristiano. In questi due ultimi casi è già intervenuta la magistratura che ha fatto chiarezza incriminando per calunnia sia  Giovanni Ladu (l’ex finanziere) che Vitantonio Raso (l’ex artificiere). Nonostante ciò, a riprova della sordità e della separatezza del ceto politico, una nuova commissione d’inchiesta parlamentare è stata appena varata.

Raso indagato
Ora giungono le dichiarazioni (presunte) di Fiore, uno che a via Fani c’era, apparse sul numero di “Oggi” in edicola: un’intervista di tre pagine realizzata da Raffaella Fanelli che raccoglie, come recita l’occhiello, «la clamorosa confessione di un capo delle BR».
Il pezzo riprende un vecchio leit motiv della dietrologia, ossia che le Br in via Fani non erano da sole: «C’erano persone che non conoscevo», avrebbe detto Fiore, «che non dipendevano da noi […] Che erano altri a gestire».
Clamoroso. Se fosse vero andrebbe riscritta almeno la verità giudiziaria [la storia, si sa, è un work in progress]. Ma il problema è che Fiore quelle parole non le ha mai dette. L’intervista è stata “confezionata” in modo da far dire all’ex brigatista proprio quelle parole, che invece si riferivano ad altro, senza retropensieri e sottintesi. Per questo motivo abbiamo chiamato Fiore.
«Raffaele, insomma, ci spieghi cosa è successo con la giornalista? Che cosa vogliono dire quelle frasi?».
Sentiamo che Fiore non è nemmeno arrabbiato, eppure avrebbe tutte le ragioni al mondo per esserlo.
«In via Fani quella mattina eravamo in nove [Fiore non prende in considerazione la staffetta indicata nelle sentenze processuali nella persona di Rita Algranati, condannata all’ergastolo e attualmente in carcere]. Di questi ne conoscevo sei, i regolari: Mario, Barbara, Valerio, Baffino, Prospero e Bruno (1). Gli altri, due irregolari romani, non li conoscevo ed ancora oggi farei fatica ad identificarli. La giornalista mi ha chiesto se i due situati nella parte superiore di via Fani fossero Lojacono e Casimirri. Ho risposto che non li conoscevo. Che i due che stavano sulla parte alta della via erano della colonna romana e dunque erano altri a gestirli».
Se la domanda sul cancelletto superiore manca nel testo, la risposta può assumere qualsiasi senso. Ed è questo il sotterfugio impiegato dalla giornalista che ha fatto l’intervista, l’origine della “rivelazione”, quell’impasto di livore e odio contro chi ha condotto una lotta in armi in questo paese, cotto da sempre nel forno della dietrologia.
Raffaele Fiore ha semplicemente riposto la propria fiducia nella persona sbagliata. Gli ha parlato a viso aperto, tentando di spiegare ragioni e motivazioni del proprio passato e delle proprie azioni, in generale, non solo su via Fani. Conversando, ha anche provato a ragionare su quella complessa vicenda che è stato il rapimento di Moro. Forse pensava di essere a un convegno di storici ma in realtà non era neanche giornalismo.

Note  
1) Mario Moretti, Barbara Balzerani, Valerio Morucci, Franco Bonisoli (Baffino), Prospero Gallinari e Bruno Seghetti.

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Il prof. De Tormentis e la pratica della tortura in Italia

Diritto penale contLa rivista Diritto penale contemporaneo dedica un’articolo di commento alla sentenza della corte d’appello di Perugia che il 15 ottobre scorso ha riconosciuto, durante il giudizio di revisione della condanna per calunnia inflitta a Enrico Triaca per aver denunciato le torture subite dopo l’arresto nel maggio 1978, l’esistenza sul finire degli anni 70 e i primissimi anni 80 di un apparato statale della tortura messo in piedi per combattere le formazioni politiche rivoluzionarie che praticavano la lotta armata.
«Più che alla ricerca di verità giudiziarie – si spiega nel testo – questa sentenza deve piuttosto condurre ad essere meno perentori nel sostenere la tesi, così diffusa nel dibattito pubblico e storiografico, secondo cui il nostro ordinamento, a differenza di altri, ha sconfitto il terrorismo con le armi della democrazia e del diritto, senza rinunciare al rispetto dei diritti fondamentali degli imputati e dei detenuti. In larga misura ciò è vero, ma è anche vero – e questa sentenza ce lo ricorda quasi brutalmente – che anche nel nostro Paese si è fatto non sporadicamente ricorso a strumenti indegni di un sistema democratico: è bene ricordarlo, per evitare giudizi troppo facilmente compiaciuti su un periodo così drammatico della nostra storia recente, e sentenze come quella di Perugia ci aiutano a non perdere la memoria».

Ipse dixit

Sandro Pertini, presidente della Repubblica ex partigiano (ma proprio ex) non eravamo il Cile di Pinochet:
«In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi»

Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale dei carabinieri, al Clarin, giornale argentino:
«
L’Italia è un Paese democratico che poteva permettersi il lusso di perdere Moro non di introdurre la tortura»

Domenico Sica, magistrato pm, in una intervista apparsa su Repubblica del 15 marzo 1982:
«Le denunce contro le violenze subite dagli arrestati fanno parte di una campagna orchestrata dai terroristi per denigrare le forze dell’ordine dopo i recenti clamorosi successi ottenuti»

Armando Spataro, magistrato pm, su Paese sera del 19 marzo 1982 in polemica con il capitano di Ps Ambrosini e l’appuntato Trifirò che avevano denunciato le torture praticate nella caserma di Padova:
«Un conto è la concitazione di un arresto, un conto è la tortura. In una operazione di polizia non si possono usare metodi da salotto. La tortura invece è un’altra»

Giancarlo Caselli e Armando Spataro, magistrati e pm, nel libro degli anni di piombo, Rizzoli 2010:
«Nel pieno rispetto delle regole, i magistrati italiani fronteggiarono la criminalità terroristica, ricercando elevata specializzazione professionale e ideando il lavoro di gruppo tra gli uffici (il coordinamento dei 36) […] La polizia doveva, anche allora, mettere a disposizione della magistratura gli arrestati nella flagranza del reato o i fermati entro 48 ore e non poteva interrogarli a differenza di quanto avviene in altri ordinamenti….»

 

www.penalecontemporaneo.it 4 Aprile 2014
Corte d’appello di Perugia, 15 ottobre 2013, Pres. Est. Ricciarelli [Luca Masera]

1.In un recente articolo di Andrea Pugiotto dedicato al tema della mancanza nel nostro ordinamento del reato di tortura (Repressione penale della tortura e Costituzione: anatomia di un reato che non c’è, in questa Rivista, 27 febbraio 2014), l’autore prende in esame gli argomenti utilizzati più di frequente da chi intenda negare rilevanza al problema, e nel paragrafo dedicato all’argomento per cui la questione “non ci riguarda”, elenca una serie di casi di tortura accertati in sede giudiziaria. La sentenza della Corte d’appello di Perugia qui disponibile in allegato aggiunge a questo terribile elenco un nuovo episodio, riconducibile peraltro al medesimo pubblico ufficiale già autore di un fatto di tortura citato nel lavoro di Pugiotto.2. In sintesi la vicenda oggetto della decisione.Nel maggio 1978 Enrico Triaca viene arrestato nell’ambito delle indagini per il sequestro e l’uccisione dell’on Moro, in quanto sospettato di essere un fiancheggiatore delle Brigate Rosse. Nel corso di un interrogatorio di polizia svoltosi il 17 maggio, il Triaca riferisce di aver aiutato un membro dell’organizzazione a trovare la sede per una tipografia clandestina, e di avere ricevuto dalla medesima persona la pistola, che era stata rinvenuta in sede di perquisizione; il giorno successivo, sempre interrogato dalla polizia, indica altresì il nominativo di alcuni appartenenti all’organizzazione. Le dichiarazioni rese all’autorità di polizia vengono poi confermate al Giudice istruttore durante un interrogatorio svoltosi alla presenza del difensore. Il 19 giugno, nel corso di un nuovo interrogatorio, il Triaca ritratta quanto affermato in precedenza, affermando “di essere stato torturato e precisando che verso le 23.30 del 17 maggio era stato fatto salire su un furgone in cui si trovavano due uomini con casco e giubbotto, era stato bendato e fatto scendere dopo avere percorso sul furgone un certo tratto, infine era stato denudato e legato su un tavolo: a questo punto mentre qualcuno gli tappava il naso qualcun altro gli aveva versato in bocca acqua in cui era stata gettata una polverina dal sapore indecifrabile; contestualmente era stato incitato a parlare”. In seguito a queste dichiarazioni, il Triaca viene rinviato a giudizio per il delitto di calunnia presso il Tribunale di Roma, che perviene alla condanna senza dare seguito ad alcuno degli approfondimenti istruttori indicati dalla difesa; la sentenza viene poi confermata in sede di appello e di legittimità.La Corte d’appello di Perugia viene investita della vicenda in seguito all’istanza di revisione depositata dal Triaca nel dicembre 2012. La Corte afferma in primo luogo che “il giudizio di colpevolezza si fondò su argomenti logici, in assenza di qualsivoglia preciso elemento probatorio tale da far apparire impossibile che l’episodio si fosse realmente verificato. Tale premessa è necessaria per comprendere il significato del presente giudizio di revisione, volto ad introdurre per contro testimonianze, aventi la funzione di accreditare specificamente l’episodio della sottoposizione del Triaca allo speciale trattamento denominato waterboarding”. Nel giudizio di revisione vengono dunque assunte le testimonianze di un ex Commissario di Polizia (Salvatore Genova) e di due giornalisti (Matteo Indice e Nicola Rao) che avevano svolto inchieste su alcuni episodi di violenze su detenuti avvenute dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Ottanta (la vicenda più nota è quella relativa alle violenze commesse nell’ambito dell’indagine sul sequestro del generale Dozier nel gennaio 1982: è l’episodio cui viene fatto cenno nel lavoro del prof. Pugiotto, citato sopra) ad opera di un gruppo di poliziotti noto tra le forze dell’ordine come “i cinque dell’Ave Maria”, agli ordini del dirigente dell’Ucigos Nicola Ciocia, soprannominato “prof. De Tormentis”. Il Genova (che aveva personalmente assistito agli episodi relativi al caso Dozier) aveva organizzato, in due distinte occasioni, un incontro tra i suddetti giornalisti ed il Ciocia, il quale ad entrambi aveva riferito delle violenze commesse dal gruppo da lui diretto sul Triaca, che era stato il primo indagato per reati di terrorismo ad essere sottoposto alla pratica del waterboarding, in precedenza “sperimentata” su criminali comuni. Sulla base di queste convergenti testimonianze, e ritenendo che “la mancata escussione della fonte diretta non comporta inutilizzabilità di quella indiretta, peraltro costituente fonte diretta del fatto di per sé rilevante della personale rilevazione da parte del Ciocia”, la Corte conclude che “la pluralità delle fonti consente di ritenere provato che un soggetto, rispondente al nome di Nicola Ciocia, confermò di avere, quale funzionario dell’Ucigos al tempo del terrorismo, utilizzato più volte la pratica del waterboarding (…) la stessa pluralità delle fonti, sia pur – sotto tale profilo – indirette, consente inoltre di ritenere suffragato l’assunto fondamentale che a tale pratica fu sottoposto anche Enrico Triaca”. La sentenza di condanna per calunnia a carico del Triaca viene quindi revocata, e viene disposta la trasmissione degli atti alla Procura di Roma per quanto di eventuale competenza a carico del Ciocia (la Corte ovviamente è consapevole del lunghissimo tempo trascorso dei fatti, ma reputa che “la prescrizione va comunque dichiarata e ad essa il Ciocia potrebbe anche rinunciare”).

3. La sentenza in allegato rappresenta solo l’ultima conferma di quanto la tortura sia stata una pratica tutt’altro che sconosciuta alle nostre forze di polizia durante il periodo del terrorismo. La squadra di agenti comandata dal Ciocia ed “esperta” in waterboarding non agiva nell’ombra o all’insaputa dei superiori: a quanto riferito dal Genova, della cui attendibilità la Corte non mostra di aver motivo di dubitare, i metodi dei “cinque dell’Ave Maria” erano ben noti a quanti, nelle forze dell’ordine, si occupavano di terrorismo, ed addirittura la sentenza riferisce come, in un’intervista rilasciata dallo stesso Ciocia, egli riferisca che l’epiteto di “prof. De Tormentis” gli fosse stato attribuito dal vice Questore dell’epoca, Umberto Improta. Quando poi una delle vittime, come il Triaca, trovava il coraggio per denunciare quanto subito, le conseguenze sono quelle riportate nella sentenza allegata: condanna per calunnia, senza che Il Tribunale svolga alcuna indagine per accertare la falsità di quanto riferito.

Il quadro che emerge dalla sentenza è insomma a tinte assai fosche. Negli anni Settanta-Ottanta, operava in Italia un gruppo di funzionari di polizia dedito a pratiche di tortura; e l’esistenza di questo gruppo era ben nota e tollerata all’interno delle forze dell’ordine, anche ai livelli più alti. La magistratura in alcuni casi ha saputo reagire a queste intollerabili forme di illegalità (esemplare è il processo, anch’esso citato nel lavoro di Pugiotto, celebrato presso il Tribunale di Padova nel 1983 in relazione proprio ai fatti relativi al caso Dozier), in altre occasioni, come quella oggetto della sentenza qui in esame, ha preferito voltarsi dall’altra parte, colpevolizzando le vittime della violenza per il fatto di avere voluto chiedere giustizia .

La sentenza non riferisce fatti nuovi: le fonti su cui si basa la decisione sono le testimonianze di due giornalisti, che avevano pubblicato in libri ed articoli le vicende e le confessioni poste a fondamento della revisione. Fa comunque impressione vedere scritto in un provvedimento giudiziario, e non in un reportage giornalistico, che nelle nostre Questure si praticava la tortura; e fa ancora più impressione se si pensa che la metodica utilizzata, il famigerato waterboarding, è la medesima che in anni più recenti è stata utilizzata dai servizi segreti americani per “interrogare” i sospetti terroristi di matrice islamista: passano gli anni, ma la tortura e le sue tecniche non passano di moda.

Ormai sono trascorsi decenni dalle condotte del prof. De Tormentis e della sua squadra, ed al di là del dato formale – posto in luce dalla Corte perugina – che la prescrizione è rinunciabile, davvero non ci pare abbia molto senso immaginare la riapertura di inchieste penali volte a concludersi invariabilmente con una dichiarazione di estinzione del reato, per prescrizione o per morte del reo, considerato il lunghissimo tempo trascorso dai fatti. Più che alla ricerca di verità giudiziarie, la sentenza qui allegata deve piuttosto condurre ad essere meno perentori nel sostenere la tesi, così diffusa nel dibattito pubblico e storiografico, secondo cui il nostro ordinamento, a differenza di altri, ha sconfitto il terrorismo con le armi della democrazia e del diritto, senza rinunciare al rispetto dei diritti fondamentali degli imputati e dei detenuti. In larga misura ciò è vero, ma è anche vero – e questa sentenza ce lo ricorda quasi brutalmente – che anche nel nostro Paese si è fatto non sporadicamente ricorso a strumenti indegni di un sistema democratico: è bene ricordarlo, per evitare giudizi troppo facilmente compiaciuti su un periodo così drammatico della nostra storia recente, e sentenze come quella di Perugia ci aiutano a non perdere la memoria.

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Le torture contro i militanti della lotta armata
Gli anni spezzati dalla tortura di Stato

Rapimento Moro, ma quali servizi sulla moto Honda di via Fani c’erano due giovani che abitavano nel quartiere

Sulla motocicletta Honda che la mattina del 16 marzo 1978 transitò in via Fani, pochi minuti prima che scattasse l’attacco delle Brigate rosse contro la scorta del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, non c’erano uomini del Sismi ma due giovani del quartiere. I loro nomi, come ha ricordato recentemente un articolo apparso su Contropiano, sono noti da tempo alla magistratura: identificati dalla Digos nella primavera del 1998 chiarirono la loro posizione davanti al pubblico ministero Antonio Marini.
Nonostante la circostanza fosse stata ampiamente chiarita 16 anni fa, non si è esitato a rilanciare sull’Ansa un nuovo depistaggio, partendo da una lettera anonima inviata al quotidiano la Stampa nel 2009 che indicava a cavallo della Honda due presunti agenti del Sismi, i servizi segreti militari, ovviamente deceduti nel frattempo. Pista archiviata nel 2009 dalle procure di Torino e Roma dopo che gli uffici della Digos ne avevano verificato l’inconsistenza.


Su via Fani un’onda di dietrologia

di Marco Clementi e Paolo Persichetti

cb500fk2b2 Abitavano in via Stresa, a poche decine di metri dall’incrocio dove venne portata a termine l’azione più importante delle Brigate rosse. Giuseppe Biancucci aveva 23 anni e Roberta Angelotti 20, quella mattina stavano tornando a casa ignari di quel che stava accadendo, non avevano armi con loro e non facevano parte delle Brigate rosse anche se gravitavano in un’area politica contigua. Erano sulla moto che transitò pochi attimi prima dell’arrivo del convoglio di Moro che subì l’attaccato di un nucleo composto da dieci brigatisti. La motocicletta che passò improvvisamente sulla scena non c’entrava nulla con quell’azione, anzi, creò solo imbarazzo. Biancucci e Angelotti, conosciuti a Roma Nord come “Peppe e Peppa” erano due “compagni” che militavano nel “Comitato proletario di Primavalle Mario Salvi”, dal nome del “militante comunista combattente” ucciso nel 1976 con un colpo di pistola alle spalle da Domenico Velluto, guardia carceraria, alla fine di una manifestazione sotto il ministero della Giustizia.
La loro militanza politica è una circostanza decisiva perché spiega due cose: il comportamento tenuto una volta giunti all’incrocio tra via Fani e via Stresa e il loro successivo silenzio. Dettaglio non da poco, Biancucci e Angelotti vennero arrestati nella primavera successiva nel corso di una inchiesta condotta dai Carabinieri nella zona Nord della capitale contro l’Mpro, un’area che le Brigate rosse stavano tentando di creare al di fuori dell’organizzazione con l’intento di coinvolgere parte del “movimento”.
Come ha raccontato Contropiano, Giuseppe Biancucci conosceva molto bene due persone che erano in via Fani quella mattina: Valerio Morucci, uno degli “steward” che dietro la siepe del bar Olivetti attendevano la vettura di Moro e la sua scorta e Alessio Casimirri, uno dei componenti del “cancelletto superiore”. Con il primo aveva frequentato il liceo mentre con il secondo aveva condiviso la militanza nel comitato di Primavalle. Rallentò perché si accorse di loro, vide Morucci camuffato, capì che stava accadendo qualcosa di grosso, addirittura lo salutò con un cenno di mano e poi via a tutto gas verso casa. Quell’esitazione, gli sguardi di complicità scambiati con i vecchi compagni furono poi interpretati da alcuni testimoni oculari, alquanto confusi e contraddittori, come il segno di una complicità operativa che non ci fu.
La domanda giusta, allora, non è cosa stessero facendo Biancucci e Angelotti sotto casa sulla loro moto con targa regolare, ma perché non hanno mai parlato. Porsi una domanda giusta è il segreto per avere una risposta di qualche interesse. L’esatto opposto di quel che fa la dietrologia. Per la cronaca, Biancucci rientrava dal lavoro, smontava dal turno di notte nel garage del padre situato a poca distanza.
E forse non ha mai parlato, perché in via Fani aveva visto degli amici, perché magari era convinto che stessero facendo una cosa condivisibile, o semplicemente perché un “compagno” non fa la spia. Tempi diversi da quelli odierni.
A parlare ci pensarono poi altri, alcuni pentiti come Raimondo Etro che rientrato da una lunga latitanza all’inizio degli anni 90 per discolparsi dal sospetto di essere stato uno dei passeggeri della moto riferì l’episodio sentito raccontare da Casimirri: «ad un certo punto sono passati quei due cretini su una moto». Individuati dalla Digos, Biancucci e Angelotti vennero ascoltati nella primavera del 1998 dal magistrato che cercò di incastrarli su un’altra vicenda, quella del tentato omicidio di Domenico Velluto, l’assassino di Mario Salvi, e della morte del suo vicino di tavolo, Mario Amato, colpito per errore in una trattoria mentre festeggiava la scarcerazione. I due ammisero di essere passati per via Fani quella mattina ma con tutto il resto non c’entravano nulla. Successivamente, come ha riportato Contropiano la settimana scorsa, uno dei testimoni chiave di via Fani, l’ingegner Marini (citato sempre a sproposito) riconobbe addirittura lo stesso Biancucci, scomparso precocemente nel 2010, come il guidatore della moto.

 Le considerazioni che questa storia suggerisce sono molte:

1) 16 anni fa la magistratura è pervenuta ad una ricostruzione della vicenda della moto di via Fani che si avvale di elementi probanti molto forti: la deposizione dei due motociclisti che hanno ammesso la circostanza, la plausibilità del loro racconto, la prossimità delle loro abitazioni con via Fani, il riconoscimento del testimone, il possesso della moto da parte del Biancucci compatibile temporalmente con i fatti, la testimonianza di uno dei brigatisti presenti in via Fani. Evidenze del tutto ignorate dal circo mediatico che ha rincorso uno scoop fondato su una lettera anonima farcita di contraddizioni. Possibile che nessuno sapesse dell’inchiesta del 1998? Che nessuno si sia ricordato?

2) La lettera anonima e il racconto dell’ex poliziotto in pensione, la stesura romanzata della vicenda facevano acqua da tutte le parti. Ci voleva molto poco per sentire puzza di marcio. L’autore dell’articolo scegliendo un registro narrativo vittimistico-persecutorio ha omesso di raccontare come le procure di Torino (pm Ausilio) e Roma (procuratore aggiunto Capaldo, a cui venne trasmesso il fascicolo per competenza), avessero fatto accertamenti escludendo l’attendibilità di quanto asserito in quella lettera ed inviando la pratica verso una inevitabile archiviazione (Cf. la copia delle lettera).

Lettera Honda copiaSi potevano evincere da subito due grossolane contraddizioni:

a) Stando al suo contenuto, l’anonimo autore del testo (dalla sintassi traballante) sarebbe il passeggero posteriore della motocicletta, quello che secondo uno dei testimoni più citati di via Fani – l’ingegner Marini – aveva un sottocasco scuro sul volto e soprattutto era armato con una piccola mitraglietta con cui avrebbe sparato ad altezza d’uomo (anche se i bossoli non sono mai stati trovati e l’esame balistico non conferma affatto l’episodio). Perché mai dunque la ricerca delle armi si è indirizzata solo sul guidatore (di cui si forniscono tracce nella missiva) che non aveva armi in mano? Ed a lui sarebbe stata trovata una improbabile pistola per nulla riconducibile ad una mitraglietta (vedi l’immagine qui sotto)?

b) Racconta l’ex poliziotto di aver trovato l’arma sospetta nella cantina del supposto guidatore, vicino ad una copia cellofanata della edizione straordinaria de La Repubblica del 16 marzo con il titolo “Moro rapito dalle Brigate Rosse”. Se non è un copione cinematografico poco ci manca. L’arma era una Drulov cecoslovacca, pistola sportiva monocolpo a gas compresso Co2, con canna molto lunga. Poco maneggevole, basta provarla per capire che va bene solo per il tiro a segno, da posizione immobile e con tempo prestabilito per la mira, inutilizzabile in un’azione come quella di via Fani, impensabile come arma in dotazione a corpi speciali.

Drulov copia

 3) Siamo ormai al terzo tentativo fallito di accreditare in pochi mesi nuove piste, rivelazioni e misteri, dopo la clamorosa defaillance dell’ex magistrato Imposimato, raggirato da un personaggio che si è finto teste chiave assumendo diverse personalità e nikname e per questo ora indagato dalla magistratura. Queste “rivelazioni” assumono rilevanza non per la loro veridicità intrinseca ma solo per l’enorme pressione mediatica che le sospinge e una volontà politica largamente condivisa, decisa a non seppellire il cadavere di Moro per perpetuarne l’uso strumentale nell’arena politica con una nuova commissione parlamentare d’inchiesta.

4) Quale è il significato ultimo di tanta dietrologia sul rapimento Moro? Estirpare da ogni ordine del pensabile l’idea stessa di rivoluzione. Sradicare quegli eventi dall’ordine del possibile. Negarne non solo la verità storica (su cui il dibattito resta, ovviamente, aperto), ma l’ipotesi stessa che possa essere avvenuta. Presentare, quindi, le rivoluzioni come eventi inutili, se non infidi, sempre e comunque manovrati dai poteri forti, in cui c’è sempre un grande vecchio che non si trova e una verità occulta che sfugge continuamente. Si è diffusa una sorta di malattia della conoscenza, una incapacità ontologica che impedisce di accettare non solo la possibilità ma la pensabilità stessa che dei gruppi sociali possano aver concepito e tentato di mettere in pratica una strada diretta al potere. La dietrologia e il cospirazionismo hanno come essenza filosofica il negazionismo della capacità del soggetto di agire, di pensare in piena autonomia secondo interessi legati alla propria condizione sociale, ideologica, politica, culturale, religiosa, di genere.
Infine, impedisce di vedere ciò che appare acclarato, talmente grande ed evidente, che finisce sempre per rimanere celato dalle “rivelazioni”: lo Stato, i partiti, assunsero durante i 55 giorni del rapimento Moro una posizione ben precisa. Non trattarono. Fu una legittima scelta politica che, però, conteneva in sé la potenzialità che Moro potesse venire ucciso. Si tratta di una responsabilità non da poco ma, lo ripetiamo, assolutamente legittima. In tale contesto, i servizi potevano logicamente servire a trovare Moro, o a controllare che non uscisse vivo dalla prigione del popolo? Più si insiste sulla seconda ipotesi, più sfugge il lato politico della vicenda. Più si preme il tasto della dietrologia, meno si ricordano le dichiarazioni quotidiane di quei giorni, per cui, come disse un alto esponente del Pci dopo la prima lettera a Cossiga, “per noi Moro è politicamente morto”.

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