Caso Battisti: voto fermo al 4 a 4. Prossima udienza il 18 novembre

Udienza per l’estradizione di Battisti: sospesa dopo un 4 a 4 nelle votazioni. La votazione finale riprendera il prossimo mercoledì 18 novembre. Il presidente della corte suprema ha già annunciato che non si asterrà. Tutti sanno che è favorevole all’estradizione. La decisione finale sulla sorte di Batisti a quel punta sarà nelle mani del cpo dello Stato Ignacio Lula da Silva

Paolo Persichetti
Liberazione 13 novembre 2009

Colpo di scena all’apertura dell’udienza del Supremo tribunale federale brasiliano che ieri doveva pronunciarsi sulla estradizione di Cesare Battisti, condannato in Italia a due ergastoli per una serie di attentati mortali commessi sul finire degli anni 70 dai Pac.
Il presidente della corte, Gilmar Mendes, ha reso noto il contenuto di una lettera inviata da Dias Toffoli, il giudice insediatosi tra le polemiche lo scorso 23 ottobre al posto di Menezes Direito, deceduto il primo settembre.

dsc_0023Toffoli, che in qualità di avvocato generale dell’Unione era già intervenuto nel procedimento, chiamato a fornire un parere sull’eccezione di incostituzionalità sollevata contro la concessione dell’asilo politico a Battisti, aveva difeso la correttezza della decisione presa dal ministro della Giustizia, Tarso Genro. Per evitare conflitti d’interesse ha preferito appellarsi alla clausola di coscienza e non prendere parte al voto. Un gesto che smentisce clamorosamente tutti quelli che avevano accusato Lula di averlo designato per far pendere gli equilibri del Tribunale a favore di Battisti. Nei giorni scorsi era persino circolata voce su un possibile ricorso contro la sua nomina da parte del governo italiano che per voce del proprio legale aveva chiesto a Toffoli di non presenziare al voto. Intervento che ha provocato la ferma reazione del ministro Genro contro l’atteggiamento irrispettoso della sovranità interna brasiliana. Fin dall’inizio l’Italia ha interferito in modo pesante sulla giustizia brasiliana. Un proconsole del governo, il procuratore Italo Ormanni, è stato inviato sul posto per manovrare nei corridoi del Tribunale e influenzare l’esito finale del voto. In realtà Toffoli avrebbe potuto votare. Non esistevano ostacoli giuridici, anzi i giuristi avevano elencato diversi precedenti. Soprattutto avrebbe potuto esprimersi sulla procedura di estradizione, nella quale non era mai intervenuto. Il Tribunale, infatti, con una scelta senza precedenti, e che molti hanno considerato quanto mai barocca, ha deciso di accorpare le due procedure: quella sulla costituzionalità della legge che attribuisce al ministro della Giustizia il potere di concedere lo status di rifugiato; e l’altra, sulla richiesta di estradizione avanzata dall’Italia. Il presidente Gilmar Mendes ha manovrato l’intera vicenda procedurale fornendo prova di notevole fantasia e creatività, al punto che nei manuali di diritto verrà ricordato come il fondatore del surrealismo giuridico brasiliano.
Venuto meno il voto di Toffoli, che avrebbe potuto subito chiudere la questione dando la maggioranza ai contrari alla estradizione, restano ancora aperti diversi scenari. Marco Aurelio Mello, il magistrato che all’ultima udienza aveva chiesto una sospensione, ha sciolto nel corso dell’udienza la riserva e si è detto contrario alla estradizione perché «il Tribunale supremo non può sostituirsi all’esecutivo». E’ noto che a livello planetario la materia estradizionale appartiene alla competenza dell’Esecutivo poiché attiene alla sfera dei rapporti politico-diplomatici tra Stati. L’autorità giudiziaria è chiamata soltanto ad esprimere un parere sulla fondateza e regolarità guiridica delle richieste di estradizione. Un criterio riconosciuto anche dalla costituzione italiana.
Messa di fronte fronte ad una situazione di perfetta parità, 4 contro 4, (la volta scorsa la sospensione era avvenuta in presenza di una maggioranza favorevole alla estradizione di 4 contro 3) la corte ha sospeso l’udienza. Al momento in cui questo giornale va in tipografia, non siamo in grado di dirvi quando riprenderà. Per sciogliere questa situazione di stallo, il presidente Mendes potrebbe essere chiamato ad esprimere un voto dirimente.
Decisione per nulla scontata. I contrari all’estradizione porranno, infatti, la questione dell’habeas corpus, ovvero il rispetto del principio del favor rei. Già in passato Mendes si era astenuto dal votare in situazione simile. Se prevalesse questa soluzione, la vicenda verrebbe archiviata e Battisti, scontata la pena per i documenti falsi, liberato. Una seconda incognita riguarda l’ipotesi che uno dei giudici chieda di rivedere la propria posizione. Nei giorni scorsi su alcuni quotidiani si era ventilata l’ipotesi di un ripensamento di Carlos Britto, che inizialmente si era detto favorevole all’estradizione. Anche in questo caso Battisti tornerebbe libero. Esiste anche l’eventualità che uno dei votanti chieda una ulteriore pausa di riflessione.
Se dovesse invece prevalere la volontà di far votare il presidente Mendes, da sempre favorevole alla estradizione, legato da stretti rapporti con gli ambienti del centrodestra italiano e che della vicenda Battisti ha fatto un trampolino di lancio per le sue ambizioni politiche, allora la partita davanti al Tribunale si chiuderebbe con un voto a maggioranza favorevole alla estradizione. A quel punto la palla passerebbe nelle mani del presidente Lula, ma anche qui c’è chi è intenzionato a porre un problema di legittimità che aprirebbe uno scontro di poteri tra esecutivo e giudiziario. Mendes, infatti, con un’interpretazione senza precedenti e assolutamente contrastante con la dottrina giuridica recepita a livello mondiale, ritiene la firma del capo dello Stato un puro atto formale, una mera ratifica della decisione presa dall’autorità giudiziaria. Ovviamente le cose non stanno così. I retropensieri politici che presiedono questa lettura sono del tutto evidenti. Mendes vuole destabilizzare e ridurre la sovranità del capo dello Stato. Difficilmente Lula accetterà di cedere ad una simile pretesa e valuterà l’intera vicenda sulla base di criteri politico-giuridici. L’Italia, infine, se vuole riavere Battisti dovrà comunque accedere alla condizione posta dal Tribunale perché l’estradizione possa essere materialmente possibile: commutare la pena dell’ergastolo a 30 anni di reclusione. Una questione non da poco. Fino ad ora il governo italiano ha sempre sorvolato. Davanti alla Stf ha sempre spacciato la menzogna dell’ergastolo previsto nell’ordinamento italiano come pena virtuale. Ma a Lula basterà questa favola per firmare?

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Caso Battisti: ultima udienza in corso

brasile_bandieraDias Toffoli, giudice appena nominato al Supremo Tribunal Federal di Brasilia, ha formalmente annunciato che non prenderà parte alle votazioni che si terranno oggi e che decideranno se estradare o no Cesare Battisti. Come avvocato generale di stato si era espresso a favore della concessione di status di rifugiato politico concesso dal governo brasiliano; per questo precedente non voterà.
Senza il suo voto, il pronostico non è certo favorevole per l’ex militante dei PAC che in Italia dovrebbe scontare l’ergastolo.

L’udienza è in corso da meno di un’ora; l’intenzione di alcuni membri del tribunale è di bypassare completamente il presidente brasiliano Lula, che dovrebbe comunque avere l’ultima parola.Durante l’udienza il ministro giudice Cezar Peluso, ha dichiarato che Lula dovrebbe automaticamente inviare l’imputato verso le prigioni italiane.
Il procuratore generale Roberto Gurgel, tra i tanti, sostiene invece che Lula come capo di stato e del governo, responsabile delle relazioni internazionali in Brasile e garante della Costituzione, abbia il diritto di decidere se estradare o no Cesare Battisti in Italia.
Tra poco si saprà qualcosa…

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Suicidio Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine

La morte di Diana Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine

Paolo Persichetti
Liberazione
3 novembre 2009

Cronaca di una morte annunciata.
«Basta, basta, basta!!! Io voglio uscire. Devo uscire. Giuro che esco e mi ammazzo e vi libero della mia presenza, ma io di questa tortura non ne posso più». Si esprimeva in questo modo Diana Blefari Melazzi in una lettera del 13 maggio scorso, inviata dal carcere di Sollicciano ad un suo amico, Massimo Papini, col quale era stata legata sentimentalmente prima della cattura. Diana Blefari non è uscita, non poteva uscire. Si è suicidata sabato 31 ottobre intorno alle 22.30 nella cella del carcere romano di Rebibbia, dove era stata trasferita da una decina di giorni. Una morte brutta, architettata ricavando un cappio con strisce di lenzuola intrecciate. La sorvegliante l’ha trovata appesa, al termine del giro fatto in sezione dopo la chiusura dei blindati. Poche ore prima gli era stata notificata la sentenza di cassazione che confermava in modo definitivo la sua condanna all’ergastolo, perché ritenuta compartecipe dell’attentato mortale al giuslavorista Marco Biagi.

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Diana Blefari Melazzi

La Blefari venne arrestata sul litorale romano nel dicembre 2003, inizialmente come “prestanome”, titolare del contratto d’affitto della cantina nella quale le cosiddette «nuove Brigate rosse», il piccolo gruppo che fino al 1999 aveva operato sotto la sigla Ncc per poi sottrarre dalle teche impolverate della storia la vecchia sigla inoperante delle Br-pcc, ma «solo se l’azione D’Antona avesse avuto successo», avevano depositato in fretta e furia archivio e altro materiale sgomberato dalla base dove erano vissuti Nadia Lioce e Mario Galesi, fino al momento della sparatoria mortale sul treno Roma-Arezzo del marzo del 2003.

Ad accusarla della partecipazione materiale all’omicidio Biagi, la pentita Cinzia Banelli. Secondo la collaboratrice di giustizia, che oggi vive sotto programma di protezione, la «compagna Maria», nome di copertura attribuito alla Blefari, avrebbe fatto da staffetta il giorno dell’attentato, sorvegliando il tragitto del consulente del ministero del Welfare dalla stazione fino ai pressi della sua abitazione, quando sarebbe dovuta entrare in azione proprio la Banelli. Solo che quel giorno la collaboratrice di giustizia non vide mai la Blefari, come dovette ammettere più volte in aula sotto contestazione della difesa. Contro di lei pesavano tuttavia altre accuse, come quella di aver preso parte alla “inchiesta” preparatoria e di aver inviato la rivendicazione tramite un internet point. Le vennero, infatti, contestate tracce telefoniche lasciate dal suo cellulare a Modena.

Il primo ottobre scorso, i sostituti procuratori romani, Pietro Saviotti e Erminio Amelio, hanno arrestato anche Massimo Papini  con l’accusa di essere una delle persone ancora non identificate che avrebbero fatto parte del gruppo. Una persecuzione quella contro Papini. Dopo anni d’indagini, pedinamenti e intercettazioni, alla fine del 2008 la procura di Bologna ne chiese l’arresto per il coinvolgimento nell’attentato Biagi, ma il Gip ritenne gli elementi depositati dall’accusa inadeguati a sostenere l’incriminazione. Passati gli atti alla procura romana, sulla base degli stessi elementi e soprattutto per il fatto di aver continuato a seguire la sua ex fidanzata lungo l’odissea carceraria e i meandri dolorosi e allucinati della sofferenza psichiatrica che l’aveva colpita, Papini è stato arrestato con l’accusa di partecipazione a banda armata. Un’accusa allucinata, tanto quanto le visioni che colpivano la Blefari stessa.

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Durante il processo Biagi

Forse sta proprio in questo accerchiamento, in questa inesorabile escalation la pulsione finale che l’ha portata a darsi la morte. In una lettera scritta dal 13 al 23 maggio, in cui si susseguono frasi deliranti di ogni tipo, scriveva a Papini: «Se vogliono che mi cucio la bocca, me la cucio. Se vogliono che parlo, dico tutto quello che mi dicono di dire, ma io non posso più stare così. Io non so proprio cosa fare, io chiedo perdono a tutti, ma basta per pietà». Gli inquirenti hanno interpretato queste parole come un messaggio verso l’esterno, rivolto a presunti referenti che avrebbero dovuto dare indicazioni sul suo modo di comportarsi. In realtà la Blefari nel suo fare ondivago e schizofrenico meditava altro. Da diverso tempo non era più in contatto con i suoi coimputati che le avevano rimproverato la scelta processuale di non ricusare l’avvocato e farsi difendere anche in punto di fatto. Gli estratti di un duro scambio di missive, tutte visionate dalla censura carceraria e finite in mano all’antiterrorismo, apparvero sui giornali. Nell’ultima lettera, finita di scrivere il 25 settembre, comunicava a Papini di aver informato il direttore del carcere di essersi «resa disponibile a parlare con i magistrati». Cosa avesse realmente in serbo, se volesse avviare una collaborazione e semplicemente circostanziare la sue reali responsabilità, o altro ancora, resterà un segreto che si è portato con sé. Di questa intenzione Papini ha saputo solo in carcere perché arrestato prima del suo recapito. Circostanza che smentisce il teorema accusatorio ed evidenzia il cinico gioco al rialzo portato avanti dagli investigatori contro la detenuta. Assolutamente consapevoli delle sue instabili condizioni di salute e del suo stato di prostrazione, gli inquirenti hanno dato l’idea di pensare alla Blefari come ad un “anello debole” che, prima o poi, si sarebbe spezzato conducendola ad atteggiamenti collaborativi con la giustizia. L’uso della malattia come strumento d’indagine. Mentre tutte le autorità carcerarie avevano riconosciuto da tempo la patologia psicotica che abitava la mente della donna, tanto da declassificarla dal regime duro 41 bis e assegnarla in un circuito comune, con frequenti passaggi nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo fiorentino, dove veniva sottoposta a periodici Tso, sul piano giudiziario si è continuato a negare per anni non solo la sua incapacità a “stare nel processo”, ma anche il diritto ad essere curata in una struttura ospedaliera adeguata.

La cieca sete di vendetta che ha animato l’inchiesta condotta dalla procura di Bologna e l’ostinata sordità delle corti d’assise nel recepire le richieste degli avvocati, documentate da numerose perizie psichiatriche che diagnosticavano una «patologia mentale che ne determina un comportamento psicotico in fase attiva», oltre a un «disturbo delirante, in diagnosi differenziale con Schizofrenia di tipo Paranoide», segnalando il «rischio di atti autolesionistici impulsivi che potrebbero essere fatali», sono finalmente pervenute a comminare quella condanna capitale abolita dalla costituzione italiana.

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Ignorata la disponibilita offerta da un gruppo di detenute che si offrì di assistere la Blefari. I magistrati puntavano al pentimento
Induzione al pentimento
Cronache carcerarie
La morte di Blefari Melazzi e le carceri italiane

Ora l’Italia s’inventa l’ergastolo virtuale pur di riavere Battisti

Rinviata la decisione del Supremo tribunale federale brasiliano sull’estradizione. Il procuratore Cesar Peluso favorevole a patto che l’Italia rinunci all’ergastolo commutando la condanna a una pena non superiore a 30 anni

Valentina Perniciaro
L’altro
11 settembre 2009

Dopo otto mesi di stallo il “caso Battisti” è approdato nelle aule del Supremo tribunale federale brasiliano, equivalente alla nostre Corte Costituzionale. Su richiesta del governo italiano, nove magistrati dovranno pronunciarsi per decidere se sospendere o meno l’asilo politico concesso a gennaio a Cesare Battisti, ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo condannato in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi, dal ministro della giustizia brasiliano Tarso Gendro. Il dibattimento non ha portato alla sentenza come ci si aspettava, ma ad una richiesta di sospensione che dia il tempo di esaminare ulteriormente le carte. A data da destinarsi, quindi. battisti01gCesare Battisti non era presente in aula, al contrario del rappresentante del ministero di Grazia e Giustizia Italo Ormanni e dell’ambasciatore italiano in Brasile. Dovessimo prender per buone le parole e l’enfasi della stampa italiana, immagineremmo già Cesare Battisti su un volo per l’Italia, con solide manette ai polsi. Urlano tutti giulivi, starnazzano ad un’estradizione praticamente ottenuta quando la realtà è chiaramente diversa e rivela una partita aperta, ancora tutta da giocare. Degli undici membri originari del Supremo tribunale federale saranno solamente nove quelli a votare: Meneses Direito è infatti scomparso da pochi giorni mentre Cesar de Melo ha deciso di astenersi su questo specifico caso. Dei nove magistrati sono stati otto ad essersi già pronunciati .Quattro a favore della richiesta italiana tra cui il giudice relatore Cezar Peluso, ed altri quattro hanno difeso la concessione dello status di rifugiato politico. Marco Aurelio de Mello, l’ultimo a dichiararsi pro-asilo politico ha fatto richiesta di sospendere il processo. Quello che la stampa italiana tende a non sottolineare e quasi ad occultare completamente è che anche i giudici che hanno votato per l’estradizione, hanno posto delle clausole che non saranno molto facili da gestire per il governo italiano. L’Italia fino a questo momento ha recitato la parte dello spettatore rumoroso ed arrogante; senza dover muovere alcun passo è stata a guardare con polemiche dai toni medievali e dagli atteggiamenti spesso razzisti a cui ormai stanno tentando di abituarci. Ma se l’Italia dovesse vincere questa prima battaglia si troverebbe comunque non poco in difficoltà per riuscire a sottostare alle leggi internazionali. Cezar Peluso, giudice relatore, quello che con più enfasi ha dichiarato di esser favorevole a veder tornare Battisti in Italia ha però posto come requisito minimo che l’ergastolo venga commutato ad una pena non superiore ai trent’anni, visto che in Brasile è stato abolito.
499445fa87604_zoomIeri il ministro degli Esteri Franco Frattini è riuscito a dichiarare: “Spero che la decisione tenga conto del fatto che l’Europa è la culla dei diritti fondamentali e che se accadesse che un cittadino europeo fosse ritenuto rifugiato fuori dall’Europa significherebbe smentire che l’Europa ha una Carta dei diritti fondamentali e che ovviamente nessuno qui può essere torturato, perseguitato, né trattato indegnamente.”  Forse non è stato mai informato delle condizioni che vivono i detenuti in Italia, schiacciati da un sovraffollamento unico in Europa e dalle discriminazioni razziali ormai sancite con il nuovo pacchetto sicurezza, testo di legge che dovrebbe almeno farci stare silenziosi su come “trattiamo degnamente” le persone. C’è una differenza di fondo tra il Brasile e questo nostro starnazzante paese: nel rovesciare la dittatura, loro, hanno rivoluzionato anche il sistema penale, abolendo la pena di morte e l’ergastolo perché non rispettosi dei diritti umani fondamentali. E’ incostituzionale una condanna che porti scritto sopra “Fine Pena Mai”, è inconcepibile la ghigliottina legalizzata che nella nostra società appare così normale. Ma d’altronde siamo un paese che, nel rovesciare la propria dittatura, non ha sentito l’esigenza di cambiare anche il proprio codice penale: i nostri giudici sentenziano tuttora con il Codice Rocco tra le mani, non c’è altro da dire. Commutare l’ergastolo di Battisti con una pena inferiore ai trent’anni. Come faranno? Se riuscissero ad ottenere la sua estradizione si riaprirebbero le richieste anche per tutti gli altri militanti della lotta armata italiana rifugiati per la maggior parte in Francia, di cui molti ergastolani. Tolgono l’ergastolo a tutti? E chi, e non sono pochissimi, tra gli ex militanti delle Brigate Rosse sta ancora scontando la pena dopo 32 anni di carcerazione? Anche i loro di ergastoli cancelliamo o continueremo a non concedergli nemmeno la condizionale? Ministri e deputati, giudici e magistrati,  giornalisti e parolai che già cantano vittoria in attesa di brindare attorno al nuovo corpo in catene che rientra in patria, inizino a pensare come gestire questo cavillo non da poco posto dai colleghi sudamericani.

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Brasile, rinviata la decisione sull’estradizione di Battisti

Il relatore del Tribunale supremo del Brasile si pronuncia per l’annulamento dell’asilo politico concesso a Battisti e ne chiede l’estradizione a patto che l’Italia commuti l’ergastolo ad una pena non superiore a 30 anni. Il Brasile infatti non riconosce la pena dell’ergastolo abolita dal proprio codice penale dopo l’uscita dalla dittatura fascista

Una richiesta che mette in seria difficoltà l’Italia. Il ministro degli esteri Frattini e quello della Difesa La Russa, che vantavano i meriti del nostro sistema giudiziario immacolato (salvo quando si occupa di Berlusconi), sono in difficoltà. L’Italia infatti non è disposta ad accogliere una richiesta del genere che inevitabilmente, in ragione del principio di eguaglianza del trattamento, aprirebbe un contenzioso sull’abolizione di questa pena, per altro già prevista nel dettato costituzionale

Insomma l’Italia è sempre più in un vicolo cieco

Paolo Persichetti
Liberazione 11 settembre 2009

Nonostante l’euforia con la quale molti quotidiani italiani, Repubblica in testa, hanno dato per certa l’imminente estradizione di Cesare Battisti, dopo l’udienza tenutasi mercoledì scorso davanti al tribunale supremo brasiliano (l’equivalente della nostra corte costituzionale), la complessa partita politico-giudiziaria che si sta giocando attorno alla vicenda è ancora tutta aperta. ALeqM5igDSk4Oj0Y4UD4b8FwQtlVQjYD1A
Dopo 11 ore di discussione la corte si è aggiornata rinviando ogni decisione a data da destinarsi. Il presidente Gilmar Mendes ha accolto la richiesta di sospensione avanzata del giudice Marco Aurélio Mello. Oltre al merito, infatti, sono state affrontate numerose opzioni procedurali. Nel corso del primo giro di votazioni la corte si è spaccata: il relatore Cezar Peluso e altri tre giudici hanno votato per l’annullamento dell’asilo politico riconosciuto dal ministro della giustizia Tarso Gendro. A loro avviso la scelta di concederlo sarebbe stata infondata perché i reati ascritti a Battisti (condannato a due ergastoli per la sua militanza nella lotta armata nei lontani anni 70) non sarebbero politici ma di «dritto comune». Tuttavia, poiché il Brasile dopo la dittatura militar-fascista ha abolito l’ergastolo dal suo codice penale, il relatore ha legato l’eventuale via libera per l’estradizione all’accoglimento da parte italiana di una clausola che prevede la commutazione dell’ergastolo ad una pena non superiore ai 30 anni.
Joaquim Barbosa e altri due giudici hanno invece difeso la concessione dello status di rifugiato, replicando che sarebbe stato assurdo smentire la politicità dei reati attribuiti a Battisti perché riconosciuta dalla stessa giustizia italiana attraverso l’applicazione di specifiche aggravanti di pena. Ai tre, che hanno anche censurato l’arroganza del governo italiano e le dichiarazioni razziste di alcuni ministri nei confronti del Brasile, trattato alla stregua di una repubblica delle banane, si è aggiunta la posizione più sfumata di Mello.
Quattro contro quattro insomma. Mancavano due membri del collegio, il giudice Menezes Direito deceduto da pochi giorni, ferocemente convinto dell’estradizione di Battisti. In attesa che riacquistasse le forze il presidente del tribunale aveva appositamente rinviato per mesi la discussione del caso, con la segreta speranza di potersi avvalere del suo voto. L’altro magistrato, Celso de Melo, si è pilatescamente tirato fuori dalla contesa. Ago della bilancia potrebbe essere il Presidente Mendes che mercoledì ha preferito non votare, sempre che non si decida di escludere dal voto il relatore, come proposto da alcuni. Mendes, uomo della destra e gran rivale di Lula, è uno dei capofila del partito dell’estradizione, molto sensibile alle pressioni del governo italiano. Terminata la pausa di riflessione, se non ci saranno nel frattempo cambiamenti, l’aritmetica farà il suo corso sfavorevole a Battisti. Se permanesse invece una situazione di parità, dovrebbe prevalere il principio del favor rei.
499e6d2fc191c_zoomQuello che stampa, mondo politico ed esponenti della vittimocrazia italiana omettono di raccontare, è che l’eventuale annullamento dell’asilo politico avrà come unico effetto immediato la riapertura della procedura d’estradizione, sospesa proprio in virtù della copertura fornita dallo status di rifugiato. Insomma non vedremo affatto Battisti manette ai polsi arrivare in Italia, per la delusione del ministro Frattini e del suo collega La Russa, che un po’ di diritto penale comparato e qualche convenzione internazionale potrebbero pure studiarli. In ogni caso la decisione finale – sempre che la magistratura non dichiari irricevibile la richiesta d’estradizione (va ricordato che il mancato riconoscimento dell’asilo politico non inficia minimamente la possibilità di rifiutare una domanda d’estradizione) – spetta in ultima istanza a Lula.
Non è chiaro cosa farà il presidente brasiliano, negli ultimi tempi sembra che per ragioni di politica interna e d’opportunità internazionale abbia ammorbidito la sua posizione e si sia fatto più ricettivo rispetto alle posizioni italiane, nonostante la loro fastidiosa invasività. La stessa scrittrice Fred Vargas, nume tutelare di Battisti, si è fatta portavoce nelle ultime ore di questi timori legati al mutare degli equilibri interni al governo brasiliano, alla necessità per Lula di avvalersi del sostegno elettorale di un ministro rivale di Gendro. Certo la scrittrice poteva pensarci prima. È lei una delle responsabili della disastrosa linea difensiva sempre portata avanti. Per l’Italia, comunque vada, la vicenda Battisti sarà una grosso problema. Con la sua ostinata insistenza si è cacciata in un vicolo cieco. Figuraccia internazionale se il Brasile dovesse alla fine negare l’estradizione, confermando il giudizio pessimo che già in sede internazionale viene espresso nei confronti del suo sistema penale e penitenziario. Sono ben sette i paesi al mondo che nel corso degli ultimi decenni hanno rifiutato l’estradizione di militanti politici degli anni 70. Tra questi, oltre alla Francia della dottrina Mitterrand, c’è stata anche la Gran Bretagna. In caso contrario, l’Italia dovrebbe mettere mano alla pena dell’ergastolo per Battisti adeguandosi a quei parametri internazionali di civiltà giuridica che da noi fanno difetto. A quel punto si porrebbe il problema degli oltre 1400 ergastolani d’Italia, e degli altri detenuti politici in carcere da oltre 30 anni. La disponibilità espressa a suo tempo dal ministro Mastella venne travolta dalla reazione della lobby vittimocratica. A differenza del Brasile, il nostro sistema politico non ha avuto la nitidezza di liberarsi delle eredità della dittatura fascista, di cui conserviamo ancora un codice penale addirittura irrigidito dalle leggi dell’emergenza.

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Neoliberismo e populismo penale

Postfazione a Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, di Angela Davis, Minimum Fax 2009

di Guido Caldiron e Paolo Persichetti


«L’aria era impregnata del fumo pungente del diesel e dell’odore di spazzatura marcia. La marmaglia dei prigionieri, più di metà neri o chicanos, era incolonnata per due, sei per catena, e ciascun gruppo riempiva un autobus: sembravano dei millepiedi umani. Dappertutto c’erano vicesceriffi in uniforme stirata alla perfezione. A ogni autobus erano stati assegnati tre vice, mentre gli altri stavano a guardare con le grosse 357 Magnum Python che penzolavano dalle mani. Alcuni poi accarezzavano dei fucili a canne mozze. Nonostante il puzzo, molti degli uomini respiravano a fondo, perché di aria fresca nella prigione senza finestre non ne entrava, e avevano già passato tre ore dentro celle di sicurezza di quattro metri per quattro, in gruppi di cinquanta ciascuna. Dietro di loro, gli affidabili della prigione stavano già spazzando le gabbie pronte per la seconda infornata del giorno».

Edward Bunker, Animal Factor


9788875212018g
Nella storia di Angela Davis, come in quella di tanti altri afroamericani, il carcere occupa un posto centrale. Intorno al carcere ruota la sua vita di militante e di intellettuale. Del carcere e del suo «superamento» ci parla in questo libro. Anche se, ci spiega, «il carcere è considerato talmente “naturale” che è estremamente difficile immaginare che si possa farne a meno». Il dibattito e il confronto hanno però prodotto importanti modifiche al senso comune su temi altrettanto delicati. «Molti sono già giunti alla conclusione che la pena di morte è una forma antiquata di punizione che viola i principi basilari dei diritti umani», sottolinea Davis, prima di aggiungere: «Penso che sia venuto il momento di incoraggiare un dibattito analogo sul carcere».
Nelle due parti di cui si compone questo libro, il saggio di Angela Davis intitolato Il carcere è obsoleto? e l’intervista con Eduardo Mendieta, Per una democrazia dell’abolizione. Oltre l’impero, il carcere e la tortura, la dimensione del carcere è affrontata da un punto di vista storico, sociologico e politico. Si parla degli Stati Uniti, delle loro galere e della parte della popolazione americana che vi è reclusa, in maggioranza i membri delle «minoranze», neri e latinos. Si parla però anche di una «via carceraria alla questione sociale», del tentativo di chiudere in cella l’eccedenza costante di forza lavoro che cresce ogni giorno di più nell’economia del precariato e della disoccupazione. Si parla, infine, del carcere come strumento di controllo, insieme ad altri, di un mondo dominato e governato a partire da paura e insicurezza. Una storia americana che è sempre di più anche una storia mondiale: un elemento chiave di quella globalizzazione del populismo che si è candidata da tempo a governo dell’intero pianeta.
Per accompagnare le analisi di Angela Davis abbiamo scelto così di ricostruire la genesi, da quest’altra parte dell’Atlantico, di un fenomeno che trova nel carcere e nella trasformazione del significato stesso della Giustizia le sue maggiori caratteristiche. Un fenomeno che è stato riassunto nella formula di «populismo penale» e che ha conosciuto uno sviluppo costante nel nostro paese, e nell’intera Europa, nel corso degli ultimi decenni.

Per affrontare questo tema si deve prendere le mosse da una constatazione: al centro del dibattito e dell’azione politica si va imponendo negli ultimi anni il tema della «criminalità». Un vero e proprio strumento di «governo attraverso la paura», secondo la formula utilizzata dal sociologo dell’Università di Berkeley Jonathan Simon. Descrivendo in particolare il caso americano ne Il governo della paura, Simon ha spiegato che «le conseguenze dell’ascesa della questione criminale a uno status del genere sono state enormi: che si individui il valore della democrazia americana nelle sue caratteristiche di libertà o di uguaglianza, il governo attraverso la criminalità ha prodotto effetti negativi. In primo luogo, il massiccio dirottamento di risorse fiscali e amministrative verso il sistema di giustizia criminale – a livello statale e federale – ha configurato una trasformazione efficacemente descritta come transizione dallo “stato sociale” allo “stato penale”. Il risultato non è stato un governo più leggero, ma un esecutivo più autoritario, un potere legislativo più inerte e un sistema giudiziario più difensivo di quanto sia mai stato imputato allo stesso stato sociale».
Il quadro è allarmante: non riuscendo più a far vivere la speranza, le politiche di governo hanno fatto dell’angoscia una risorsa, nutrendo la psicologia sociale con gli impulsi più bui dell’animo umano. All’origine di questa terribile «innovazione» sembra esserci il consolidamento del sistema di produzione postfordista e del corrispondente modello politico neoliberale. Da una forma di capitalismo che cercava d’ottimizzare le sue prestazioni attraverso politiche che incrementavano l’impiego e utilizzavano la capacità d’acquisto dei salari per accrescere la domanda, si è passati a un modello che ha fatto – perlomeno fino all’attuale crisi economica internazionale – della precarizzazione della vita e della speculazione finanziaria la sua fondamentale fonte di profitto, ingenerando un nuovo tipo di società dominato dall’esclusione, dalla collocazione forzata nell’armata del precariato diffuso, dallo sfruttamento intensivo dei settori più marginali della forza lavoro. Siamo perciò di fronte a una società dove l’umanità è percepita come un’eccedenza sociale, economica e politica. Sovrannumeri di cui il potere intende liberarsi per alleggerire il ciclo produttivo, ripulire le città, rispedire nei luoghi di provenienza i migranti, fare piazza pulita di questuanti, posteggiatori e lavavetri, occupanti di case sfitte e writers, senza mancare d’escogitare stratagemmi istituzionali e sistemi elettorali che grazie al maggioritario rendono superflue ampie porzioni di voto popolare, riservando la scelta del governo a nuclei sempre più ridotti di cittadini influenti, espressione dei ceti forti. Il tutto declinato attraverso il linguaggio della messa al bando, della difesa della società e della neutralizzazione del male. Una società dove s’indeboliscono i legami sociali, viene meno ogni capacità inclusiva e prevale un dispositivo predatorio, una sorta di legge della giungla che conforma tutti i rapporti sociali ridisegnando una nuova dimensione ideologica a cui si è dato il nome di «populismo penale».
Una «cultura del controllo» risultato della costante tensione tra ideologia neoliberale del libero mercato e autoritarismo morale neoconservatore, dove il conflitto non trova più uno sbocco: privo di progettualità esprime solo rabbia, rivalsa, frustrazione, rancore. Una guerra dei forti contro i deboli, non solo dei primi contro gli ultimi ma dei penultimi contro chi viene subito dopo, di chi sta peggio col suo simile, come in una sorta di «vita mea mors tua», di sopraffazione permanente, di scontro molecolare. Dinamica che trova nelle città la sua massima applicazione, come suggerisce Loic Wacquant in Simbiosi mortale: «La metropoli punitiva riorganizzata – termine con il quale mi riferisco ai grandi centri urbani, etnicamente eterogenei e tipicamente segregati cui si è storicamente ancorato il defunto regime fordista-keynesiano, costituisce un luogo privilegiato per analizzare le connessioni esistenti fra il nuovo clima penale e il neoliberismo, e per due ragioni. La prima è che, allo stesso modo in cui le grandi città si sono caratterizzate quali avamposti dell’economia “globalizzata” nell’era post Bretton Woods, analogamente esse hanno giocato un ruolo chiave rispetto all’ideazione e al consolidamento delle nuove strategie penali: costituiscono infatti altrettanti nodi di produzione, definizione e diffusione della penalità neoliberale, vale a dire laboratori per lo sviluppo e la sperimentazione di discorsi e programmi orientati alla gestione preventiva e punitiva dell’ordine pubblico e della criminalità, esemplificati dalle pratiche di “tolleranza zero” e da un insieme di prassi tese a ripulire le strade dai rifiuti sociali». «La seconda ragione, invece», sottolinea ancora Wacquant «è che le città stesse attraversano un processo di ristrutturazione determinato proprio dalla deriva verso la regolazione punitiva dei poveri e l’emergere dello Stato penale. Il diffondersi progressivo degli attori, delle categorie e delle procedure tipiche di questo Stato accentua il processo di polarizzazione che separa una luminosa e accattivante downtown, spazio di consumo e di svago riservato ai residenti di classe medio-alta e ai turisti, e un arcipelago oscuro e temibile di no-go areas, percepito come brodo di coltura di una underclass i cui “comportamenti antisociali” minacciano il benessere fisico e morale del corpo urbano».

Il paradigma su cui si è costruito questo processo è quello della cosiddetta «Tolleranza zero», la teoria elaborata dai sociologi della nuova destra che è diventata uno degli argomenti centrali della Rivoluzione conservatrice degli ultimi decenni: lungo un percorso ideale, culturale e politico che va da Ronald Reagan a Silvio Berlusconi. All’origine di questa lettura della società – fatta propria anche da ampi settori delle post-sinistre, come indica la Terza via di Blair ma anche, più modestamente, la polemica anti-lavavetri del centro sinistra dell’ultimo governo Prodi – c’è un articolo pubblicato nel marzo del 1982 sull’Atlantic Monthly, una delle più prestigiose riviste conservatrici americane, con il titolo di «Broken Windows», letteralmente «vetri rotti», e firmato da George L. Kellin e James Q. Wilson. Un articolo che spiegava come il tollerare che i vetri di un immobile fossero rotti o restassero a lungo senza essere riparati rappresentava solo l’inizio di una catena di degrado: quell’edificio sarebbe diventato rapidamente una sorta di covo di criminali. «Se i vetri non sono riparati subito, i vandali si sentiranno autorizzati a romperne anche altri. Non solo, se l’edificio risulterà abbandonato, potranno entrarvi, accendere dei fuochi all’interno o magari pensare di occuparlo». Il punto decisivo per Kelling e Wilson era che non si consentisse di accumulare degrado o vandalismi, o per estensione piccoli reati contro le cose, senza un intervento deciso da parte delle autorità. Solo la prevenzione di quelli che nel mondo anglosassone sono definiti come «comportamenti antisociali», gli atti di vandalismo di varia natura, o i reati minori, può preservare un quartiere, una città o un’intera società dall’estendersi di veri e propri fenomeni criminali. I due autori, che avrebbero negli anni successivi alla pubblicazione di questo testo collaborato a lungo con diversi organismi di polizia, immaginavano un nuovo ruolo per le forze dell’ordine, orientato in primo luogo a rispondere alle paure dei cittadini.
La dottrina delle «finestre rotte» criticava esplicitamente la sociologia urbana formatasi negli Stati Uniti dopo le grandi rivolte dei ghetti afroamericani degli anni Sessanta che aveva messo l’accento sulla crisi sociale che gravava su una parte consistente delle città americane. Come evidenzia Alessandro De Giorgi in Zero Tolleranza, «secondo i criminologi della nuova destra il soggetto criminale è un individuo pienamente in grado di decidere se tenere o meno un comportamento deviante» e «nessun rilievo, rispetto alle strategie del controllo, deve essere attribuito alle condizioni sociali e al contesto nel quale il soggetto agisce». La linea del populismo penale è stata tracciata: «A questo cambiamento di prospettiva sul piano analitico», conclude infatti De Giorni, «corrisponde una svolta sul piano operativo e una complessa ridefinizione delle funzioni stesse della penalità: allo scopo riabilitativo sotteso alle politiche del trattamento si sostituisce l’obiettivo della deterrenza e dell’intimidazione».

In Europa, a «gestire» politicamente questo passaggio sono state in un primo momento le nuove destre che, nel loro emergere durante l’ultimo decennio, hanno fatto del tema della sicurezza la chiave del proprio successo. Come racconta Denis Salas ne La volonté de punir «il tema dell’insicurezza invade il discorso politico e si impone nei programmi elettorali. A un mondo aperto e incerto, questi partiti oppongono una società chiusa e ripiegata sul passato. Contro la globalizzazione di tutti i pericoli, fanno appello a una nazione mitizzata e trovano il loro pubblico tra gli scontenti e i dimenticati dei processi globali. La carta sociale e geografica situa chiaramente il loro elettorato: i quartieri delle grandi concentrazioni urbane dove agisce la piccola o media delinquenza». «È questa la Francia lepenista», spiega ancora Salas: «quella della decomposizione del mondo operaio e di una perdita d’identità che conduce alla xenofobia. Come non ricordarsi, da questo punto di vista, dell’invito lanciato da Jean Marie Le Pen alle “vittime dell’insicurezza, della povertà e della miseria” a “ritrovare la speranza” tra i due turni delle elezioni presidenziali del 2002». Quando il leader del Front National era risultato il più votato dopo il candidato gaullista Jacques Chirac, cancellando dal ballottaggio elettorale i rappresentanti delle sinistre e portando la minaccia xenofoba a un passo dalla conquista del potere.

In questo clima politico e dentro queste nuove contraddizioni sociali ha così messo radici un groviglio confuso di sentimenti che intrecciano la paura per l’avvenire e l’ossessione per il declino sociale, accentuando i processi d’identificazione vittimistica. L’insicurezza sociale e mentale, diffusa e multiforme, oltre a colpire direttamente le famiglie delle classi popolari, è dilagata sempre più nei ceti medi che i nuovi discorsi marziali dei politici e dei media sulla delinquenza convogliano ossessivamente sulla questione dell’insicurezza criminale.
«La paura in politica, come osservava Hobbes, ha due volti: uno guarda lontano, verso i nemici che la nazione deve fronteggiare; l’altro guarda in se stesso, verso i conflitti e le ineguaglianze che la nazione stessa produce. L’astuzia del potere politico sta nel convertire il primo di questi sguardi nel secondo, utilizzando la minaccia dei nemici all’esterno per reprimere i nemici all’interno», spiega Corey Robin, docente di Scienze politiche a New York, in Paura. La politica del dominio. «Logorata ed esausta a seguito di sempre inconcludenti test di adeguatezza», aggiunge in Amore liquido Zygmunt Barman, «spaventata a morte dalla misteriosa, inesplicabile precarietà delle sue fortune e dalle nebbie globali che nascondono ai suoi occhi qualunque prospettiva, la gente cerca disperatamente dei colpevoli per le proprie pene e tribolazioni. E come c’è da attendersi, li trova sotto il lampione più vicino, nell’unico posto premurosamente illuminato dalle forze della legge e dell’ordine: “Sono i criminali che ci rendono insicuri, e sono gli stranieri che generano criminalità”».

Una delle figure centrali di questa grande svolta punitiva approdata in Europa dagli Stati Uniti è diventata perciò l’icona della vittima presentata come «autentica incarnazione dell’individuo meritevole: quasi un modello ideale di cittadino». «Negli anni Ottanta», scrive ancora Jonathan Simon, «la vittima della criminalità è emersa dall’ombra del soggetto dei diritti civili per costituirsi come soggetto politico idealizzato in sé. In una sorta di estensione all’“uomo qualunque”, le rivendicazioni delle vittime di criminalità fecero propria la critica di complicità che gli attivisti dei diritti civili e le femministe avevano articolato a proposito del coinvolgimento dello Stato nella violenza criminale». E «una volta separata dal soggetto dei diritti civili, la vittima della criminalità può legarsi facilmente a un altro nucleo fondamentale di mobilitazione politica: il contribuente, vittimizzato dal governo, minacciato da un’avida classe politica di perdere i propri averi e persino la capacità di avere una casa propria». Siamo in ogni caso di fronte a «una trasformazione radicale della relazione tra le vittime e la società, una trasformazione così profonda che sembra poter modificare l’equilibrio di quest’ultima», scrivono Caroline Eliacheff e Daniel Soulez Larivière in Il tempo delle vittime.
Tuttavia l’investitura legittimante che viene offerta dall’acquisizione di questa posizione sociale è caratterizzata da un accesso fortemente limitato e diseguale: non tutte le “vittime” sono uguali, anzi, non tutte sono “vittime”. La postura dell’innocente è infatti riconosciuta sulla base di ben selezionati requisiti di ordine sociale, economico, culturale e etnico che variano secondo le latitudini. Ma, in ogni caso, può un eventuale sentimento d’ingiustizia considerarsi una «ferita psicologica» sanabile soltanto per il mezzo di una condanna penale? Come sottolinea Antoine Garapon in Des crimes qu’on ne peut ni punir ni pardonner, «le vittime non si aspettano dalla Giustizia soltanto di essere “risarcite” del danno subito, ma anche e soprattutto di essere riconosciute». Ma «questa attesa», si chiede ancora il giurista, «non rischia di snaturare il processo, di cui non è certo l’obiettivo? Una tale domanda di riconoscimento rischia di introdurre una confusione tra il privato e il pubblico […], tra la violazione pubblica e la sofferenza personale, tra la reciprocità della cittadinanza e la compassione religiosa». Non solo: negli Stati Uniti la concessione dello status di vittima non suscita alcuna controversia e produce tutti i suoi effetti positivi solo nel caso in cui portatori della rivendicazione siano individui bianchi appartenenti al ceto medio. Allo stesso modo in Europa i criteri si basano sull’appartenenza comunitaria, la religione e l’identità politica. Il rumeno, il musulmano, il rom non hanno chance. Per i gruppi stigmatizzati in partenza, nei confronti dei quali si presume una contiguità originaria con l’universo criminale o la genealogia del male, non vi è alcuna possibilità di accedere al ruolo di vittima. Anche perché, come ribadito con precisione da Alessandro Dal Lago in Non persone, «qualunque sia l’essere dell’uomo, la sua esistenza è connotata dalla posizione all’interno (o all’esterno) di un ordinamento concreto. Le implicazioni della natura giuridico-positiva (e quindi, in ultima analisi, politica) della “persona” sono abbastanza evidenti. Se è vero che una delle conquiste degli ordinamenti politici moderni è il conferimento di “diritti” solo a chi rientra a pieno titolo in tali ordinamenti, chi ne è escluso (o chi non vi è incluso) non habet personam, e quindi è uomo solo in senso naturale, non sociale. La cittadinanza (l’insieme di diritti di chi è legittimamente incluso in un ordinamento) è quindi condizione esclusiva della personalità sociale, e non viceversa, come recitano sia il senso comune filosofico sia quelle dichiarazioni o convenzioni internazionali che affermano o riaffermano i “diritti universali dell’uomo o della persona”».
In effetti, più della vittima in sé è la nozione di “vittima meritevole” che trova affermazione e legittimazione. Non basta aver subito un torto o un danno per poter essere riconosciuti come tali, occorre innanzitutto entrare a far parte della categoria legittimata a esserlo. L’uso strumentale della figura della vittima è uno degli aspetti centrali di questa nuova ideologia punitiva che ha innescato un processo regressivo di privatizzazione della giustizia. Il diritto della vittima alla riparazione simbolica è lentamente scivolato verso un potere di punire quantificato soltanto in base alla natura e all’entità della pena da infliggere e al riconoscimento di una capacità d’interdizione e ostracismo perpetuo sul corpo del reo. Ogni retorica riabilitativa è scomparsa dietro una pura logica di rappresaglia che i poteri pubblici delegano alla vendetta privata, costruita sulla spersonalizzazione e la disumanizzazione assoluta di chi viene immesso nel recinto dei colpevoli.
Questo processo di privatizzazione del diritto di punire trae la sua origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica, favorendo la riparazione psicologica della vittima. A questa svolta culturale sembra aver contribuito la nozione di «stress post-traumatico» introdotta dalla psicologia clinica anglosassone dopo la guerra del Vietnam, poi estesa alle molteplici forme di traumatismo civile, sociale, politico e naturale. Un’interpretazione che non ha mancato di sollevare obiezioni, perché sancisce una connaturata fragilità dell’individuo moderno, ormai ritenuto incapace di reggere i conflitti. In questo modo l’esaltazione narcisistica della sofferenza diventa infatti una risorsa che le parti in lotta introducono nella dimensione simbolica del conflitto, percependosi l’una come vittima dell’altra. Una competizione della sofferenza che mina ogni possibile terreno di soluzione, ogni pausa o riconciliazione civile. Alla fine la vittima genera solo altre vittime, ricordava infatti Hannah Arendt.

Quest’ideologia presenta tuttavia sfaccettature diverse tra la realtà nordamericana e quella europea. Differenze legate alla presenza di diversi modelli sociali, istituzionali e giudiziari. Il tema della complicità fra il crimine e lo Stato, tacciato per questo d’elitismo e corruzione, appartiene, per esempio, al repertorio classico della critica neoconservatice e dei libertarians americani (i fautori dello Stato minimo) nei confronti di quello che viene ritenuto un eccessivo presenzialismo statale (da questi definito big government) nelle questioni di società. Al contrario, da noi, chi mette l’accento sulla centralità della lotta alla mafia, denuncia il lassismo del governo nella lotta alla criminalità auspicando un sempre maggiore coinvolgimento dello Stato.
Il sistema giudiziario di tipo accusatorio fa sì che nel modello nordamericano si configuri una contrapposizione politico-ideologica tra gli incarichi elettivi e quelli indipendenti che reggono il sistema della giustizia penale, definito da Jonathan Simon il «complesso accusatorio». Lo sceriffo della contea insieme all’attorney locale (il procuratore) sono ritenuti i protagonisti della guerra senza quartiere al crimine. Mentre il giudice terzo, in quanto garante delle forme della legge, è percepito come un ostacolo se non addirittura una figura connivente con la delinquenza. La tradizione inquisitoria che caratterizza ancora il sistema giudiziario italiano, via di mezzo tra rito istruttorio e «semiaccusatorio», consente invece alla nostra magistratura di essere individuata come il perno centrale della lotta non solo alla criminalità ma più in generale all’ingiustizia. L’impegno profuso nel contrastare la sovversione sociale degli anni Settanta, la lunga stagione delle leggi penali speciali e dei maxiprocessi che ha traversato il decennio degli Ottanta, e poi la stagione di Tangentopoli hanno conferito alla magistratura, e in particolare ad alcune importanti procure, il ruolo di vero e proprio soggetto, portatore di un disegno generale di società. I giudici sono così diventati i protagonisti di quella che è stata presentata come «la rivoluzione italiana» dei primi anni Novanta, di cui Marco Revelli ha offerto in Le due destre una delle migliori sintesi. «Quello che sembra d’intravedere tra le brume dei primi anni Novanta», scrive il sociologo torinese, «sotto la superficie increspata delle inchieste giudiziarie, dietro la rappresentazione televisiva degli imputati eccellenti e degli arresti a catena, è la dissoluzione di tutti e tre i patti non scritti che avevano, in qualche modo, presieduto alla sopravvivenza della Prima Repubblica, ben oltre la sua effettiva durata in forma costituzionale. In primo luogo il residuo patto sociale tra capitale e lavoro […], in secondo luogo il patto che potremmo definire finanziario tra Stato-apparato e contribuenti o, se si preferisce, tra finanza pubblica e risparmio». E, infine, il «terzo patto che aveva retto il prolungamento, post mortem, della Prima Repubblica: il patto politico stabilito tra cittadini e classe eletta di governo nella confusa metamorfosi della società civile e della società politica a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Patto di delega e mediazione, in base al quale veniva in qualche modo scambiato consenso contro consumo». «È in questo clima», conclude Revelli, «che i “mediatori” vengono trasformati in “criminali” in struttura deviante. E che il prezzo della mediazione, vissuto prima come necessità funzionale, viene d’un colpo percepito socialmente (e giudiziariamente) come “furto”».
Tornando all’ideologia vittimaria, va rilevato come nel nostro paese non abbia ancora assunto una sua fisionomia codificata e stabile. In un’epoca in cui i fenomeni sociali prendono una conformazione «liquida», anche il vittimismo diventa non solo pervasivo ma proteiforme, mutevole: e così nelle lande del Settentrione leghista fanno breccia gli argomenti tipici della destra statunitense sul contribuente vittimizzato dalle tasse governative, sul costo eccessivo di un welfare per i poveri e le minoranze urbane, cioè le stesse comunità accusate di generare criminalità, che nella retorica leghista diventano i migranti e le regioni meridionali. Così il sociologo Aldo Bonomi ha scelto «il risentimento e il rancore» quale cifra delle trasformazioni più profonde che attraversano questa parte del nostro paese. Ne Il rancore, il suo libro-viaggio nel «malessere del nord», Bonomi indaga ad esempio le ragioni del risentimento delle regioni settentrionali dell’Italia verso il complesso del mondo politico, accusato di essere troppo lento nel risolvere i problemi posti dallo sviluppo produttivo, ma anche di non capire i bisogni dei nuovi ceti emersi dalla rivoluzione economica dell’ultimo ventennio, su tutti il cosiddetto «popolo delle partite Iva». «Sono cambiate le forme di produzione, la composizione sociale, i modi per rappresentare interessi, passioni e forme di convivenza, i quali hanno come primo luogo di condensa il territorio», spiega Bonomi «Qui i problemi grandi, quelli della modernizzazione per stare nello spazio globale, e quelli piccoli, delle forme di convivenza di una società che cambia, sono più visibili e diretti».

Nonostante sia evidente la matrice ultrareazionaria e il carattere ferocemente conservatore dei suoi esiti politici, al dilagare del populismo penale, almeno in Italia, non è estranea la cultura di una parte della sinistra. La democrazia coniugata nella sua forma giudiziaria ha così favorito e accelerato la svolta a destra della società italiana. «La lunga sequenza delle “emergenze” sponsorizzate in prima persona dal Pci –», scrive Salvatore Palidda, «il terrorismo, la mafia, tangentopoli, ecc. – ha prodotto un’attitudine istituzionale alla messa in mora dei diritti fondamentali. Di più: ha delegittimato la vigenza effettiva del dettato costituzionale (“nato dalla Resistenza”) in nome della sua difesa verbale. Al termine di questa lunga stagione emergenziale resta soltanto il potere pratico della legittimazione manipolante di qualsiasi politica venga decisa dal “centro” dello stato. Che nel frattempo, avendo visto scomparire e delegittimare – con Tangentopoli – la politica e – col procedere dell’integrazione europea – la sovranità monetaria e diplomatica, si è ridotto alla pura funzione esecutiva: magistratura e polizia».
Le conseguenze di queste politiche sulla situazione delle carceri italiane sono poi sotto gli occhi di tutti. «Se nel 1990 nelle nostre prigioni c’erano 25.931 detenuti, nel ’91 se ne contavano già 35.469, che divennero 47.316 nel ’92, fino a stabilizzarsi intorno alle 50mila presenze giornaliere negli anni successivi», indicava già nel 2002 in Massima sicurezza l’operatore carcerario Salvatore Verde, aggiungendo: «L’indice di carcerazione nel nostro paese passa bruscamente dalle 45 alle 89 persone ogni 100mila abitanti […]. Ancor più evidente è questo sconvolgimento se guardiamo ai flussi di ingresso nelle prigioni. Se nel ’90 entrarono 57.735 persone, nel 1994 gli incarcerati superarono le 100mila unità». Ma non sono solo i numeri a indicare la differenza rispetto al passato. Se all’epoca dell’ingresso in carcere di Giulio Salierno, entrato in cella come militante neofascista condannato per omicidio e uscito come sociologo marxista tra i più attenti alla realtà dell’emarginazione e del controllo sociale – come ha raccontato nella sua Autobiografia di un picchiatore fascista – nell’Italia della fine degli anni Cinquanta i detenuti provenivano prevalentemente dal «proletariato bracciantile, adulto e meridionale», non è così nell’ultimo decennio. Come spiega Salvatore Verde: «La composizione sociale del nuovo popolo delle carceri si presenta radicalmente mutata rispetto ai soggetti che avevano agitato la scena carceraria negli anni Settanta e Ottanta. In carcere affluisce un variegato panorama di figure sociali (caratteristiche del) sottoproletariato giovanile metropolitano. Il tossicodipendente e l’immigrato diventano le principali figure bersaglio. Sono questi i soggetti che sconvolgono le statistiche penitenziarie di questi anni e che pagheranno i costi più pesanti della deriva criminalizzatrice delle politiche del controllo sociale».

BIBLIOGRAFIA

Zygmunt Bauman, Amore liquido, Laterza, 2004
Aldo Bonomi, Il rancore, Feltrinelli, 2008
Robin Corey, Paura. La politica del dominio, Università Bocconi, 2005
Alessandro Dal Lago, Non persone, Feltrinelli, 1999
Antoine Garapon, Des crimes qu’on ne peut ni punir ni pardonner, Odile Jacob, 2002
Marco Revelli, Le due destre, Bollati Boringhieri, 1996
Denis Salas, La volonté de punir. Essai sur le populisme pénal, Hachette, 2008
Giulio Salierno, Autobiografia di un picchiatore fascista, minimum fax, 2008
Jonathan Simon, Il governo della paura, Raffaello Cortina Editore, 2008
Salvatore Verde, Massima sicurezza, Odradek, 2002
Loic Wacquant, Simbiosi mortale, Ombre Corte, 2002
Caroline Eliacheff e Daniel Soulez Larivière, Il tempo delle vittime, Salani, 2008

Carcere: il governo della sofferenza

Come e perché tanti suicidi in carcere?

di Sandro Margara
Il manifesto, 23 aprile 2009

La metto così: il carcere è, e in sostanza è sempre stato, una questione totale: cioè, una questione in ogni suo aspetto, un continuum di criticità, che si tengono tutte fra loro. La questione dei suicidi in carcere, a mio avviso, va letta così. Nel contesto del carcere, per dire una cosa ovvia, tutto quello che dovrebbe rilevare sul nostro tema è la sua vivibilità o la sua invivibilità. Il discorso potrebbe allora svilupparsi nella ricostruzione di tutti i fattori e dinamiche di invivibilità, non pochi e non leggeri. Poi, bisognerebbe attuare una strategia dell’attenzione nei confronti di coloro che soffrono in modo speciale la invivibilità. Ma c’è, indubbiamente, a monte di questi aspetti, un primo punto che non può essere ignorato: ed è quella che potrebbe essere chiamato la “vivibilità dell’arresto”, che ha un proprio rilievo, provato dal dato statistico (ricavato dal libro di Baccaro e Morelli: Il carcere: del suicidio e di altre fughe, letto in bozza) che il 28% dei suicidi in carcere si verificano entro i primi dieci giorni e il 34% entro il primo mese. Sotto questo profilo del “tintinnio delle manette”, il carcere fa solo da cornice al precipitare di vicende individuali, rispetto alle quali un sistema di attenzione degli operatori non è facile, specie in presenza di certe strategie processuali. Naturalmente, c’è chi dirà: “Non vorrai mica che il carcere non faccia paura?”. Ma veniamo ai fattori di invivibilità del carcere, subìti e sofferti da tutti e da alcuni fino a rinunciare alla vita. Il primo è quello legato al sovraffollamento, che ha due aspetti a cominciare dal fatto di vivere a ridosso immediato di altre vite, il levarsi reciprocamente l’aria, il che non è affatto poco (gli esperimenti per le scimmie dicono che diventano nervose: e gli uomini?). Ma poi, in una struttura sovraffollata, inevitabilmente le disfunzioni sono infinite. Si lotta per sopravvivere a livelli minimi. Il Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio di Europa (Cpt), ha considerato la situazione di sovraffollamento in carcere, come “trattamento inumano e degradante”. Tanto maggiore sarà la invivibilità quanto più si accompagnerà alle lunghe permanenze in cella, a fare della cella il luogo di una vita invivibile. E la normalità, in situazioni del genere, è che dalla cella si esce solo per brevi periodi “d’aria”, ma non per lavorare o per altre attività né, per molti dei detenuti (stranieri, persone sbandate per le ragioni più varie, etc.), per avere colloqui con i familiari. È possibile costruire prospettive di uscita da queste situazioni? Lo impediscono: la povertà delle risorse organizzative del carcere su questo versante, le risposte sempre più difficili e spesso negative della magistratura, lo stesso ridursi delle possibilità o la mancanza di queste per la fascia sempre più numerosa degli stranieri, che attendono solo l’espulsione (nei grandi carceri metropolitani sono ormai ben oltre il 50%, ma anche la media nazionale si avvicina al 40%). C’era una volta un Ordinamento penitenziario che dava delle speranze di permessi di uscita, di misure alternative, ma anche questi spazi si sono sempre più ristretti – per leggi forcaiole e per magistrati condizionati dal clima sociale che le produce – e le speranze si sono trasformate in delusioni. D’altronde, il suicidio non è l’unico prodotto della invivibilità delle carceri: lo sono anche i tentati suicidi, come pure, spesso difficili da distinguere dai primi, i gesti autolesionistici. Tutto insieme, si arriva vicini all’inferno. C’è, comunque, una campagna della amministrazione penitenziaria per individuare e agire a sostegno dei soggetti più a rischio. Ma non si può sperare che questo serva quando gli sforzi necessari sono limitati da poche risorse, destinati a durare per poco tempo, come accaduto in passato, affidati ad un sistema di sorveglianza psicologica e psichiatrica mai costruito adeguatamente: il tutto sempre dentro quelle condizioni di invivibilità che si mantengono e si concorre anzi ad aggravare, come dimostra l’accelerazione delle dinamiche di sovraffollamento. Tento una conclusione. Sentire, tutti, la responsabilità di questi morti e del carcere che li produce è una scelta etica desueta.

Link
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La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre

Nuovo no alla scarcerazione dell’ ex br Guagliardo per l’ omicidio dell’ operaio del Pci. La figlia deputato del Pd: è un’ ingiustizia

Giovanni Bianconi
Corriere della sera, 12 aprile 2009

ROMA – Aveva chiesto di poter uscire definitivamente dal carcere, dopo oltre trent’ anni di detenzione, come è stato concesso a quasi tutti gli altri ex terroristi condannati all’ ergastolo per le decine di omicidi commessi durante la stagione «di piombo». Lui, Vincenzo Guagliardo, sparò a Guido Rossa, l’ operaio iscritto al Pci e alla Cgil assassinato dalle Brigate rosse nel gennaio 1979. Il pubblico ministero era d’ accordo: per la legge l’ ex brigatista, già in regime di semilibertà, ha diritto a non rientrare in cella la sera. Ma il tribunale di sorveglianza ha detto no, come nello scorso settembre. E la vittima diretta di Guagliardo – Sabina Rossa, oggi deputato del Partito democratico – commenta: «E’ una vergogna, una vera ingiustizia. Lo dico con tutto il rispetto per i giudici, ma mi sembra che quest’ uomo sia ormai diventato il capro espiatorio del residuato insoluto delle leggi speciali». E’ una storia molto particolare, quella dell’ assassino di Guido Rossa, fra le tante di ex terroristi ergastolani ai quali, secondo una recente giurisprudenza, viene concessa la liberazione per i crimini di trent’ anni fa dopo qualche forma di contatto tra loro e i parenti delle persone uccise, come segno tangibile di contrizione e di «consapevole revisione critica delle pregresse scelte devianti»; anche solo attraverso delle lettere a cui spesso non arrivano nemmeno risposte, ma è quello che i giudici chiedono per misurare il «sicuro ravvedimento» richiesto dal codice per rimettere fuori i condannati a vita. Guagliardo, che da molti lustri ha abbandonato la lotta armata, non ha mai voluto scrivere niente perché riteneva di non avere il diritto di rivolgersi alle vittime per ottenere un beneficio in cambio; considerando, al contrario, il silenzio «la forma di mediazione più consona alla tragicità di cui mi sono macchiato». Ma quando Sabina Rossa, nel 2005, andò a cercarlo per chiedere spiegazioni e ragioni dell’ omicidio di suo padre, lui accettò l’ incontro e ci parlò a lungo, come la donna ha raccontato in un libro. L’ ex br non lo disse però ai giudici, affinché quel faccia a faccia non apparisse «merce strumentale ad interessi individuali, simulazione, e perciò ulteriore offesa» alle persone già colpite. Così arrivò il primo no alla liberazione, dopo il quale Sabina Rossa ha voluto rivolgersi direttamente al presidente del tribunale di sorveglianza per testimoniare «il ravvedimento dell’ uomo che ha sparato a mio padre; metterlo fuori, oggi, sarebbe un gesto di civiltà». Dopo questa uscita pubblica Guagliardo ha riproposto la sua istanza, chiarendo ai giudici di essere disponibile a incontrare qualunque altro familiare di persone uccise: «Solo se lo desiderano, se non è un nostro imporci a loro. Trovo infatti legittimo che una vittima non voglia né perdonare né dialogare con chi le ha procurato un dolore dalle conseguenze irreversibili». Nell’ udienza della scorsa settimana il pubblico ministero s’ è dichiarato favorevole alla liberazione condizionale dell’ ex brigatista, ma i giudici hanno ugualmente rigettato la richiesta. Perché, hanno scritto nell’ ordinanza, chiedere che siano le vittime a sollecitare un eventuale contatto significa dare loro «carichi interiori assolutamente incomprensibili o intollerabili»; e l’ atteggiamento di Sabina Rossa è «una manifestazione isolata e certamente non rappresentativa delle posizioni delle altre e numerose persone offese». La reazione della figlia del sindacalista ammazzato dalle Br – che da deputato ha presentato un disegno di legge per modificare la norma sulla condizionale, in modo da svincolarla dal rapporto tra assassini e persone colpite – è tanto dura quanto inusuale: «Sono indignata come cittadina e come vittima. Ci sono brigatisti con molti più delitti a carico liberi da anni, senza che nessuno gli abbia chiesto nulla. C’ è troppa discrezionalità. Io credo nella giustizia, ma anche nel cambiamento degli uomini. Spero che la mia proposta di legge sia esaminata al più presto». L’ avvocato Francesco Romeo, difensore di Guagliardo insieme alla collega Caterina Calia, parla di «decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’ Inquisizione» e sta già preparando il ricorso alla Corte di cassazione.

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Ancora ergastolo per Vincenzo Guagliardo
Sabina rossa e gli ex-terroristi siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera)
Sabina Rossa, “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”
Sabina Rossa,“Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre”

«Caro Lula, in Italia di ergastolo si muore»

Lettera aperta di un gruppo di ergastolani italiani al presidente brasiliano: «In Italia l’ergastolo è reale. Non estradare Battisti»

Paolo Persichetti

Liberazione 26 marzo 2009

Un gruppo di ergastolani reduci dallo sciopero della fame contro l’ergastolo, che per tre mesi e mezzo ha coinvolto a staffetta tutte le prigioni italiane, ha indirizzato una lettera aperta al presidente del Brasile, Ignazio Lula da Silva. Lo rende noto l’associazione Liberarsi che ieri ne ha diffuso il contenuto. Con questo gesto quei detenuti che sul loro certificato penale trovano la dicitura “fine pena mai” hanno voluto esprimere apprezzamento per un Paese che ha abolito l’ergastolo dal proprio codice penale. Nel testo, gli autori criticano senza mezzi termini quei giornali e soprattutto quegli esponenti politici che, ignorando «la storia, le storie e persino gli atti processuali», hanno per settimane ingiustamente raffigurato il Brasile come un postribolo da «terzo mondo, privo di una solida cultura giuridica, terra che custodisce latitanti e criminali internazionali». Un Paese che all’uscita degli anni bui della dittatura militare ha saputo fare quel salto di civiltà giuridica che mancò all’Italia dopo il fascismo. Dopo aver letto che una delle ragioni che potrebbero condurre le autorità brasiliane a rifiutare l’estradizione verso l’Italia di Cesare Battisti, l’ex militante della sinistra armata degli anni 70 che ha ottenuto lo status di rifugiato politico dal ministro della Giustizia Genro, viene proprio dal fatto che il Brasile rifiuta l’ergastolo, e senza per questo «voler entrare nel merito della vicenda», gli autori del testo ringraziano Lula «per aver ribadito un principio giuridico internazionale che dovrebbe essere un atto politico essenziale nella storia sociale dei popoli». In Italia – spiegano ancora gli autori della lettera – uno sciopero della fame che ha coinvolto migliaia di persone contro una pena socialmente eliminativa, «figlia giuridica della pena di morte, non fa notizia come il fatto che siano stati depositati alla corte di Strasburgo ben 739 ricorsi contro l’ergastolo». Per tutta risposta, invece, si stanno approntando «leggi che prevedono carcere e pene severe per immigrati, tossicodipendenti, prostitute e persino giornalisti». Tanto che le condizioni di sovraffollamento delle carceri italiane «come ha dichiarato in questi giorni lo stesso ministro della Giustizia, non rispettano il dettato costituzionale né il diritto alla dignità». Con questa iniziativa gli ergastolani vogliono far sapere alla comunità internazionale che in Italia la pena dell’ergastolo resta a tutti gli effetti una pena perpetua. La concessione della liberazione condizionale dopo il ventiseiesimo anno di reclusione, evocata ipocritamente dai nostri rappresentanti istituzionali, resta solo un’ipotesi sottomessa alla discrezionalità della magistratura e sempre più impraticabile a causa di una giurisprudenza restrittiva. Mentre la legge esclude, di fatto, tutti quelli che sono sottoposti al carcere duro. Di ergastolo si muore. Lula ora lo sa.

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