Il Berlinguer falso alla mostra del Berlinguer vero

All’ex mattatoio di Testaccio a Roma si è tenuta la mostra organizzata dall’associazione Enrico Berlinguer, patrocinata dall’assessorato alla cultura del comune e dalla Fondazione Gramsci

Era lì in bella mostra, esposto su un enorme tavolo che raccoglieva un centinaio di pubblicazioni dedicate a lui, Enrico Berlinguer, segretario del partito comunista italiano dal 1972 al 1984. Si tratta di un famoso falso editoriale, apparso nel 1977, a nome di Enrico Berlinguer, ma preso ancora oggi per vero, tanto da trovarsi mischiato con gli altri volumi scritti o dedicati al segretario del Pci. Titolo: Lettere agli eretici. Epistolario con i dirigenti della nuova sinistra italiana, Einaudi, Nuovo Politecnico 99, Febbraio 1977, 120 pagine. Testo scritto, poi si scoprì, da un situazionista torinese, PierFranco Ghisleni che sbeffeggiò in questo modo il segretario del più grande partito comunista d’Occidente, l’ultimo dei grandi segretari indiscussi, magnetici, amati dal popolo comunista. Crollato sul campo di battaglia, colpito da un’emorragia celebrale devastante durante un comizio a Padova, di fronte alla folla che gli chiedeva di smettere mentre bianco in volto, sofferente e con i conati di vomito si aggrappava al microfono per concludere il suo discorso. Una morte tragica ed eroica davanti al suo popolo che lo trasformò in un mito e portò oltre un milione di persone in strada al suo corteo funebre e il Pci a scavalcare per la prima ed unica volta la Dc alle elezioni, anche se erano solo le europee. Tutto questo era raccontato nella esposizione, ricca di materiali documentali e iconografici, organizzata dall’associazione amici di Berlinguer ma pensata soprattutto per i nostalgici.

Ma torniamo al noto falso che colpisce ancora e confonde chi se lo trova tra le mani, come gli espositori stessi. Perché di falsi esposti ve ne erano altri, ma stavolta presentati come tali: il falso numero dell’Unità del lunedì pubblicato dal Male, la micidiale rivista satirica fondata nel 1977 da Pino Zac con Vincino, Angese, Jacopo Fo, Pazienza, Pasquini, Saviane, Perini, il grafico Fascioli e Vincenzo Sparagna, col titolo a caratteri cubitali, «Basta con la DC», che tanti militanti fece sognare e sperare. Un successo di vendite enorme che la diceva lunga su quanto fosse poco amato dalla base del partito il patto scellerato con la Democrazia cristiana, quel «compromesso storico» pensato proprio da Berlinguer, rivelatosi una fallimentare strategia che lo stesso segretario provò a mettere nel cassetto all’inizio degli anni 80 senza riuscire veramente a convincere buona parte dell’apparato del suo partito, ormai non più partito di lotta ma solo di sottogoverno, adagiato sulle comode poltrone delle giunte degli enti locali: comuni, province, regioni e municipalizzate. L’ex ambasciatore Usa, Gardner, scrisse nelle sue memorie che nel 1979 lunga era la fila di parlamentari a amministratori del Pci che attendevano davanti all’ingresso della sua residenza a Villa Taverna. Il console statunitense di Milano dedicò a quel Pci un lungo rapporto realizzato dopo una serie di incontri con l’apparato intermedio, il ventre del partito. Inchiesta realizzata per accertare quanto fosse veritiero e profondo il mutamento antropologico che aveva attraversato quella forza politica.

La lettera agli eretici, scritta dal falso Berlinguer fu un abile e gustoso détournement che incarnava lo spirito irriverente del movimento del ’77, sbeffeggiava il Pci definito «partito dell’intelligenza cinica» ma anche esponenti politici e intellettuali in polemica con Botteghe oscure e a cui sono indirizzate le lettere. Ci sono un po’ tutti i filoni politici, culturali che animavano il conflitto politico all’estrema sinistra nel 1977: i radicali, con Marco Pannella a cui è dedicato il primo capitolo, seguono Adele Faccio e Angelo Pezzana, quest’ultimo tra i fondatori del movimento omosessuale Fuori, quindi è il turno del critico cinematografico Goffredo Fofi, segue un esponente della lotta armata in carcere, definito mister X, Andrea Valcarenghi di Re nudo, Antonio Negri per l’Autonomia e gli Indiani metropolitani per i creativi, vittime della loro stessa irriverenza. Un universo variegato che all’epoca agitava la spazio sociale a sinistra del Pci, suscitando incubi, tormenti e dolori di pancia ai suoi dirigenti.

Si scatenò subito una caccia all’autore misterioso, Einaudi presentò denuncia e Giulio Bollati che all’epoca lavorava in Einaudi replicò su Tuttolibri dando del reazionario all’autore senza nome, «Identikit di un falsario». La risposta di Ghisleni apparve in un libricino, Il Caso Berlinguer e la Casa Einaudi. Corrispondenza recente, a firma di Gianfranco Sanguinetti, peraltro indicato da Bollati come uno dei sospetti autori del falso (lo trovi qui).
Questa storia avrebbe meritato un pannello dedicato all’interno della mostra. Ma così non è stato. D’altronde perché stupirsene in un’epoca che ci ha abituato a non distinguere più il falso dal vero (vedi qui un esempio preso da un sito ipercomplottista caduto nel tranello. Ovvio, altrimenti non sarebbe stato complottista, www.iskrae.eu).

Vincenzo Ruggiero, l’anticriminologia come sapere

La morte di Vincenzo Ruggiero, «anticriminologo» come amava definirsi, lascia un vuoto importante. La collaborazione col bollettino Senza galere e la rivista Controinformazione l’avevano spinto a lasciare l’Italia e approdare a Londra, per tenersi alla larga dalle inchieste giudiziarie che a metà degli anni 70 colpirono anche gli organi legali di informazione e dibattito, ritenuti dai magistrati «strutture di cerniera» tra le formazioni armate e il resto del movimento rivoluzionario di quegli anni. 
A Londra era approdato alla Middlesex University come professore di sociologia. Con Ermanno Gallo, anche lui tra i redattori incarcerati di Controinformazione, aveva dato vita negli anni 80 a un fertile sodalizio intellettuale, con volumi come Gli ostelli dello sciamano, alle radice della tossicomania, edizioni senza galere 1980, Il carcere in Europa, Bertani 1983 e ancora Il carcere immateriale. La detenzione come fabbrica di handicap, uscito nel 1989 per le edizioni Sonda.


L’avevo conosciuto a Parigi verso la fine degli anni 90 a casa di Roberto Silvi, anche lui esiliato e ormai malato, suo compagno nell’impresa di Senza galere. Quando poteva Vincenzo faceva tappa volentieri a casa di Roberto per ritrovare il suo amico e rivedere gli altri compagni dell’esilio. Era ormai un professore affermato e dell’esilio di quei militanti fuggiti alla repressione dell’emergenza giudiziaria degli anni 70 scrisse con parole da studioso, “Condannati alla normalità”.
Autore di pubblicazioni importanti nelle quali esercitava una critica spietata del pensiero criminologico, ritenuto una disciplina «ormai esausta» e per questo alla disperata ricerca di nuovi temi per rilanciarsi, come la «vittimologia», Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, edizioni gruppo Abele 2011. Ha scritto pagine decisive sull’economia come crimine, non sui crimini economici come la vulgata corrente etichetta l’economia illegale, ma sull’economia legale, l’etica degli affari, «le condotte di routine dei mercati che sono suscettibili di ogni tipo di irruzione illegittima». Un filone di pensiero fecondo che produsse numerosi lavori: Economie sporche, Bollati Boringhieri 1996; Dei delitti dei deboli e dei potenti. Esercizi di anticriminologia, Bollati Boringhieri 1999; I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico, Feltrinelli 2013; Perché i potenti delinquono, Feltrinelli 2015. Lavori nei quali Ruggiero ribalta completamente lo sguardo sul pensiero economico, dimostrando come ciascuna delle grandi scuole economiche giustifica, se non addirittura incoraggi, i delitti dei potenti che sono il risultato dell’iniziativa economica.
Ricordo con nostalgia le conversazioni avute con lui. Gli avevo chiesto di essere uno dei miei relatori per il dottorato sui «momenti costituenti», grandi assenti nelle teorie politico-giuridiche. Volevo indagare i momenti di rottura e fondazione nei sistemi politici, pensati quasi sempre nella loro condizione di normalità. Una normalità che rifugge l’inizio. Poi quella tesi non c’è più stata, progetto di studi bruscamente interrotto dalla «riconsegna straordinaria» alle autorità italiane.
Uscito dal carcere non ho più avuto modo di incontrarlo, sono riuscito però una volta a chiedergli un articolo per uno speciale, «Cemerto e castigo», uscito su di Liberazione, quotidiano dove lavoravo durante la semilibertà, L’abolizionismo penale è possibile ora e qui.
Uno dei suoi libri che ho apprezzato di più, forse perché letto in una cella del Mammagialla, è stato Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, il Saggiatore 2003, dove Ruggiero proponeva una rilettura socio-criminologica dei grandi classici dimostrando che non c’era miglior realtà della finzione: attraverso Baudelaire e London raccontava l’emergere dei mercati illeciti e del consumo delle droghe, in Moby Dick si scoprivano i crimini dell’economia, con Twain la corruzione nella città, in Hugo e Mirabeau la realtà del carcere, in Manzoni la modernità della sofferenza legale, i processi inquisitori…
Un’altro suo lavoro importante è stato La violenza politica, uscito per Laterza nel 2006 e Movimenti nella città, Bollati 2000, che propone una visione urbanistica del conflitto: la città come risultato dell’azione collettiva.
Anche se Vincenzo Ruggiero non c’è più, ci restano i suoi libri, per pensare, agire, costruire. Leggeteli!

La scomparsa di Vincenzo Ruggiero, un ricordo di Oreste Scalzone

di Oreste Scalzone

Un nuovo colpo, un altro addìo. Mi sento diminuito dalla perdita di Vincenzo Ruggiero, uomo di critica radicale, puntuale, attiva. Nonché grande amico, e simpaticissimo (che è una preziosa qualità).

Ripercorrere titoli e copertine dei suoi libri, rimette di fronte a un lavoro straordinario, di primissima qualità, a un prezioso tesoro per un’attività teorico-pratica non certo limitata ad un settore specialistico, ad un comparto disciplinare.

E certo, il rigore della ricerca, la costruzione di questa “anti-criminologia come sapere” con un sí ampio respiro, l’esser stato osservatore sistematico della composizione dei movimenti di lotta del “proletariato extra-legale”, non hanno impedito ad Enzo la levità della festa, l’allegria nelle relazioni umane, la fedeltà a tutte le amicizie tessute nella complicità di un percorso di rivoltoso, sovversivo, cominciata negli ‘anni verdi’, prima di maturare negli anni adolescenti, e mai dismessa. Siamo oggi nell’emozione di questo lutto, e inviamo un abbraccio tenero a Cynthia da Ste Lucia, Barbados, ed alla prole.

Oreste, con Lucia &C

Il pene della Repubblica, il sequestro Dozier e altre storie 

Ancora un articolo di Pino Narducci (il precedente lo potete leggere qui), magistrato e ricercatore, sull’impiego della tortura nell’azione di contrasto ai gruppi armati dell’estrema sinistra nei primissimi anni 80, ospitato sulla rivista di Magistratura democratica. Ho già scritto molto anche se non a sufficienza su questo tema (su questo blog potrete trovare molto materiale). Aggiungo solo una cosa prima di lasciarvi alla lettura di questo articolo: Cesare Di Lenardo, una delle persone di cui si parla in questo testo, miltante delle Brigate rosse arrestato nel blitz che portò alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, selvaggiamente torturato (la foto qui sotto è presa dalla perizia medica che venne svolta durante le indagini), è ancora in carcere nonostante i 43 anni trascorsi.

di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia

«Dovevamo arrestarci l’un con l’altro», www.questionegiustizia.it, 29 gennaio 2024

Nell’appartamento veronese entrano in quattro, travestiti da idraulici. Tengono la donna sotto il tiro di una pistola, la immobilizzano ed escono con l’ostaggio nascosto in un baule, caricandolo su un pulmino che è rimasto in attesa in strada. Poi, via, di gran corsa, verso Padova dove è stata allestita la base in cui il prigioniero resterà per più di 40 giorni[1].

È il 17 dicembre 1981 e, con il sequestro di James Lee Dozier, generale statunitense NATO[2], le Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente realizzano l’azione più spettacolare di una storia iniziata appena pochi mesi prima, dopo la cattura di Mario Moretti[3].

Durante la fase del rapimento uno dei sequestratori parlava uno “slang” americano, così scrivono i giornali dell’epoca, e quindi, lo scenario è quello di una operazione in cui gli attori non possono essere soltanto i brigatisti italiani. Anzi, la foto del sequestrato diffusa dalle BR-PCC è un fotomontaggio e questo vuol dire che Dozier già si trova all’estero, forse dopo aver viaggiato su uno dei tanti TIR che vanno e vengono dall’Austria. I cronisti sono pronti a scommettere che il rapimento è opera di una centrale europea del terrorismo che comprende le BR, la RAF tedesca, l’ETA basca e l’IRA, organizzazioni che si sono incontrate in riunioni sul lago di Garda e in Svizzera. Insomma, un turbinio di improbabili ipotesi e di vere e proprie bufale.

È vero invece che, a Roma, arrivano alcuni agenti CIA e che il Ministero dell’Interno, guidato dal democristiano Virginio Rognoni, seleziona il nucleo di funzionari che dovrà coordinare le indagini nel Veneto: Umberto Improta, Oscar Fioriolli, Salvatore Genova e Luciano De Gregori. 

Nella Questura di Verona, Gaspare De Francisci, il capo dell’UCIGOS (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali), convoca la squadra messa in piedi dal Viminale. L’Italia non può perdere la faccia e, quindi, secondo ordini che vengono dall’alto, per trovare Dozier si potrà usare qualsiasi mezzo, anche le maniere forti. Nessun timore, rassicura De Francisci, perché, se qualcuno resterà invischiato in una storia di violenza, godrà di una sicura copertura, politica ed istituzionale.

Finalmente può partire la caccia ai rapitori del generale e, questa volta, è consentito ogni metodo per estorcere informazioni.

Il giorno dopo arriva a Verona il funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia (il professor De Tormentis secondo la definizione che gli è stata affibbiata da Improta), lo specialista, con la sua squadra dei “cinque dell’Ave Maria”, delle sevizie che servono a far parlare. Ha già torturato, nel maggio ’78, Enrico Triaca, il tipografo brigatista di via Pio Foà a Roma[4] e questa volta, finalmente, può agire senza adottare particolari precauzioni perché la sorte di coloro che saranno arrestati, veri o presunti brigatisti che siano, è stata decisa dall’alto: se non parlano subito, magari dopo schiaffi e pugni, saranno torturati.

Ciocia resta in Veneto solo qualche giorno. Poi corre a Roma dove sono stati arrestati, il 3 gennaio ’82, Stefano Petrella ed Ennio Di Rocco, membri delle BR-Partito Guerriglia, per fare loro quello che ha già fatto a Triaca.

Dozier è tenuto al sicuro in un appartamento, in via Ippolito Pindemonte, all’interno del quale è stata collocata una tenda in cui vive il prigioniero. 

Ma gli uomini del Viminale non hanno alcuna idea del luogo in cui possa trovarsi né della identità dei brigatisti. E le centinaia di telefoni messi sotto controllo non possono certo condurre alla prigione del generale. Non resta che prelevare le persone, interrogarle e, soprattutto, affidarsi, come già faceva l’inquisizione, alle sedute di tortura.

Alla fine di gennaio accade a Nazareno Mantovani che viene interrogato e picchiato per prepararlo alla vera e propria seduta di tortura che è affidata a Ciocia ed alla sua squadra. I poliziotti hanno un luogo appartato per infliggere tormenti. È un villino che è stato preso in affitto dalla questura veronese. Mantovani ci arriva bendato. Ciocia ed i suoi uomini “trattano” Mantovani con acqua e il sale, ma esagerano, tanto che De Francisci interrompe la seduta dopo lo svenimento del prigioniero. 

Paolo Galati mette i poliziotti sulle tracce di una militante. Oscar Fioriolli dirige la perquisizione a casa di Elisabetta Arcangeli senza sapere che dentro ci troverà anche Ruggero Volinia, nome di battaglia “Federico”. È lui che ha guidato il pulmino con dentro Dozier da Verona a Padova.

Separati da un muro, Volinia e Arcangeli si trovano all’ultimo piano della Questura veronese. Ciascuno può sentire l’altro mentre Fioriolli li interroga ed Improta segue la scena. La brigatista, nuda, è legata mentre i poliziotti le tirano i capezzoli con una pinza e le infilano un manganello nella vagina. Dall’altra parte del muro, percuotono Volinia. Lo caricano su una macchina, lo conducono in una chiesa sconsacrata e, sottoposto ad acqua e sale dal gruppo di Ciocia, rivela il luogo in cui si trova Dozier[5].

Il 28 gennaio 1982, verso le 11:00, sette uomini del NOCS (Nucleo Operativo Centrale Sicurezza), le “teste di cuoio” della Polizia italiana, irrompono nell’appartamento di via Pindemonte. Senza difficoltà, immobilizzano i carcerieri di Dozier: Antonio Savasta, Giovanni Ciucci, Cesare Di Lenardo, Emanuela Frascella ed Emilia Libéra. 

I brigatisti vengono messi pancia a terra sul pianerottolo mentre arrivano Genova ed Improta. Sono bendati ed hanno le mani legate dietro la schiena. Rifiutano di rivelare la propria identità ed i nomi di battaglia ed allora giù calci e botte. Qualche poliziotto ritiene sia ancor più efficace camminare sopra i loro corpi. 

Alle due militanti («Sei una mignotta?» urlano i polizotti, «No!», ed allora giù calci e pugni) va ancor peggio. Abbassano la gonna ed i collant di Libéra e Frascella, sferrano calci sul pube e sul sedere, alzano la maglietta delle due donne e tirano i capezzoli del seno.

Su quel pianerottolo gli arrestati restano una infinità di tempo (sicuramente, dietro le porte dei vari piani del grande edificio, tanti ascoltano quello che sta accadendo, ma nessuno ha il coraggio di mettere la testa fuori). Poi, gli agenti NOCS portano i brigatisti nella palazzina del II reparto celere di Padova.

Il senso di impunità è talmente smisurato che il comandante del reparto scrive un ordine di servizio e non esita a mettere nero su bianco le disposizioni che dovranno essere seguite per custodire i sequestratori di Dozier, un documento che prova, prima ancora di qualsiasi testimonianza, quali metodi illegali saranno usati contro gli arrestati.

I cinque detenuti dovranno «essere costantemente legati e bendati», dovranno essere usati tutti gli accorgimenti per «non far avere loro la percezione del luogo in cui si trovano», il personale «non dovrà assolutamente rivolgere loro parola o rispondere a loro domande, tantomeno pronunciare nomi, luoghi e gradi che possano dar luogo ad eventuali identificazioni», i detenuti potranno «essere accompagnati eccezionalmente» in bagno, «non dovrà essere esaudita nessun’altra richiesta se non previa superiore opportuna autorizzazione» e «si dovrà accertare da parte del personale preposto che i legacci e i bendaggi siano sempre ben messi». 

L’estensore del piccolo manuale di istruzioni per annichilire e spezzare il detenuto non dimentica di raccomandare che «il servizio ovviamente riveste natura di massima riservatezza»[6]

La giornata del 28 gennaio è frenetica e la tortura inizia a produrre i suoi risultati. 

«Quando sei entrata nelle BR? Chi ha partecipato al sequestro? Chi è Sara?». Frascella non risponde alle domande, così chi la interroga le alza la gonna, le cala le mutande e le strappa i peli del pube. La brigatista inizia a cedere e fornisce qualche informazione. 

Escono i “cattivi” e nella stanza entrano i “buoni”. «Dai collabora, ti conviene», continuano a ripeterle. Tornano i “cattivi” e riprendono a strapparle i peli del pube ed a stringergli i capezzoli. La fanno appoggiare a un tavolo e le dicono che le infileranno una gamba della sedia nella vagina. Frascella cede e parla di “Federico”. Bendata e legata su una sedia, la militante non può dormire perché appena si appisola qualcuno corre a svegliarla. È notte fonda quando tornano i “buoni” e Frascella, che ha sentito chiaramente le grida di Savasta e Di Lenardo, vuota il sacco. 

In un’altra stanza, Emilia Libéra è costretta a restare in ginocchio, sul pavimento, per alcune ore. Un “premuroso” poliziotto che la sorveglia le dice che i suoi colleghi, nella stanza accanto, stanno violentando la Frascella. Poi, bendata, viene messa su una sedia. Arriva il “cattivo” e le chiede dove possono trovare Sara, il nome di battaglia di Barbara Balzerani. 

Libéra non apre bocca e allora giù pugni e schiaffi, capezzoli schiacciati e calci sul pube. Le tolgono pantaloni e mutande e la fanno chinare su un tavolo. Il “cattivo” annuncia che le metterà un bastone nella vagina e, aggiunge, lei deve crederci perché lui ha già “trattato” Di Rocco e Petrella. Libéra sa che con i due brigatisti hanno usato l’acqua e il sale e teme che, da un momento all’altro, tocchi a lei la stessa sorte.

Anche Savasta, bendato e legato su una sedia, viene colpito su tutto il corpo ed i seviziatori si divertono a spegnergli sigarette sulle mani. Sente le grida di Libéra e Frascella, ma non la voce di Ciucci che, dicono i poliziotti, è già morto. Poi arrivano i «giustizieri» (così si presentano a Savasta) che puntano la pistola alla tempia del brigatista e minacciano di ucciderlo. Savasta cerca di fermarli: «Io sto già parlando». Ma a loro non interessa, sono giustizieri[7].

I “cattivi” vanno via ed i “buoni” lo portano in un’altra stanza e, dopo avergli chiesto se vuole nominare un avvocato, gli fanno firmare un verbale.

Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci (lui è veramente malridotto perché non riesce a camminare e gira seduto su una sedia da ufficio) vengono messi insieme in una stanza. Discutono e decidono tutti insieme di saltare il fosso e collaborare.  

E così, già quella notte, forniscono le prime informazioni. Quelle di Savasta sono molto importanti perché lui conosce la base di via Verga, a Milano, dove più volte si è riunita la Direzione strategica. 

Di Lenardo non cede ed è l’unico che non si piega alla tortura. Non si può dire che con lui non siano stati chiari: «Nessuno sa del tuo arresto, sei solo un sequestrato e possiamo fare di te quello che vogliamo». Ma il brigatista si ostina a non parlare, si dichiara prigioniero politico ed allora occorre ricorrere a tormenti più sofisticati. 

I poliziotti si danno il cambio per colpirlo sulla pianta dei piedi, ma non disdegnano di sbattergli la testa contro il muro. Lo fanno distendere per terra, nudo, per ricevere scariche elettriche sul pene e sui testicoli, mentre altri gli danno calci ai fianchi e gli comprimono la testa. Poi pugni e schiaffi al volto, colpi sul naso, compressione delle pupille, schiacciamento della testa con i piedi, bruciatura delle mani, tagli al polpaccio. Con i calci, gli rompono il timpano dell’orecchio sinistro. 

A Di Lenardo non viene risparmiato nulla, ma, se i suoi compagni, nella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, già firmano i verbali di dichiarazioni spontanee, il brigatista è irremovibile. Ed allora bisogna fare in fretta perché tra qualche ora si presenterà in caserma il sostituto procuratore veronese per gli interrogatori. I poliziotti sono delusi. Nella base milanese di via Verga, quella indicata da Savasta, non hanno trovato nessuno. Forse, Di Lenardo può fornire altre notizie. Magari, può far arrestare la Balzerani. «Di Lenardo deve parlare». 

Gli tolgono le manette dai polsi e le mettono ai piedi, gli legano le mani con pezzi di stoffa, gli stringono la benda sugli occhi, chiudono la bocca con un’altra benda e lo mettono nel bagagliaio di un’auto si mette in movimento seguita da un altro veicolo. Dopo un giro di mezz’ora le auto si fermano e due poliziotti trascinano il brigatista tenendolo per le ascelle. Di Lenardo comprende che si trova su un prato, sicuramente in una una campagna nei dintorni di Padova. 

Lo fanno inginocchiare e lo pestano. Solito copione: il “cattivo” arrabbiato si alterna al “buono” che modera gli eccessi. Poi una voce, più forte delle altre: «Adesso ti spariamo». Parte un colpo di pistola. Non è morto!!! Nemmeno la finta esecuzione (el simulacro de fusilamiento, tanto in voga in America latina) fa crollare il detenuto[8]

Di nuovo botte. Lo riportano in caserma. Nudo, steso su un tavolo con la testa penzoloni, braccia e gambe legate. Gli riempiono la bocca di sale, gli tappano il naso e giù acqua in grande quantità. Una pausa e poi si riprende. Altra pausa e si riprende. Di Lenardo non respira, sta soffocando, il corpo trema, grida. Si fermano. Mentre viene torturato il brigatista sente qualcuno dire «Genova». Pensa a un poliziotto, ad uno di quelli che, nei giorni precedenti, gli hanno parlato delle operazioni anti BR che hanno fatto nel capoluogo ligure. Si sbaglia. Alcuni giorni dopo, un funzionario cerca di convincerlo a collaborare. Entra nella stanza un poliziotto e dice «dottor Genova, al telefono». Di Lenardo allora comprende: nella stanza, mentre veniva torturato, c’era il commissario Salvatore Genova[9].

I brigatisti non vengono portati in carcere ed il sostituto procuratore veronese li interroga, il 1° e il 2 febbraio, negli uffici della celere. Savasta riempie pagine e pagine di verbale. Così fanno anche Libéra, Ciucci e Frascella. Buon ultimo, nel pomeriggio del 2 febbraio, Cesare Di Lenardo si siede davanti al magistrato. Lui non ha nulla da dire, vuole solo denunciare le sevizie che ha subito. Lo farà di nuovo, il 28 febbraio, con un dettagliato memoriale spedito alla Procura ed al Presidente del Tribunale di Verona.  

Il sistema generalizzato delle violenze sugli arrestati per fatti di terrorismo è cresciuto così a dismisura che, proprio nel febbraio-marzo ’82, diventa incontrollabile e non è più possibile tenerlo segreto.

Pier Vittorio Buffa, de “L’Espresso”, e Luca Villoresi, di “La Repubblica”, pubblicano due articoli grazie a notizie fornite da fonti interne alla Polizia che non vogliono assecondare la linea oltranzista dettata dal Viminale. Le pratiche della tortura sono diffuse e vanno oltre i confini delle province di Padova e Verona. A Mestre, nel II distretto di Polizia, hanno usato gli stessi mezzi. La stessa cosa è avvenuta anche a Roma e Viterbo. A Villoresi, un anonimo investigatore veneto sostanzialmente ammette che la tortura, in alcuni casi, è stata usata e rivendica il risultato di aver «ripulito il Veneto»[10].  

Si moltiplicano le denunce, ma Virginio Rognoni risponde seccamente: «…sulle pretese violenze cui sarebbero stati sottoposti i terroristi recentemente arrestati a Padova e nel Veneto posso dire che sono totalmente false».

Al Ministro dell’Interno risponde anche Magistratura Democratica, l’unico gruppo di giudici che affronta, senza reticenze, il tema dei metodi con i quali viene praticato il contrasto al terrorismo. MD giudica «non sufficienti e definitive le risposte date dal governo», vede distintamente «il pericolo di cedimenti e tolleranze per simili degenerazioni», chiede di «rispettare i termini di legge per presentare l’arrestato al magistrato» e sollecita i magistrati a «fare indagini ed accertamenti medico-legali sulle violenze denunciate». 

Intanto, il processo veronese al gruppo dirigente e ai militanti delle BR-PCC va avanti senza particolari sussulti. Sfilano davanti ai giudici tutti i brigatisti che hanno fatto la scelta di collaborare ed i funzionari di Polizia che li hanno arrestati. Quando arriva il suo turno, Umberto Improta racconta che Ruggero Volinia “Federico”, appena arrestato, subito ha detto di voler collaborare, ha condotto i poliziotti ad un covo a Mestre e poi ha fornito tutte le informazioni sul covo di via Pindemonte. E giunti qui, continua Improta, l’inarrestabile onda del pentitismo ha prodotto altri risultati. Pensate che, aggiunge il funzionario UCIGOS, terminata l’irruzione alle 11:20, Antonio Savasta, appena 15 minuti dopo, già esclamava: «Vi dirò tutto!».

Le uniche voci dissonanti sono quelle di Cesare Di Lenardo e di Alberta Biliato che, presentandosi come prigioniera politica, sostiene che le dichiarazioni che lei ha fatto al magistrato, dopo l’arresto a Treviso, sono solo il frutto delle torture che ha subito.  

Poi un colpo di scena, l’unico del processo. Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci – che sino a quel momento hanno fatto ogni sorta di rivelazione, ma nulla hanno detto sulle violenze – consegnano un memoriale al Tribunale. Non fanno marcia indietro rispetto alla scelta del “pentimento”, ma assicurano di non aver avuto favori perché «il trattamento riservatoci dopo l’arresto è stato per noi tutti identico a quello che altri compagni hanno denunciato». E proseguono: «Quattro lunghissimi giorni che non ti fanno restare dentro neanche la dignità di disprezzare chi ti ha torturato, che hanno un fine ben più ambizioso delle informazioni immediatamente estorte, poiché perseguono l’annientamento della tua identità politica». Così, mentre il processo veronese si avvia alle batture finali, per la prima volta anche i brigatisti “pentiti” denunciano le torture[11].   

A Giovanni Palombarini, segretario di Magistratura democratica, che sostiene che la risposta di Rognoni «non è certo stata tranquillizzante ed esaustiva, non dissipa i sospetti, né quieta le voci»[12], ed ai tanti che denunciano la barbarie che si sta consumando sembra quasi indirettamente rispondere il sostituto procuratore che, al termine del processo veronese ai brigatisti, durante la requisitoria, rivolge «un grazie motivato alla polizia che ha lavorato nella più stretta legalità» perché «..mai ho ricevuto lamentele, non dico denunce, di comportamenti scorretti, non dico di abusi…» sino alla scoperta del covo padovano a cui si è arrivati nella “più piena legalità”, grazie esclusivamente alle «indagini sagaci della polizia giudiziaria».

Proprio mentre il magistrato pronuncia queste parole alla Camera dei deputati si svolge un dibattito dai contenuti molto meno rassicuranti. Il Ministro dell’Interno, per la seconda volta, risponde alle tante interrogazioni sul tema delle violenze. I parlamentari citano decine casi accaduti in tutta Italia, ma, soprattutto, le denunce delineano i profili di un sistema diffuso che ha travolto le regole dello stato di diritto ed ha generato una involuzione autoritaria e repressiva[13].  

E’ il sistema nel quale maturano le torture: diventa prassi comune mettere un cappuccio all’arrestato oppure bendarlo; gli interrogatori dei sospettati avvengono in luoghi diversi dagli uffici delle forze di polizia per creare un effetto di “disorientamento”; i familiari, per giorni, ignorano la sorte della persona fermata ed invano, al pari degli avvocati, la cercano nelle carceri; si esercitano pressioni indebite sulle famiglie affinché convincano gli arrestati a collaborare; ai detenuti si chiede, insistentemente, di rinunciare a nominare un difensore di fiducia e di affidarsi al difensore di ufficio; gli arrestati non vengono portati in carcere, ma sono trattenuti presso commissariati, questure, caserme; gli interrogatori del pubblico ministero avvengono molto oltre i termini stabiliti dalla legge, in alcuni casi anche 9/10 giorni dopo l’arresto; vengono denunciati anche casi di illegale “patteggiamento” nei quali si chiede all’interrogato di non denunciare le violenze subite in cambio di favori che riceverà.

Ma il governo non fa nessuna apertura e Virginio Rognoni, anzi, alza il tiro e sostiene che i terroristi, non riuscendo ad arginare il fenomeno dilagante del pentitismo, hanno messo in piedi una vera e propria campagna diffamatoria per colpire la credibilità delle forze di polizia.

I poliziotti democratici di Venezia organizzati nel SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia) intervengono a gamba tesa nella polemica politica e, con un comunicato diffuso il 10 marzo ’82, sostengono, sulle violenze, che «tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese».  

Anche le Brigate Rosse fanno i conti con un fenomeno, inedito per dimensioni e radicalità, che sta sconvolgendo la vita della organizzazione. Il 18 marzo 1982 diffondono un lunghissimo comunicato nel quale lanciano la parola d’ordine della «ritirata strategica» sviluppando una articolata analisi della pratica della tortura («la tortura misura un nuovo livello di scontro») e degli effetti che sta producendo.  

Il gruppo di Magistratura Democratica nel Consiglio Superiore della Magistratura chiede che l’organo di autogoverno dei giudici metta all’ordine del giorno del plenum la discussione su quella che si sta profilando come una vera e propria emergenza democratica[14]

Il magistrato inquirente di Verona trasmette gli atti alla procura padovana, competente per le violenze accadute in via Pindemonte e nella caserma della celere. 

Vittorio Borraccetti, sostituto procuratore padovano, ascolta tutti i brigatisti, scova testimoni anche tra i poliziotti e, attraverso altri accertamenti medici, dimostra che le violenze non sono una invenzione.   

Nel giugno ’82, il giudice istruttore Mario Fabiani firma i mandati di cattura contro alcuni tra i responsabili di quei fatti, tra i quali Salvatore Genova, vicedirigente la Digos genovese. Le accuse sono di concorso in sequestro di persona, violenza privata e lesioni personali.

Scatta istantanea la solidarietà agli arrestati e monta la rabbia contro i magistrati.

Virginio Rognoni esprime «perplessità ed amarezza» per i provvedimenti, mentre il Questore di Genova telegrafa al Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, manifestando fiducia nella condotta tenuta del commissario arrestato. Nei locali della Questura di Roma si tiene una assemblea permanente dei poliziotti che non escludono di organizzare altre clamorose iniziative. «Se volevano portarci all’esasperazione, ci sono riusciti…nemmeno ad alcuni accusati per banda armata è stato riservato lo stesso trattamento», tuona un anonimo dirigente UCIGOS al giornalista de “l’Unità” che lo avvicina.

Il 5 luglio ’83, in un clima apertamente ostile ai magistrati, si apre il processo padovano mentre un gruppo di poliziotti, solidali con i colleghi imputati, presidia l’ingresso del Tribunale. Salvatore Genova non può essere giudicato perché è stato appena eletto, nella fila del PSDI, nelle elezioni politiche generali del 26 giugno ed occorre attendere l’autorizzazione a procedere della Camera dei deputati che, tre anni più tardi, nel 1986, rifiuta di concederla. Nella udienza dell’8 giugno, il Capitano Lucio De Santis viene arrestato in aula per falsa testimonianza e condannato. Depongono tutti i brigatisti che descrivono le violenze patite, i medici che hanno osservato i segni lasciati dalle torture e i testimoni che confermano l’utilizzo di metodi illegali. 

Un quadro impressionante, alternativo a quello offerto dal testimone Umberto Improta che, in udienza, racconta una storia diversa, cioè di come nacque, nella palazzina della celere, un rapporto cameratesco tra poliziotti carcerieri e brigatisti carcerati: «…il rapporto tra personale UCIGOS, i NOCS e gli arrestati era un rapporto ottimo, di piena collaborazione, addirittura affettuoso…»[15].

Ma i giudici non credono ai poliziotti ed ai funzionari dell’UCIGOS e il 15 luglio 1983, il Presidente del collegio, Francesco Aliprandi, legge il dispositivo della sentenza con la quale gli imputati vengono condannati per il reato di abuso di autorità contro arrestati[16]

I brigatisti e i militanti di altre formazioni picchiati e torturati, durante e dopo il sequestro Dozier, furono moltissimi e, dissoltosi il fumo della retorica che accompagna il plauso ed i riconoscimenti ai liberatori del generale statunitense, emergono i fatti crudi di una operazione nella quale si consumarono violenze che servirono a carpire informazioni senza le quali, come ha francamente riconosciuto Salvatore Genova, quel risultato non sarebbe mai stato raggiunto. Anzi, molte di queste violenze, in realtà, non sortirono nemmeno questo effetto visto che tanti episodi avvennero quando Dozier era già libero e rappresentarono, così, una delle cause scatenanti la scelta di collaborazione assunta dai brigatisti mentre erano in balia dei torturatori. 

Quella padovana è l’unica sentenza degli anni ‘80 che riconosce la responsabilità di pubblici ufficiali per fatti di violenza commessi contro arrestati per vicende di terrorismo. Le decine di denunce fatte da altri inquisiti non producono altro che archiviazioni perché sono ignoti gli autori delle violenze[17].

Tra il 2007 e il 2012, il commissario Salvatore “Rino” Genova decide di raccontare ai giornalisti Matteo Indice e Pier Vittorio Buffa cosa è realmente accaduto durante la stagione di lotta al terrorismo. Descrive le torture, confessa il suo ruolo e quello dei suoi colleghi (De Francisci, Improta, Fioriolli, Ciocia) nell’uso dei metodi illegali e conferma che furono i vertici del Viminale ad impartire la linea della tortura[18]. A Buffa, laconicamente dice: «…Non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro. Questo dovevamo fare…»[19].

Le parole del commissario non scatenano la reazione veemente dei vertici istituzionali. Certo, quelli tirati direttamente in causa replicano che si tratta di fantasie, ma anche nel fronte di quelli che sostengono che mai ci furono violenze sui brigatisti si aprono alcune crepe, con ammissioni, a volte, sorprendenti. È il caso di Giordano Fainelli, ex ispettore capo della Digos veronese, che sostiene che, in realtà, Ruggero Volinia trattò la sua confessione in cambio della immunità per Elisabetta Arcangeli e di una sostanziosa somma di denaro, superiore a quella consegnata a Paolo Galati che parlò dopo aver ricevuto circa 40 milioni e la promessa di un trattamento favorevole per il fratello Michele, brigatista che già si trovava in carcere[20].

Ma Fainelli, che nega che Volinia sia stato torturato, ammette poi che la notte del 26 gennaio ’82, insieme ad Umberto Improta e altri colleghi, condusse Ruggero Volinia in un villino in un residence in cui c’era anche Nicola Ciocia. Non assistette a torture, ma non esclude che «l’euforia collettiva portò qualcuno ad andare oltre le righe»[21].      

A queste vicende fa riferimento Giuliano Amato intervenendo, a sorpresa, sul tema. E non usa un linguaggio paludato: la classe politica «aveva coperto il ricorso a metodi e strumenti ai margini della legalità…quando non extralegali…vi fu il ricorso a forme di pressione fisica e psicologica su alcune migliaia di arrestati e detenuti che, nel caso dei primi, sembra siano talvolta arrivate, malgrado le smentite, a toccare la tortura». La magistratura non è senza colpe perché «se pochissimi magistrati seppero del water boarding e pochi dei pestaggi degli arrestati, diverso è il caso dei trattamenti speciali dei detenuti e della possibilità di usare il carcere come strumento di pressione nei confronti di categorie di persone ritenute particolarmente indegne, che divennero pratiche abbastanza diffuse negli anni Ottanta»[22].  

Nemmeno le inusuali rivelazioni di Giuliano Amato sgretolano il muro del silenzio eretto 40 anni fa. Tace la classe politica della prima Repubblica, tacciono i vertici del Viminale e della Polizia di stato, resta silenziosa la magistratura non meno dei giornalisti che quelle inchieste seguirono, celebrando i fasti di uno Stato democratico che prevaleva sulle formazioni eversive sempre rispettando le regole del diritto.

Insomma, un’Italia reticente (reticente proprio nel senso strettamente giuridico «di chi tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti») che non ha ancora trovato il coraggio di discutere, senza infingimenti, dei metodi che vennero impiegati per sconfiggere le organizzazioni della lotta armata, anche di quelli usati durante le indagini in cui raffinati investigatori «cercavano Dozier dentro la vagina di una brigatista».     

[1] Il nucleo che, con vari ruoli, sequestrò e trasportò Dozier a Padova era composto da Antonio Savasta, Pietro Vanzi, Marcello Capuano, Cesare Di Lenardo, Emilia Libéra e Alberta Biliato. Una avvincente ricostruzione della vicenda Dozier e delle torture inflitte nella fase della investigazione è contenuta nella docu-serie Sky Original Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, 2022. 

[2] Dozier, al momento del sequestro, era sottocapo di stato maggiore addetto al Comando delle forze terrestri NATO nell’Europa meridionale.

[3] Alla fine del 1980, nella organizzazione BR matura la rottura definitiva con la colonna milanese “Walter Alasia” che viene espulsa nel dicembre di quell’anno. Mario Moretti viene arrestato a Milano il 4 aprile 1981. Nello stesso anno, il Fronte carceri e la colonna napoletana danno vita alle BR-Partito Guerriglia, organizzazione che fa capo a Giovanni Senzani. Infine, nell’autunno 1981, si costituiscono le BR-Partito Comunista Combattente, fortemente radicate nella colonna romana, in quella genovese ed in quella veneta (la colonna Annamaria Ludmann-Cecilia) che realizza il sequestro Dozier. 

[4] Enrico Triaca è il protagonista del documentario di Stefano Pasetto Il Tipografo, 2022, vincitore del premio quale miglior lungometraggio all’8° Festival internazionale del documentario Visioni dal Mondo. Sulla vicenda Triaca, vedi dell’autore I tormenti e la calunnia” pubblicato su www.questionegiustizia.it, 12 luglio 2023.

[5] La dettagliata descrizione delle torture inflitte a Nazareno Mantovani, Ruggero Volinia ed Elisabetta Arcangeli è contenuta nella testimonianza resa da Salvatore Genova al giornalista Pier Vittorio Buffa e ad altri organi di informazione. 

[6] L’ordine di servizio del comandante del II reparto celere disciplinava esso stesso una forma di tortura sui prigionieri o, quantomeno, una pratica di trattamento inumano e degradante: bendati, legati, tenuti costantemente al buio e senza avere la possibilità, per diversi giorni, di avere la percezione del luogo in cui si trovavano e della identità di coloro che li interrogavano, i brigatisti furono sottoposti alla “deprivazione sensoriale”. Inoltre, nel processo padovano, venne provato che i poliziotti usarono costantemente anche il metodo della privazione del sonno. A questi mezzi aveva fatto ampio ricorso l’esercito inglese in Irlanda, nei primi anni ’70, contro i detenuti appartenenti all’IRA (Irish Republican Army). Già bollato dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo come pratica di tortura, in seguito la Corte europea dei diritti dell’uomo sostenne che il metodo della “deprivazione sensoriale” costituiva una pratica di trattamento inumano e degradante. 

[7] Quasi certamente si tratta dello stesso gruppo di poliziotti della celere padovana che, secondo le successive rivelazioni di Salvatore Genova, si autodefiniva “Guerrieri della notte”. 

[8] Intervistati per la docu-serie Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, gli ex poliziotti Danilo Amore e Carmelo Di Janni hanno riconosciuto che il racconto di Cesare Di Lenardo sulla finta fucilazione era vero. 

[9] I racconti di Savasta, Di Lenardo, Frascella, Libéra sulle violenze subite sono riportati, integralmente, nella sentenza del Tribunale di Padova del 15 luglio 1983. 

[10] L’articolo di Pier Vittorio Buffa dal titolo Il rullo confessore venne pubblicato su L’Espresso del 28 febbraio 1982. Quello di Luca Villoresi intitolato Ma le torture ci sono state? comparve sull’edizione di La Repubblica del 18 marzo 1982. I due giornalisti vennero arrestati per ordine della magistratura veneziana perché rifiutarono di rivelare l’identità delle loro fonti. L’articolo di Buffa contiene anche una elencazione di altre vicende di violenza su arrestati per fatti di terrorismo: Massimiliano Corsi, Stefano Petrella, Ennio Di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai e Gianfranco Fornoni. 

[11] I giudici veronesi, con la sentenza emessa il 25 marzo 1982, condannarono gli ideatori ed esecutori del sequestro Dozier: Francesco Lo Bianco, Barbara Balzerani, Umberto Catabiani, Vittorio Antonini, Luigi Novelli, Remo Pancelli, Marcello Capuano, Pietro Vanzi, Cesare Di Lenardo, Alberta Biliato, Ruggero Volinia, Antonio Savasta, Emilia Libéra, Giovanni Ciucci, Emanuela Frascella, Armando Lanza e Roberto Zanca. 

[12] Intervista di Giovanni Palombarini a Il Manifesto dell’11 marzo 1982. 

[13] Nella seduta del 22 marzo 1982 della Camera dei deputati, diversi parlamentari fecero riferimento ad una miriade di fatti di violenza praticati su arrestati e detenuti. I casi citati, oltre ovviamente quelli veneti, riguardavano gli arresti di Pietro Mutti, Anna Rita Marino, Giuseppe De Biase, Gianni Tonello, Giorgio Benfenati e Paola Maturi.

[14] La richiesta venne rivolta al Vicepresidente Giancarlo De Carolis da Salvatore Senese, Franco Ippolito ed Edmondo Bruti Liberati, rappresentanti di Magistratura Democratica nel CSM. 

[15] Sulle testimonianze di De Francisci e Improta, i giudici padovani scrissero: «con le loro risposte evasive e con il loro comportamento omissivo circa l’obbligo di indagare…hanno dimostrato il loro preciso intento di difendere gli imputati e il loro operato».

[16] La sentenza del Tribunale di Padova, Pres. Aliprandi, emessa il 15 luglio 1983, è pubblicata su Il Foro Italiano, maggio 1984, vol. 107, No. 5, con commento di Domenico Pulitanò. La condanna venne inflitta agli agenti NOCS Danilo Amore, Carmelo Di Janni, Fabio Laurenzi e al tenente del II reparto celere Giancarlo Aralla solo per l’episodio del trasporto illegale in campagna e della finta fucilazione del brigatista Di Lenardo. Inoltre, Amore venne riconosciuto responsabile anche di violenza privata contro Emilia Libéra. L’amnistia promulgata nel 1990 cancellò la condanna.

[17] Nel 2013, i giudici della Corte di Appello di Perugia, accogliendo la richiesta di revisione della sentenza irrevocabile di condanna per il reato di calunnia, hanno riconosciuto che, nel 1978, Enrico Triaca venne torturato. 

[18] Secondo il ricercatore Paolo Persichetti («8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura» in Insorgenze, 30 marzo 2012) il governo diede il via libera all’uso della tortura nel corso di una riservatissima seduta del Comitato Interministeriale per l’informazione e la sicurezza (CIIS) a cui parteciparono il Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, ed i ministri Rognoni, Lagorio, Marchiora, La Malfa, Di Giesi e Altissimo. 

[19] L’articolo del giornalista Matteo Indice che contiene l’intervista a Salvatore Genova, dal titolo E la CIA si stupì dei nostri metodi venne pubblicato su Il Secolo XIX del 24 giugno 2007. Quello di Pier Vittorio Buffa, dal titolo Così torturavamo i brigatisti comparve su L’Espresso del 5 aprile 2012. 

[20] Michele Galati, componente della colonna veneta delle Brigate Rosse, venne arrestato nel dicembre 1980. Il 4 febbraio ’82, al PM di Venezia, fece le sue prime rivelazioni. Galati sostenne che, da un po’ di tempo, stava già collaborando segretamente con il generale Dalla Chiesa ed altri ufficiali dell’Arma dei Carabinieri con i quali parlava in occasione delle traduzioni dal carcere. Rivelò anche che, nell’ottobre ’81, aveva informato Dalla Chiesa che le BR intendevano rapire un alto ufficiale statunitense in forza alla NATO e di stanza a Verona o Vicenza.

[21] Intervista di Giordano Fainelli al quotidiano L’Adige del 12 febbraio 2012. Anche Salvatore Genova raccontò che ad alcuni brigatisti “pentiti” venne elargita una somma complessiva di 100 milioni di lire, denaro prelevato da un fondo riservato del Viminale. 

[22] Le considerazioni sono contenute nel libro di Giuliano Amato e Andrea Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, il Mulino, 2013.    

Brigit Kraatz, l’Italia a giudizio davanti alla corte europea per colpa della commissione Moro 2

Negli anni Settanta Brigit M. Kraatz era la corrispondente a Roma di Der Spiegel. Negli atti parlamentari viene definita una terrorista coinvolta nel sequestro Moro. Non era vero ma, per ottenere giustizia, si è dovuta rivolgere alla Cedu che ora ha ammesso il suo ricorso. Questo blog ha denunciato già nel maggio 2020 questa storia (puoi leggere qui) di cui ha continuato e continuerà a occuparsi (leggi qui 1,2, 3).
La vicenda è anche all’origine di una querela contro l’ex membro della commissione parlamentare Gero Grassi. All’origine delle accuse mosse contro la corrispondente della stampa tedesca c’è una indagine promossa da un consulente della Commissione Moro 2. Massimo Giraudo – sulla scorta di una ricca letteratura complottista presente sull’argomento – si è mosso per dimostrare che un condominio romano, ex Ior, situato nella zona della Balduina ebbe un ruolo decisivo nelle prime fasi del sequestro del persidente democristiano. L’inchiesta, infarcita di confidenze originate da persone oggi defunte, passate di bocca in bocca, scenari suggestivi e congetture iperboliche è stata rilanciata con grande enfasi anche nella puntata di Report del 7 gennaio scorso.
Definire la signora Kraatz attivista del movimento tedesco 2 giugno, «Bewegung 2 Juni», è un po’ come dire che Lilli Gruber sia stata un membro delle Brigate rosse. Ora che una persona come il tenente colonnello dei Cc, Massimo Giraudo, insignito nel 1988 anche del titolo di cavaliere, ordine al merito della repubblica per il lavoro svolto in diverse indagini, nato nel 1960, non sapesse o non sia stato in grado di verificare con un semplice giro sul web che la signora Kraatz fosse una importante giornalista tedesca, insignita per altro di vari premi per i suoi articoli, autrice di un libro con Willy Brandt e di interviste con i vertici delle istituzioni e dei partiti degli anni 70 e 80, collaboratrice di Rai tre nei giorni in cui cadeva il muro di Berlino (su internet si trova con facilità una sua foto accanto ad Agnelli), accreditata presso il Vaticano mentre seguiva il pontefice nei suoi viaggi intercontinentali, insomma una figura pubblica molto nota negli ambienti della stampa e non solo, solleva inquietanti interrogativi sulla natura cialtronesca, o forse sarebbe meglio dire bantitesca, dei lavori condotti dalla commissione parlamentare sul sequestro Moro, condotti sotto la guida e la responsabilità dell’allora presidente Giuseppe Fioroni. Come se non bastasse, quanto scritto negli atti resi pubblici dalla commissione è poi finito nella sentenza Bellini sulla strage di Bologna. E’ bastato un semplice copia-incolla. Come un virus le affermazioni indimostrate della Cm 2 si sono propagate, riprese come verità, in realtà politica ma dai più confusi con quella storica, sono migrate in una sentenza che nulla c’entra con le vicende del sequestro Moro. E così la brillante giornalista che per un trentennio ha raccontato le vicende italiane al pubblico tedesco si è ritrovata coinvolta nel sequestro Moro e nella strage di Bologna.

Quale è il nesso, vi chiederete? I servizi segreti ovviamente, quei poteri occulti: la Cia, il Secret team, il Mossad, la P2 e la massoneria che tutto reggevano e disfacevano, ovvero la favola che ci ha propinato Report.
Ora il ricorso presentato dai legali della Kraatz davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, ultima possibilità che le restava dopo i tentativi andati falliti di far correggere i grossolani errori, e le prese in giro ricevute da parte dei vertici istituzionali, dal presidente della commissione al Quirinale, ha superato il vaglio dell’ammissibilità legale. La squallida montatura di via dei Massimi assume così una rilevanza internazionale e diplomatica dalle molteplici conseguenze che difficilmente potranno essere ignorate.

Non si tratta solo di ripristinare l’onorabilità di una persona tacciata di essere stata altro da quella che era effettivamente; in ballo ci sono le procedure che conducono alla costruzione delle “verità politiche deliberate” all’interno delle commissioni parlamentari e del loro rapporto con la verità storica.
Il tema è quello della intangibilità delle asserzioni contenute nelle relazioni parlamentari una volta deliberate con il voto dei commissari e del parlamento. Se delle successive acquisizioni storico-documentali vengono a smentire quanto affermato all’interno di queste relazioni perché mai queste non possono essere corrette?

di Paolo Morando, Domani, 19 gennaio 2024

La commissione parlamentare d’inchiesta “Moro 2” l’ha definita «già attiva nel movimento estremista “Due giugno”». Che però era qualcosa di più: un vero e proprio gruppo di lotta armata che, nella Germania Ovest degli anni Settanta, si rese protagonista di svariati attentati e rapimenti, anche con la morte del presidente della Corte federale tedesca Günter von Drenkmann durante le concitate fasi del sequestro.
Ma lei, la giornalista tedesca Birgit Kraatz, oggi ottantacinquenne ma negli anni Settanta firma di punta e corrispondente da Roma per importanti testate (i settimanali “Der Spiegel” e “Stern” e la televisione pubblica Zdf, ha scritto pure un libro intervista con l’allora cancelliere Willy Brandt pubblicato anche in Italia), terrorista non lo è mai stata.
Le ha provate tutte in questi anni per cercare di farsi togliere di dosso quella infamante definizione, ma senza riuscirci. Tanto che si è rivolta alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo che, è notizia di queste ore, ha accettato il suo ricorso e ora se ne occuperà formalmente, per giungere a una sentenza che in ipotesi potrebbe portare anche a pesanti sanzioni contro lo Stato italiano, in termini di multe e risarcimenti. E chi conosce l’attività della Cedu, sa bene che nell’80 per cento dei casi l’accoglimento del ricorso (questo è infatti lo scoglio maggiore dal punto di vista procedurale) porta poi nella stragrande maggioranza delle volte a un pronunciamento favorevole al ricorrente.

Una vicenda kafkiana
Quella frase è contenuta nella relazione conclusiva dell’attività 2017 della commissione, depositata dal presidente Giuseppe Fioroni. Fu anche l’ultima. E da allora, come sempre accade in questi casi, non si fermò lì. Di citazione in citazione è finita infatti addirittura in una sentenza, e non di scarsa importanza, anzi: è infatti quella della Corte d’assise di Bologna che nell’aprile 2022 ha condannato all’ergastolo l’estremista di destra Paolo Bellini per la strage alla stazione (il processo d’appello inizierà tra l’altro a fine mese), con la giornalista citata nelle motivazioni depositate lo scorso aprile, nei termini già formulati dalla Commissione Moro 2.
È una vicenda davvero kafkiana, perché invece i fatti parlano chiaro. Si tratta di due comunicazioni del 26 giugno e del 4 ottobre 2018 del Bundeskriminalamt (Bka), l’Ufficio federale della polizia criminale tedesca, nei quali si certifica che il nome di Birgit Kraatz non risulta mai essere stato menzionato in alcun documento della struttura, attestando così la totale estraneità della donna al movimento «2 giugno».
Ha scritto testualmente il direttore del Bka, Jürgen Peter: «Va dato per scontato che la signora Kraatz non ha avuto alcun contatto o altri legami con il gruppo “2 Giugno” che vadano al di là dell’attinenza del lavoro giornalistico allora svolto sull’argomento terrorismo di sinistra in Germania e in Italia». E ancora: «Allo stato degli atti del Bundeskriminalamt non è accertabile nessun contatto o altro legame con il gruppo “2 Giugno” che abbiano a che fare con la signora Kraatz».

La commissione Stragi
Sono documenti che i legali della giornalista spedirono a suo tempo allo stesso presidente Fioroni, senza però che fosse possibile ottenere una rettifica della relazione, avendo la Commissione parlamentare d’inchiesta già concluso i propri lavori e chiuso i battenti per via della fine della legislatura. E quelle relazioni, in quanto approvate dal Parlamento, sono ora del tutto intangibili. Peraltro, appunto in quanto parlamentari, tutti gli allora componenti della commissione sono coperti da immunità. Non lo sono però per affermazioni successive al mandato politico: e infatti l’ex deputato Gero Grassi, tra i più attivi componenti di quella commissione, è già stato raggiunto da una querela della giornalista, querela ancora pendente.
Come una palla di neve che rotolando a valle diventa valanga, quell’evidente errore contenuto nella relazione di Fioroni è figlio di un altro atto parlamentare di addirittura ventiquattro anni fa, rimasto a lungo sottotraccia. Si deve infatti tornare al 2000 e alla allora Commissione Stragi presieduta da Giovanni Pellegrino. In quella sede, i parlamentari di Alleanza nazionale Vincenzo Fragalà e Alfredo Mantica presentarono una relazione in cui veniva appunto fatto il nome di Birgit Kraatz come esponente del gruppo “2 Giugno”.
Così ha ricostruito la vicenda il ricercatore Paolo Persichetti: «A seguito di una rogatoria diretta alle autorità tedesche, presentata dal giudice Francesco Amato sui nomi di alcuni esponenti vicini al movimento eversivo “2 giugno”, la polizia tedesca inviava in risposta una relazione. Senza alcuna giustificazione comprensibile, l’Ucigos – l’Ufficio centrale della polizia politica destinatario della relazione – apponeva il nome di Birgit Kraatz nella lettera che accompagnava il testo del Bundeskriminalamt. Nome che invece non era presente all’interno del documento della polizia tedesca e che mai più riapparirà. Nella successiva minuta della Digos di Roma, che riceve la documentazione dall’Ucigos e la rigira al magistrato, non vi è infatti più alcuna traccia della Kraatz. Nonostante questa anomalia, i due parlamentari che evidentemente si erano soffermati solo sulla minuta di accompagnamento riportano il nome della donna nella loro relazione, indicandola come una esponente del gruppo “2 giugno”».

Richieste vane
Il documento di Mantica e Fragalà peraltro non venne mai né discusso né tanto meno approvato. E di errore in errore, come detto, l’appartenenza di Birgit Kraatz al movimento terroristico è finito addirittura nelle motivazioni della sentenza Bellini. E va detto che la giornalista, nei mesi scorsi, si è rivolta anche ai magistrati bolognesi, affinché correggano nei successivi gradi di giudizio quell’infamante definizione.
Sul fronte Commissione Moro 2, invece, le sue doglianze sono state recepite ma senza apporre correzioni alla relazione Fioroni, per i motivi già citati. Gli uffici del parlamento hanno in effetti protocollato il materiale inviato da Kraatz, ma ad oggi non risulta che siano stati allegati agli atti nel portale della commissione. E quei documenti del Bka sono stati invece catalogati “fisicamente” in una sezione non accessibile al pubblico.
La citazione di Birgit Kraatz da parte della Commissione Moro 2 riguardava le palazzine di via Massimi, anche al centro pochi giorni fa di un ampio servizio della trasmissione di Rai3 “Report” sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse: palazzine indicate come uno dei possibili luoghi in cui lo statista democristiano sarebbe stato tenuto prigioniero.
Questa la citazione completa contenuta nella relazione Fioroni: «Si è in particolare riscontrato che in quelle palazzine abitava la giornalista tedesca Birgit Kraatz, già attiva nel movimento estremista “Due giugno” e compagna di Franco Piperno. Secondo la testimonianza di più condomini Piperno frequentava quell’abitazione e, secondo una testimonianza che l’interessato ha dichiarato di aver appreso dal portiere dello stabile, lo stesso Piperno avrebbe da lì osservato i movimenti di Moro e della scorta. La stessa Kraatz ha ricordato la sua relazione con il Piperno, ma ha escluso che si trattenesse nel condominio».
Piperno, come noto, era stato dirigente di Potere operaio. E venne contattato dal Partito socialista (in particolare dall’allora vicesegretario Claudio Signorile) nel tentativo di giungere a una liberazione dello statista democristiano. Ironia della sorte, in quel servizio di “Report” è comparsa anche la fotografia della stessa Birgit Kraatz, peraltro correttamente indicata solo come giornalista. Ma si diceva, lanciando una suggestione: «Kraatz e Piperno si sono visti anche durante il periodo del sequestro Moro?».

Le palazzine di via Massimi
A questo proposito, ancora nel febbraio 2018 al presidente Fioroni la giornalista aveva scritto così: «L’insinuosa descrizione che il mio amico, il professore Franco Piperno, avrebbe sorvegliato dalla mia casa, oppure in qualche modo con la protezione della mia casa, lo scambio delle vetture durante il sequestro Moro nel garage che apparteneva a due palazzi in via Massimi 91 (ipotesi peraltro mai provata – né tantomeno affrontata – in alcuna sede giudiziaria, ndr), è falsa: questo non sarebbe stato nemmeno tecnicamente possibile perché dalle finestre della mia casa l’entrata del garage non era né visibile né raggiungibile come sarebbe stato facile verificare con un semplice sopralluogo. Inoltre al garage io non avevo mai accesso».
E sono tutte circostanze che la giornalista aveva riferito in precedenza anche al colonnello dei Carabinieri Massimo Giraudo, consulente della commissione, senza la presenza di un avvocato «perché non ho nulla da nascondere». C’è comunque da scommettere che la questione sarà destinata ad avere altre puntate. Sempre che nel frattempo la Corte europea dei diritti dell’uomo non gli dia un taglio netto.

La scuola discriminatoria e classista di Galli della Loggia

Il mito dell’inclusione avrebbe creato una scuola troppo indulgente e lassista. L’apertura ai disabili e ai bisogni educativi speciali avrebbe creato una zavorra democratica che rallenterebbe i «normali». Privileggiando l’accesso universale e il diritto alla riuscita scolastica di ognuno si sarebbe danneggiato il merito di pochi

Nella sua rubrica settimanale presente sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia ha scagliato una invettiva contro la scuola dell’inclusione. L’occasione gli è stata fornita da un libro appena uscito, La scuola esigente, Rubettino, scritto da Giorgio Ragazzini, esponente del «gruppo di Firenze» che per obiettivo ha «la rivalutazione del merito, della responsabilità, del rispetto delle regole come cornice indispensabile per la vita della scuola».
Ragazzini prende di mira quella che definisce la «scuola indulgente» che suona come carente, inadeguata, insufficiente, scarsa, fallimentare. Secondo l’autore negli ultimi decenni l’istituzione scolastica sarebbe stata travolta da una crisi profonda tanto da smarrire quella che definisce la «nostra eredità culturale». La conseguenza avrebbe portato gli alunni e gli studenti a non sapere più esprimersi, osservare e pensare. La causa di tutto ciò non sarebbe da addebitare a dinamiche più complesse e globali, come – per esempio – il salto tecnologico-cognitivo dovuto all’avvento della società digitale, della società dell’immagine, all’accesso simultaneo a input e informazioni che sovrastano la vecchia società della scrittura con tempi comunicativi velocissimi che interferiscono sulla concentrazione e l’attenzione e rappresentano una nuova sfida per l’educazione e l’insegnamento, ma a una crisi dell’educazione e dell’autorità.
Teorie pedagogiche fautrici di visioni eccessivamente lassiste – afferma Ragazzini – avrebbero prodotto questo disastro. La soluzione indicata è il ripristino dell’ordine, dell’autorità, dell’impegno e del merito, una pedagogia della caserma con docenti-sergenti che rinvia a slogan molto vecchi che celano l’odio presessantottino per la scuola di massa, per il diritto universale all’istruzione e allo studio in nome di un progetto altrettanto arcaico che rimanda alle società censitarie, dove la scuola non era per tutti.

Cogliendo al volo l’occasione fornitagli dai contenuti del testo, Galli della Loggia nella sua breve recensione attacca quello che chiama il «mito della inclusione» e che – lascia intendere – sarebbe solo una zavorra democratica che impedirebbe ai «normali», intesi come ottimi, migliori, i predestinati al successo nelle discipline del sapere, della politica, dell’economia e del governo, di avanzare celermente poiché costretti a convivere «anche con ragazzi disabili gravi con il loro insegnate personale di sostegno (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (Bisogni educativi speciali: dislessici, discografici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie)», senza dimenticare «sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano». Il risultato – chiosa- «lo conosciamo».
Quello che noi certamente sappiamo – diversamente da della Loggia – è la forza e l’arricchimento di quelle società che hanno usufruito nella loro storia, anche tormentata, delle varie ondate migratorie. Ho vissuto per undici anni in Francia dove, nonostante la mia condizione di esiliato, sono riuscito terminare gli studi universitari e ho anche insegnato, per un breve periodo, in classi dove i cognomi di origine francese si contavano sulle dita di una mano, mischiati ad altri di origine polacca, portoghese, italiana, magrebina, africana, indocinese, caraibica. Senza che questo creasse problema. Non ci vuole molto, basta sfogliare gli organigrammi delle politica, dell’informazione e dell’economia francese per rendersene conto.
Quanto alla scuola dell’inclusione l’unico problema viene dal fatto che ce n’è ancora poca, per mancanza di risorse, di formazione, di investimenti, non troppa come sostiene Galli della Loggia fautore di una società dove non sarebbe mai esistito uno scienziato come Stephen Hawking.
Il limite è dato dalla resistenza di culture discriminatorie che si mostrano indifferenti o peggio ostili all’idea di un diritto allo studio universale, per tutti e per ciascuno (per altro previsto dal dettato costituzionale), dunque anche per gli alunni e le alunne che hanno bisogni speciali ma non per questo sono inferiori o diverse. Quanto ai Bes e Pdp, la loro crescita numerica è dovuta alle nuove conoscenze mediche e scientifiche in grado oggi di individuare dei deficit in passato ignorati o addirittura sanzionati; e chi vive il mondo della scuola sa bene come la classe docente deve spesso insistere con le famiglie che sovente non vogliono accettare le diagnosi dei loro figli perché percepiscono ancora i Pdp come degradanti.

Sono genitore di un bimbo con una grave disabilità che necessità di assistenza continuativa ad alta intensità, portatore di tracheo e peg e che accede a scuola con l’ausilio di personale infermieristico. La sua esperienza scolastica, giunta ormai all’ultimo anno di scuola primaria, è stata un successo dal punto di vista dell’inclusione e dell’istruzione. Supportato dall’insegnante di sostegno e da una insegnate di comunicazione aumentativa alternativa e lingua dei segni, che rappresentano un ausilio e una risorsa per l’intera classe che oggi «segna» in Lis perfettamente, senza che i programmi scolastici e l’insegnamento siano stati alterati o ritardati, mio figlio ha imparato a leggere e scrivere, conosce la geometria e fa operazioni aritmetiche.
La sua classe in questi anni, oltre a conoscere una nuova lingua, si è arricchita sul piano umano, sa riconoscere e rispettare l’altro che in apparenza sembra diverso, ha appreso la solidarietà, ha affinato la curiosità, ha abbattuto pregiudizi e stigma. Nuove persone crescono. Questa è la scuola dell’inclusione anche se quello che siamo riusciti ad ottenere per nostro figlio, grazie a ricorsi giudiziari, un presidio costante dei suoi diritti e incontri fortunati con docenti preparati, non vale ancora per tutti. Esistono diversità e discriminazioni profonde. L’inclusione benché sancita dalla costituzione e da un apparato di norme non trova applicazione uniforme e le parole di Galli della loggia, come i recenti tagli del governo Meloni sulla disabilità, ci fanno capire che nuovi ostacoli si palesano all’orizzonte, perché si fa avanti un fronte che senza vergogna teorizza il ritorno ad una società classista, discriminatoria e razzista.

La puntata di Report sul caso Moro, ecco le prove del contatto di Ranucci con Pazienza

di Paolo Persichetti

Oggi siamo in grado di rivelare ulteriori dettagli sul contatto tra Sigfrido Ranucci e Francesco Pazienza nelle settimane precedenti la messa in onda della puntata di Report dedicata alle presunte verità sempre tenute nascoste sul sequestro Moro. 
Ci scusiamo per l’attesa che ha creato un certo suspense sulla vicenda e che alcuni hanno interpretato frettolosamente come la prova che noi stessimo bluffando, senza avere in mano nulla. Non siamo abituati a mentire, tanto meno a tentare azzardi. Semplicemente attendevamo che Ranucci e Pazienza dicessero la loro, lasciandogli il tempo di spiegare i fatti e le eventuali ragioni.
Ma Ranucci si è ben guardato dal farlo accusandomi di aver scritto falsità, omettendo la circostanza del contatto avuto con Pazienza. Mentre Pazienza ha sostenuto di non aver mai sentito Ranucci e di aver agito autonomamente contattando il giornalista Lovatelli Ravarino, ritenuto depositario di informazioni sulla vicenda Moro, in particolare sul ritrovamento del cadavere dello statista Dc in via Caetani, informazioni che Ravarino peraltro smentisce categoricamente di possedere. La nostra inchiesta, in effetti, nasce proprio da un commento che Cristiano Lovatelli Ravarino aveva fatto sotto un mio articolo su Report postato su Fb (qui l’articolo).

Il commento di Ravarino

Lo scambio watsapp tra Pazienza e Ravarino

Ne parliamo con Paolo Morando, giornalista e saggista, autore di numerosi volumi sulla strage di piazza Fontana, la storia di Cefis, la strage di Peteano e quella di Bologna.
Conosco Paolo da quasi due anni. Abbiamo condotto insieme alcune inchieste, in particolare sul carteggio Sismi-Olp, le cosiddette «carte di Giovannone» (leggi qui).

Allora com’è andata?
«Ancora domenica mattina ho letto anch’io quel commento su Facebook di Lovatelli Ravarino. E quel riferimento a un contatto tra Pazienza e Ranucci mi ha incuriosito. Mi sono allora procurato il numero di Pazienza, che non avevo, e gli ho mandato un messaggio via whatsapp».

Che ora era?
«Le 14.14».

E che cosa gli hai scritto?
«Te lo leggo: “La contatto perché avrei bisogno di chiederle una cosa a proposito della puntata di Report sul caso Moro, che andrà in onda stasera. Posso chiamarla? Grazie”. Mi ha risposto un minuto dopo: “Mi chiami pure”».

E poi?
«Siamo stati al telefono una decina di minuti. È stato cordiale e affabile. Mi ha detto di conoscere benissimo Lovatelli Ravarino, ma che non era del tutto esatto quello che aveva scritto su Facebook».

Cioè?
«Le sue esatte parole, le ho riascoltate, sono state: “Quando a un certo momento ho saputo che Ranucci stava preparando questo numero che va stasera su Moro, ho detto a Ranucci: guarda che c’è uno che io conosco eccetera che mi ha raccontato un sacco di storie, perché hanno lasciato l’automobile lì, il palazzo, eccetera. Lui mi ha detto: vabbè dammi il suo numero di telefono. Non so perché Ranucci non abbia ritenuto opportuno chiamarlo o verificare, questi sono problemi dei giornalisti, non so perché”».

Gli hai chiesto altro?
«Sì, in che rapporti era con Ranucci. E lui mi ha detto: “Con Ranucci siamo in questi rapporti: all’inizio Ranucci praticamente scrisse una stronzata su Gelli e compagnia cantante e io gli mandai la prova documentale che io con Gelli non c’entravo assolutamente niente, anzi, e lui fece una dichiarazione Ansa in cui diceva che la trasmissione di gennaio scorso, eccetera, effettivamente aveva detto cose che non sono esatte e compagnia cantante, da quel momento siamo diventati sempre un po’ più amici perché ogni tanto ci sentiamo per vedere se io sappia o meno cose e compagnia cantante”. Poi gli ho chiesto che cosa si aspettava dalla puntata di Report che sarebbe andata in onda in serata».

Che cosa ti ha detto?
«Ha risposto così: “Non faccio mai domande ai giornalisti, non so che taglio daranno, ma mi ha detto che ci saranno dei fatti nuovi eccetera”. E poi ha aggiunto: “Secondo me Moro lo hanno ammazzato le Brigate rosse”». Poi abbiamo chiacchierato ancora un po’, divagando: mi ha parlato di sue vicende giudiziarie con magistrati di Bologna. Infine ci siamo salutati».

Poi però hai sentito anche Ranucci.
«Sì, il giorno dopo. Prima volevo vedere la puntata di Report. Lunedì mattina ho contattato l’autore del servizio, Paolo Mondani, che un po’ conoscevo. Gli ho scritto così: “Vorrei chiedere a Ranucci una cosa un po’ delicata sulla puntata di ieri, ma ne parlerei prima con te (anche perché di Ranucci non ho alcun numero)”. Era poco dopo mezzogiorno. Mi ha risposto che mi avrebbe richiamato dopo pranzo. E così ha fatto».

Che cosa vi siete detti?
«Gli ho spiegato la cosa, era molto sorpreso. Mi ha detto di non aver mai sentito il nome di questo Lovatelli Ravarino e che mai Ranucci gliene aveva parlato. E mi ha appunto girato il suo numero, consigliandomi di parlarne con lui. A quel punto ho mandato un messaggio a Ranucci».

Che cosa gli hai scritto?
«Gli ho citato il commento su Facebook di Lovatelli Ravarino, aggiungendo che la cosa mi aveva colpito e invitandolo, se credeva, a richiamarmi. Dopo un po’ mi ha risposto che era falso, che non aveva chiesto aiuto a Pazienza e che Mondani si era mosso in assoluta autonomia. Erano le 16.15. Subito dopo mi ha richiamato».

E che cosa ti ha detto?
«A proposito di Lovatelli Ravarino, anche qui riascolto le sue esatte parole: “Io posso pure smentirlo ma penso di dargli più pubblicità, oltretutto io Pazienza lo conosco bene perché gli abbiamo fatto il culo tre quattro volte, quindi figurati, non è quello il tema. Pure Pazienza, che tra parentesi me l’ha girato prima questo messaggio, dice che non è vero, non so che dirti”. E poi: “Ma figurati se io posso contattare Pazienza, io Pazienza l’ho solamente sentito per dirgli è vero o no che tu frequentavi palazzo via Massimi, punto, perché c’era una voce che diceva che stava a palazzo via Massimi, non l’ho contattato per altre cose, figurati, Pazienza è sempre Pazienza”».

Altro?
«È stata una telefonata breve. Alla fine mi ha detto: “Se vuoi ti do pure il numero di Pazienza, senti Pazienza, te lo smentirà pure lui”. E gli ho detto che lo avevo già».

Ranucci afferma quindi di avere sentito Pazienza. Perché non ne hai scritto?
«Perché te ne stavi già occupando tu e volevo vedere come andava a finire. Comunque, da quello che mi ha detto Ranucci, non è chiaro se si è trattato di una telefonata o di un messaggio, e neppure chi abbia contattato chi. Io peraltro non glielo ho chiesto. Con il “Domani” abbiamo invece preferito occuparci nel merito della puntata di Report sul caso Moro, in particolare dell’intervista a Signorile: l’articolo è uscito oggi».

Ricapitolando
Ranucci ammette di aver sentito Pazienza durante la preparazione dell’inchiesta per chiedergli se era vero che frequentasse palazzo via Massimi, «perché c’era una voce che diceva che stava a palazzo via Massimi». Va detto per inciso che si tratta di una novità assoluta, mai sentita prima d’ora. Ranucci aggiunge che lo conosce da tempo, confermando quanto detto da Pazienza e che questi gli aveva già girato «il messaggio», non sappiamo se intendesse il commento di Ravarino sul mia pagina fb o lo screenshot dello scambio whatsapp che aveva avuto con lo stesso Ravarino. In ogni caso la circostanza conferma la facilità e celerità dei loro contatti, dando ragione alle parole di Pazienza sui loro rapporti pregressi, risalenti a oltre due anni prima, dopo una puntata di Report ch lo aveva tirato in ballo. Pazienza aggiunge, dopo aver saputo della puntata su Moro, di avergli offerto aiuto e in effetti contatta Ravarino. Ranucci nega. Nei giorni scorsi Pazienza ha aggiunto di essere stato la fonte di numerosi scoop fatti dalla Rai in questi ultimi tempi (leggi qui). «Pazienza sarà sempre Pazienza», come dice Ranucci, però non basta una semplice battuta per chiarire questa vicenda. Ci vuole quella trasparenza che fino ad ora è mancata.

Sulla stessa vicenda
La domenica bestiale di Rai 3, Sigfrido Ranucci trasforma Report in una fabbrica di bugie sul sequestro Moro
Le fake news di Report sul caso Moro e la memoria scivolosa di Signorile
Depistaggi e depistatori, Sigfrido Ranucci ha chiesto l’aiuto di Francesco Pazienza per realizzare la puntata di Report sul sequestro Moro
Report e il caso Moro, il silenzio di Ranucci e le rivelazioni di Pazienza
Il caso Moro e Report, quante bugie. Signorile e l’artificiere di via Caetani si smentiscono a vicenda



Il caso Moro e Report, quante bugie. Signorile e l’artificiere di via Caetani si smentiscono a vicenda

di Paolo Morando, Domani 11 gennaio 2024

Davvero l’ex esponente socialista e l’allora ministro degli interni Francesco Cossiga seppero della morte di Moro diverse ore prima del rinvenimento del suo cadavere in via Caetani?

Davvero Claudio Signorile e l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, il 9 maggio 1978, seppero della morte di Aldo Moro diverse ore prima del rinvenimento del suo cadavere in via Caetani?
È solo uno dei tanti elementi del servizio di Report di domenica scorsa sul rapimento e l’uccisione dello statista democristiano da parte delle Brigate rosse, ma è forse quello più suggestivo, tra le miriadi di dubbi, zone d’ombra e presunti misteri su cui dopo decenni si discute ancora oggi, a oltre 45 anni dai fatti.
Tutto ruota attorno a una questione sostanziale: quell’agguato, quel rapimento e quell’uccisione furono tutta farina del sacco brigatista? Oppure vi fu chi “diresse” (o “facilitò”) quell’operazione? E, seguendo questa ipotesi, chi? Servizi segreti, P2, Cia, Kgb, Mossad: da questa maionese impazzita nessuno è stato lasciato fuori. Ma la giustizia ha da anni chiuso la partita, attraverso più processi. E neppure le due inchieste ancora aperte a Roma, condotte dalla procura ordinaria e da quella generale, sembrano fare passi in avanti.
Nel frattempo si è fatto strada un inesauribile filone di pubblicazioni in controtendenza con quanto è stato appurato nelle Corti d’assise. E oltre ai processi ci sono le commissioni parlamentari d’inchiesta. A una prima, specifica, istituita nel 1979 e che chiuse i propri lavori nel 1983 (gli atti sono contenuti in centotrenta volumi, ognuno dei quali composto mediamente da svariate centinaia di pagine), in anni recenti se n’è aggiunta una seconda, la cui documentazione pure consta di migliaia di carte.
Anche commissioni d’inchiesta istituite su altri temi (stragi, P2, Mitrokhin, Antimafia) di Moro si sono lungamente occupate. Aggiungete a tutto questo più opere cinematografiche, una moltitudine di inchieste giornalistiche sulla stampa o in tv, romanzi di para-fiction, opere teatrali… E poi i dibattiti in rete, in cui si discute senza sosta su particolari più o meno rilevanti della vicenda.

La perizia balistica del 2016 che Report non cita
Lo spazio non consente di riprendere qui punto per punto le mille suggestioni di Report, basate principalmente sui lavori della commissione Moro 2, quella presieduta da Giuseppe Fioroni.
Nella trasmissione, a un certo punto, è però stato detto che mai sono state eseguite perizie balistiche aggiornate rispetto a quelle di oltre quarant’anni fa. Lo si diceva a supporto dell’ipotesi secondo cui a sparare il 16 marzo 1978 in via Fani non sarebbero stati solo quattro brigatisti (Fiore, Morucci, Gallinari e Bonisoli), ma anche un altro paio, finora sconosciuti.
E che lo avrebbero fatto non da sinistra, come nella ricostruzione fin qui accreditata, bensì da destra. Ebbene, proprio la Moro 2 si è invece giovata nel 2015 di una perizia balistica compiuta dalla polizia scientifica. E i risultati, che avvalorano la versione brigatista, sono stati recepiti nella stessa relazione del presidente Fioroni conclusiva dell’attività di quell’anno.

Dubbi sull’uso di una moto nell’azione. Le bugie del testimone Marini e il parabrezza mai attinto da colpi di mitraglietta
Non solo. Sempre nella relazione, si sottolineano «due acquisizioni» raggiunte dalla polizia scientifica: «La prima riguarda la scoperta che il parabrezza di Marini non è stato attinto da colpi d’arma da fuoco come finora si è creduto».
E si tratta di quell’ingegnere a bordo di uno scooter che sarebbe stato preso di mira da due motociclisti in fuga da via Fani: vicenda del tutto destituita di fondamento, come lo stesso Marini dovette ammettere in un verbale ancora nel 1994. Il che, per inciso, pone in discussione l’esistenza stessa di quella motocicletta, della cui presenza in via Fani parlarono solo tre degli oltre trenta testimoni a suo tempo messi a verbale.

Nessun superkiller
Ancora, sempre citando Fioroni: «Il secondo punto acquisito dalla polizia riguarda la messa in crisi dell’idea che a via Fani abbia operato un super killer. È vero infatti che vi fu una bocca di fuoco che sparò da sola quarantanove colpi, ma è stato dimostrato che ciò avvenne con una precisione non particolarmente elevata (da quell’arma soltanto sei colpi andarono a bersaglio, attingendo l’agente Iozzino)».
Altro che super killer. Il fatto che poi quella perizia sia stata «oggetto di un’attenta analisi critica da parte di alcuni componenti della Commissione», come scrive Fioroni, conferma una volta di più che anche elementi scientifici possono servire per tirare l’acqua al proprio mulino.

La prigione di Moro fu una sola
Altra questione ampiamente analizzata da Report: davvero Moro è stato tenuto prigioniero nell’appartamento di via Montalcini 8? È stata citata una mezza dozzina di possibili covi alternativi, dei quali pure si parla da anni. Si può però davvero pensare che le Brigate rosse abbiano spostato l’ostaggio più volte nella Roma militarizzata di quelle settimane? Ma soprattutto: perché farlo se davvero le Br erano protette da entità indicibili?

Signorile da Cossiga e la questione dell’ora
Si diceva però di Signorile. La sua presenza nell’ufficio di Cossiga la mattina del 9 maggio è circostanza da tempo nota. Ma davvero al ministro la notizia della morte di Moro arrivò molto prima della telefonata con cui Morucci, alle 12.13, diede notizia al professor Tritto, assistente di Moro, che lo statista era stato ucciso e di dove si sarebbe potuto ritrovare il corpo? Rivedendo Report, ci si accorge che a dire «le 9.30-10» non è Signorile, bensì l’intervistatore.
Signorile peraltro lo lascia parlare senza interrompere, quindi di fatto conferma. Se così fosse, lo capite, si aprirebbero scenari vertiginosi – pure sviluppati da Report – su cui da anni la cosiddetta dietrologia non si è risparmiata. Qui il punto riguarda la validità delle testimonianze orali, soprattutto quelle di coloro avanti con l’età e rese a tanti anni dai fatti su cui la memoria viene sollecitata.
Inoltre, l’impossibilità di riscontrare tali testimonianze con tutti i protagonisti (in questo caso Cossiga). Anche perché l’orario dell’alert al ministro – si scopre rileggendo le tante dichiarazioni di Signorile – è ballerino. Come pure la rilevanza che diede alla questione l’esponente socialista.
Già nel 1980 (commissione Moro 1) Signorile raccontò quella mattina, collocando l’avviso a Cossiga della morte di Moro alle 11: orario inconciliabile con i fatti accertati. Nessuno dei parlamentari però pensò di chiedergli maggiori dettagli sul punto (e della commissione faceva parte pure il comunista Sergio Flamigni, da sempre capofila di chi non crede alle versioni “ufficiali”), probabilmente pensando che Signorile con quell’orario intendesse quello dell’appuntamento con Cossiga al Viminale.
Davanti alla Corte d’assise di Roma invece, nel 1982 in un lungo interrogatorio come testimone, Signorile non sfiorò minimamente la questione di quello strano orario. E anche nel 1999, davanti alla commissione Stragi (quella presieduta da Pellegrino), nuovamente nessun accenno: eppure non si trattava di una questione banale.
Poi, nel gennaio 2010 ne riparlò in una intervista all’Ansa: «Dopo pochi minuti che ero nella sua stanza, erano le 10 e mezzo-11, sentiamo l’altoparlante della centrale operativa, annunciare che la nota personalità era stata ritrovata al centro di Roma», disse a Paolo Cucchiarelli (autore di più libri a cui si è ispirato il servizio di Report). Non risulta che Cossiga abbia smentito.
Ma neppure che qualcuno ne abbia mai chiesto conferma all’allora senatore a vita. Tre anni più tardi (ma attenzione: Cossiga nel frattempo era morto, nell’agosto 2010), parlando con l’Huffington Post, Signorile tornò sulla questione: e collocò invece a mezzogiorno l’allarme a Cossiga. Mentre nel 2020, in una lunga intervista al Corriere della Sera (e l’intervistatore era Walter Veltroni), ecco ancora una volta il racconto di quella mattinata al Viminale. Ma senza alcun riferimento (e relativo sospetto) all’orario in cui Cossiga fu avvisato.
Nel frattempo Signorile era stato sentito anche dalla commissione Moro 2, il 12 luglio 2016: «Io vi sto testimoniando la telefonata vera, quella cioè della questura che chiama il ministro dell’Interno», disse. E all’allora senatore Miguel Gotor, che indicava come orario le 11, rispose: «Più o meno a quell’ora, sì».

L’artificiere Raso e Signorile si smentiscono a vicenda
Va detto che nel 2012 era stato pubblicato un libro di memorie dell’artificiere che intervenne quella mattina in via Caetani, Vitantonio Raso, il quale ha sostenuto di essere arrivato lì tra le 10.30 e le 10.45. E di aver parlato con Cossiga, che era già presente in strada. Peraltro non c’è traccia di sue relazioni di servizio.
Le affermazioni di Raso, per inciso, contrastano con quelle di Signorile: se Cossiga stava già in via Caetani, come poteva essere alla stessa ora con Signorile al Viminale? La procura di Roma, comunque, a suo tempo incriminò Raso per calunnia. E della cosa non si è più sentito parlare.
Che cosa ci dice tutto questo? Quanto meno che quell’orario non è riscontrato (né è più riscontrabile).

Gli orari della centrale operativa dei carabinieri
D’altra parte, il registro delle comunicazioni telefoniche della legione Roma dei Carabinieri di quel giorno attesta alle 13.50 il rinvenimento del cadavere nella R4 rossa, alle 13.59 la sua identificazione e dalle 14.01 in poi l’informazione a tutte le autorità, a partire dalla Presidenza della Repubblica. Ce n’è insomma abbastanza per prendere la cosa (assieme a molte altre) con tutte le molle possibili.

Report e il caso Moro, il silenzio di Ranucci e le rivelazioni di Pazienza

Ho posto ieri a Sigfrido Ranucci delle domande molto semplici a cui ha ritenuto di non dover rispondere convinto che la precedente smentita fornita all’Adnkronos fosse più che sufficiente.

La bugia di Ranucci

Ranucci sostiene che «La puntata gli è arrivata chiusa» è che il programma sia «stato realizzato in piena autonomia dal collega Paolo Mondani», senza alcun intervento da parte sua. 
Ranucci glissa sulla questione essenziale: non dice se c’è stato un contatto tra lui e Pazienza durante la preparazione del servizio, dice di non sapere chi sia Lovatelli Ravarino ma non smentisce il rapporto con Pazienza. Omette imbarazzato la vicenda e sposta il discorso altrove.

«Se abbiamo ricalcato la Commissione Moro 2 non possiamo aver depistato»
Siccome tra le critiche ricevute c’è chi gli ha fatto notare che non c’erano grandi novità nella inchiesta andata in onda, poiché questa «ricalca molto il lavoro della seconda commissione Moro», Ranucci ne ha concluso che non può «esserci stato alcun depistaggio». Lasciando intendere che il lavoro della commissione Moro 2 presieduta da Giuseppe Fioroni abbia dimostrato delle verità storicamente valide e incontestabili e non abbia fatto, come è accaduto, molta confusione, tanti errori, numerosi falsi, ignorando persino le conclusioni delle nuove perizie svolte dalla polizia scientifica e dal Ris dei carabinieri con l’ausilio delle più moderne tecniche forensi.
Ranucci si mostra impreparato sul tema poiché la Moro 2 non ha prodotto alcuna relazione conclusiva sulle indagini svolte, ma ha pubblicato tre relazioni annuali di natura provvisoria che riportavano l’andamento dei lavori. Tanto che uno dei suoi consulenti, l’allora magistrato ancora in attività Guido Salvini, profondamente frustrato per la chiusura anticipata della legislatura e la fine dei lavori della commissione, è riuscito a strappare un incarico ad personam dalla commissione antimafia istituita nella legislatura successiva per portare avanti il suo personale teorema, ripreso pedissequamente da Report (leggi qui).

Le verità contrapposte dei commissari della Moro 2
La mancata conclusione dei lavori con una relazione conclusiva, come già avvenne per la Pellegrino, ha spinto i diversi membri che vi hanno preso parte a pubblicare considerazioni personali in libri e interviste in forte contrasto tra loro (come per altro già avviene tra le varie pubblicazioni dietrologiche che si smentiscono reciprocamente) e che riassumiamo in tre sostanziali posizioni:

  1. La linea Fornaro-Gotor, ricalcata da Report e che in sostanza rilancia la tesi di una interferenza diretta delle forze atlantiche sulla vicenda (Usa-Nato-Inglesi-Israele-P2-Massoneria-Vaticano-Ior-‘Ndrangheta). Narrazione tanto cara all’ex senatore Flamigni ed elaborata per conto del Pci. Tesi che vorrebbe Moro rapito e ucciso per impedire una svolta democratica e progressista nella politica dell’Italia, «l’alleanza rivoluzionaria tra Dc-Pci» come l’ha definita Ranucci.

2. La linea Fioroni-Grassi del tutto ignorata da Report che invece attribuiva le interferenze nel sequestro all’asse geopolitico opposto, ovvero i Paesi del campo socialista (Urss-Rdt-Cecoslovacchia-Bulgaria-Vaticano-Nicaragua con tanto di palestinesi e Libia di Gheddafi con il Lodo Moro sullo sfondo).

3. La posizione condotta dall’allora onorevole Lavagno che ha criticato il metodo approssimativo, per tesi precostituite, portato avanti dalla commissione che ignorava sistematicamente le smentite interessata unicamente a dimostrare i propri pregiudizi complottisti.

L’invenzione della verità ufficiale e la menzogna del patto di omertà
Va detto che le due linee complottiste convenivano su un punto comune, ovvero che esistesse una fantomatica «verità ufficiale» espressa – a loro dire – nelle sentenze giudiziarie (4 processi con relativi gradi di giudizio più 5 inchieste) sommate al «memoriale» dei dissociati-collaboranti Morucci-Faranda, eletto a ricostruzione unica della vicenda, presentato come il frutto di un accordo, un patto di omertà reciproca tra Stato e Br, tra Dc e brigatisti tutti senza distinzione di sorta (in proposito leggi qui).

Si tratta dello schema narrativo costruito negli ultimi anni sulla vicenda e che anche Report ha riprodotto senza particolare originalità. Un schema che consente di presentarsi come i disvelatori di una menzogna pattuita, coloro che fanno riemergere una verità occultata. L’invenzione del «patto», la tesi che i brigatisti abbiano sempre sostenuto un verità che fosse sovrapponibile con la versione delle istituzioni è la prima grande falsificazione di questa narrazione sul sequestro Moro.

Chi conosce l’immensa mole documentale che riguarda la vicenda, chi ha letto le varie sentenze, sa – per esempio – che esse sono in contrasto tra loro, che ci sono errori e inesattezze nelle ricostruzioni dovute alle carenze informative e di indagine che si sono colmate nel tempo, ma mai del tutto, grazie alle successive inchieste e processi. Basti pensare alla dinamica dell’agguato di via Fani descritta nel primo processo e agli accertamenti successivi che l’hanno in parte corretta. O ancora, al numero spropositato di condannati per la partecipazione al sequestro che non corrisponde al numero ben minore dei reali partecipanti, o alle condanne per un fatto mai accaduto, come il tentato omicidio contro il testimone Alessandro Marini, un mentitore seriale alla fine smentito anche dalla Moro 2.

Un memoriale eletto a verità ufficiale
Non esiste una verità ufficiale monolitica, come al tempo stesso il cosiddetto memoriale Morucci-Faranda costruito attraverso il collage delle varie deposizioni fornite durante l’istruttoria e poi nei vari gradi di giudizio, con l’aggiunta finale dei nomi lì dove in precedenza erano stati indicati solo dei numeri (per ottenere ulteriori vantaggi nel trattamento penitenziario), rappresenta la ricostruzione di Moruci e Faranda non delle Brigate rosse, i cui partecipanti al sequestro hanno fornito nel tempo, attraverso libri, interviste, alcuni anche in sede processuale, la loro versione dei fatti. Una poliedricità testimoniale raccolta e ristudiata recentemente da diversi ricercatori che Report si è ben guardata dal consultare. La parola degli storici come quella dei protagonisti ancora in vita, brigatisti da una parte, poliziotti, carabinieri e giudici dall’altra, è l’unica assente nell’inchiesta.

Le versione di Pazienza
L’Adnkronos ha ascoltato anche Francesco Pazienza che ha smentito di esser stato contattato da Ranucci in occasione della inchiesta in preparazione su Report: «Avevo saputo solo – spiega – che (Report ndr.) doveva fare un servizio su Moro». 
Come lo avrebbe saputo non lo dice e sarebbe utile saperlo, visto che non lavora in Rai. Pazienza spiega di essersi mosso autonomamente, rivolgendosi a Lovatelli Ravarino per chiedergli notizie su una vicenda collegata al sequestro per «dare una mano». Nello scambio whatsapp con Lovatelli Ravarino, documentato dallo screenshot (vedi qui), scrive però «Ti contatterà Sigfrido Ranucci se mi dai l’ok per dargli il tuo numero». Lovatelli lo autorizza.

Le rivelazioni di Dark Side

Non vorremmo essere troppo puntigliosi ma l’espressione «Ti contatterà» lascia intendere che ci sia stato un pregresso accordo con Ranucci o comunque l’intenzione di contattarlo immediatamente. Di questo parleremo meglio in una prossima puntata, per ora limitiamoci ad una grossa novità emersa ieri nel corso di una nuova intervista a Pazienza trasmessa sul sito di Dark Side, un format complottista che si occupa della «storia segreta d’Italia», curato da Gianluca Zanella, agente letterario che ha promosso il libro, La versione di Pazienza, scritto da Pazienza stesso, e si occupava di inchieste sul Giornale.it insieme al suo amico Marcello Altamura, giornalista su Cronache di Napoli e in passato sul Giornale, autore di un libro su Maradona e di uno su Senzani.
Nel corso della intervista, Pazienza ribadisce quanto già detto all’Adnkronos sul rapporto nato «un paio di anni fa» con Ranucci. Ma dal minuto 4 possiamo sentire (clicca qui):

«Conosco Ranucci da due anni e mezzo perché Ranucci scrisse alcune imprecisioni su di me, io gli dimostrai che quello che aveva detto era assolutamente contrario alla verità con documenti alla mano e lui molto onestamente rilasciò una dichiarazione Ansa in cui diceva chiaramente che era incorso in una imprecisione nei miei confronti. Da quel momento è nato un rapporto amichevole con Ranucci, è tutto qui né più né meno […] Adesso io non faccio la lista ma ci sono alcuni enormi scoop fatti dalla Rai che sono stati fatti grazie a me».

Zanella non incalza Pazienza, non gli pone subito la domanda giusta: quali sarebbero questi scoop e per quali trasmissioni della Rai li avrebbe forniti?

Ricapitoliamo
Pazienza conosce Ranucci da due anni e mezzo, si sono sentiti più volte. Ranucci è il conduttore di Report dal 2017 e vicedirettore di Rai Tre dal 2020.
Credo che tutti cittadini che pagano il canone Rai vorrebbero sapere quale sia la natura dei rapporti che intercorre tra Ranucci e Pazienza e quali scoop egli ha fornito alla Rai o a Report?

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Depistaggi e depistatori, Sigfrido Ranucci ha chiesto l’aiuto di Francesco Pazienza per realizzare la puntata di Report sul sequestro Moro

Rivelazioni – Per denunciare un depistaggio è opportuno rivolgersi a un depistatore di professione, condannato per questo dalla giustizia? 
Per denunciare il presunto ruolo avuto da Servizi segreti occidentali, insieme a massonerie e consorterie varie, è normale chiedere l’aiuto di colui che è ritenuto una delle figure apicali del cosiddetto «Sismi parallelo», stretto collaboratore del generale Santovito, capo del Sismi ufficiale?
Sarebbe come se la pecora chiedesse al lupo di scoprire chi ha mangiato i suoi agnellini. Ebbene, è proprio quello che ha fatto Sigfrido Ranucci per confezionare la puntata di Report sul sequestro Moro, andata in onda ieri sera dopo un impressionante battage pubblicitario sulle verità nascoste e finalmente rivelate.

Francesco Pazienza interviene per «dare una mano» a Report
Siamo venuti in possesso di uno scambio whatsapp tra Francesco Pazienza e Cristiano Lovatelli Ravarino, giornalista italoamericano, avvenuto nella fase preparatoria della trasmissione. Pazienza, in un inglese alquanto incerto, chiede a Ravarino se può aiutarlo «con particolari mai svelati riguardanti la tragedia di Moro?». Si tratta – prosegue – «di una nuova ricostruzione del rapimento e della morte da parte della televisione italiana. Mi hai accennato ad alcuni particolari riguardanti il ​​luogo di Roma dove era stato ritrovato il corpo di Moro».
Pazienza fa riferimento alla parentela di Ravarino con la nobile famiglia Caetani, via nella quale venne fatto trovare Moro all’interno della Renault 4 la mattina del 9 maggio 1978 ed è situato palazzo Caetani.

A quel punto Ravarino chiede se «è un collega giornalista americano che ti sta intervistando?» e Pazienza risponde: «No, Rai e non mi sta intervistando. Se posso cerco sempre di dare una mano», quindi informa Ravarino: «Ti contatterà Sigfrido Ranucci se mi dai l’ok per dargli il tuo numero». Ravarino accetta anche se alla fine non è stato coinvolto nella trasmissione. Ma il punto, diremmo lo scandalo, la vergogna, la presa in giro per tutti gli ascoltatori e utenti della televisione pubblica, è il coinvolgimento di Pazienza nella costruzione della inchiesta. Una inaspettata circostanza che spiega a quale mondo gli autori di Report si sono abbeverati per raccontare i presunti segreti del sequestro Moro. Un mondo di depistatori, fatto di agenti informali dei Servizi, di relazioni ambigue e poco trasparenti, abituati ad agire nell’ombra, dietro le quinte e che secondo i giornalisti di Report avrebbero il dono di fare luce su vicende come il sequestro dello statista democristiano. Singolare paradosso per una trasmissione a tesi che ripropina la versione, ormai screditata, del ruolo giocato nella vicenda dai servizi americani-inglesi-mossad-massoneria-P2-’ndarngheta-fino al commissariato di Montemario per bloccare «l’accordo rivoluzionario tra DC e Pci», come ha detto in trasmissione lo stesso Ranucci.
Un po’ come chiedere al leone di raccontare la storia della gazzella, tramanda un vecchio proverbio africano.
Una contraddizione inquietante che solleva dubbi sulla genuinità degli intenti e sulla correttezza del lavoro svolto. Potremmo fermarci qui senza aggiungere altro, perché l’ingombrante figura di Francesco Pazienza è già molto, anzi troppo.

Una discarica della dietrologia
Su quello che ci ha propinato la puntata di ieri sera, una sorta di discarica dell’ultima dietrologia raccolta tra i rifiuti della commissione Moro 2 e la relazione del magistrato Guido Salvini presentata nella scorsa legislatura per la commissione antimafia, in realtà si è già scritto e detto molto negli anni passati. Ripercorrere ogni questione, punto per punto, richiederebbe lo spazio di uno o più libri già scritti e pubblicati, per questo rinvio ai lavori di Clementi, Satta, Lo Foco, Armeni, e ai miei, nonché alle molte pagine di questo blog dedicate a queste vicende, dove le fake news propinate sono state smontate e chiarite ampiamente.

La memoria scivolosa di Claudio Signorile
Ieri sera il succo della trasmissione ruotava attorno alla testimonianza dell’ex segretario del partito socialista Claudio Signorile, personaggio dalla memoria scivolosa che ha cambiato più volte versione nel tempo, arricchendola di particolari mai citati in precedenza e anticipando ogni volta gli orari dell’incontro con Cossiga, la mattina del 9 maggio 1978 al Viminale, e l’arrivo della telefonata che l’avvertiva del ritrovamento del corpo di Moro (leggi qui). Davanti alla corte d’assise del primo processo Moro, quando i fatti non erano lontani e la memoria fresca, Signorile non accennò mai all’episodio. La sua versione è sostanzialmente cambiata tre anni dopo la morte dell’ex presidente della Repubblica (2010), l’unico che poteva smentirlo, e le dichiarazioni di uno degli artificieri chiamati il 9 maggio in via Caetani per aprire la Renault 4. Modificando nel 2013, a distanza di decenni, la sua versione, l’artificiere sostenne che Cossiga sarebbe arrivato sul luogo prima della telefonata dei brigatisti che annunciavano la riconsegna del corpo. Vitantonio Raso, questo il suo nome, dopo una inchiesta che verificò l’inattendibilità della sua nuova versione venne indagato per calunnia e depistaggio dalla magistratura. L’episodio riaccese l’incerta memoria di un Signorile attempato e senile che, dimenticando la ragione politica per cui era andato da Cossiga quella mattina, ovvero perorare la trattativa proprio il giorno in cui Fanfani aveva promesso di dire qualcosa durante i lavori della Direzione democristiana, cosa che non fece tacendo, accusa l’allora ministro dell’Interno di aver saputo in anticipo della morte di Moro e di essere per questo in qualche modo coinvolto nella sua uccisione, non più per mano brigatista o solo brigatista, ma di altre forze, i servizi inglesi, che sarebbero subentrati.

De relato, morti che parlano o non possono replicare

La tecnica narrativa impiegata nella puntata e ripresa dai lavori di noti dietrologi e ipercomplottisti è interamente costruita su congetture, ipotesi, periodi ipotetici della irrealtà, de relato di secondo o terzo grado, che hanno come fonte originaria dei defunti, morti che parlano come per la vicenda di via dei Massimi, uno degli ultimi topos della dietrologia, che tanto ha ossessionato i lavori della commissione Moro 2 presieduta dal Giuseppe Fioroni. 
Un pallino, in realtà, di alcuni suoi consulenti, come il colonnello dei carabinieri Giraudo e il giudice Salvini, abili nel far parlare i defunti, come il portiere del palazzo che avrebbe raccolto le confidenze dell’altro defunto, il generale D’Ascia (sembra un’agenzia funebre), militare del genio, fonte della guardia di finanza con il compito di monitorare una palazzina frequentata dal cardinale Marcinkus (implicato nello scandalo dello Ior) e da altri prelati vaticani e diplomatici. Surreale la testimonianza dei figli del portiere presentata durante la trasmissione.
In questa sua veste, D’Ascia, o meglio i suoi de relato riferiti al portiere e riportati dai figli, avrebbero dato sfoggio alla sua mitomania attirando l’attenzione su una giornalista, corrispondente dei più importanti settimanali tedeschi e della televisione pubblica, che aveva avuto una figlia con il parlamentare del Pdup Lucio Magri, ed era amica di Franco Piperno. Le accuse mosse contro la donna dalla commissione Moro 2 hanno dato luogo ad una querela (Leggi qui) contro uno dei suoi membri, Gero Grassi, è oggi sono approdate alla corte europea di Strasburgo, dove è stato depositato un ricorso contro lo Stato italiano (leggi qui). Abbiamo così saputo che Marcinkus amava banchettare in giardino con carni arrostiste sul barbecue e che la prima prigione di Moro sarebbe stata una dépendance abusiva situata sul balcone dell’alloggio dell’ambasciatore dello Scia di Persia, che non era l’Iran di Komeini. In una città super blindata, Moro non sarebbe mai approdato in via Montalcini ma avrebbe trascorso una vacanza nella villa degli Odescalchi a Palo Laziale, passeggiando sulla sabbia che gli rimase nel risvolto dei pantaloni, quindi ricondotto lungo la via Aurelia, dove ogni chilometro c’era un posto di blocco con nido di mitragliatrici, avrebbe transitato per il ghetto per poi essere ucciso in un deposito di via della Chiesa nuova. Anche qui rivelazione ricavata dai de relato di due morti: De Lutiis e Vincenzo Parisi, ex capo della Polizia e del Sisde.
Un pezzo da «Blob» è stata invece la lunga testimonianza dell’anonimo travisato nel buio di una stanza, una sorta di teste della corona presentato come un poliziotto esperto a cui venivano fatte raccontare circostanze inverificabili o già note, perché riportate nelle relazioni annuali della Cm2. Insomma un giornalismo che non ha nemmeno il coraggio di presentare le sue fonti in chiaro, accettando il principio della verificabilità. Ne è venuto fuori un racconto obliquo, opaco, immerso nella melma acquitrinosa e malarica del complottismo. E chissà alla fine cosa penserà il povero Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione familiari della vittime della strage di Bologna, per essere intervenuto in una trasmissione che ha visto tra i collaboratori anche Francesco Pazienza, condannato per il depistaggio sulla strage.