Ma dove vuole portarci Saviano?

A “Vieni via con me” tra un elogio delle scorte di polizia, citazioni di Prezzolini e Longanesi che tanto sarebbero piaciute a Montanelli, l’autore di Gomorra ha messo in scena la sua scelta di campo

Paolo Persichetti
Liberazione 10 novembre 2010


Imbarazzante. Non troviamo altro modo per definire la prestazione fornita da Roberto Saviano lunedì sera a Vieni via con me, il programma ideato con Fabio Fazio su Rai3. Se nei suoi libri aveva già dimostrato di non essere un nuovo Umberto Eco, da lunedì sera sappiamo che non sarà nemmeno il nuovo Marco Paolini. A vederlo abbiamo provato nostalgia per le prediche di un qualunque Celentano, per le intemperanze di un qualsiasi Sgarbi. Persino Gianfranco Funari con il suo trash televisivo ci è mancato. Al cospetto il senso di inadeguatezza dimostrato, i luoghi comuni sciorinati, l’uso sistematico di una memoria selettiva e arrangiata, la pochezza culturale messa in campo suscitavano disagio. Un senso di pena e quasi un moto di rimprovero per chi lo ha trascinato fin lì. Un monologo melenso di trenta minuti, privo del senso del ritmo, di battute folgoranti, della potenza delle pause, ma accompagnato solo da uno smisurato e pretensioso egocentrismo, sono stati davvero troppi. Forse un posto giusto per Saviano in televisione ci sarebbe pure, magari nel confessionale del Grande fratello o sotto il fresco di una bella palma nell’Isola dei famosi. Perché il livello è quello lì: un derivato speculare dell’era berlusconiana.
La lunga serata televisiva era cominciata al mattino sulle pagine di Repubblica, dove Saviano annunciava che avrebbe raccontato il funzionamento della “macchina del fango”. Ma il calco televisivo dell’articolo scritto da Giuseppe D’Avanzo a metà ottobre non è riuscito un granché. L’autore di Gomorra piangeva censura. Singolare lamentela per un personaggio che vende centinaia di migliaia di copie con la Mondadori, l’ammiraglia editoriale della famiglia Berlusconi, ha pubblicato l’ultimo libro per la prestigiosa Einaudi diventata una sottomarca sempre della Mondatori, scrive sul secondo quotidiano italiano emanazione di uno dei più potenti e aggressivi gruppi editoriali-finanziari (De Benedetti-Repubblica-Espresso), va in televisione a recitare monologhi nemmeno fosse il presidente della Repubblica, percepisce in cambio un compenso di alcune centinaia di migliaia di euro, cioè l’equivalente di oltre venti anni di salario di un impiegato o di un operaio e di almeno due esistenze di lavoro di un qualsiasi precario.
Il vittimismo è proseguito per l’intera serata rivelando la grave mitomania del personaggio che ha utilizzato alcuni spezzoni televisivi sul giudice Falcone per parlare, in realtà, di sé. Il transfert era evidente. Saviano ha messo in scena la propria voglia di martirio, manifestazione preoccupante di quella sindrome che gli esperti chiamano di san Sebastiano. Non ha rinunciato poi ad inviare dei segnali politici molto chiari. Per tutta la serata non ha mai citato la parola destra, ovviamente tirando bordate, senza mai nominarlo, contro Berlusconi. Ha invece più volte richiamato le responsabilità della sinistra colpevole di aver lasciato solo Falcone, ucciso poi dalla mafia. In realtà a farlo furono soprattutto gli antesignani del giustizialismo odierno, quegli esponenti della Rete che sospinti dall’anticraxismo criticarono la sua scelta di collaborare col guardasigilli Martelli. Insomma lunedì sera Saviano ha tirato la volata alla destra di san Giuliano, quella di Fini. I suoi fans di sinistra è ora che se ne facciano una ragione.

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Anche Berlusconi lancia la caccia ai Rom

Il Consiglio dei ministri vara il secondo pacchetto sicurezza dopo quello del 2008. Misure contro le prostitute di strada. Scatenata la caccia ai Rom. I prefetti potranno utilizzare la polizia per far rispettare le ordinanze dei sindaci-potestà. Carta d’identità elettronica anche per i neonati

Paolo Persichetti
Liberazione 6 novembre 2010

«Abbiamo deciso di inserire una norma sul reato di prostituzione nel pacchetto sicurezza». La frase è stata pronunciata ieri da Silvio Berlusconi, anche se nelle intenzioni del premier non voleva essere la solita stucchevole barzelletta con la quale ogni volta egli pensa di accattivarsi l’uditorio che ha di fronte, come consigliano alcuni manuali di management. La tragedia degli uomini ridicoli è quella di non possedere nessuna qualità comica. Al massimo riescono a sprofondare nel grottesco. Dopo una estate trascorsa all’insegna delle rivelazioni sulle escort che vanno e vengono dalle lussuose residenze private del presidente del consiglio, dopo i verbali resi davanti alla magistratura da alcune testimoni sui festini a luce rossa e i party a base di sesso a pagamento e droghe avvenuti nelle sue ville, riferiti dalla stampa nelle ultime settimane, Berlusconi è arrivato alla conferenza stampa per presentare il nuovo pacchetto sicurezza annunciando il varo, addirittura con misura d’urgenza tramite decreto legge, di una nuova norma contro la prostituzione. Poiché – ha spiegato senza il minimo imbarazzo ma con il suo consueto sorriso di plastica – il provvedimento contenuto nel ddl preparato dalla ministra per le Pari opportunità, Mara Carfagna, «non procedeva in Parlamento abbiamo ritenuto di riapprovarlo di nuovo». La misura – ha precisato il ministro degli Interni Roberto Maroni, presente anch’egli alla conferenza stampa – prevede l’introduzione del foglio di via obbligatorio per chi esercita la prostituzione in strada violando le ordinanze dei sindaci in materia. Niente a che vedere con il meretricio di Stato, insomma quello sotto scorta che affolla le serate rilassanti del primo ministro. «Fumo» per sollevare l’allarme su «un’emergenza prostituzione, che non c’è», ha commentato Pia Covre, segretaria del comitato per i Diritti civili delle prostitute, che ha ricordato come il foglio di via per chi lavora sui marciapiedi «esiste già e molti già lo applicano». Il decreto attribuisce ai prefetti il potere di disporre del concorso delle forze di polizia per assicurare l’attuazione delle ordinanze in materia di sicurezza urbana. In questo modo, ha spiegato Maroni, «si rafforza il ruolo dei sindaci: le ordinanze comunali, infatti, si sono spesso rivelate poco efficaci perché non c’era collegamento con le forze di polizia che dovevano attuarle». Arriva a compimento così la filosofia penale d’eccezione contenuta nel primo pacchetto sicurezza varato nel 2008, quello che aveva esteso la possibilità per i sindaci di emettere ordinanze amministrative in deroga alle situazioni di urgenza e necessità. Il federalismo di stampo leghista erige così un altro pezzo della sua architettura autoritaria della società. Il combinato disposto delle ordinanze amministrative emanate da sindaci, trasformati in potestà, che intervengono cortocircuitando giunte e consigli comunali, supportate dalla forza pubblica, disegnano un sistema istituzionale non previsto dalla attuale costituzione che fa a meno degli organi di rappresentanza e soprattutto attribuiscono carattere di sanzione penale a norme amministrative, spesso stravaganti e assolutamente incoerenti, non previste dal codice penale. Alla stessa logica appartiene l’attribuzione ai comuni delle competenze in materia di rinnovo dei permessi di soggiorno. Ogni anno le questure rinnovano 500mila permessi.  «noi vogliamo – ha detto Maroni – che il rinnovo dei permessi di soggiorno venga tolto alle questure e suddiviso sul territorio nei comuni dove i cittadini comunitari risiedono». Un modo per trasferire il controllo sulle politiche migratorie in mano alle forze politiche che controllano il territorio. La Lega che controlla buona parte del Nord potrà così avere mano libera per trasformare i cittadini extracomunitari in situazione regolare in “clandestini” e quindi cacciarli dal Paese, costringerli a spostarsi altrove o addirittura arrestarli grazie al reato di immigrazione clandestina introdotto nel precedente pacchetto sicurezza. Altra norma xenofoba e razzista introdotta, questa volta sotto forma di disegno di legge, è  la possibilità di espellere i cittadini dell’Unione europea che vogliano soggiornare in Italia oltre i 90 giorni senza avere i requisiti di alloggio e reddito. Si tratta di un calco della legge introdotta recentemente dal governo francese per espellere le comunità Rom e nomadi in genere. «La violazione – ha spiegato sempre il ministro dell’Interno – oggi non è sanzionata e dunque noi introduciamo una sanzione che è l’invito ad allontanarsi. Se questo invito non viene rispettato, è prevista l’espulsione del cittadino comunitario per motivi di ordine pubblico». L’unica nota positiva dei nuovi dispositivi di legge, ovvero l’abrogazione della legge Pisanu che vietava l’accesso libero alle postazioni wi-fi e agli internet-point, è stata subito compensata dall’introduzione della nuova carta di identità elettronica sin dalla nascita per tutti i cittadini. La schedatura biometrica degli italiani comincerà sin dalla culla.

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«La produzione è ovunque, anche le rivolte urbane»

Intervista – Parla Alain Bertho, docente di antropologia all’Institut d’Etudes Européennes e direttore della scuola di dottorato in Scienze sociali all’Università di Paris 8 a Saint Denis. Uno dei più attenti studiosi delle periferie francesi e delle nuove forme assunte dal conflitto sociale

Guido Caldiron
Liberazione 31 ottobre 2010


Autore di una decina di saggi che spaziano dal controllo sociale nelle aree urbane ai nuovi movimenti giovanili, fino alla guerra, Alain Bertho ha pubblicato lo scorso anno presso le Editions Bayard (pp. 272, euro 19) Le temps des émeutes, un volume che presenta quella odierna come l'”era delle rivolte”, mettendo in parallelo quanto accaduto negli ultimi decenni in Europa, dalla Genova del 2001 all’Atene di quest’anno, con fenomeni simili che si sono prodotti un po’ ovunque nel mondo: dal Tibet alla Cina, passando per l’America Latina e l’Iran. La tesi di Bertho è infatti che, al di là delle modalità e dalle forme assunte dalle rivolte scoppiate in tutto il mondo negli ultimi trent’anni, questi fenomeni ci parlino di una stessa realtà: quella costruita dalla globalizzazione economica e dalla rivoluzione produttiva postfordista che hanno trasformato l’intero spazio urbano in una immensa area produttiva e, per questa via, anche nel “luogo” del conflitto. Il libro rappresenta in realtà solo una prima fotografia di questi fenomeni che Bertho continua a monitorare attraverso il suo blog, berthoalain.wordpress.com e a cui ha dedicato un documentario, realizzato insieme al regista Samuel Luret, Les raisons de la colère, che sarà trasmesso martedi 9 novembre alle 23.30 da Arte, canale disponibile attraverso il satellite anche nel nostro paese, nell’ambito della serata tematica “Le rivolte urbane al di là dei pregiudizi” che propone anche alle 22.35, a cinque anni dalla rivolta delle banlieue francesi del novembre del 2005, La tentation de l’émeute, un’inchiesta condotta tra gli abitanti di Villiers sur Marne, alle porte di Parigi.

Professor Bertho, perché a suo giudizio siamo entrati nel “tempo della rivolta” e che cosa vuol dire esattamente questa definizione scelta come titolo per il suo ultimo lavoro?
Il titolo del mio libro, “Le temps des émeutes” fa riferimento al fatto che viviamo in un’epoca contrassegnata un po’ ovunque nel mondo dalla “rivolta”. Nel mio blog dò conto di queste rivolte, tra loro anche molto diverse, il cui numero non ha mai smesso di crescere negli ultimi anni un po’ in tutte le parti del mondo. Si tratta perciò di un fenomeno non occasionale ma che, al contrario, “segna” in modo netto l’epoca in cui viviamo. Si tratta di rivolte che hanno per questo periodo il senso che poteva aver avuto nell’Ottocento la Comune di Parigi o nel Novecento la Rivoluzione bolscevica o il Sessantotto. A differenza del passato, le rivolte di oggi si caratterizzano però per alcune particolarità. La prima è rappresentata dal fatto che non stiamo parlando di un unico movimento, ma di fenomeni tra loro molto diversi che sono accumulabili solo per il fatto che si manifestano attraverso la rivolta. La rabbia che genera questi émeutes ha infatti origini molto diverse e perciò risulta impossibile accumunare e leggere allo stesso modo i diversi fenomeni sociali di cui ci parla. Da questa condizione deriva una sorta di “invisibilità”, si parla ogni volta di quello che accade in questo o quell’angolo del mondo, mai di un qualcosa di complessivo e stabile. L’altra particolarità rispetto al passato è proprio il fatto che queste rivolte sono destinate a durare nel tempo, non si esauriscono in un periodo limitato ma finiscono per caratterizzare stabilmente la vita di una determinata società. Il paradosso è che in realtà, al di là delle differenze apparenti, queste rivolte si esprimono con un vocabolario simbolico tra loro molti simile e dicono, spesso nello stesso modo, delle cose chiare al potere. Se prendete delle foto delle ultime rivolte che ci sono state sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, in Cina, Bangladesh, Venezuela, Spagna, Turchia o ad Atene, vi troverete di fronte agli stessi visi mascherati, le stesse paure, la stessa rabbia e lo stesso fuoco. Si tratta, di fronte ai processi di globalizzazione che caratterizzano l’intero pianeta, di una sorta di messa in discussione complessiva dello spazio della rappresentanza politica: uno spazio che è la rivolta stessa a voler occupare.

Lei dice che queste rivolte hanno un evidente carattere politico, eppure da tempo il dibattito nella sinistra francese, in particolare sugli émeutes che si verificano nelle banlieue, si caratterizza per negare la natura “politica” di questi fenomeni, derubricati a questioni di ordine pubblico. Come stanno le cose?
Il punto da cui partire per rispondere a questo tipo di analisi riguarda la natura stessa di queste rivolte. Si tratta di chiarire come non sia assolutamente vero che gli émeutes non dicono nulla, che siano degli atti di violenza o di vandalismo fine a se stessi. Le rivolte nelle banlieue “dicono” molte cose e soprattutto se i giovani che vi partecipano arrivano a doversi ribellare con queste modalità, significa che non trovano alcun altro modo possibile per “prendere la parola” nella società in cui vivono. Per questo credo che la prima cosa di cui ci parlano queste rivolte sia proprio la crisi dello spazio della rapresentanza politica così come si è andato definendo per tutto il XIX e il XX secolo. La cultura politica della sinistra che si è formata negli scorsi secoli proprio attraverso le rivolte e la volontà di cambiare la società, si è progressivamente trasformata nell’idea che per cambiare la società si dovesse prendere il potere, che si trattasse di farlo con la rivoluzione o attraverso le elezioni poco importa. Vale a dire che è attraverso lo Stato che si pensava di cambiare il mondo e la vita delle persone. Il risultato è che oggi la politica si gioca per molti aspetti tutta all’interno dello Stato, nella conquista di una maggioranza o di una quota elettorale, in quella che per molti giovani delle classi popolari appare come una sorta di bolla separata e lontana dal resto della società. Come se esistessero due lingue; da un lato quella dello Stato e della politica, dall’altro quella società. 

La gran parte di queste rivolte hanno luogo nello spazio urbano e, per questa via, sembrano dirci molto di come la globalizzazione ha cambiato l’idea stessa di città.

A partire da quanto accaduto negli ultimi trent’anni nelle banlieue francesi, come possiamo leggere quello che gli émeutes ci dicono di questa trasformazione?
Credo che prima di tutto ci stiano dicendo che lo scontro di classe ha ormai superato i muri delle fabbriche e si è sparso sull’intero territorio. Oggi nelle grandi metropoli globali del mondo non è nelle fabbriche che si produce la ricchezza, bensì nella città stessa, interamente “messa a produrre” attraverso ogni genere di rete sociale, comprese quelle legate agli affetti e all’inventività dei singoli. Perciò il conflitto, come le forme assunte dalla produzione, attraversano l’intero spazio urbano e non restano più limitate alle mura della fabbrica. Non solo, lo spazio urbano è diventato lo scenario di uno scontro di proporzioni globali, nel senso che a tirare le fila dell’economia non è più il singolo “padrone” locale, ma gruppi internazionali che più che sulla produzione in senso stretto si arricchiscono attraverso la rendita e la finanziarizzazione di tutti i processi, ciò che la crisi delle borse degli ultimi anniha evidenziato in maniera drammatica. Anche per questo il conflitto sociale sembra faticare ad esprimersi nelle forme tradizionali e finisce per cercare nella rivolta la propria forma di comunicazione verso l’esterno: non un’azione “di lotta” in un singolo spazio, ma una messa “in scena” dell’insurrezione completa dell’intera città. Come diceva una giovane di Saint Denis durante una recente manifestazione: «Oggi siamo noi stessi ad essere diventati “la merce”, è sulle nostre vite che si crea il profitto, e perciò non possiamo che ribellarci occupando le strade, riprendendoci, per quanto possibile, la città».

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Carceri, giustizia, processi, condanne: il Paese inventato nel salotto di Bruno Vespa e quello reale descritto nel VII rapporto sulle carceri di Antigone

Menzogne, bugie e talk show. Il mondo virtuale che rovescia la realtà mandato in onda da Bruno Vespa a Porta a Porta

Paolo Persichetti
Liberazione 23 ottobre 2010


Nei giorni scorsi il Corriere della sera ha dato rilievo alla denuncia pubblica lanciata da Sabina Rossa, figlia del sindacalista rimasto ucciso nel gennaio 1979 in un attentato delle Brigate rosse. La donna, oggi parlamentare del Pd, raccontava di essere stata convocata per posta dal tribunale di sorveglianza di Bologna. Un funzionario di polizia l’attendeva per raccogliere su un verbale di “sommarie informazioni” il suo parere riguardo alla domanda di liberazione condizionale presentata da Prospero Gallinari, esponente storico delle Br, ormai al suo trentesimo anno di pena scontata, tra carcere e arresti domiciliari ottenuti a causa delle sue condizioni di salute incompatibili con il regime carcerario. Da una decina di anni i giudici di sorveglianza hanno istituito una prassi non contemplata dalla norma di legge, l’articolo 176 cp. Ritengono essenziale per la concessione della liberazione condizionale la presenza del perdono dei familiari delle vittime, equiparandola di fatto alla concessione della grazia. Misura di clemenza profondamente diversa che estingue, per intero o in parte, la pena. La liberazione condizionale introduce invece un regime di “libertà vigilata” la cui durata non può oltrepassare i 5 anni. Sabina Rossa ha contestato sia il merito della richiesta che la procedura intrapresa. Altri tribunali di sorveglianza pretendono dal detenuto che voglia farne domanda l’invio di lettere con richiesta di perdono ai familiari delle vittime. Prassi che riapre ferite laceranti e carica sulle spalle dei familiari scelte politiche e giudiziarie che appartengono allo Stato. E’ quanto sostenuto dalla senatrice Rossa che sottolinea come «il perdono della persona offesa non sia richiesto dalla legge». Per questo ha anche presentato una proposta di legge, che ha raccolto l’assenso di altri familiari e parlamentari, con l’obiettivo di ripristinare una separazione tra diritto e morale introducendo criteri di giudizio oggettivi, come il comportamento.
Giovedì sera Bruno Vespa ha colto al volo l’occasione per invitare a Porta a porta la senatrice e dedicare una intera puntata alla «giustizia che non fa giustizia», al «carcere che scarcera». Un minestrone di disinformazione, di errori grossolani e propaganda forcaiola che metteva insieme situazioni diverse: esecuzione di pene ultradecennali, casi di cronaca nera ancora alle prime indagini come quello di Sarah Scazzi, delitti a sfondo razzista come quello di Alessio Burtone, vicende passate in giudicato come i nuovi omicidi commessi dal collaboratore di giustizia Angelo Izzo, o i delitti nazisti firmati Ludvig di Abel uscito per fine pena, per dire in sostanza che c’è troppa clemenza in giro nonostante le carceri esplodano, che un condannato arriva a scontare appena un terzo della pena inflitta (panzana grottesca). Un frullato incommestibile di chiacchiere da bar, fandonie e bugie incapace persino di percepire il ridicolo quando, dopo aver denunciato la solita incertezza della pena, nel chiedere alla senatrice Rossa che fine avessero fatto le persone condannate per la morte di suo padre, ha ricevuto come risposta: «uno è stato ucciso nel marzo 1980 in un blitz dei carabinieri del generale Dalla Chiesa in via Fracchia, l’altro è in carcere da più di 30 anni».
Accade così che vi sia una realtà virtuale tutta in bianco e nero, quella raccontata da Vespa, che narra un paese rovesciato dove il crimine se la passa liscia e le vittime non trovano giustizia. E poi il mondo reale come quello descritto nel VII rapporto sulle carceri italiane presentato ieri mattina a Roma dall’associazione Antigone. I detenuti sono 68.527 per soli 44.612 posti letto. Praticamente non ci sono più nemmeno i posti in piedi. Niente a che vedere con le cifre ascoltate nel salotto di Vespa. I semiliberi sono appena 877. Alla faccia del carcere che mette fuori facilmente. L’area penale esterna, cioè quelli che scontano misure alternative per condanne, inferiori o residuali, sotto i due-tre anni, sono 12.492. Tra questi quelli che hanno commesso reati sono appena lo 0,23%. Nel paese dove si racconta che l’ergastolo non esiste più, i “fine pena mai” sono 1491. I detenuti con meno di 25 anni sono invece 7.311, i bambini sotto i tre anni 57. Quelli che hanno commesso violazioni della legge Fini-Giovanardi sulle droghe 28.154, il doppio della media europea. 113 i morti in carcere, di cui 72 suicidi e 18 ancora da accertare. Nei primi 9 mesi del 2010 i suicidi sono già a quota 55. Ad avere solo un anno da scontare sono 11.601, a riprova del fatto che in carcere è più facile entrare che uscire. 43,7% i reclusi (record europeo) ancora giudicabili, tra questi 15.233 in attesa del primo giudizio. Siamo il paese del carcere preventivo, della pena anticipata, della sanzione senza processo dove finiscono solo poveri, immigrati, tossicodipendenti, infermi di mente. Quelli che da Vespa non vedremo mai.

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Cronache carcerarie
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Stefano Cucchi, “non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte”

Il libro di Ilaria Cucchi sulla morte del fratello Stefano: «Nessuno deve più morire in un carcere o in una caserma». Ostacoli e retroscena su una verità che fa paura alle istituzioni. Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli 2010

Paolo Persichetti
Liberazione 22 ottobre 2010

«Noi non c’entriamo, la divisa non ha colpa». Si congeda con queste parole il maresciallo dei carabinieri che aveva portato alla madre di Stefano Cucchi la notizia del decesso del figlio, esattamente un anno fa nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini. Non una imbarazzata frase di circostanza ma l’annuncio di una programmatica impunità. L’episodio è rivelato da Stefania Cucchi nel libro scritto insieme al giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli. Di frasi del genere in questa terribile storia che racconta l’oscenità del potere che si impossessa dei corpi, se ne trovano altre, come quella pronunciata da un’altro uomo in divisa davanti al reparto dove Cucchi è morto, «Ci sono tutte le carte a disposizione. Se volete potete controllare, noi siamo tranquilli». L’accesso alle carte sarà invece un percorso labirintico, per nulla spontaneo, dovuto unicamente all’attenzione politico-mediatica accesa sul caso dalla pubblicazione delle foto del corpo straziato di Stefano sul tavolo dell’obitorio e dalla caparbietà della famiglia costretta a rinunciare all proprio lutto privato. Le denunce pubbliche innescheranno una doppia inchiesta, parlamentare e amministrativa, arrivando lì dove l’indagine penale da sola non sarebbe mai giunta senza tuttavia dissolvere le molte ombre. L’autoassoluzione preventiva appartiene alle caratteristiche peculiari delle burocrazie repressive. E’ parte del patto tacito stipulato con le gerarchie in cambio della fedeltà e dei servizi prestati, spesso inconfessabili. Non a caso a sancire l’irresponsabilità è arrivato anche il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che a conclusione dell’inchiesta ministeriale affermava, «Gli accertamenti amministrativi hanno rilevato fin qui l’assenza di responsabilità da parte della polizia penitenziaria», nonostante l’indagine interna redatta dal numero due del Dap, Sebastiano Ardita, traesse ben altre considerazioni. «Quando ho potuto leggerla – afferma Ilaria Cucchi – mi sono resa conto che si stava tentando di celare perfino quanto scoperto dalle stesse istituzioni». A fargli compagnia le dichiarazioni preventive del ministro della Difesa Ignazio La Russa in favore dell’Arma dei carabinieri, quando le indagini erano ancora al punto di partenza, e la sortita ignobile del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al lotta contro le tossicodipendenze, Carlo Giovanardi, per il quale Cucchi se l’era cercata. In questa gara all’esportazione delle responsabilità non è stata da meno neanche la Asl competente per territorio sull’ospedale Pertini, che appena dieci giorni dopo il trasferimento in via cautelare reintegrava il personale sanitario indagato. Eppure nei sei giorni che l’hanno separato dall’arresto fino all’ultimo respiro Stefano Cucchi non ha fatto altro che passare di mano da una divisa e l’altra attraverso caserme, camere di sicurezza, carceri, reparti penitenziari di ospedali. In realtà le divise e i camici, inquadrati da altre divise, nella sua morte c’entrano eccome. «In tutte le tappe che hanno visto Stefano Cucchi imbattersi nei vari servizi di diversi organi pubblici, emerge una incredibile continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti», afferma il rapporto interno del Dap che riassume così il calvario del giovane: «Assenza di comprensione del disagio, mancata assistenza ai bisogni, trattazione burocratica della tragica vicenda personale e in alcuni casi assenza del comune senso di umanità, si sono susseguiti in un modo probabilmente non coordinato e con condotte indipendenti fra loro, ma con inesorabile consequenzailità». Il tutto condito da tante violenze, prima durante e dopo, testimoniate da un corpo fratturato e pieno di ematomi. A Cucchi, come recita la canzone di De André, non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte. Il libro è la testimonianza dolorosa del percorso di una famiglia legata a valori tradizionali, «religione, legge e ordine», che proprio per questo scopre il tradimento delle istituzioni in cui ha sempre creduto. Una presa di coscienza che fa dire a Ilaria, “sorella coraggio”, di aver sentito dire in giro che la morte del fratello fa parte di quegli incidenti «inevitabili conseguenze di pratiche e comportamenti che servono a tutelare la sicurezza della collettività. Forse anch’io, un tempo, mi sarei lasciata andare a cose simili ma oggi so che sono inaccettabili. Perché non ci può essere un motivo valido per cui un ragazzo debba morire in un carcere o in una caserma. Non deve accadere, né deve accadere che l’opinione pubblica lo giustifichi come uno sgradevole inconveniente». Ad Ilaria e alla famiglia diciamo una cosa sola: non vi lasceremo mai soli.

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Tullia Fabiani
L’Unità 21 ottobre 2010


È come se fossimo noi gli imputati. Io e i miei genitori, i colpevoli. L’atmosfera che abbiamo percepito in Aula è ostile, come se accusa e difesa fossero coalizzate contro di noi. Forse ci si dimentica che io e i miei genitori stiamo lì perché è morto mio fratello. O forse siamo quelli che stanno dando fastidio solo perché chiediamo, senza tregua, che venga riconosciuta la verità». Ilaria Cucchi è molto amareggiata: due giorni fa è stata scortata dai carabinieri fuori dal tribunale. Era in corso l’udienza del processo che vede imputate 13 persone tra agenti di polizia penitenziaria e medici dell’ospedale romano Sandro Pertini, dove suo fratello Stefano è morto un anno fa, il 22 ottobre, dopo una settimana di agonia. «Mi hanno detto che dovevo uscire dal tribunale per motivi di ordine pubblico e mai avrei immaginato di creare un simile problema. Mi sento umiliata e molto triste, anche perché dover sentire certe cose…» 



Quali cose?
«Ho sentito dire da uno dei legali della difesa: “Adesso oltre il libro faranno anche il film”. Ecco, questo è l’atteggiamento nei nostri confronti, come se nel raccontare quanto accaduto a mio fratello avessimo chissà quale secondo fine. Come posso sentirmi di fronte a certe affermazioni? È una grande mortificazione; ripeto, la sensazione è di essere gli imputati». 



E dipende dal fatto che va in tv, rilascia interviste, scrive libri su quanto accaduto?
«Si, anche. Penso che certi atteggiamenti, come l’allontanamento dal tribunale, dipendano dai miei interventi. Evidentemente non vorrebbero tutta questa attenzione mediatica». 



Chi non la vorrebbe?
«I soggetti coinvolti: accusa e difesa. Però se i pm si sentono sotto pressione possono sempre farsi sostituire».

La procura ha chiesto comunque che dalla prossima udienza siano ammessi in aula stampa e tv.
«Sì. Ci sarà un’udienza martedì 26 e vedremo cosa decide il gup. Per me non c’è alcun problema, anzi. È importante che i giornalisti possano seguire ciò che avviene in aula, vedere come procede l’udienza e qual è il rapporto tra le parti. Che ci sia o meno la stampa la mia impressione sull’atmosfera che respiriamo quando siamo lì non cambia». 



Ce l’ha con loro perché è stata respinta la vostra richiesta di una super perizia su Stefano?
«No, non è questo. So bene che ci sono motivazioni precise e che è stata rigettata non perché infondata, ma perché, come ha spiegato il nostro avvocato, è inammissibile in questa fase processuale. La questione è un’altra: l’episodio dell’altro giorno, venire allontanati dal tribunale, vietare a mia madre di andare sul piazzale per fumare una sigaretta e dare così tanto fastidio al pm da costringerlo a lamentarsene davanti al giudice. E poi subire ad esempio dichiarazioni da parte del pm che dice ai miei avvocati “Non santifichiamo questa famiglia”. Che significa? Che non siamo dei santi e allora non possiamo chiedere giustizia per la morte di mio fratello? È assurdo. Ed è la dimostrazione che la battaglia che stiamo portando avanti è una battaglia ímpari». 



Perché ímpari?
«Oggi sento che questa giustizia non è per tutti. Sento una forte ostilità e un’ostinazione nel voler continuare a negare la realtà. Ma come si fa a continuare a parlare di lesioni lievi quando queste “lesioni lievi” hanno causato la morte di Stefano?. La verità ci è dovuta e io la pretendo». 



Domani, 22 ottobre, sarà un anno dalla morte di suo fratello. Come passerete questa giornata e cosa vi aspettate dopo?
«Per i giorni che verranno vorrei solo che si mettesse finalmente fine all’ipocrisia. E che cominci un’altra storia. È stato un anno tremendo, ci siamo trovati a combattere una battaglia al di sopra delle nostre capacità e delle nostre forze, con la disperazione di non avere risposte. Abbiamo passato giornate drammatiche e solo oggi, dopo un anno, sembra che stiamo cominciando a realizzare l’assenza di Stefano. Domani ci sarà una messa nella nostra parrocchia, alle 15.30 a Santa Giulia Billiart, al Casilino. Poi seguirà un incontro, uno spettacolo teatrale, e la presentazione del libro “Vorrei dirti che non eri solo”. Perché al di là delle allusioni e delle mortificazioni per me anche un libro è un mezzo buono per denunciare l’uccisione di mio fratello e per continuare a chiedere ancora, un anno dopo, verità e giustizia».

Link
Il libro di Ilaria Cucchi: “Nessuno deve più morire in carcere o in una caserma”

Una banda armata chiamata polizia

Ciò che legittima il preteso monopolio dello Stato nel ricorso a mezzi coercitivi (vedi la nota definizione di Max Weber) e lo distingue da una qualunque banda, cosca, ‘ndrina, clan, branco è il principio di autolimitazione e automoderazione. Più l’uso della forza è normato, più la violenza è regolamentata, ridotta ai minimi termini, ai momenti più estremi, maggiore è il grado di legittimazione che la forza pubblica acquisisce. Ma nel momento in cui la violenza istituzionale abbandona questi requisiti, lo Stato ed i suoi appparati tornano ad essere una banda come le altre, non la banda legittima ma soltanto la banda più forte… finché dura.


Libri – autorecensione. Rabbia, odio, spirito di corpo. Nel libro di Carlo Bonini, Acab, Einaudi, i duri delle forze dell’ordine raccontati a partire dalle loro discussioni segrete sul Web. Quello che i celerini non dicono ma fanno

di Carlo Bonini
Repubblica
16 gennaio 2009

“Le violenze alla Diaz dopo il G8 di Genova? Non mi vergogno di nulla. L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino”.
Clic 9788806194697g

“Cari colleghi, riteniamo giusto rammentare, per senso di responsabilità, che DoppiaVela è uno spazio per i poliziotti messo a disposizione dalla polizia di Stato. Le critiche, le lamentele, le segnalazioni di disservizi, anche se esternate in modo aspro ma corretto, fanno parte delle normali dinamiche di dialogo tra l’amministrazione centrale e i singoli dipendenti. Trovano dunque una sede naturale all’interno del portale che non può, però, garantire spazi che la normativa vigente attribuisce ad altri soggettii”.
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Ogni volta che entrava in quella benedetta chat intranet, Drago ne gustava la dimensione perversa. A cominciare da quel nome un po’ ingessato – DoppiaVela, la sigla della centrale operativa nelle comunicazioni radio – e dal post politicamente corretto che metteva sull’avviso i naviganti. Perché la verità era che lì dentro si poteva finalmente essere un po’ guardoni e un po’ scorpioni. Masturbarsi dietro un avatar, leggendo l’illeggibile o scrivendo l’inconfessabile. Divorarsi a vicenda – sì, proprio come scorpioni in bottiglia – soltanto per scoprirsi più soli nella propria rabbia. Finita sulle prime pagine dei giornali con sei rotondi anni di ritardo, la “macelleria messicana” del dottor Fournier era stato un potente lassativo. Il forum era impazzito. Genova, troppo lontana e spaventosa per sembrare ancora vera, era diventata solo l’occasione per un outing collettivo. La prova, ammesso ce ne fosse bisogno, che il tempo era stato una pessima medicina. Che odio chiama odio.
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G. DA ROMA Ecco che spunta fuori un nostro bel funzionario, che da buon samaritano riaccende fiamme polemiche e propositi dinamitardi. Che, sicuramente, nelle prossime manifestazioni gli antiglobal metteranno in atto perché più autorizzati che mai. Ma quando la finiremo di fare sempre queste mere figure e inizieremo a tenere la bocca chiusa?
Per Aspera ad astra.
N. DA ANZIO Fournier poteva e doveva risparmiarsi la frase a effetto, “macelleria messicana”. Adesso, per i colleghi ci sarà la solita Santa Inquisizione mediatico-politica.
Unus sed leo.
I. DA GENOVA Ma questo Fournier dov’era durante gli scontri? Ancora non l’ho capito. Era fra i manifestanti? Ha respirato lacrimogeni? O aveva una mascherina? Secondo me si è messo a cantare perché non gli hanno dato nessuna promozione.
P. DA BARI È ancora in polizia o ha chiesto di passare alla politica?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
D. DA LA SPEZIA Colleghi, basta di parlare di questo soggetto. È penoso e noi lo stiamo aiutando nella sua viscida campagna elettorale.
A. DA CAGLIARI Genova, presente con orgoglio e senza nulla da nascondere. Posso testimoniare di Bolzaneto! Non si tratta di essere grandi e non è veramente falsa modestia è solo servizio! Ero al VI reparto mobile di Genova.
L. DA SALUZZO Io c’ero. VI reparto mobile. Tanto orgoglio, tanta rabbia!
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(…)
C. DA ROMA Non capisco perché non vogliate parlare degli errori commessi. Qui si tratta di dire chiaramente:
I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?
I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?
I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?
La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?
Su queste cose non ci può essere ambiguità!!!
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
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E bravo il nostro C., pensò Drago. Stai a vedere che ora gli vanno addosso i padovani. Se ne stanno zitti da troppo tempo. Ma è più forte di loro. Se c’è da far vedere chi ce l’ha più duro, loro non sanno resistere. Rinfrescò la chat. Solo per vincere una scommessa troppo facile.
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E. DA PADOVA Caro C., rispondo alle tue domande:
“I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?”
No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni. Non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro!
“I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?”
No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l’attaccamento all’igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi!
“I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?”
No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l’unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un “povero illuso pacifista” o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c’erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori!
“La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?” No. Ma come si dice a Roma, sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto. Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un’aula all’imbecille!
Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con l’aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno.
Once in the Celere, always in the Celere.
C. DA ROMA Quindi, per te, avere al fianco un cretino non è un problema?
Lo dico serenamente: due che tengono e uno che mena non mi sembra da eroi. E poi ti rispondo da romano: “sti cazzi un par di palle”. Tu non lavori nel Cile di Pinochet e non ti pagano con lo stipendio in pesos messicani (forse è di cattivo gusto visto il titolo del thread di discussione, “macelleria messicana”, e me ne scuso con quanti si sentono feriti). Il giuramento che hai prestato parla di far rispettare le leggi, non di fartene di tue. In quanto al rischio della “figura”, mi pare che l’abbiamo fatta e basta. E le responsabilità, lo dico da mesi, non sono di chi stava in strada, ma di chi ha permesso che si arrivasse a questo. Siamo stati mandati lì, sapendo quello che ci avrebbero fatto e sapendo come avremmo reagito. Ti piace questo? Ti piace essere una pedina e poi pagarti l’avvocato? Io questo vorrei evitare. Vorrei capire come si può evitare che un collega mandato a fare il proprio dovere si ritrovi indagato in due processi e, dopo la Maddalena, forse anche nel terzo. Scusate la lunghezza.
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
P. DA BARI Scusate, il Sig. Dott. Funz. Uff. Fournier quando lo faranno santo?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
E. DA FIUMICINO Io penso che questi degni eredi di quei cattivi maestri che dicevano in piazza “Uccidere uno sbirro non è reato” ci considererebbero picchiatori fascisti anche se andassimo in servizio di Op vestiti di rosa e con un mazzo di fiori in mano.
B. DA PADOVA Quando alcune centinaia di ultras o di autonomi sono schierati a cinquanta metri da te con spranghe, catene, bombe carta e coltelli, io ritengo opportuno fargli così tanto schifo e paura che non devono pensare di poterci attaccare senza lasciarci le ossa!
L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino.
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Violenza di Stato non suona nuova
G8 massacro alla Diaz, per i giudici d’appello il blitz fu ordinato da Ge Gennaro

L’uso politico dello stupratore

Il caso Caffarella ha radici nel patriarcato e conseguenze attuali, penali e morali. E chi le denuncia viene querelato

Anita Cenci
Liberazione 7 ottobre 2009

Un coro di polemiche ha accolto la sentenza emessa lunedì scorso dal giudice per l’udienza preliminare, Luigi Fiasconaro, nei confronti dei due autori dello stupro commesso nel parco romano della Caffarella (quelli veri, non i due arrestati inizialmente, Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz, contro i quali questura e procura si accanirono per settimane nonostante il test del dna li avesse scagionati). La condanna di Oltean Gravila e Jounut Jean Alexandru, rispettivamente a 11 anni e 4 mesi e 6 anni, è stata considerata da diversi esponenti politici e dallo stesso sindaco di Roma Alemanno «troppo mite», «blanda», un «premio» per gli stupratori. Il 14 febbraio di quest’anno un’adolescente di 14 anni era stata sorpresa insieme al suo fidanzatino in un anfratto del parco e sottoposta a brutale violenza. Il ventiseienne Oltean Gravila, che all’esito delle indagini è risultato essere un sex offender seriale, doveva rispondere anche di un’altra violenza contro una donna portata a termine nel luglio precedente a Villa Gordiani. Per il gioco del cumulo delle pene e della riduzione automatica di un terzo prevista dal rito abbreviato, formula procedurale che facilita la speditezza del processo, i due hanno ottenuto sanzioni più basse rispetto alla pena edittale di 12 anni stabilita per questo tipo di reato. Gravila si è visto somministrare 7 anni per lo stupro di san Valentino, saliti a 11 e 4 per l’altro episodio. Il giudice ha invece riconosciuto al diciottenne Jounut le attenuanti generiche per la giovane età e l’assenza di precedenti penali.

Patriarcato penale
Come al solito l’entità delle condanne inferte non ha soddisfatto un’opinione pubblica sobillata dal mito purificatore della punizione che traversa la società. Tra i politici che hanno commentato la sentenza c’è addirittura chi ha strumentalmente chiesto l’ergastolo, come se il giudice potesse somministrare a suo piacimento una condanna che per questo delitto non è contemplata dal codice. Nella loro coazione a domandare punizioni sempre più feroci ed esemplari, queste polemiche sorvolano il fatto che all’interno di un codice penale che prevede condanne molto severe, i cui tetti massimi sono tra i più alti d’Occidente, il reato di violenza sessuale è paradossalmente punito con una pena inferiore ad altri episodi delittuosi che suscitano nel senso comune minore esecrazione. La richiesta di condanne inesorabili esula dunque il problema di fondo, ovvero il pregiudizio patriarcale che ha sempre relegato lo stupro, la violenza carnale, a delitto minore. Il codice Rocco, cioè il nostro codice penale ereditato dal fascismo, ha considerato per oltre 60 anni la violenza sessuale e l’incesto dei delitti “contro la moralità pubblica e il buon costume” (divisi in “delitti contro la libertà sessuale” e “offese al pudore e all’onore sessuale”) e “contro la morale familiare”. Addirittura l’articolo 544 c.p. ammetteva il ”matrimonio riparatore” come circostanza che poteva estinguere il reato. È solo negli anni 70, grazie all’azione del movimento femminista e alla grande ondata di lotte sociali, che la società prende coscienza del problema e si fa strada l’idea che la violenza sessuale sia un reato contro la persona. Tuttavia soltanto nel 1981 viene abrogata la clausola del matrimonio riparatore. Ci vollero ancora 15 anni prima che si affermasse, con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996, il principio per cui lo stupro è un crimine contro la persona coartata nella sua libertà sessuale. Chi polemizza oggi farebbe bene a chiedersi su quale fronte era all’epoca.

L’uso politico dello stupro
Pochi decenni fa si pensava che la violenza sessuale andava combattuta dentro la società, modificando rapporti sociali e modelli culturali e educativi che relegavano la donna a ruoli subalterni e istigavano nell’uomo modelli predatori. Oggi molto è cambiato nella stessa condizione della donna, spesso proiettata in ruoli di primo piano. La violenza sessuale tuttavia permane e nelle reazioni attuali prevalgono le figure del male insieme a una riprovazione etica portatrice di un sottofondo morale spietato. Non per questo però la lettura dei fatti sociali è migliorata, la capacità di previsione cresciuta, la risposta fornita ai delitti più efficace. Lo spettacolo della cronaca nera annichilisce, inchioda alle poltrone, spinge a barricarsi in casa, votare chi promette “legge e ordine”. Negli ultimi anni il tema degli stupri, delle aggressioni sessuali legate strumentalmente alla figura dello straniero, dell’immigrato clandestino, sono diventati argomenti centrali del marketing politico e dell’immaginario sociale. L’ossessione dello sperma straniero che s’insinua nella comunità corrompendone la purezza è da sempre uno degli archetipi prediletti dal razzismo e dalla xenofobia, l’incubo che agita i sonni malati della destra e delle attuali tendenze neoidentitarie che si diffondono nelle periferie. Anche ai migranti italiani che traversarono gli oceani o valicarono le Alpi toccò d’essere considerati potenziali stupratori, truffatori, accoltellatori, terroristi e crumiri che rubavano il lavoro altrui. Tutto già visto e velocemente dimenticato. Le donne sono da sempre le figure cerniera dei processi d’integrazione. Sul corpo delle donne si gioca una battaglia decisiva. È attraverso la loro capacità procreatrice che si costruiscono nuove società, si fondono culture. La donna può essere un veicolo di mescolanza. Non è un caso dunque se il corpo della donna sia utilizzato per erigere politiche xenofobe. La brutale violenza della Caffarella, dopo una campagna che faceva leva anche su altri episodi, è servita al governo per varare l’ennesimo pacchetto sicurezza e introdurre le ronde.

Inchiesta poco esemplare
La sentenza emessa lunedì chiude una vicenda che oltre ad aver impressionato l’opinione pubblica per la brutalità della violenza perpetrata contro un’adolescente, chiamata ora a trovare dentro di sé la forza che le consenta nei prossimi anni di sormontare un trauma così profondo, ha suscitato molte polemiche per il modo in cui furono condotte le indagini.  «La politica ha messo fretta», dichiarò in un’intervista il prefetto Serra. Isztoika e Racs, i primi due accusati ingiustamente, erano stati fotosegnalati dalla polizia dopo un altro stupro, avvenuto il 21 gennaio precedente, in un luogo poco distante dal loro accampamento di fortuna. L’adolescente aggredita non impiegò molto tempo a indicare il viso del biondino. Seguendo una classica tecnica a imbuto, gli erano state mostrate un numero limitato di foto. Nonostante ciò aveva designato un’altra persona. Solo in seconda battuta “riconosce” Isztoika. La polizia lo trova subito. Erano le 18 circa del 17 febbraio. 8 ore dopo (alle 2 di notte) confessa davanti al pm: «L’abbiamo violentata per sfregio…». Chiama in causa anche l’amico Racs. Pochi giorni dopo ritratta, spiegando di aver subito percosse. Nessuno lo ascolta. Senza attendere le conferme tecniche, in questura si tengono trionfali conferenze stampa. I giornali dipingono ritratti agiografici degli inquirenti. Il questore non sta nella pelle: «Un lavoro di pura investigazione, d’intuito e senza l’aiuto di supporti tecnici. Da veri poliziotti». Ma a rovinare la festa arrivano i test del dna. Le tracce dello stupro non appartengono ai due. A san Vitale fanno muro: «bastava quello che ci aveva riferito Isztoika per sbatterlo in galera», risponde il questore. Ma il punto è proprio questo, Isztoika aveva riferito solo dettagli ripresi dalla prima versione dei fatti fornita dai ragazzi. Una ricostruzione inesatta che i giovani modificarono pochi giorni dopo. Insomma il biondino era stato “indottrinato” visto che sul posto non c’era. Da chi? Resta il grande mistero dell’inchiesta. Un mistero che nessuno vuole chiarire. Rientrati in Romania, Isztoika e Racz raccontano a un quotidiano romeno (Adevarul, 18 giugno) le percosse e le pressioni subite, insieme a altri dettagli che smentiscono la versione ufficiale.

Un clima d’intimidazione
I due vengono messi in condizione di abbandonare l’Italia: persone non gradite perché “mostri” mancati e soprattutto involontari responsabili di un gigantesco danno d’immagine per la squadra mobile. A Racz, dopo una trasmissione televisiva, fanno balenare la promessa di un lavoro che non arriverà mai. Per tutta risposta Isztoika resta sotto inchiesta per «calunnia», avendo dichiarato il falso (surreale), mentre contro Racs la procura mantiene in piedi l’accusa per lo stupro di Primavalle, nonostante una sentenza contraria del tribunale del riesame e le ripetute contraddizioni in cui è caduta la vittima.
Nel frattempo Liberazione, che ha cercato di raccontare questa vicenda, è stata citata in giudizio di fronte al tribunale civile dal capo della squadra mobile romana, Vittorio Rizzi, protagonista delle indagini. Palese tentativo di mettere il bavaglio a un’informazione libera. Il dottor Rizzi sembra quasi voler attribuire a Liberazione i clamorosi errori incorsi nell’indagine, accusandola di volergli rovinare la carriera… Nei giorni in cui i più importanti quotidiani nazionali e il più grande quotidiano della capitale dedicavano (non senza critiche) pagine e pagine all’inchiesta, il capo della mobile era un nostro fedele lettore. Lo ringraziamo per questo. Per giustificare la sua azione legale ha addirittura chiamato in causa la vicenda del commissario Calabresi, proponendo un parallelo tra le cronache che questo giornale ha dedicato alle indagini sullo stupro della Caffarella con la campagna condotta a suo tempo da Lotta continua contro il commissario ucciso nel 1972. Alla luce di ciò, chiosa a conclusione della querela il suo legale, è di tutta evidenza che rivolgergli delle critiche «in un quotidiano tra i cui lettori è verosimile che vi siano militanti della sinistra più estrema[…] significa esporlo ad un ingiustificato rischio per la propria incolumità personale». Dire che tutto ciò è totalmente destituito di fondamento, è un’ovvietà. Registriamo invece la pesante insinuazione. Che il capo della polizia se la prenda con un giornale d’opposizione la dice lunga sul clima politico che stiamo vivendo. Arrivederci in tribunale.

Le puntate della montatura poliziesca sullo stupro della Caffarella
Il capo della mobile querela Liberazione
L’uso politico dello stupratore
Loyos picchiato dalla polizia per confessare il falso
La fabbrica dei mostri
Racs innocente e senza lavoro

Cosa si nasconde dietro la confessione di Loyos?
Stupro del Quartaccio, scarcerato Racs

Stupro della Caffarella
Negativi i test del Dna fatti in Romania
Racs non c’entra
Non sono colpevoli ma restano in carcere
Parlano i conoscenti di Racs
La difesa di Racs denuncia maltrattamenti
L’accanimento giudiziario
Non esiste il cromosoma romeno
Tante botte per trovare prove che non ci sono
Quando il teorema vince sulle prove
L’inchiesta sprofonda
È razzismo parlare di Dna romeno
Quartaccio-Caffarella, l’uso politico dello stupro

Banlieues: La guerra sognata da Sarkozy

La strategia del Presidente ha puntato tutto sulla repressione
Le conseguenze si vedono oggi. La periferia eterna emergenza

di Guido Caldiron
Liberazione
17 marzo 2009

Quando è iniziata la guerra che brucia in queste notti la periferia parigina? E perché a quattro anni dalla più grande rivolta delle banlieue che la Francia ricordi, quella scoppiata nell’inverno del 2005 a Clichy sous Bois, sono tornate le molotov e gli scontri con le forze dell’ordine, stavolta nel quartiere della Vigne-Blanche ai Mureaux, periferia ovest della regione parigina? I primi commenti a quanto accaduto si concentrano sul livello della violenza che ha caratterizzato il weekend della periferia di Parigi: un uomo ha sparato contro gli agenti con un fucile a aria compressa caricato con pallini di piombo da dodici millimetri. Il giorno dopo un commissariato di un quartiere vicino, Montgeron, è stato attaccato a colpi di fucile. In tutto la polizia ha sequestrato oltre trenta molotov e si contano una decina di agenti feriti, non nei corpo a corpo ma dai colpi esplosi contro di loro. La Francia scopre così che la ruggine tra i giovani delle periferie e gli agenti in divisa sta progressivamente scivolando dal lancio di pietre e lacrimogeni verso uno scenario degno di Belfast. Ma come si è arrivati a tanto?
Eletto alla presidenza della Repubblica nel maggio del 2007, Nicolas Sarkozy è stato forse il politico d’oltralpe che più ha utilizzato i riferimenti alla banlieue nella costruzione della sua immagine pubblica. Prima di lui, certo, i toni allarmistici non erano mancati, la denuncia dell’insicurezza, da destra, e della segregazione sociale, da sinistra, hanno accompagnato negli ultimi trent’anni lo sviluppo delle nuove periferie di Francia: non più quartieri popolari costruiti ai bordi delle vecchie zone operaie, ma “ville nouvelle” spesso distanti decine e decine di chilometri dal cuore della città storica di cui sono satelliti. Il caso dell’Ile de France su tutti: una regione-periferia con un centinaio di località, tra cittadine di campagna progressivamente inurbate e torri di cemento delle abitazioni Hlm, lo Iacp francese, a fare da cintura alla Grande Parigi.
Sarkozy ha fatto fino in fondo del tema della sicurezza la chiave della sua corsa, più che decennale, verso l’Eliseo, giocando su due elementi. Da un lato la stigmatizzazione dei giovani banlieusard: è lui che da Ministro degli Interni nell’ottobre del 2005 definì “racaille” (feccia) i ragazzi dei quartieri difficili e annunciò che avrebbe usato un “karcher”, una grande aspirapolvere, per liberare la banlieue di queste presenze. Quando, pochi giorni dopo, due adolescenti dei quartieri nord di Parigi, Zyed e Bouna rimasero uccisi per fuggire a un controllo delle forze dell’ordine, le parole di Sarkozy furono la miccia da cui partì la grande rivolta che avrebbe conquistato in poche settimane tutte le periferie del paese. «E’ per vendicarci delle parole di Sarko che diamo fuoco a tutto», spiegavano ai giornalisti del Nouvel Observateur alcuni giovani di Montfermeil coinvolti all’epoca negli scontri. Ma Sarko ha soprattutto evocato un altro aspetto del conflitto delle periferie. Da Ministro degli Interni ha sempre ribadito la sua vicinanza alla polizia, quale che fosse il comportamento degli agenti. Quando nel 2005 fu nominato agli Interni, Sarkozy decise di passare la notte dell’ultimo dell’anno proprio in un commissariato di banlieue per far sentire agli uomini in divisa, oggetto di aggressioni e attacchi, «il sostegno delle istituzioni». Sullo sfondo di un clima sociale sempre più teso, l’astro nascente della politica francese ha perciò giocato fino in fondo la carta dell’estremizzazione, soffiando sul fuoco della contrapposizione tra giovani e agenti e recuperando parte dell’armamentario ideologico del Front National di Jean Marie Le Pen, a cui ha sottratto parecchi voti, su temi quali “l’identità nazionale” e “il controllo dell’immigrazione” che nelle periferie hanno una particolare ricaduta visto che in questi quartieri si concentra una larga maggioranza dei figli degli immigrati arrivati nel paese negli anni Sessanta e Settanta. Il risultato di una tale politica è sotto gli occhi di tutti.
Dopo gli émeutes del 2005, che hanno portato a centinaia di arresti e perfino alla proclamazione del coprifuoco in alcune zone della Francia – come non avveniva dai tempi della guerra d’Algeria – e la vittoria di Sarkozy, la destra aveva annunciato un “piano Marshall” per le banlieue e aveva dato il via a una larga campagna di comunicazione nei confronti dei giovani ribelli della periferia. La nomina di Fadela Amara, già leader del movimento della ragazze di banlieue “Ni Putes Ni Soumises” (Né puttane né sottomesse) al segretariato di Stato per la politica urbana, e di Yazid Sabeg, imprenditore di origine algerina, come “Commissario alla diversità”, faceva parte di questa strategia che oggi mostra però tutti i suoi limiti. Come testimoniano le parole degli stessi protagonisti. Proprio in questi giorni, Sabeg ha lanciato l’allarme: «In Francia l’apartheid non esiste per legge, ma esiste nei fatti. E con la crisi saranno gli abitanti delle banlieue a pagare il prezzo più alto». E Amara, dal canto suo, ha criticato alcune delle posizioni già sostenute dallo stesso Sarkozy, spiegando: «le statistiche etniche, la discriminazione positiva, “quote” sono una caricatura. La nostra Repubblica non deve diventare un mosaico di comunità». Dei milioni di euro promessi da Sarkozy in campagna elettorale non c’è infatti traccia, inghiottiti o bloccati dalla burocrazia si dice, e tutto il dibattito ruota da mesi intorno all’idea, agitata dallo stesso presidente, di imitare l'”affirmative action” degli Stati Uniti che favorisce gli appartenenti alle minoranze nell’accesso a scuole, case e posti di lavoro.
In assenza di risposte da parte della politica, la scena è perciò tornata a essere dominata dagli elementi “militari”. Le forze dell’ordine, chiamate pressoché da sole a rispondere all'”emergenza” banlieue, hanno visto aumentare i loro effettivi e crescere il loro armamento, sempre più pesante e pericoloso. Con il risultato che la lunga serie di “bavures”, le “sbavature” come vengono definite “le violazioni” del codice di comportamento degli agenti che costano sistematicamente la vita a qualche ragazzo della periferia – è successo anche ai Mureaux giovedi notte con un inseguimento finito male – non hanno fatto che allungarsi. Solo tra il 1981 e il 2001 oltre 175 banlieusard avrebbero trovato la morte in questo modo: per mano delle forze dell’ordine. E nell’ultimo decennio la media dei decessi “occasionali” avrebbe subito un ulteriore incremento. Così, passo dopo passo la banlieue è trasfigurata, trasformandosi in una sorta di scenario da western metropolitano. E di fronte agli agenti hanno cominciato a muoversi gruppi organizzati, bande di quartiere che non possono che essere in guerra con gli uomini in divisa, visto che è questo il solo volto dello Stato che hanno fin qui conosciuto.

Stupro Caffarella, parte la caccia: Alemanno: “forse sono rom prendeteli e poi nessuna clemenza“

Inchiesta per lo stupro della Caffarella: la fretta della politica. Nemmeno 24 ore dalla violenza ed i colpevoli sono già pronti

Giovanna Vitale
Repubblica 15 febbraio 2009 pagina 3

PORTOROSE – È appena rientrato in albergo, il sindaco Alemanno, quando una telefonata lo avverte che a Roma è successo di nuovo. Impegnato nel viaggio della Memoria alle Foibe, il primo cittadino sbianca di colpo: c’è stata un’ altra violenza ai danni di una coppietta, questa volta nel cuore della città, a San Giovanni. Sindaco che è successo? «Mi è stato confermato lo stupro. L’avrebbero commesso due persone con accento dell’Est e carnagione scura. Potrebbero essere rom». Come fa a esserne così sicuro? «Ho appena parlato con il questore, è stato lui a dirmelo». Se fosse così, a Roma sarebbe il secondo nel giro di venti giorni… «Ormai siamo in emergenza nazionale. Nella giornata di oggi è successo prima a Bologna e poi a Roma. Per questo mi auguro che gli inquirenti trovino al più presto i responsabili e che, una volta assicurati alla giustizia, non abbiano nessuna indulgenza. Senza certezza della pena anche la prevenzione va a farsi benedire. Quando strillavo contro l’eccessiva clemenza della magistratura sui reati sessuali, purtroppo non avevo torto». Sindaco, la magistratura interviene quando il danno ormai è fatto, non crede che le responsabilità siano da ricercare altrove? «Guardi, questi reati in genere avvengono nelle zone periferiche, dove c’ è ancora un grosso problema di presidio sociale e del territorio: abbiamo troppe persona senza fissa dimora, troppi clandestini, troppi micro-insediamenti abusivi pieni di disperati che vagano ai margini della città e rappresentano altrettanti fattori di insicurezza, frammentati e incontrollabili». E allora cosa farete? «Già da lunedì avvieremo la bonifica degli insediamenti abusivie poi accelereremo sul piano messo a punto dal prefetto: nella capitale c’è assoluto bisogno di un cambio di modello. Ora abbiamo sette campi autorizzati, ne aggiungeremo altri due o tre: tutti verranno fortemente controllati dalle forze dell’ ordine, che avranno un posto fisso. E lì potranno restare solo i nomadi regolari. Chi non ha le carte in regola verrà espulso: il governo ha stanziato 100 milioni di euro per tutta Italia, ora i soldi ci sono». Ma i clandestini si nasconderanno in baracche improvvisate, magari proprio in periferia… «E noi li troveremo, elimineremo le baracche abusive, gli faremo capire che o entrano nella legalità o devono andare via. Questo è l’unico modo per affrontare alla radice il problema: gli stranieri senza fissa dimora, senza lavoro, di fatto irregolari, devono comprendere che in Italia non possono restare». E’ il “cattivismo” professato dal ministro Maroni? «Non è questione di essere cattivi o meno, ma di essere rigorosi, avere un modello in testa da applicare. Perché, quando non accade, si crea un buco nel sistema che fa diventare incontrollabile la situazione». Chiederete anche più militari? «E’ una necessità. Non l’unica. Il generale Mario Mori, che è il capo del nostro dipartimento alla Sicurezza, ha detto con chiarezza che a Roma ci sono 5mila telecamere e a Londra 450mila».

I precedenti
31 DICEMBRE Una ragazza di 23 anni viene aggredita, picchiata e violentata al concerto alla fiera di Roma. Arrestato un giovane italiano, confessa di averlo fatto ubriaco, dopo aver tirato cocaina.
21 GENNAIO Una donna di 40 anni mentre sta tornando casa dal lavoro viene aggredita e violentata da due uomini un italiano e uno straniero dirà poi dopo essere scesa dal bus in zona Primavalle.
23 GENNAIO A Guidonia una giovane coppia di fidanzati viene aggredita mentre è in auto. Lui viene picchiato e rinchiuso nel bagagliaio, lei stuprata. Vengono arrestati 4 romeni.

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